Untitled - Rizzoli Libri

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LOUIS DE WOHL
UNA FIAMMA INESTINGUIBILE
L’avventurosa vita di Sant’Agostino
contemporanea
Proprietà letteraria riservata
© 1951, Louis de Wohl
© 1961, by Ruth Magdalene de Wohl
Executrix of the Estate of Louis de Wohl
Copyright renewed 1979
© 2015 RCS Libri S.p.A., Milano
ISBN 978-88-17-07938-9
Titolo originale dell’opera:
The Restless Flame
Traduzione di Elena Cantoni
Prima edizione BUR maggio 2015
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UNA FIAMMA INESTINGUIBILE
Tardi ti ho amato, o bellezza,
tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato.
Potrei forse trovare un posto fuori del cielo e della terra, perché
di là possa venire in me il mio Dio che disse:
Io riempio il cielo e la terra?
Tu ci hai creati per Te e il nostro cuore non ha pace fino
a che non riposi in Te.
SantÕAgostino, Le confessioni
LIBRO PRIMO
A.D. 370
Capitolo I
«Hai barato!» protestò Alipio.
«Niente affatto!» ribatté Agostino, bianco di rabbia.
«Ti ho visto» insistette Alipio. «Il cecio era sotto il secondo guscio, come avevo detto io, ma tu hai usato il vecchio trucco: ti eri imbrattato le dita, e quando hai sollevato
il guscio, il cecio ti è rimasto attaccato ai polpastrelli.»
«Bugiardo figlio di uno sciacallo pidocchioso!» lo insultò Agostino. Poi, tremando per l’offesa, gli scagliò i tre
gusci in faccia. I suoi grandi occhi scuri bruciavano, e le
labbra erano strette in una sottile linea rossa.
Gli altri ragazzi scoppiarono a ridere.
Meriterebbe un pugno, pensò Alipio. Picchiarlo, però,
gli sembrava sleale. Superava Agostino di una testa, ed era
molto più grosso di lui. E più muscoloso, anche, per quanto
Agostino si rifiutasse di ammetterlo. La verità non era il
suo forte. A scuola era addirittura noto come l’«Avvocatino», per la prontezza a sfoderare scuse utili a scampare un
castigo.
E poi, se lo colpisco, come minimo mi toglie il saluto
per una settimana, rifletté Alipio. Non ne vale la pena. In
fondo non ci tengo a fare il capo, mentre lui sì. Certo, ha
barato. Ma d’altra parte lo fa sempre, quando la fortuna gli
volta le spalle. Avrei dovuto prevederlo…
«D’accordo» disse, rassegnato. «Hai vinto tu.»
«Certo che ho vinto!» replicò Agostino, superbo. «Non
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ho bisogno di barare giocando ai tre gusci con te. Hai l’occhio di uno struzzo cieco. Ho vinto, quindi questa settimana tocca a me comandare la banda.»
Erano in sette – I sette contro Tagaste, si chiamavano tra
loro, e la sonnolenta cittadina aveva subito più volte i danni
delle loro bravate. Avevano aperto le stalle del ricco del paese, Rufo, liberando seicento mucche, e c’erano volute ore per
toglierle dalla strada; avevano bendato e imbavagliato la serva
più grassa del circondario, l’avevano legata a testa in giù sulla
groppa di un dromedario, e aizzato la bestia a irrompere nella
sala del municipio, dov’era in corso il consiglio degli anziani;
avevano ingaggiato una furiosa battaglia sulla piazza del mercato contro i Figli del Lampo, un’altra banda ben più numerosa dei Sette, ma composta da ragazzi più giovani.
La vita a Tagaste si era ravvivata parecchio con il ritorno di Agostino dai suoi studi a Madaura. Era il più esile
di tutti, escluso il piccolo Panfilio, ma la sua inventiva era
senza fondo.
Il sole tramontava. Controvoglia, i ragazzi si avviarono,
attraversando il parco cittadino, come sempre popolato di
coppie di innamorati.
«Vermi nel formaggio» commentò Alipio, sprezzante.
«È da non credere quanto siano puerili. L’avete sentito
quel tizio laggiù? Avrà ripetuto almeno sei volte: “Di chi
sono queste orecchiette belle?”. Per l’asino d’oro, dovrà pur
esserci un modo di scoprirlo, se gli interessa tanto! E lei
rispondeva solo con risatine sciocche.»
Agostino alzò le spalle con sufficienza. «Almeno loro
sono infantili di proposito. Invece tu, Alipio, non hai scelta.» Ridacchiò tra sé. «Ma un giorno crescerai, lo giuro sul
latte di Tanit.»
Arrogante come suo solito, pensò Alipio. Come avrebbe
reagito sua madre sentendolo giurare sul nome della dea
dell’amore? Lo sapevano tutti che Monica era più cristiana
del vescovo. In basilica arrivava sempre prima di lui, e ci
restava ben più a lungo.
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Nel mentre, Agostino si vantava di due ragazze conosciute a Madaura.
Contrariato, Alipio lo ascoltava con un orecchio solo.
Dopo un po’ lo interruppe. «A chi importano queste sciocchezze sulle ragazze? Non abbiamo proprio niente di meglio da fare?» Sorpreso del suo stesso coraggio, proseguì:
«Se fossi io a capo della banda…».
Agostino ruotò di colpo su se stesso. «Sentiamo, dunque» lo sfidò. «Cosa proporresti se fossi tu il capo?»
«Be’…»
«Dunque?» lo incalzò Agostino.
«Tanto adesso rideresti di qualsiasi idea.»
«Al contrario.» Il tono di Agostino si era fatto mellifluo.
«Dicci pure cos’hai in mente, Alipio mio. Oppure non avevi in testa proprio niente?»
«Il pero dei Glabrio è carico di frutti maturi» si inserì d’un
tratto Tullio. «Perché non andiamo a servircene un po’?»
Aveva diciassette anni, quasi uno in più di tutti gli altri.
«Giusto a quello stavo pensando!» si affrettò ad aderire
Alipio. Tullio l’aveva salvato in extremis.
Agostino si strinse nelle spalle. «Un paio di pere» commentò, sdegnoso. «E non sono nemmeno un granché. Le
ho già assaggiate.»
«Meglio di niente» rispose Tullio. «Su, andiamo.»
Si incamminò verso il frutteto. Ma con due rapidi balzi,
Agostino lo superò. «Qualche pera non conta niente» bisbigliò. «Rubiamole tutte. Domattina i Glabrio resteranno
con un palmo di naso.»
I ragazzi ridacchiarono, e persino Alipio si lasciò trascinare. Sgraffignare qualche pera dall’albero di un vicino era roba
da mocciosi: rubarle tutte, invece, era un’impresa. Tuttavia era
irritante la capacità di Agostino di comandarli a bacchetta.
«Tullio: tu e Sesto arrampicatevi sulla pianta» ordinò.
«Voialtri state pronti ad afferrare le pere. Ci sono due sacchi laggiù, accanto al muro di cinta. Valli a prendere, Panfilio. Coraggio, salite, voi due.»
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Dall’albero cominciarono a piovere frutti. Il pero non
era grosso, ma i rami erano carichi. Le luci della casa erano
spente – la famiglia si coricava sempre presto – ma i ragazzi
badarono comunque a non fare rumore. A sacchi già pieni,
le pere continuavano a cadere.
Infine i due sull’albero tornarono a terra, prima Sesto
poi Tullio, che si portò il pugno alla fronte nel saluto di un
soldato della cavalleria numida, facendo rapporto: «Non
ne restano più, comandante».
«Ottimo lavoro» rispose Agostino. Si chinò a raccogliere
un’ultima pera, facendo rotolare a terra le altre già nascoste
sotto la tunica. «I sacchi prendeteli voi. Noi abbiamo le
mani impegnate.»
Si allontanarono dal frutteto, rallentati dal peso della
refurtiva. Con il solito senso pratico, Panfilio decise che le
pere avrebbero pesato meno nella pancia che sulle spalle,
ma all’undicesima dovette arrendersi, e non perché fosse
sazio. Aveva ragione Agostino: i frutti non erano davvero
un granché.
Tra il peso e la strada, l’entusiasmo del colpo mandato a
segno non impiegò molto a sfumare. Tullio propose di costruire una piramide ammucchiando le pere nel bel mezzo
della via, ma stavano giusto superando la casa del Puzzone – Burro, il mercante di maiali, le cui bestie, sistemate
dietro una sorta di fossato che circondava l’edificio, erano
all’origine dell’atmosfera caratteristica dell’isolato, e del
soprannome del padrone – e Agostino cominciò a scagliare i frutti come proiettili addosso ai maiali addormentati.
In un attimo la notte si riempì di versi striduli e grugniti.
Come il Puzzone uscì a vedere cosa stesse capitando ai suoi
beniamini, i Sette se la filarono, piegati in due dal ridere e
saltando di gioia, finché si ritrovarono all’ingresso meridionale del parco cittadino.
I denti di Agostino brillarono in un sorriso di trionfo. Il
volto pallido era acceso dal chiarore argentato della luna.
«Dividiamoci» ordinò, ansimante per la corsa.
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Gli altri obbedirono, e Agostino si avviò verso casa. A
passi lenti, Alipio lo seguì. Non aveva alcuna fretta di rientrare. A quell’ora, avrebbe trovato il padre ancora sveglio,
e rischiava una frustata per il ritardo. L’unica soluzione era
tirare ancora più tardi, e aspettare che dormisse. L’indomani mattina suo padre avrebbe avuto altro per la testa.
L’avrebbe frustato comunque, ma con meno impegno.
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