ML - Update n. 71

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ML - Update n. 71
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© ML 2010 - FREE
Musica & altri percorsi | La prima non-rivista che “sceglie il meglio” - www.musicletter.it - Anno VI - Update N. 71
INTERVISTA
LALI PUNA
MUSICA ...A TOYS ORCHESTRA, DEFTONES, BAUSTELLE, LIARS, AMOR FOU, BLACK REBEL MOTORCYCLE CLUB,
DONDOLO, ROKY ERICKSON WITH OKKERVIL RIVER, THE MORNING BENDERS, FEVER RAY, FATSO JETSON,
FONOKIT, WILLIE NILE, PASSE MONTAGNE, CESARE BASILE, MIKE PATTON, THE BRIAN JONESTOWN MASSACRE,
MELISSA AUF DER MAUR, SIX MINUTE WAR MADNESS, THE PACK A.D., BLACK FLAG, THE FLESHTONES, KARATE,
BOB DYLAN, AFRICA UNITE, ALAN SORRENTI, GREEN ON RED, JOHN GRANT, THE FUZZTONES, REMO REMOTTI,
HÜSKER DÜ, SEX PISTOLS, ARTEMISIA, THE CORONAS, WORLD PARTY, THE KINKS, THE WHO, UFOMAMMUT,
THE CLASH, ELLA FITZGERALD, TERRY CALLIER, THE CHIEFTAINS FEATURING RY COODER, RONNIE JAMES DIO,
THE JAI-ALAI SAVANT, SLY & THE FAMILY STONE, THE SISTERS OF MERCY, LIFT TO EXPERIENCE, IL DISORDINE
DELLE COSE, LOU REED, TOM PETTY & THE HEARTBREAKERS, A LIFE ALONG THE BORDERLINE - A TRIBUTE TO
NICO, PLAN 9, (AA.VV.) UNDERWORLD VS THE MISTERONS-ATHENS SPECIALE SAN MIGUEL PRIMAVERA SOUND
RUBRICA PRESI NELLA RETE LIBRI SIMON WINCHESTER FRAMMENTI DI CINEMA RIMOSSO UNDICESIMA PARTE
musicletter.it
chi siamo
Luca D’Ambrosio
Domenico De Gasperis
Nicola Guerra
Jori Cherubini
Massimo Bernardi
Marco Archilletti
Manuel Fiorelli
Pier Angelo Cantù
Pasquale Boffoli
Franco Dimauro
Gianluca Lamberti
“Devo
tantissimo
alla
musica,
Nicola Pice
soprattutto al rock'n’roll e al blues. Se
Gianluigi Palamone
faccio film è perché una musica che si
Stefano Bon
chiamava rock'n’roll è arrivata nella
Giorgia Mastropasqua
Costanza Savio
mia vita e mi ha dato il coraggio di
Rossella Spadi
esprimermi. Credo che sia, per tutta
Marco Tudisco
una
Alessio Zago
generazione
e
anche
forse
a
tutt'oggi, un'energia considerevole e
una sorta di liberazione immensa: la
Alessandro Busi
Claudia De Luca
Laura Carrozza
musica è stata la via d'accesso alla
Antonio Anigello
creatività.”
Valerio Granieri
Wim Wenders
Matteo Ghilardi
Luigi Lozzi
Gaia Menchicchi
Ilario La Rosa
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webmaster / progetto grafico
Luca D’Ambrosio
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copertina update n. 71 / 2010-06-04
Valerie Trebeljahr | photo by Gerald von Foris
ML 02
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update n. 71
sommario
MUSICA | SPECIALE INTERVISTA
04 LALI PUNA by Luca D’Ambrosio
MUSICA | RECENSIONI
08 …A TOYS ORCHESTRA A Midnight Talks (2010) by Massimo Bernardi
10 DEFTONES Diamond Eyes (2010) by Valerio Granieri
11 B. R. M. C. Beat the Devil's Tattoo (2010) by Laura Carrozza
13 THE BRIAN JONESTOWN MASSACRE Who Killed Sgt. Pepper? (2010) by Nicola Guerra
14 THE MORNING BENDERS Big Echo (2010) by Nicola Guerra
15 BAUSTELLE I Mistici dell’Occidente (2010) by Jori Cherubini
16 AMOR FOU I Moralisti (2010) by Nicola Pice
11 DONDOLO Une Vie de Plaisir Dans un Monde Nouveau (2010) by Nicola Pice
20 MIKE PATTON Mondo Cane (2010) by Nicola Pice
21 PASSE MONTAGNE Oh my Satan (2010) by Alessandro Busi
22 FONOKIT Amore o Purgatorio (2010) by Giorgia Mastropasqua
24 MELISSA Out of Our Minds (2010 ) by Matteo Ghilardi
25 THE PACK A.D. We Kill Computers (2010) by Matteo Ghilardi
26 THE FLESHTONES The I.R.S. Years 1980-1985 (2010) by Stefano Sciortino
28 LIARS Sisterworld (2010) by Antonio Anigello
29 AFRICA UNITE Rootz (2010) by Franco Dimauro
30 UFOMAMMUT Eve (2010) by Franco Dimauro
31 THE CHIEFTAINS FEATURING RY COODER San Patricio (2010) by Luigi Lozzi
32 THE WHO Greatest Hits & More (2010) by Luigi Lozzi
33 ROKY ERICKSON WITH OKKERVIL RIVER True Love Cast Out All Evil (2010) by Luca D’Ambrosio
34 TOM PETTY & THE HEARTBREAKERS The Live Anthology (2009) by Domenico De Gasperis
35 THE CORONAS Tony Was An Ex-Con (2009) by Luigi Lozzi
36 UNDERWORLD VS THE MISTERONS Athens (2009) by Gianluigi Palamone
37 JOHN GRANT Queen of Denmark (2009) by Valerio Granieri
38 IL DISORDINE DELLE COSE S.T. (2009) by Jori Cherubini
39 FEVER RAY S.T. (2009) by Gianluigi Palamone
40 THE JAI-ALAI SAVANT Flight of the Bass Delegate (2007) by Nicola Guerra
41 REMO REMOTTI Canottiere (2005) by Franco Dimauro
42 LIFT TO EXPERIENCE The Texas Jerusalem Crossroads (1994) by Valerio Granieri
43 CESARE BASILE Stereoscope (1998) by Marco Archilletti
44 KARATE The Bed is in the Ocean (1998) by Franco Dimauro
45 WORLD PARTY Goodbye Jumbo (1990) by Luc D’Ambrosio
46 THE FUZZTONES Lysergic Emanations (1987) by Franco Dimauro
48 HÜSKER DÜ Warehouse: Songs And Stories (1985) by Franco Dimauro
49 THE SISTERS OF MERCY First And Last And Alway (1985) by Franco Dimauro
50 PLAN 9 Your Cool And Read The Tules (1985) by Franco Dimauro
51 BLACK FLAG Slip It In (1984) by Antonio Anigello
52 GREEN ON RED S.T. (1981) by Franco Dimauro
53 THE CLASH Rat Patrol from Fort Bragg (1982) by Franco Dimauro
54 SEX PISTOLS Never Mind the Bollocks... (1977) by Franco Dimauro
58 ALAN SORRENTI Aria (1972) by Franco Dimauro
60 TERRY CALLIER What Color Is Love (1972) by Nicola Guerra
61 LOU REED Transformer (1972) by Franco Dimauro
63 SLY & THE FAMILY STONE There’s a Riot Goin’ On (1971) by Nicola Guerra
64 BOB DYLAN 61 Revisited (1965) by Franco Dimauro
65 THE KINKS Kinda Kinks (1965) by Franco Dimauro
66 ELLA FITZGERALD Ella Fitzgerald Sings the Cole Porter Song Book (1956/2010) by Luigi Lozzi
MUSICA | SPECIALE
67 SAN MIGUEL PRIMAVERA SOUND 2010 by Alessio Zago
71 RONNIE JAMES DIO by Manuel Fiorelli
MUSICA | LIVE REVIEW
73 BAUSTELLE Roma, Atlantico (17.04.2010) by Nicola Pice
74 WILLIE NILE Trieste, Teatro Miela (15.04.2010) by Stefano Sciortino
76 A TRIBUTE TO NICO Roma, Auditorium Parco della Musica (11.04.2010) by Rossella Spadi
79 FATSO JETSON Mezzago, Bloom (08.04.2010) by Matteo Ghilardi
80 SIX MINUTE WAR MADNESS Brescia, Latte Più (05.03.2010) by Matteo Ghilardi
MUSICA | PRESI NELLA RETE
81 BELLADONNA, ADDICTION CREW, WIPE AWAY, BETTY POISON E HEIKE HAS THE GIGGLES by Stefano Bon
ALTRI PERCOSRI | LIBRI
83 SIMON WINCHESTER Krakatoa (2004) by Ilario La Rosa
FRAMMENTI DI CINEMA RIMOSSO | UNDICESIMA PARTE
85 LETTERA APERTA A UN GIORNALE DELLA SERA Francesco Maselli (1970) by Nicola Pice
86 VITA PRIVATA DI SHERLOCK HOLMES Billy Wilder (1970) by Nicola Pice
87 ZABRIESKIE POINT Michelangelo Antonioni (1970) by Nicola Pice
© ML 2005-2010
BY L UCA D’AMBROSIO
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ML 03
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update n. 71
speciale intervista
LALI PUNA
Intervista
Quando l’elettronica incontra la musica indie.
© 2010 di
Luca D’Ambrosio
A
più
di
dieci
anni dalla
loro
formazione e dal loro primo album,
i Lali Puna sono oramai una delle
formazioni più rappresentaive di
quella
scena
musicale
nata
in
Germania, più o meno a metà/fine
anni Novanta, definita indietronic
(o
indietronica
oppure
ancora
indietronics) che poi, per essere
chiari, non è altro che un mix di
musica
elettronica, pop
e
rock
(leggi anche electropop) servito
naturalmente
in
chiave
indie.
L’uscita di “Our Inventions” (Morr Music, 2010) è stata per noi una buona occasione per metterci
sulle tracce del gruppo tedesco. Per saperne qualcosa di più abbiamo intervistato Christian Heiß e
Markus Acher (componente anche dei Notwist) che assieme a Valerie Trebeljahr e Christoph
Brandner (parte anche dei Tied & Tickled Trio) formano la band di Monaco di Baviera. Buona
lettura.
A distanza di sei anni da “Faking The Books” (2004) e a cinque da “I Thought I Was
Over That” (2005) -
lavoro di inediti, remixe e B-sides - , è uscito da qualche mese
questo nuovo lavoro intitolato “Our Inventions” (2010). Beh, la prima cosa che mi
viene da chiedervi è: che cosa avete fatto e che cosa è accaduto in questi anni di
assenza?
(Christian) Da un lato, come saprai, Valerie e Markus hanno avuto un figlio quattro anni fa quindi
molto del loro tempo è stato necessariamente dedicato alla crescita del bambino. Dall’altro lato,
Markus ha registrato un nuovo album con i Notwist (“The Devil, You and Me”), album che hanno
anche portato in giro in tour per diverso tempo. Inoltre molti di noi hanno diversi progetti paralleli
di cui occuparsi. Ci siamo, infatti, dedicati alle nostre altre band così come ai lavori da registrare
in studio per il teatro o il cinema. Ecco, dunque, spiegate le due ragioni principali di questi anni di
assenza.
“Our Inventions” è un disco che racchiude oltre dieci anni di esperienze. Un album
abbondantemente “pensato”, introspettivo, meticoloso e pieno di dettagli sonori in cui
riuscite a trovare il giusto equilibrio tra forma canzone e musica elettronica. Mi pare di
capire, però, che sono lontani i tempi di Tridecoder (1999) in cui tutto era, come dire,
così istintivo e immediato.
ML 04
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update n. 71
speciale intervista: lali puna
(Christian) Beh, speriamo di aver conservato ancora qualcosa di
quell’istinto e di quella spontaneità, perché è proprio quello il modo
in cui noi cerchiamo di fare musica. Ciò nonostante, come hai già
ricordato, sono trascorsi oltre dieci anni dalla realizzazione di
“Tridecoder” e naturalmente molte cose sono cambiate, sia nella
nostra vita privata sia nel mondo intorno a noi e probabilmente
tutto questo si riflette anche nella nostra musica. Nel corso di
questo processo abbiamo sicuramente provato a fare un passo
avanti mantenendo il sound, lo stile, dei Lali Puna.
(Markus) Quando abbiamo cominciato la carriera come Lali Puna tutto veniva fuori dai lavori che
avevamo registrato da noi e dalle prove. Suonavamo con un campionatore, un drumcomputer,
due tastiere, un basso e la batteria. Tutto era molto limitato e di conseguenza anche molto
minimale, ma ci piaceva parecchio. Adesso abbiamo molte più possibilità, registriamo in sala di
incisione e la maggior parte delle canzoni è arrangiata in studio e questo le rende molto più
dettagliate e raffinate. Forse per i nostri prossimi lavori cercheremo di tornare a fare delle
registrazioni con un approccio più immediato e diretto (live music making) come agli esordi. Il
nostro stile è un continuo andare e venire.
“Our Inventions” è un piacevole mix di elettronica e pop, con melodie riposanti e in
parte anche vivaci,
il tutto supportato come sempre dalla voce avvolgente e
rassicurante di Valerie e da testi che in qualche modo sembrano riflettere il ritmo
frenetico e alienante di questo tempo, di
questa società. Canzoni apparentemente
tranquille insomma che, nonostante una
latente
e
diffusa
malinconia,
riescono
tuttavia a trovare anche dei margini di
speranza o, forse, di semplice illusione.
(Markus) Per me “Our Inventions” è un disco
molto personale mentre “Faking the Books” era
un
lavoro
più
estroverso.
Queste
nuove
canzoni sembrano molto più calme e tranquille,
ma è solo la prima impressione a livello
acustico. Se le ascolti con maggiore attenzione e più volte, puoi riconoscere immagini e fatti che
disturbano e che distraggono.
Da dove nasce questa vostra esigenza comunicativa, diciamo, così disturbata e così
carica di ansie e di preoccupazioni? Forse dal fatto che, venendo da un piccolo paese,
avvertite maggiormente il peso della modernità e del progresso?
(Markus) Credo che questo non abbia molto a che fare con la città da cui proveniamo. Nonostante
il fatto che tutti arriviamo da piccoli centri (Valerie è cresciuta in una cittadina vicino Lisbona),
viviamo a Monaco da molto tempo ormai e conduciamo la tipica vita urbana.
ML 05
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update n. 71
speciale intervista: lali puna
In “Our Inventions” collaborate anche con la
Yellow Magic Orchestra di Yukihiro Takahashi.
Come è nata l’idea di questa collaborazione?
(Markus) Yukihiro Takahashi ha contattato Valerie
per collaborare con lei e per farla cantare in due
brani del suo ultimo album. Siccome le canzoni ci
sono piaciute davvero molto (Valerie ha scritto i
testi e suonato le tastiere), abbiamo deciso di
registrare una diversa versione di uno dei brani e
inserirla anche nel nostro disco. Oltre che con
Yukihiro siamo stati molto felici di aver avuto la
possibilità di collaborare con l’intera Yellow Magic
Orchestra.
Come definireste “Our Inventions”?
(Markus) È un disco incentrato sul come le nuove tecnologie, soprattutto internet, cambiano le
nostre vite e il nostro modo di comunicare, e anche quello degli uccelli. (Ndr: ironica allusione al
testo della title track Our Inventions)
Ora, invece, facciamo un salto nel passato. Sono passati più di dieci anni dalla vostra
formazione. Bene, cosa resta nella vostra testa dopo tutti questi anni?
(Markus) Principalmente cose positive: molti bei concerti, molte persone interessanti incontrate
grazie alla musica e la possibilità di viaggiare e recarci in molti luoghi in cui probabilmente non
saremmo mai stati, come il Giappone per esempio.
Alla luce delle vostre esperienze ci sono cose che non rifareste?
(Markus) No.
La vostra crescita artista è in qualche modo legata al vostro sodalizio con la Morr Music,
e viceversa. Quanto è importante nel
prosieguo di una carriera artistica
l’incontro
con
certe
etichette
indipendenti “a misura d’uomo”?
(Markus)
Thomas
(Nrd:
Thomas
Morr
fondatore della Morr Music) è davvero un
buon amico e siamo stati fortunati a
incontrarlo.
Ho
sempre
lavorato
con
etichette indipendenti e per me non ci
sono alternative. C’è bisogno di persone
non interessate al
marketing ma alla
musica in quanto tale, in grado di fare questo lavoro come se fossero dei fan. Non c’è nulla di
nuovo ed è abbastanza noioso da dire, ma è l’unica strada che per me funziona.
ML 06
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update n. 71
speciale intervista: lali puna
Tutti i vostri dischi sono dei piccoli gioielli di avanguardia e
di sperimentazione pop, basti pensare al già citato “Faking
The Books” del 2004 e a “Scary World Theory” del 2001 che
vi hanno fatto assurgere all’olimpo di quel movimento
oramai noto come “indietronic” (o “indietronica” oppure
ancora “indietronics”). Una bella soddisfazione o soltanto
un’altra definizione dei critici?
(Markus) Non abbiamo nulla contro la parola “indietronics”, anche
se questa definizione copre solo una parte della nostra musica. Abbiamo sempre visto la nostra
band come una band di elettronica: partendo proprio da lì, credo ci siano moltissime possibilità in
questa costellazione, ma non tutto suonerà come “indietronics”.
Da “Scare World Theory” il regista italiano Paolo Sorrentino ha estrapolato e poi
inserito due vostre tracce nella colonna sonora del suo film “Le conseguenze
dell’amore” che, indubbiamente, hanno esaltato certe atmosfere così malinconiche e
così alienanti del film. Ecco: quando componete c’è qualcosa, un’idea o un pensiero, di
“cinematografico” nella vostra musica?
(Markus) Inizialmente quando scriviamo una canzone non pensiamo inizialmente a un film.
Partiamo semplicemente da quello che ci piace. Talvolta però capita che il nostro mood e il nostro
sound possano rappresentare in modo molto efficace delle immagini. Ecco perché siamo felici che
la nostra musica sia stata inclusa nel film “Le conseguenze dell’amore”. È molto bello tutto
questo. Il fatto che un nostro pezzo sia stato inserito in un film così bello, tutto acquista
all’improvviso un nuovo significato. Ci piacciono queste situazioni e forse un giorno faremo
proprio musiche originali per altri film.
C’è un tipo di cinema o un regista che preferite particolarmente e
che, forse, vi rappresenta meglio di altri?
(Markus) “Le conseguenze dell’amore” mi sembra davvero perfetto.
Mi pare di aver letto che tra i vostri estimatori ci siano
nientemeno che i Radiohead. Puoi dirmi qualcosa in più?
(Markus) Dopo il primo album, Colin Greenwood, il bassista dei
Radiohead, disse che gli era piaciuto il nostro disco e così venne a un
nostro concerto, a Manchester, per suonare con noi. Fu molto bello
averlo lì e comprò anche diversi dischi.
Invece voi avete qualche particolare debolezza per una o più band, per una specifica
scena musicale o, semplicemente, per certi dischi?
(Markus) Mi piace molto quello che sta venendo fuori da Los Angeles, come Lucky Dragons ma
anche quello che ruota intorno alla Dublab Radio Network, ad esempio Ras G, Flying Lotus,
Koushik e tutti gli Stones Throw Records. Inoltre, ascolto tanti dischi anni ’60 e anche più vecchi
che compro nei negozi di dischi quando siamo in tour.
ML 07
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speciale intervista: lali puna
Come sta andando il tour e come sta
reagendo il pubblico?
(Markus) Il tour sta andando molto bene.
Le persone sembrano apprezzare e a noi
piace suonare ancora questi pezzi dopo
così tanto tempo, e non vediamo l’ora di
suonare in Italia.
State per caso pensando a un altro
album oppure dovremo aspettare altri
sei anni?
(Markus) Innanzitutto ci sarà un EP, con
molte canzoni e remix, e poi vedremo. Cercheremo di essere più veloci.
Chiudo questa intervista con una domanda banale ma che mi incuriosisce: perché avete
scelto come nome Lali Puna?
(Markus) Lali era il soprannome di Valerie da bambina, Pusan è la città in cui è nata. Non riuscivo
a ricordare il nome corretto della città così ho suggerito Puna ed è rimasto quello.
Grazie per la disponibilità e buona fortuna!
(Markus) Prego e grazie a voi per l’intervista. Vi auguriamo il meglio!
LALI PUNA: www.myspace.com/morrlalipuna
Foto di Jörg Koopmann (pag. 4,5,6) e Gerald von Foris (pag. 7)
Intervista di Luca D’Ambrosio
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ML 08
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musica
ARTIST: …A TOYS ORCHESTRA
TITLE:
Midnight Talks
LABEL:
Urtovox
RELEASE: 2010
WEBSITE:
www.myspace.com/atoysorchestra
MLVOTE: 7,5/10
Fare il critico è un mestiere strano, difficile, contraddittorio. Non è neanche un mestiere infatti, è
un’invenzione, un artifizio, una mediazione per avvicinare un pubblico troppo pigro a opere troppo
trasparenti da risultare invisibili. Eppure il critico è, spesso, incapace di assolvere al suo ruolo, in
un
avvitamento concentrico di
dubbia
utilità. Già
fare il
critico d’arte, soprattutto
di
contemporanea, offre pericolose e scivolose discese da farsi male all’osso sacro e, spesso anche
contemporaneamente, appigli davvero insperati… Pensate un po’ quando si tratta di rock’n’roll,
più o meno la roba più sdrucciolosa e irriducibile del mondo, e più è incatalogabile e più piace al
critico (o supposto tale) ma il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto? Così, un disco che ne
richiama cento altri può, per alcuni, rappresentare un miracolo di concisione e sincretismo
moderno, per altri un immondo frankenstein di nessun talento, al massimo, se proprio si deve,
furbizia del furto legalizzato. Per me, che sovente sono uno che il bicchiere non lo vede riempito
di liquido, il nuovo disco di ATO appare un piccolo prodigio di equilibrio tra decenni di pop’n’roll.
Di più, mi fa venire voglia di non stare troppo a menarla sul fatto che il gruppo non proviene né
dal Wisconsin né da Canterbury ma è italianissimo, e pure del sud. La dimensione di nuova
scoperta del Rock Italiano non si addice molto a una banda che incide dal 2001 e che, col
penultimo Technicolor Dream (2007, ne passa di tempo….), aveva già dato prova di aver
acquisito definitivamente ogni carta regolamentare per i cuori di ogni latitudine. Proseguendo sul
cammino di quel disco fortunato e ben fatto, Enzo Moretto si è inoltrato ulteriormente nei
meandri e nelle meraviglie del pop orchestrale, quello che se sbagli le dosi ti vengon le madonne
e tiri il disco dal quarto piano ma anche quello che se ti viene bene diventa lo Skylarking o il
Sergeant Pepper della bisogna. Oppure piglia i contorni di un Bacharach a caso. Oddio, non
tutto qui è rosolato a puntino ma è proprio la materia in sé ad offrire centimetri di arrosto un po’
troppo scurito, forse perché lavorato troppo a lungo (quanti sono i dischi nella storia che si
sarebbero giovati di dieci giorni di baloccamento in meno in sala di incisione o di un produttore
esterno capace di dire ORA BASTA?) e tratti dello stesso in cui vorresti aggiungere sughetto ad
insaporire. Comunque sono quisquilie: Midnight Talks è un disco ricchissimo di suoni,
iperarrangiato ma funzionevole; il precedente album, al morire di un decennio citava i ‘60 a più
non posso, questo giunge all’alba di un altro e celebra i ‘70, offrendo perle di meravigliosa
melodia (Sunny days) legate a pop in odor di vaudeville (Red alert) e ad apparentemente
cafonissimo glam seventies (Mystical mystake), il tutto nel breve volgere dei primi 3 pezzi. È
proprio l’incedere enciclopedico di Moretto nel comporre e rivestire i suoi brani che dà quasi l’idea
di un concept album, idea che fa a cazzotti con l’attuale epoca dello sminuzzamento stilistico e
strutturale e che invece fu maniera magnificata (e poi degenerata) proprio nel così nominato
“decennio dimenticato dal gusto”.
ML 08
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update n. 71
musica: …a toys orchestra
The day of the bluff è splendida e vi lascia lì a cercare di ricordare dove avevate già sentito, una
quarantina o una trentina di anni prima, quel giro armonico; Celentano (il brano), oltre a citare
Yuppi Du (la canzone) e a farti venire a memoria di tutto, da Gainsbourg ai Devics ai Pink Floyd
allegrotti è comunque una canzone coi fiocchetti. Ogni tanto la tentazione della torch song stile
radio solo-grandi-successi trova lo stradone (il trittico Plastic romance 1&2 e Pills on my bill) ma
io sarei entusiasta di ascoltare gli A toys Orchestra su Radio Veronica Olandese piuttosto che
Dimensione Tuono Soft (salvo poi cambiare frequenza a fine brano, che mi viene l’orticaria) ma
non c’è una sola cosa realmente deludente in tutto il disco (Frankie Pyroman è eccellente), gli
archi, i fiati ed i violini non servono solo per cesellare (è straniante Backbone blues, che rischia
col suo clash di stilli di diventare la cosa che amerò di più da questo disco nei prossimi mesi),
Look in your eyes l’avrebbe voluta scrivere Mr. E(els) e Summer potrebbe quasi diventare una hit
per ragazzini pomicioni durante le vacanze estive, se solo qualche coglione a capo delle radio che
codesti sbarbi ascoltano se ne accorgesse. Gli …A Toys Orchestra hanno un songwriting
talmente maturo che non stupisce affatto che vadano in giro per l’Europa a raccogliere consensi,
piuttosto che nella terra della povertà culturale, la nostra, donde provengono: è gente che
produce grana sottile eppure potenzialmente popular mentre qui, spiace dirlo, vince il modello
coatto e cafone pure tra gli alternativi. Gli …A Toys Orchestra, che vi piacciano o meno, scrivono
musica come se il mondo non avesse alcun tipo di confine, cosa che nel nostro paese è
oggettivamente merce rara. Gli …A Toys Orchestra, infine, che vi piacciano o meno, che ci
riescano o meno, sono pronti per qualsiasi sfida, dalle colonne sonore di qualche film di peso a
collaborazioni succosamente di grido sino al successo internazionale tout court.
Massimo Bernardi
ML 09
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update n. 71
musica
ARTIST: DEFTONES
TITLE:
Diamond Eyes
LABEL:
Maverick | Warner Bros.
RELEASE: 2010
WEBSITE:
www.deftones.com
MLVOTE: 9/10
Il dolore. Ciò che non uccide, rende più forti, dicono. C’è da crederci, almeno a giudicare certi
avvenimenti, certi percorsi, certe vite. Prendete i Deftones, per esempio. Carriera inattaccabile,
nuovo disco in arrivo nell’Anno Domini 2008 e poi? L’incidente del bassista Chi Cheng, il coma, il
disco (Eros) dalla pubblicazione sospesa a tempo indeterminato (un tributo a Cheng, un gesto di
rispetto? un non sentirsi rappresentati più da certe canzoni/suoni/scelte?un dolore, al sentirle
risuonare in milioni di impianti stereo nel mondo mentre uno degli autori, un amico da sempre, è
ridotto come è ridotto? non è chiaro: un po’ di tutto, probabilmente), un’attività futura in forte
dubbio. Poi, la decisione. L’ingaggio di Sergio Vega al basso (ex Quicksand, e scusate se è
poco), fare quadrato, trovare forza, decisioni, emozioni (che, almeno scopertamente, non
sembrano il rosario di dolore e rassegnazione che si immagina di sentir rappresentati in un disco
con questa genesi) e motivazioni, e scrivono un disco spaventoso, il loro migliore dai tempi di
White Pony (e pure questo scusate se è poco: chiarisco, peraltro, di essere uno che ha
apprezzato, e molto, sia Deftones che Saturday Night Wrist, così l’affermazione acquisisce il
giusto peso), focalizzato, emotivo, spettacolare.Anzitutto le chitarre: sembra che Stephen
Carpenter abbia una nuova 8 strings customizzata. Non so se è vero. Certo è che il suono delle
chitarre, complice una produzione realmente perfetta, è spettacolo puro: cristallina melodia, echi
e profondità nel momento della riflessione, grana del cemento armato dipinto di oscura antracite,
onda d’urto all’altezza dello stomaco, quando c’è da smuovere montagne, e poi la voce: mai
come ora, Chino Moreno rappresenta pura esposizione emotiva, tormento, estasi, (stavolta
poco) furore. Il suono, in generale, è compatto come non mai, con tutto, ma proprio tutto ciò che
si conosce e si ama del sound così conosciuto e adorato elevato al cubo: poderoso ma volatile,
emozionale, commovente e profondo. Non so bene, veramente, se serva parlare di singole
canzoni, in casi simili: basta forse dire che Diamond Eyes, figlio del dramma, del dolore e della
rinascita rappresenta qualcosa di molto vicino al meglio che i nostri abbiano mai prodotto. C’è
un’umanità incredibile, disperata ma viva, paurosamente nuda nelle varie You’ve seen the
butcher, Beauty school, Prince, This place is death e tutte, tutte le altre tracce di questo disco
magnifico, consapevole, e profondo, un’umanità che fa volare alta, per l’ennesima volta ancora,
una band inimitabile che il dolore ha reso più forte, quasi indistruttibile. Chi Cheng sente,
sicuramente, e sorride compiaciuto.
Valerio Granieri
ML 10
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update n. 71
musica
ARTIST: B. R. M. C.
TITLE:
Beat the Devil's Tattoo
LABEL:
Abstract Dragon
RELEASE: 2010
WEBSITE:
www.blackrebelmotorcycleclub.com
MLVOTE: 8,5/10
A tre anni di distanza dal fortunato Baby 81, ecco Beat the Devil’s Tattoo, ultima fatica del trio
californiano Black Rebel Motorcycle Club. Lo ammetto, i ragazzi sono nella mia top ten da
sempre, sin da quando ascoltai il primo album: il loro esordio coincise con quello di band che a
sguardi distratti potevano garantire maggiore appeal sul pubblico (vedi alla voce The Strokes) e
inizialmente non fu semplice per Peter Hayes, Robert Levon Been e Nick Jago conquistarsi un
posto d’onore. Tuttavia, dopo quasi dieci anni, con cinque album all’attivo e una nuova
formazione (Jago ha ceduto il posto a Leah Shapiro, già batterista dei Raveonettes), i
B.R.M.C. sono ancora qui, in splendida forma. Il titolo dell’album omaggia un racconto di Edgar
Allan Poe (“The devil in the belfry”) e le peculiarità dello scrittore sono senza dubbio affini a
buona parte dell’intero lavoro: il disco è cupo, ruvido, a tratti gotico e buio. Nel 2005, la band ha
avuto il coraggio di abbandonare una major (Virgin Records) per realizzare, con un’etichetta
britannica indipendente, Howl, un album completamente diverso dai precedenti che pesca a
piene mani nella tradizione americana più vera: nei brani che lo compongono riecheggia l’eco
della letteratura beat, della musica folk, della libertà estrema e assoluta, in pieno mood a stelle e
strisce. Con Beat the Devil’s Tattoo, i B.R.M.C. sono riusciti a individuare e mischiare tutto
quello che di buono c’era nei primi due lavori e in Baby 81 (dove la componente dark e
psichedelica era molto più sentita) con la migliore base intimista propria di Howl. La piattaforma
di lancio è riservata al pezzo che dà il titolo all’album: Beat the devil’s tattoo è una canzone fatta
per entrare in testa e restarci, con un sound incessante e ossessivo, simile a una cantilena cupa e
per certi versi piuttosto inquietante (“I bled the needle through/You beat the devil's tattoo”). La
successiva Conscience Killer è uno dei punti più alti dell’intero disco: potente e travolgente, con
diversi punti in comune con vecchi brani manifesto come Berlin o Weapon of choice, dà un senso
a quell’etichetta da bad boys con chiodo d’ordinanza che Peter e Robert si portano dietro sin
dagli esordi. Stesso discorso può farsi per Mama taught me better, altro pezzo che senza dubbio
incendierà le prime file ai live, grazie anche alle possenti venature shoegaze (lo spirito dei Jesus
and Mary Chain è sempre vicino ai B.R.M.C.). Bad blood è un buon pezzo, orecchiabile e
comprensibile, triste al punto giusto a livello testuale ma con l’energia che serve per riprendere le
forze, molto simile alle sonorità caratteristiche del primo disco; in War Machine si percorre, in
modo efficace, la strada della sperimentazione e della ricerca continua, a cui la band non ha mai
avuto timore ad abbandonarsi; ed eccola lì, Sweet feeling. Sembra quasi un paradosso accostare
la dolcezza ai B.R.M.C. ma questa ballad ne possiede le caratteristiche: ascoltandola, l’anima
trema e si riempie di struggente malinconia per qualcosa che ormai si perde nella memoria e
l’armonica di Hayes rende il tutto ancora più doloroso e nostalgico.
ML 11
musicletter.it
update n. 71
musica: b.r.m.c.
Il sound di Ryver Styx ha il sapore acre della Roadhouse blues dei Doors e riff potenti e distorti a
scontrarsi con l’incedere ritmico del tamburello (date qualsiasi cosa a Peter Hayes e sarà in
grado di suonarla con maestria). The toll sarebbe la colonna sonora perfetta per un viaggio on the
road di Kerouac o Ginsberg: è un pezzo riflessivo e intimo che riporta alla mente strade
deserte, in cui chitarra e armonica accarezzano la voce di Peter Hayes e della cantante
Courtney Laye. È in brani simili che il frontman dei B.R.M.C. mostra con palese evidenza la sua
ammirazione per un’icona della musica americana come Johnny Cash e riporta alla memoria le
atmosfere di Howl, facendoci desiderare con ardore nuove puntate di quella virata country/folk
degna del miglior cantautorato made in Usa. Da segnalare Aya, impegnativa cantilena in pieno
stile B.R.M.C. che mescola rabbia urlata e misticismo sussurrato: un pezzo che merita un
secondo ascolto perché in prima battuta non è semplice comprenderne la portata innovativa e
nello stesso tempo non lontana dalla corrente dark rock di cui la band fa parte a pieno titolo. Evol
e Shadow’s keeper presentano tratti simili, con una parte strumentale molto curata nei dettagli, in
un crescendo di batteria e basso che quasi sfinisce. Beat the Devil’s Tattoo è un album cupo al
pari e forse più dei precedenti: in buona parte dei pezzi si parla di morte, delitti, sangue e altri
ingredienti che non faremmo fatica a ritrovare nei racconti di Poe. Leah Shapiro appare un po’
troppo concentrata sulla necessità di far bene a tutti costi e talvolta la batteria risulta meno
incisiva e travolgente rispetto a Nick Jago ma Peter Hayes e Robert Levon Been sono una
garanzia: i Black Rebel Motorcycle Club posseggono un’originalità a livello compositivo e
un’onestà artistica che non è semplice trovare nelle band dei giorni nostri. Chissà cosa saranno
capaci di fare nei prossimi dieci anni…
Laura Carrozza
ML 12
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: THE BRIAN JONESTOWN MASSACRE
TITLE:
Who Killed Sgt. Pepper?
LABEL:
A Records
RELEASE: 2010
WEBSITE:
www.brianjonestownmassacre.com
MLVOTE: 8/10
Con il precedente My Bloody Underground (2008), Anton Newcombe era davvero sceso in
profondità; un disco quasi perfetto che tastava nel buio alla ricerca di mistiche illuminazioni e
sanguinava
cozzando su aculei fatti di nuovo e contagioso shogaze. Sangue ne defluiva
parecchio, lento e infetto, e ci voleva una cura adatta per ridare vita alla musica dei Brian
Jonestown Massacre; qualora avessero seguito questa via sarebbero sicuramente diventati
(poco male) i My Bloody Valentine del ventesimo secolo. Invece, come Bobby Gillespie dei
Primal Scream, che contaminò il soul con la dancefloor più elettronica per dare alle stampe
l’immenso Scremadelica, anche Newcombe decide di registrare Who Killed Sgt. Pepper? fra
Berlino e Islanda avvalendosi della preziosa collaborazione di Will Carruters (Spaceman 3) e
cerca di racchiudere in un unico disco il post-punk degli anni ‘80, la tecno dei rave, il soul e la
psichedelia sixties. A conti fatti l’impresa è davvero riuscita, perché dal grosso calderone
fuoriescono fumi tossici e ammalianti, e attorno gente di tutte le razze balla soddisfatta in modo
sghembo e anomalo. Che sia una danza psicotropa scandita da regolare cadenza new wave
nell’omaggio (neanche troppo celato) a Ian Curtis di This is the one Thing We Did Not Want To
Happen,
che
sia
una
danza
popolare
ubriaca
e
annaffiata
da
vodka
scadente
in
Detka!Detka!Detka! o una sensuale dance-soul della migliore scuola Massive Attack come This
is the First Of Your Last Warning con tanto di voce (nera) femminile che sale in cielo fino alle
stelle. Un vortice sonoro racchiuso in una austera confezione che paragona Gesù Cristo alla
“vecchia” psichedelia; la resurrezione è questa “nuova” psichedelia, che ci prende per mano e ci
ingloba a se, ignara del contagio fra nuovo e antico (testamento). Lo stesso che Newcombe e i
suoi Brian Jonestown Massacre hanno lasciato ai posteri qualora il mondo finisse davvero nel
2012; e sarebbe di certo la colonna sonora perfetta...
Nicola Guerra
ML 13
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: THE MORNING BENDERS
TITLE:
Big Echo
LABEL:
Rough Trade
RELEASE: 2010
WEBSITE:
www.myspace.com/themorningbenders
MLVOTE: 7/10
Si può sentire l’eco del mare fra i solchi del secondo lavoro dei Morning Benders; dalla
California infatti, le onde si sono infrante sulla porta della sede della Rough Trade (e chi sennò)
che da anni si batte per ricreare una nuova Summer of Love, licenziando dischetti come questo
che rimangono a mezz’aria fra la Bay Area degli anni ‘60 ed un futuro indefinito che guarda avanti
alla ricerca di “vibrazioni” positive. Anni fa (2003 per la precisione) mi innamorai di Twice dei
Tyde (editi sempre da Rough Trade) e immaginai nella splendida copertina il mio “mercoledì da
leoni” alla ricerca dell’onda perfetta immerso in melodie pop senza tempo. La storia oggi si ripete
con Big Echo dei fratelli Chu, che dietro la stratificata eppur pulita produzione di Chris Taylor
(bassista dei Grizzly Bear) modellano dieci composizioni color pastello che hanno lo stesso
profumo del mare disegnato in copertina. Il sale in Promises ti si secca addosso, la schiuma
marina ti accarezza in All Day Light e si può intravedere il tramonto dell’ultimo giorno di vacanza
nella dolcissima Excuses. Un estate al mare. Sempre uguale, sempre diversa.
Nicola Guerra
ML 14
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: BAUSTELLE
TITLE:
I Mistici dell’Occidente
LABEL:
Warner Music
RELEASE: 2010
WEBSITE:
www.baustelle.it
MLVOTE: 9/10
Premessa. La musica italiana non se la sta passando affatto male, ma forse ce ne renderemo
conto soltanto fra dieci anni. D'altro canto è quello che sta accadendo oggi con la "riscoperta" e il
conseguente elogio degli anni '90. Per fare un esempio, i Massimo Volume hanno più seguaci
adesso di quanti non ne potessero vantare sul finire del secolo. Oltre ai Baustelle, gruppo del
quale ci accingiamo a parlare, tra Luci della Centrale Elettrica, Teatro degli Orrori, Zen
Circus e Dente, per citarne soltanto una manciata dello lo scorso anno, e i numerosi album degni
di nota che stanno vedendo la luce in questi giorni - Virginiana Miller; l'egregio esordio solista
di Alessandro Fiori; la recente prova su "major" degli Amor Fou, come il notevole esordio della
ventiduenne Simona Gretchen o i Perturbazione; e la lista sarebbe ancora lunga - si può quasi
parlare di rinascimento della "musica italiana, cantata in italiano". Nel panorama variopinto e
luminoso appena descritto, il gruppo di Francesco Bianconi rappresenta il capofila. Grazie a una
indiscussa bravura che, aggiunta a un meritato contratto discografico e centinaia di concerti in
giro per la penisola, ha portato i nostri a diventare idoli e involontari (?) portavoce di una
generazione: checché ne abbiano a vaneggiare gli amici di OndaRock, o i pochi maligni che
quando un gruppo diventa famoso girano sistematicamente le spalle. Peggio per loro. Chissà se il
giovane Bianconi, all'epoca in cui abitava la minuscola frazione di Abbadia di Montepulciano,
pensava a un futuro del genere: inverosimile... Servizi al TG nazionale, copertine su copertine,
singoli passati in loop su tutte le radio, interviste, foto, scoop e chi più ne ha più ne metta, ma
ecco I Mistici dell'Occidente: belli e saggi, melodici e persino irriverenti: disco che si rivela di
una portata artistica enorme. Appena inizia a girare non si ferma più. Prima di tutto grazie ai
testi, che sono delle poesie in musica, senza paragoni nell'attuale scena italiana. Poi per
l'incredibile coesione fra i componenti principali: Francesco Bianconi, Claudio Brasini e
l'affascinante lato femminile Rachele Bastreghi. Per questo lavoro si sono circondati di gregari
importanti, come il famoso produttore dei R.E.M. Pat McCarthy e altri maestri menestrelli che
hanno tirato a lustro sezione ritmica e archi. Alcuni pezzi sono già dei "classici" come il primo
singolo estratto: Gli Spietati, che prende il ritmo dagli indimenticabili Rockers rendendo omaggio
a Ma Che Colpa Abbiamo Noi. Le Rane, brano che evoca corse in campagna, pizzichi alle gambe e
sole che batte in viso, rimanda a ere passate: "Eccoci che attraversiamo i girasoli, bucanieri nati,
andiamo via dalla realtà, dalle case popolari" là dove L'Estate Enigmistica sembra un estratto del
Sussidiario Illustrato della Giovinezza (la mitica, e oramai introvabile, prima produzione dei
Baustelle. Anno 2000). Ne La Bambolina la voce di Rachele, glaciale carezzevole e in perenne
stato di grazia, racconta una storia di emarginazione sociale, invero molto attuale. Poi San
Francesco, La Canzone della Rivoluzione, Follonica (che ha suscitato scalpore nella cittadina
tirrenica spingendo addirittura il sindaco a invocare - ovviamente invano - una "canzone
riparatoria"; giudicate voi). Potremmo stare qui a descrivere la bellezza di ogni brano svelandone
contenuti e pregi, ma preferiamo lasciare all'ascoltatore il piacere della scoperta. Per quanto
riguarda la resa dal vivo, tra poche pagine troverete la recensione del buon Nicola Pice sul
concerto romano. In sintesi: disco imprescindibile e album dell'anno, già da adesso.
Jori Cherubini
ML 15
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: AMOR FOU
TITLE:
I Moralisti
LABEL:
Emi Music
RELEASE: 2010
WEBSITE:
www.myspace.com/amorfou
MLVOTE: 10/10
"... dacci la gioia di conoscer bene le nostre gioie con le nostre pene...". La brevissima poesia di
Sandro Penna letta dalla piccola Giorgia nella conclusiva title track I Moralisti condensa il senso
dell'opera seconda degli Amor Fou. L'invocazione laica a un equilibrio interiore nell'epoca della
disgregazione morale e il ritorno "necessario" a un'innocenza fanciullesca come nuovo umanesimo
testimoniato dalle voci dei bambini nella parte iniziale del brano alla maniera dei Comizi d'Amore di
pasoliniana memoria. Prima: tanti ritratti di personaggi gli uni diversi dagli altri, a ribadire non solo la
difficoltà di una "reconductio ad unum" etica ma probabilmente anche l'inutilità della ricerca d'un tratto
comune nelle vicende umane che, al contrario, proprio per la loro diversità, definiscono ciascuna i
contorni di un estremo relativismo morale. Pertanto, le storie di Enrico "Renatino" De Pedis, boss
della famigerata banda della Magliana, della suicida omosessuale Anita, delle insicurezze della madre di
Le promesse, della pericolosa attrazione di un sacerdote per un ragazzo, del politico qualunquista di
turno sono la metafora della parcellizzazione atomistica di una società che fluttua nell'impossibilità di
trovare un orizzonte di senso condiviso e, dunque, incapace di fare scelte che abbiano per oggetto il
bene comune. Il formato decisamente "concept", la sua pensosa complessa profondità, la ricchezza dei
rimandi letterari non fanno, però, de "I Moralisti" un'opera artificiosamente intellettuale: a differenza
de La Stagione del Cannibale, più algido e analitico, Raina spinge il pedale sulle emozioni che
arrivano, questa volta, diritte al cuore dell'ascoltatore avvolgendolo alla perfezione nella disillusa e
malinconica amarezza del disco. Le atmosfere elettroniche del debutto qui vengono accantonate in
favore di sonorità più analogiche a sostegno del lodevole progetto di rinnovamento della tradizione
musicale italiana assimilabile, per esempio, ai tentativi già posti in essere da Paolo Benvegnù. Con
raffinata naturalezza gli Amor Fou, quindi, coniugano il beat radiofonico di Peccatori in Blue Jeans alla
robustezza post-punk di Dolmen, il cantautorato degregoriano di Il mondo non esiste alla new wave più
nevrile di a.t.t.e.n.u.r.B. (geniale il campionamento della squallida invettiva del ministro contro il
presunto parassitismo del mondo della cultura italiano che fatto girare al contrario assume le fattezze
di un'allucinata nenia aliena), il luciobattisti di Filemone e Bauci al brit-pop-rock-già-un-classicobaustelliano
della
splendida
Cocaina
di
domenica,
le
inquietudini
melodiche
da
soundtrack
cinematografiche di De Pedis e di Anita alle acrobazie sonore di Un ragazzo come tanti che tiene
insieme Blonde Redhead e Wilco, la canzone d'autore d'oltralpe e il folk italico gucciniano e tanto
altro ancora... Il fatto, dunque, che la Emi Music Italia abbia deciso di pubblicare in extremis un disco
sostanzialmente autoprodotto (che sarebbe dovuto uscire per la Tempesta / Venus) non è solo una
straordinaria opportunità per la band e il segno che nelle case discografiche esiste ancora qualcuno in
grado di apprezzare la musica "alternativa" al nulla da classifica ma, soprattutto, il riconoscimento al
valore assoluto di un'opera che può essere definita solo in un modo: capolavoro.
Nicola Pice
ML 16
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: DONDOLO
TITLE:
Une Vie de Plaisir Dans un Monde Nouveau
LABEL:
Division Alèatoire | Anticraft
RELEASE: 2010
WEBSITE:
www.myspace.com/dondolo8
MLVOTE: 9/10
Dunque: mangiare, bere, baciare, fare l'amore, ascoltare buona musica, guardare uno splendido
paesaggio, tuffarsi in una piscina quando fa troppo caldo, circondarsi di cose belle, guardare i
bambini giocare, andare in bicicletta le sere d'estate, suonare la chitarra ad alto volume sapendo
di avere amici che ci amano, sentire l'odore dei fiori, vincere una partita di tennis, guardare le
nuvole passare sopra la testa, scrivere una buona canzone, non fare nulla... Costruire il mondo
"nuovo" (certamente diverso da quello in cui trasciniamo la vita) che esiste intatto nelle nostre
menti lì in una delle tante piccole Roanne dove abbiamo passato l'infanzia distante appena 406
chilometri (forse più o forse meno) da una qualsiasi grande e caotica Marsiglia oppure a Shimera
- o, comunque, in qualche altro luogo immaginario - novella arca di Noè dove trasferire quanto
abbiamo di più caro. Il bizzaro pop mutante di Une vie de plaisir dans un monde nouveau è la
veste sonora di tutto questo: di un disco che oscilla in continuazione tra la nostalgia di un
impossibile totalmente altro che abbia i contorni, però, di un eden laico e l'allegria festaiola con
cui esorcizzare la propria inquietudine per ridere di se stessi e delle altrui miserie (La vraie vie des
milliardaires). Un pop "schizofrenico" (almeno quanto il mood percepito) che unisce con
spregiudicato azzardo le schitarrate post-punk degli anni '80 del '900 (Fauvisme sembra venire
direttamente dagli Stranglers o dai Wire) agli arpeggi di synth (Madnight summer dream è ode
agli Watoo Watoo) definendo gli ambiti di un'estetica talvolta parodisticamente kitsch (quando il
verso sonoro è electro-oriented) oppure proto-minimalista (vedi il caso di Pendant ce temps là au
chateau altro rimando ai Daft Punk più Eighties). Il disco precedente (Dondolisme) era
altrettanto eclettico ma dai contorni forse più perimetrabili: un gioco spudorato con i fantasmi di
Serge Gainsbourg e Francois de Roubaix, sublime riproposizione giorgiomoroderiana della
musica da film di serie “b”, kraut rock servito per la MTV generation a costruire l’immagine (vera
sino a un certo punto) di un folletto del pop in grado di saltare con gigionesca maestria da un
universo sonoro all’altro senza soluzione di continuità, una sorta di Sebastian Tellier meno
interessato alla politica e ai temi con la “T” maiuscola e più votato alla definizione del proprio
mondo interiore. Quest'opera, al contrario, appare eccentrica e indefinibile nel non essere affatto
come sembra. Fluida e postmoderna. Bambocheur et Mélancolique. Tutto sommato breve nel
minutaggio e di immediata fruibilità musicale ma al contempo intensa nell'instancabile gioco di
rimandi sonori e di metafore immaginifiche. Il prodotto di un genio di nome Romain Guerret
potete chiamarlo, se volete, Dondolo. Vi farà girare la testa.
Nicola Pice
ML 17
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: ARTEMISIA
TITLE:
Gocce d’Assenzio
LABEL:
Videoradio
RELEASE: 2010
WEBSITE:
www.artemisiaband.it
MLVOTE: 7/10
Torna ad alzare il volume degli amplificatori la proposta ambiziosa e sfaccettata dei goriziani
Artemisia. Lo fanno ancora per la Videoradio, etichetta milanese che crede fermamente in
questa band e la cura con cui il disco è confezionato (il booklet è davvero molto curato) è
certamente una dimostrazione della fiducia della label. Gocce d’Assenzio, secondo episodio
discografico dopo il debut album omonimo del 2007, si snoda lungo tre quarti d’ora in cui la
chiara matrice hard rock della chitarra di Vito Flebus si sposa con diluiti inserti psichedelici che
flirtano con una certa tradizione prog, un connubio che contrassegna una struttura completata
dall’interpretazione solenne di Anna Ballarin che, per melodie e arrangiamenti, professa a mio
giudizio uno stile molto italiano nell’intendere il rock (e non lo si legga necessariamente come un
difetto, anzi). Gli undici brani sono figli delle sessioni di registrazione tenute nell’estate scorsa nei
triestini Fandango Sound Studios di Andrea Bondel che, oltre a occuparsi della regia, ha
anche contribuito in prima persona mettendo le dita sui tasti di Hammond e fisarmonica. Umana
forma apre col giusto piglio la scaletta, un riff quadrato e di sostanza che poi prende vita in altre
forme per poi ritornare alla sua essenza rock; una serie di metamorfosi nello stesso brano che
palpitano anche nella title track e ne Il vortice, e che mettono sale lungo tutta la struttura
dell’album. Personalmente preferisco le loro sferzate hard
rispetto alle fughe oniriche,
probabilmente per una mera questione di gusti personali, tuttavia mi sembra che proprio nei
frangenti più robusti il disco trovi i suoi migliori picchi; dalla loro trasposizione sul palco queste
composizioni non potranno che beneficiarne ulteriormente. La distribuzione digitale, piuttosto
capillare, dovrebbe garantire un’adeguata fruibilità per questo valido prodotto che comunque la
band sta promuovendo dal vivo attraverso un’intensa attività live. Una curiosità niente male in
chiusura: in questo paese ormai schiavo dei club per sole cover band, gli Artemisia si
distinguono per il non volerne sapere di eseguirne… Il rock di questo paese non si arrende,
almeno lui!
Manuel Fiorelli
ML 19
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: MIKE PATTON
TITLE:
Mondo Cane
LABEL:
Ipecac Recordings
RELEASE: 2010
WEBSITE:
www.myspace.com/mikepattonofficial
MLVOTE: 10/10
L'Italia assume sempre più i contorni di un tetro palcoscenico dell'orrore. Inguardabile perchè
osceno(a). Come dev'essere l'orrore... Invecchiamento della popolazione - e, dunque, incapacità di
vedere e progettare il futuro - disgregazione del tessuto sociale, crisi finanziaria e declino economico,
corruzione e mancato rinnovamento delle classi dirigenti, legislazione razzista, repressiva violenza
istituzionale, prove tecniche di secessione travestita da federalismo, imbarbarimento culturale...
Quest'ultimo, forse, il problema più grande perchè quello da cui probabilmente discendono tutti gli
altri... Un paese "laboratorio" in cui si consuma (caso unico nell'occidente) l'esperimento "estremo" di
una pseudo-democrazia autoritaria, spregiudicatamente eterodiretta con la manipolazione dei mezzi di
comunicazione. Una sofisticata forma di neofascismo-televisivo. Drammatica deriva di una nazione che
ha perso memoria della sua straordinaria storia passata e che, al contrario, dopo secoli di
accumulazione di un immenso patrimonio artistico, attraverso le molteplici suggestioni paesaggistiche
di un territorio non ancora completamente sfregiato dalla modernità, avrebbe tutti i presupposti per
essere avanguardia della bellezza, leader del gusto e, in definitiva, avamposto di elaborazione di nuove
forme di rinascita culturale. Negli anni '60 - e per una buona parte degli anni '70 - del '900, quando
l'Italia era punto di riferimento nel mondo per il design industriale e non, riconosciuto centro del “bon
vivre”, i grandi cantanti stranieri rendevano indirettamente omaggio al nostro stile inconfondibile
incidendo nella lingua di Dante i propri pezzi di maggior successo oppure portando in giro per il mondo
brani dei nostri autori più prestigiosi. Persino nei territori della pop rock music, terreni di conquista
anglosassone, e ben al di là del mainstream sanremese, comunque dignitosissimo, musicisti
straordinari hanno lasciato un segno indelebile: Ennio Morricone, Armando Trovajoli, Piero
Umiliani, Bruno Nicolai, Nino Rota, Piero Piccioni... Anche se lontani ormai dal revival lounge
degli anni '90 (centinaia di colonne sonore saccheggiate dalle compilation Easy Tempo, Beat at
Cinecittà e Mo'Plen) non ci stupisce, pertanto, il tributo reso alla nostra migliore - e in qualche caso
misconosciuta - tradizione da Mike Patton con Mondo Cane. Chiunque abbia fatto musica si è
imbattuto in questi grandi autori, soprattutto chi, come Patton, ama affrontare esperienze sonore
estreme e, particolare non indifferente, è stato sposato sette anni con un'italiana. Un disco, dunque, di
11 cover (già suonate dal vivo in una serie di concerti italiani del nostro), scelte senza un apparente
criterio, che è testimonianza della profonda conoscenza del patrimonio musicale del nostro paese,
arrangiate con un "groove" oscuro e malinconico dal genio mai abbastanza celebrato di Daniele Luppi
ed eseguite da musicisti eccellenti quali - tra gli altri - Roy Paci e Alessandro Stefana. Si passa da
Nicola Arigliano (20 km al giorno) a Ennio Morricone (la diabolika Deep down depauperata
dell'elegante allure lounge per assumere le sembianze di un manifesto "maudit", e la tenchiana Quello
che conta), dal beat dadaisticamente scomposto e ricomposto con stilemi hardcore dei Blackmen
(L'urlo negro) alla melodia da crooner di Nico Fidenco (L'uomo che non sapeva amare un grido di
disperata impotenza), dagli standard della canzone napoletana (Scalinatella) agli evergreen
ginopaoliani ("Il cielo in una stanza" e "Senza fine"), dall'istrionismo cabarettisco di Fred Buscaglione
(Che notte!) al bislacco pop-adolescenziale di Gianni Meccia (Ti offro da bere frantumazione
malinconica di un amore finito) con una freschezza e un'intensità davvero rara. Su tutto, però, prevale
l'incredibile voce di Mike Patton, misurato più che in altre occasioni, e l'enigmatico titolo della
raccolta: quel Mondo Cane di jacopettieprosperiana memoria, sbattuto con brutalità in faccia
all'ascoltatore a dispetto di un disco dolcemente triste. Metafora probabilmente di quel paese un tempo
meraviglioso popolato da individui che non sanno più volersi bene, gli uni cani con gli altri.
Nicola Pice
ML 20
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: Passe Montagne
TITLE:
Oh my Satan
LABEL:
African Tape
RELEASE: 2010
WEBSITE:
www.myspace.com/passemontagne
MLVOTE: 8/10
Ci sono alcuni dischi che andrebbero venduti con le indicazioni per l'ascolto. Oh My Satan dei
Passe Montagne è esattamente uno di quelli. I ritmi matematici e incalzanti, assieme alle
chitarre graffianti che lo caratterizzano, infatti, necessitano di una preparazione psicofisica, prima
di mettercisi. Allora io ci scriverei che è un disco da ascoltare in apnea, in quanto nei suoi
brevissimi 12 pezzi, non c'è tempo per respirare. Sembra come di stare sotto il fuoco di pugni dei
tre francesi, che, lavorando su velocità sinaptiche accelerate, propongono un post-rock/postpunk, che prende a piene mani dai maestri dei generi (Shellac, Fugazi, Three Second Kiss,
Uzeda), ma che riesce a portare a una formula propria, assolutamente straniante dal pensiero
normale, verso una condizione di ipnosi agitata, di ipnosi da metropoli nevrotica. Questo stato
tocca i suoi apici con pezzi come More mormon, con il dialogo di chitarra (Cochetel) e synth
(Montaufray), oltre che con la disordinata 98% cuir 2% sky. Premier Flocon e Positive
Manouche, poi, sono due pezzi estremamente correlati tra loro che sembrano, il primo la scena di
un delitto e il secondo la discesa vera e propria verso gli inferi. A dire il vero, però, basta sentire
Jupiter, apertura del disco, con il suo incipit di batteria (Fernandez), per restare letteralmente
travolti da quel procedere veloce e prepotente che trascina dentro una marcia dagli sguardi
serrati. Sì, perché alla fine dei suoi venti minuti e spicci, alla fine di Vice is good, ultimo brano dei
Passe Montagne, si ha la netta sensazione di essere entrati in un'altra dimensione, di poter
tirare il fiato dopo un'esperienza unica e stordente, che sicuramente un po' ha modificato chi l'ha
vissuta, tanto che ripensandoci, con stupore, non si può che sedersi ed esclamare: Oh My Satan!
Alessandro Busi
ML 21
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: FONOKIT
TITLE:
Amore o Purgatorio
LABEL:
Fondazione Sonora
RELEASE: 2010
WEBSITE:
www.myspace.com/fonokitband
MLVOTE: 8/10
Preceduto dal singolo Non esiste, l'album Amore o Purgatorio è la prima uscita del trio salentino
Fonokit, l'interessante progetto di Marco Ancona, Ruggero Gallo e Paolo Provenzano, tutti
provenienti
dalla
band
Bludinvidia,
nome
storico
dell'indie
italiano.
La
caratteristica
fondamentale di queste tredici tracce è l'eterogeneità dello stile, la molteplicità delle atmosfere
come delle influenze, attraverso un album tuttavia compatto dal punto di vista sonoro; il merito è
della produzione estremamente curata, opera della band e Domenico Capuano, fondamentale
specialmente in fase di post produzione; scelta felice quella di seguire principalmente
l'inclinazione british dei Fonokit in un amalgama sonora assai più vicina al gusto internazionale
che allo standard italiano. Amore o Purgatorio è un disco rock, a detta degli stessi autori,
prodotto con l'approccio elettronico (il suono di Fine è influenzato dall'industrial e da certe
produzioni trasversali della Mute), intento perfettamente percettibile, pensando alle robuste linee
di basso, in una sezione ritmica estremamente presente, come alle molteplici declinazioni sonore
della chitarra, ugualmente credibile che l'attitudine sia punk o più sperimentale. Se il suono è un
elemento unificante in Amore o Purgatorio, le tracce non potrebbero essere più varie; si passa
dall'impatto possente di un brano come il già citato, Fine, forte di un crescendo emotivo nel
ritornello che fa capo a un basso tirato e coinvolgente e allo stesso tempo interamente
orecchiabile (una cifra stilistica dell'album) all'atmosfera impalpabile, venata di dream pop, di un
brano etereo come Materia tattile, forse uno degli episodi più affascinanti dell'intero lavoro. Chi
sono io e Vendimi un sogno chiamano in causa l'influenza Brit, rintracciabile soprattutto nelle
linee vocali ma elaborata alla luce dello stile dei salentini, mentre No Money, No Cash (l'altro
singolo), Sedia elettrica e in parte Non posso farne a meno tracciano una linea d'ideale continuità
con lo stile dei Bludinvidia, in una vicinanza soprattutto di struttura ma evolutasi qui grazie
all'approccio meno sporco eppure più graffiante. Ho deciso è un brano molto interessante, anche
per via del testo, profondamente pregno di richiami ai due filoni sviluppati in Amore o
Purgatorio, la riflessione individuale più intima e il disagio dell'individuo rispetto alla società e
alle sue delusioni, senza trascurare una certa ironia; l'andamento è piuttosto wave, impressione
che ritorna in numerosi momenti del disco, Nes invece, richiama maggiormente l'influsso del
grunge, perfettamente coerente per una band che al rock dei '90 deve molto e senza farne
mistero.
ML 22
musicletter.it
update n. 71
musica: fonokit
Non esiste e Viene sera sono forse i brani più intimi dell'album, eppure si tratta di due pezzi
profondamente diversi, la prima, una ballata elettrica, si apre sul ritornello sofferto, con un testo
curato e semplice che parla d'abbandono e il drammatico crescendo conclusivo realizzato in una
negazione, dove il suono si fa più aspro, la seconda è una canzone estremamente atmosferica,
caratterizzata dal testo malinconico, notturno appunto, e dal giro di chitarra prezioso tessuto in
un'atmosfera sonora ricca di particolari cosmetici. Il rock di Ammirami, struttura di un testo
ambiguamente ironico, accompagna verso la chiusura, Materia Tattile. Con Amore o Purgatorio,
insomma, i Fonokit sembrano proporre una fotografia moderna ma consapevole delle proprie
radici musicali, la fotografia di un momento difficile, il basimento e le incertezze di una
generazione di fronte a un periodo particolare (Sedia elettrica) senza pretese unificanti e anzi con
un linguaggio estremamente personale, suburbano e asfittico, nell'album c'è questo, c'è
l'elaborazione delle esperienze artistiche di Ancona fuori dai Bludinvidia (la collaborazione con
Amerigo Verardi, il progetto Il Paese è Reale assieme agli Afterhours) tutti elementi che
hanno collaborato a una evoluzione nello stile dei tre, consentendo di firmare un disco allo stesso
tempo innovativo, tagliente e con un buon potenziale commerciale.
Giorgia Mastropasqua
ML 23
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: MELISSA AUF DER MAUR
TITLE:
Out of Our Minds
LABEL:
Roadrunner Records
RELEASE: 2010
WEBSITE:
www.myspace.com/aufdermaur
MLVOTE: 8/10
Personaggio multiforme, Melissa. Quando pensi di essere riuscito a inquadrare la direzione
musicale che intraprenderà, la nostra rossa cantante canadese riesce a stupire l’ascoltatore. Basti
solo pensare al suo curriculum musicale: è stata bassista delle Hole per cinque anni, ha militato
negli Smashing Pumpkins, ha fondato una cover band dei Black Sabbath (gli Hands Of
Doom), ha collaborato con diversi artisti del mondo del rock e del pop e ha registrato un ottimo
disco di rock desertico omonimo nel 2004. Oltre a tutto questo ha fatto qualche comparsa in
alcune serie televisive, è un’ottima fotografa (la rivista “Spin” ha già pubblicato qualche sua foto
in passato) e ha stipulato un contratto come modella per Calvin Klein. Ma, non ancora sazia di
tutto ciò, ha deciso di dare un seguito al suo precedente album, a distanza di sei anni da Auf Der
Maur. Il progetto Out Of Our Minds è strutturato in più parti: una colonna musicale, un
cortometraggio e un fumetto. Musicalmente quest’opera si distacca notevolmente dal suo
predecessore. Se avevamo apprezzato il
suono aspro e la varietà di generi del precedente,
questo lascia di stucco per la sua completezza stilistica. In realtà non mi ha colpito
particolarmente durante i primi ascolti: mi sembrava troppo posato e pretenzioso. In realtà, ha
bisogno di essere assimilato e metabolizzato per bene, come se fosse una nuova pietanza a cui
non siamo abituati ma che pian piano diventa sempre più appetibile. Stupisce come così tante
collaborazioni non vadano a discapito dell’omogeneità del prodotto. È questa la grossa novità:
Melissa riesce a creare un prodotto con un suono proprio, non particolarmente derivativo come
in passato; pur se collocabile tra Celebrity Skin e Auf Der Maur, la personalità emerge
prepotentemente senza farsi carico di tutte le influenze palesate in precedenza. È un disco rock
fosco, notturno eppure tremendamente commerciale: diversi opening strumentali fanno da
introduzione ai brani, creando una sorta di concept musicale variegato e ottimamente prodotto
(Chris Goss e Alan Moulder vi dicono nulla?). Out Of Our Minds è un lenta discesa verso la
desolazione, come risulta dal trittico Meet me on the dark side, His would be paradise e l’ottima
Father’s grave, in duetto con la bellissima voce di Glenn Danzig. L’unica vera canzone
riconducibile a quello che già conoscevamo è Follow the map: ottimo mix tra elettronica minimale
e chitarre sature di elettricità. La voce di Melissa è il giusto controcanto all’atmosfera generale
del disco, è l’ancora di salvezza che ci permette di essere ripescati incolumi dall’oscurità e dal
vago sentore di solitudine trasmesso da alcuni di questi ispirati racconti. 1000 years chiude
egregiamente il disco: un pezzo che racchiude il passato e il presente dell’artista, richiamando
alcune sonorità care ai Queens Of The Stone Age di Lullabies For Paralyze quanto ai primi
Yeah Yeah Yeahs. Ancora una volta la Maur mi ha lasciato piacevolmente spiazzato ma, allo
stesso tempo, mi ha entusiasmato, dandomi conferma che abbiamo tra le mani un ottimo album
di una nuova stella.
Matteo Ghilardi
ML 24
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: THE PACK A.D.
TITLE:
We Kill Computers
LABEL:
Mint Records
RELEASE: 2010
WEBSITE:
www.myspace.com/thepackad
MLVOTE: 7/10
Solitamente la ricerca di un nuovo disco si basa, oltre al fattore emotivo, su tre criteri: la voglia di
ascoltare
qualcosa
di
nuovo;
l’acquisto
a
scatola
chiusa
della
produzione
del
nostro
gruppo/cantante preferito; la volontà di sentire qualcosa che si rifaccia ai generi più graditi
dall’acquirente. Partendo dall’ultimo punto mi sono ritrovato con la gran voglia di avere tra le
mani qualcosa che potesse rimandarmi al suono dei White Stripes, probabilmente per il fatto
che l’attesa di una nuova uscita con il loro marchio sembra sempre più distante, o addirittura
improbabile. Ho un debole per i duo, soprattutto se riconducibili al suono sporco del blues e
all’arroganza del rock distorto. È stata una pura casualità quella che mi ha portato ad ascoltare
We Kill Computers, ovvero averle viste come gruppo spalla in uno degli ultimi concerti a cui ho
assistito. L’impatto e la proposta sonora della loro esibizione mi hanno convinto all’acquisto della
loro ultima fatica, la terza per la precisione (i primi due si intitolano Tintype e Funeral
Mixtape). Se avessi dovuto acquistarlo a scatola chiusa penso proprio che la copertina non mi
avrebbe certamente aiutato: le due canadesi sembrano uscite dritte dritte da telefilm come
Gossip girl e l’imbarazzante cintura di Star Wars della batterista Maya Miller non mi avrebbe
entusiasmato particolarmente. L’estetica viene ribaltata all’ascolto, le ragazze sanno il fatto loro e
le chitarre sature di elettricità supportante da un’incessante martellare sulle pelli dei tamburi
riescono nell’intento di menare il monello e uccidere i computer. Assomigliare ai fratelli/amanti/ex
coniugi/amici di Detroit è semplice a livello di strumentazione, più complesso diventa sul fattore
del discorso compositivo. Nei momenti più ispirati The Pack A.D. riescono a risultare convincenti:
Deer è il connubio perfetto tra Bikini Kill e garage; Big Anvil riesce a rispolverare Blue Cheer, i
superfuzziani e bigmuffiani Mudhoney, i primissimi Yeah Yeah Yeahs, accelerate alla Black
Math in soli tre minuti; Cobra matte sembra uscita da Elephant; Crazy e B.c. is on fire ci
ricordano quanto la bella voce di Becky Black sia influenzata da Karen O e da un’improbabile
Morrissette; Crazy una versione riveduta in chiave attuale di Hardest button to button. Se
riusciranno ad aumentare ulteriormente la posta in gioco, prossimamente ci ritroveremo tra le
mani un ottimo disco. Se qualcuno avesse da recriminare sul fatto che le due musiciste
dovrebbero versare dei diritti nei confronti dei White Stripes, chissà cosa dovrebbero dire i
Gories!
Matteo Ghilardi
ML 25
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: THE FLESHTONES
TITLE:
The I.R.S. Years (1980-1985)
LABEL:
Raven
RELEASE: 2010
WEBSITE:
www.fleshtones.org
MLVOTE: 8/10
Perché mai un’antologia al posto delle agognate – soprattutto per chi anni or sono si è privato dei
vinili - ristampe di Hexbreaker! e Roman Gods? Probabilmente perché oggi come oggi nessuno
è più disposto a rischiare il becco di un quattrino e se poi si tratta di esporsi per un gruppo ‘noto’
(termine azzardato, nel loro caso) con il nome di Fleshtones, la faccenda diventa ancora più
seria: Collection, The Best of, Anthology e simili sono sinonimo di sicurezza sia per
discografici che per distratti acquirenti. The Fleshtones: raro e meraviglioso manipolo di rock
and rollers magicamente estratto dal cilindro della gloriosa I.R.S. di Miles Copeland (R.E.M.,
Wall of Voodoo, Alarm, ecc…); gioco di prestigio rivelatosi vano, realizzato purtroppo nel
momento meno adatto, davanti a una platea evidentemente distratta; e non c’è più stato verso,
malgrado in molti li avessero, a più riprese, indicati nientemeno che “il futuro del Rock and Roll”.
Inspiegabilmente incapaci di sfondare e nello stesso tempo in grado di raccogliere attorno a sé
una schiera di orgogliosi seguaci, quasi fossero delle star di prima grandezza. La selezione in
questione riguarda gli anni dal 1980 al 1984, periodo in cui hanno inciso per la citata etichetta,
vale a dire trenta anni fa. In lettere risalta un po’ meno ma non toglie il fatto che in quell’anno il
sottoscritto andava ancora a scuola e gli mancasse oltretutto una vita per concluderla (si faceva
pure bocciare, il disadattato). Se avessi allora retrocesso di trent’anni le lancette del tempo, mi
sarei ritrovato nel 1950, faccia a faccia con il rock and roll nelle sue forme primordiali: Fats
Domino, Louis Jordan, Johnny Otis, Professor Longhair, ovvero l’R&B di New Orleans: un
melting pot ancora troppo nero e troppo race per il mondo, quello che sborsa i quattrini e decreta
successi
e
fortune.
Benché
non
altrettanto
clamorosi,
anche
gli
anni
Ottanta
furono
eccezionalmente vivaci e, ancora oggi, alcuni dei nomi che allora emersero dalla mischia
potrebbero essere ricordati come leggendari se non fossero stati preceduti da tale progenie. Molti
dei loro lavori sono infatti indiscutibili capolavori: Medicine Show dei Dream Syndicate,
Gravity Talks dei Green on Red, Under the Big Black Sun degli X, Miami dei Gun Club, Call
of the West dei Wall of Voodoo, l’omonimo dei Violent Femmes, Stoneage Romeos degli
Hoodoo Gurus, tanto per elencarne alcuni; e i due sopra citati album dei newyorkesi
Fleshtones. Questi
ultimi,
polveroso scomparto alla
voce
oggi
garage,
come
ma
allora,
la
si
classificazione
possono scovare in
è
puramente
qualche
indicativa,
di
orientamento (losers suonerebbe più adeguata, ma dubito possa essere apprezzata dai diretti
interessati). Agli inizi della loro carriera, la loro musica venne invece definita “una miscela unica e
senza tempo di proto-punk e R&B anni ‘50, alla Little Richard, con aggiunti sprazzi di surf e soul
alla James Brown” (Andy Shwartz – New York Rocker - 1978): ecco, il piatto è servito;
ML 26
musicletter.it
update n. 71
musica: the fleshtones
ma, secondo il sottoscritto, la miglior definizione possibile per i Fleshtones si può recuperare in
una ancora più lontana e nobile citazione, e per trovarla è necessario spostarsi (di nuovo) negli
anni 50: “La mia musica è molto semplice. Volevo suonare il blues ma non ero abbastanza blue.
Non ero come Muddy Waters o altra gente che aveva veramente sofferto. In casa nostra non
mancava il cibo in tavola ed eravamo benestanti rispetto a tante altre famiglie. Così mi sono
concentrato sul divertimento, l'allegria e sulle novità. Ho scritto di automobili perché una persona
su due le possiede. Ho scritto d'amore perché tutti vogliono l'amore.” (Chuck Berry) Questo è
stato il rock and roll prima che quella generazione ne cogliesse l’affinità con il proprio spirito di
ribellione e lo eleggesse pertanto a miglior interprete possibile dello stesso, centrando un
clamoroso obiettivo e determinandone in tal modo la divulgazione su scala mondiale. Non serve
molto altro per definire i Fleshtones: divertimento allo stato puro, rappresentato per l’occasione
da 25 brani – 5 dei quali dal vivo, non particolarmente incisivi ma significativi dell’atmosfera da
toga-party percepibile durante le loro performance – accortamente selezionati dall’etichetta
australiana e riesumati dai loro anni d’oro (per quanto riguarda il livello creativo più che gli
introiti…), durante i quali, dopo una parentesi nei club di New York, hanno visto concretizzare la
loro esperienza in uno dei ‘sound’ più brillanti e originali dell’epoca, e non solo. Benché originale
possa sembrare incompatibile con ‘revival’ risulta evidente, riascoltando queste incisioni, come i
suoni dei sixties siano stati profondamente assimilati e finemente rielaborati da Peter Zaremba
& C. per armonizzarli infine a una inquietudine e a una esagitazione entrambe tipicamente punk
(di cui ben pochi riuscirono allora ad esimersi). Frequenti le incontrollabili ed euforiche alterazioni
da adrenalina: nessuno dei pezzi selezionati stride in questa baraonda di suoni, battimani, cori e
urla da stadio, “greasy horn riffs and a whomping big beat” (citazione dalle note interne che
‘suona’ molto meglio in lingua originale). La scelta dei pezzi è ottima, tanto da cancellare per una
buona ora e un quarto il rammarico dovuto alle mancate ristampe; non si viene mai tentati dallo
stimolo di oltrepassare qualcuna delle tracce a cagione dell’alto coinvolgimento, ambito in cui
ancora oggi i Fleshtones eccellono. Impossibile citare solo alcuni tra i pezzi in questo susseguirsi
di suoni saturi (in particolare quello fuzz della chitarra di Streng assieme a quello psichedelico
dell’organo di Zaremba) armonizzati su un tappeto ritmico secco, deciso ed euforico, spesso
debitore verso la Jungle Music di Bo Diddley, e intercalato da fulminei arresti e repentine riprese.
L’armonica di Zaremba, quando emerge, rievoca il rythm and blues, quasi in un debito di
riconoscenza verso le radici del proprio albero genealogico (quello musicale, obviously). Nel 1980,
le puntine dei nostri giradischi sfiorarono per la prima volta questi pezzi - allora ci si riferiva ai
‘solchi’ - tra i quali i Fleshtones avevano celato le loro perle. Nel frattempo il mondo si è
digitalizzato, così la gente e le relazioni. Il vinile, con i suoi riflessi arcobaleno - se osservato in
controluce - gira oggi in poche case, sostituito nel rimanente resto del mondo da inconsistenti
sequenze di bit organizzate allo scopo di dar forma a quello che nel parlato comune è – ahimè –
diventato sinonimo di musica: l’emme-pi-tre, capace di attraversare un imprecisato numero di reti
da un capo all'altro del pianeta in pochi secondi e da un iPod all'altro in un tempo prossimo allo
zero. È il futuro, bellezza! Eppure, in questo vortice evolutivo (si fa per dire) qualcosa si è
fermato, non è diventato adulto ed è, una volta in più, una vera fortuna: è la nostra emozione per
il rock and roll più sincero e spontaneo che dopo più di un quarto di secolo è rimasta più o meno
la stessa. Anche Zaremba & C. sono rimasti più o meno gli stessi: stessa sfacciataggine, stesso
entusiasmo, stessa verve, e sono proprio loro a ricordarcelo e di questo non possiamo che
essergliene infinitamente grati.
Stefano Sciortino
ML 27
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: LIARS
TITLE:
Sisterworld
LABEL:
Mute Records
RELEASE: 2010
WEBSITE:
www.liarsliarsliars.com
MLVOTE: 8,5/10
Io amo i Liars. Amo i Liars dalla prima volta che ho ascoltato la voce spiritata di Angus Andrew
nell’esordio They Threw Us All in a Trench and Stuck a Monument on Top. Li amo perché
sono tra i pochi gruppi degli anni Zero che hanno saputo osare e andare sempre oltre il limite
della sanità mentale e dell’equilibrio musicale con caparbietà, senza mai essere eccessivi. Li amo
perché sono dei cavalli di razza; ogni loro scelta, ogni loro disco, ogni loro produzione supera
notevolmente i canoni dell’album di routine, scorrono sangue e scorie nel loro sistema
circolatorio, un po’ Velvet underground, un po’ Sonic Youth e un pizzico di Suicide ma
sempre e comunque soprattutto Liars. Sisterwold, al primo ascolto, mi ha drogato, non riesco
più a togliermelo dalla testa, amo la cantilena ipnotica di Scissor suggellata da un tappeto
martellante di chitarre e organi, amo il riverbero sonoro di No barrier fun, inquietante e degna
colonna sonora di Inland empire insieme alla prosecuzione naturale di Here comes all the people.
Non è musica, è malessere profondo, ossessione e droga, amore forse, non ne sono convinto, ma
ammalia, ipnotizza, mai si rende prevedibile. Non avrei mai pensato che dopo il bello, è più
digeribile, Liars (2007) il trio di New York riuscisse ad arrivare a questo Eden musicale.
Scarecrows on a killer slant è un attacco nichilistico, noise punk corrosivo, d’impatto, quasi come
se fossero una versione non buzzurra e retorica degli Atari Teenage Riot. Come si fa a non
amarli quando poi ci accarezzano la guancia e ci mettono a nanna con la litania I still can see an
outside world o quando ci fanno ballare con il sound acido di Proud evolution, Doors impasticcati
a morte e sputati nel 2010 mentre con Drop dead si vira ancora verso una forma rock molto più
claustrofobia; piacerebbe molto al Kurt Cobain più depresso. La compattezza di Sisterworld fa
paura, il trio di pezzi in chiusura aumenta ancora di più il tiro, il punk rock di Overachievers è la
conferma di quello che a tutti gli effetti i Liars sono, un vero gruppo punk dei giorni nostri. Volete
avere la conferma del fatto che questo è un album da recuperare urgentemente? Da amare?
Allegato al disco un bonus CD con tutti i pezzi presenti su Sisterworld remixati e rifatti da gente
del calibro di Melvins, Alan Vega e Thom Yorke (ma anche Devendra Banhart, Kazu
Makino, etc.). Io amo i Liars.
Antonio Anigello
ML 28
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: AFRICA UNITE
TITLE:
Rootz
LABEL:
Universal
RELEASE: 2010
WEBSITE:
www.africaunite.com
MLVOTE: 7/10
Roots: radici. Una delle parole chiave della musica reggae, da sempre legata alle radici religiose,
sociali, geografiche, culturali della propria terra. La sfida degli Africa Unite fu, trenta anni fa,
quella di trapiantare quelle radici all’ interno di un contesto metropolitano europeo come quello
torinese. Prima, limitandosi a usare la stessa tecnica appresa dai coltivatori giamaicani, Bob
Marley in primis. Poi, producendo una sensimilla che innestasse la propria peculiarità di
appartenenza al territorio con la forza di quelle radici. Arborescenze che avrebbero, di fatto,
aperto una via italiana al reggae. Una contestualizzazione all’ epoca resa possibile grazie
all’abbattimento delle barriere di espressione favorite dalla necessità di eloquenza del rap. Il
primo esperimento in tal senso venne infatti mascherato sotto l’ egida della stagione delle posse
italiane, sotto lo pseudonimo di To.sse., quindi rivendicato in quel piccolo manifesto che divenne
Babilonia e Poesia. Da allora gli Africa Unite non hanno mai smesso di sperimentare, con ogni
mezzo possibile. Da quello elettronico del dub e delle sue derive ritmiche della jungle a quello di
scuola classica della musica per archi. Rielaborando i classici di Marley in lingua originale ma
pure mischiandosi con i dialetti, lavorando su dischi strumentali o chiedendo ad altri di dare una
visione inedita del proprio lavoro. Facendo dischi solari, scuri, brillanti o appannati. Permeabili al
clima interiore di chi li ha creati e a quello globale che ci avvolge tutti. Rootz riporta la band di
Pinerolo in grande forma, tornando alle sue “radici” che sono quelle di un suono reggae compatto
e rotondo, di tanto in tanto avvelenato dalle profondità scure del vortice dub, secondo lo schema
di Un sole che brucia. Si avverte una forte inclinazione al poetry-dub di Linton Kwesi Johnson e
Mutabaruka, un’esigenza a far affiorare le parole restituendo loro il compito di veicolo di
comunicazione, di denuncia, di confessione. Si percepisce in maniera chiara su Music ‘n’ Blood
affidata alla voce cavernicola di Madaski, su Cosa Resta commissionata a Bunna e su Mr. Time,
dove se la giocano entrambi, ma è una necessità che si avverte chiara su tutto il disco. Ed è
un’urgenza spinta dal bisogno di allontanarsi dalle ideologie radicali e dai fanatismi che affliggono
il pianeta, anche quello a loro caro della cultura giamaicana, anche facendo nomi e cognomi su un
pezzo che farà discutere come Così sia e con cui gli Africa prendono le distanze dalle istanze
maschiliste e sessiste di alcuni rastaman e schierandosi contro il cameratismo complice che
fomenta ogni ideologia, anche la più ignobile rivestendola di una dottrina comune che ne alimenta
la diffusione, raccogliendo proseliti. Il fanatismo religioso è invece preso di mira su Mr.Time dove,
sapientemente, la band tratta con distacco e sfiducia ogni forma di delirio spirituale, anche quello
del rastafarianesimo esaltato da figure come Bob Marley o Burning Spear dimostrando un
punto di vista critico e adulto, affrancato dalle febbri d’emulazione incosciente che caratterizzano
le sottoculture popolari. Gli altri attacchi sono quelli contro le nefandezze delle istituzioni o da
esse taciute, condonate, esonerate dall’infamia e organizzate come regola, come precetto non
ammonibile e idoneo all’indulto. Il malcostume politico denunciato sull’anti-singolo che chiude il
disco e reso disponibile in download gratuito sul sito del gruppo e i misfatti contro l’ambiente
raccontate lungo Il movimento immobile. Ma ci sono anche i momenti di puro svago in levare, da
quelli più morbidi come Si e Here and Now fino al rocksteady acceso di The Lady in compagnia del
prodigio pugliese Mama Marjas. La Lady, appunto. Soli o in ballotta (oltre alla Marjas ci sono
l’asso Alborosie e i cameo di Jacob dei Yellow Mood e Piero e Roddy dei Franziska, NdLYS) gli
Africa continuano a maneggiare la musica giamaicana con l’assodata padronanza di linguaggio
lirico e musicale che ne fa la cosa più preziosa dell’ ormai affollata scena reggae italiana.
Franco Dimauro
ML 29
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: UFOMAMMUT
TITLE:
Eve
LABEL:
SupernaturalCat
RELEASE: 2010
WEBSITE:
www.ufomammut.com
MLVOTE: 8/10
Ogni nuovo album degli Ufomammut è il “loro miglior album”. In teoria, essendo arrivati al
quinto disco, siedono già alla destra del Padre. Molto più verosimilmente quella degli
Ufomammut è una progressione “orizzontale”. Non ascende ma si allarga. Come una chiazza d’
olio. Sarà per questo che io li ho sempre definiti i Macchianera del rock italiano. Una macchia
vischiosa che si muove animata di vita propria. Ma forse addirittura no, nemmeno questo.
Progrediscono in senso inverso, affondando. La musica del gruppo di Tortona si è fatta sempre più
profonda, scavando il suolo sotto i propri piedi, infilando le dita nel bitume, svuotando gli anfratti
di roccia nascosti sotto l’asfalto, fino a penetrare nei fiumi di lava che scorrono nella pancia di
Madre Terra, come succede intorno al settimo minuto dell’ ultima tranche di questa megasuite in
cinque movimenti dedicata alla figura di Eva. Prima donna e prima figura eversiva del mondo che
conosciamo.
Ma non c’è traccia dell’ Eden. Nessun paradiso terrestre. Al suo posto una selva
sinistra, minacciosa ed ostile, una giungla di liane e radici dove si incunea la musica
dell’Ufomammut, l’unico essere che la abita. È qui che lui riversa la sua furia primordiale, carica
di fiele e incattivita dal malanimo di una solitudine immensa, ancestrale; ed è tra le reti di questa
trincea primitiva che acquieta il suo tormento, impigrito dalla stanchezza, intorpidito da un vagare
che non trova destinazione, abbrutito dalla desolante furia degli elementi. Sembra l’ultimo giorno
di vita sulla Terra, e invece è soltanto il primo. L’aria è carica di zolfo, pesante, greve, asfittica. Il
passo dell’Ufomammut è parimenti pachidermico, rovinoso. Attorno a lui ci sono rocce che si
sgretolano e pozze di polveri e gas, geyser che sbuffano da queste terre ancora vergini ma già
ferite. Un paesaggio ancora impenetrabile, ostile. Refrattario alla luce, non ancora educato alla
disciplina e all’ ordine, come la donna che lo abita. Eve è il rumore dei primordi, degli elementi
che il big bang ha generato e che non hanno ancora scelto come spartirsi questa libertà che gli è
stata donata, di questa lotta biologica per la conquista del territorio, di questa sfida tra se stessi e
con Dio. Ti schiaccia e ti solleva, la musica degli Ufomammut. Per poi riscaraventarti giù, da
questi burroni infernali, lungo queste serpentine di acqua che poi precipitano fumanti di vapori,
imbizzarrite come cavalli in fuga. Sabbie, acque, rocce e fango, polveri e sterpaglie, terra che
ancora non conosce la fatica umana e l’armonia delle stagioni, vapore insalubre, magma,
abominio, caos. Eva raccolse dall’albero della conoscenza. Per scoprire che non sarebbe mai stata
veramente felice. Ora le toccava dare il nome ad ogni cosa. Alle bestie, alle piante, ai frutti del
suo peccato, e alle sue paure. Di cui, fino ad allora, conosceva solo il rumore: questo.
Franco Dimauro
ML 30
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: THE CHIEFTAINS FEATURING RY COODER
TITLE:
San Patricio – Deluxe Edition
LABEL:
[CD + DVD]
Hear Music | Universal
RELEASE: 2010
WEBSITE:
www.thechieftains.com
MLVOTE: 7/10
Si rinnova la collaborazione musicale tra Chieftains e Ry Cooder in un disco con il quale il
gruppo irlandese racconta (in musica) un capitolo oscuro e controverso della storia americana al
tempo della guerra tra il Messico e gli Stati Uniti (1846–48) riguardante il Batallòn San Patricio
(dal nome del santo protettore dell’Isola di Smeraldo), un’unità dell’esercito messicano composto
per intero da disertori irlandesi delle truppe americane. Un episodio che ha suscitato nel tempo
non poco imbarazzo ma che trova una sua ragione d’essere se si guarda alle comuni radici
cattoliche di messicani e irlandesi. Ancora più credibile la spiegazione che gli irlandesi, sempre
trattati come miserabili dagli americani, avessero trovato maggiore comunanza e affinità con i
peones. «Gli irlandesi – come ha spiegato Paddy Moloney, leader dei Chieftains - erano arrivati
in America per sfuggire alla grande carestia causata dall’occupatore inglese. Si trovarono in un
nuovo paese, obbligati a prendere le armi con vacue promesse di soldi e di terre, a sparare contro
altri cattolici. Non ci pensarono due volte e passarono dalla parte dei messicani». Il progetto del
gruppo irlandese era in partenza molto ambizioso e Moloney & Co., grazie alla collaborazione di
una giornalista argentina e di Cooder, sono risaliti a una serie di brani tradizionali messicani
risalenti all’epoca dei fatti e che sono andati a comporre l’ossatura del nuovo album, per il quale i
Chieftains si sono limitati a produrre nuovi arrangiamenti, ad aggiungere alcune nuove canzoni e
a circondarsi di musicisti messicani al momento delle sedute di registrazione avvenute in giro per
il mondo (Messico, Spagna, Los Angeles, New York e Dublino). Ovviamente predominano
atmosfere messicane alle quali i Chieftains donano il distintivo Irish Touch che contraddistingue
da sempre la loro musica. Ovviamente c’è Ry Cooder, da sempre innamorato delle sonorità tex
mex, che con la sua esperienza e la sensibilità musicali, il desiderio costante di approfondire la
ricerca di roots comuni, ampiamente messe in mostra con Buena Vista Social Club, fa da
collante tra due anime musicali di paesi divisi dall’oceano. Un disco appassionato cantato in
spagnolo e inglese, ricco di atmosfere folk, dove si fondono strumenti acustici irlandesi con
strumenti tradizionali messicani, più violini, flauti e chitarre messicane a mescolarsi con momenti
orchestrali di più ampio respiro. Il brano più emozionante e lirico è The Sands of Mexico, firmata e
cantata da Cooder. Molte guest star sono presenti: da Linda Ronstadt alla leggenda messicana
Chavela Vargas, dal pianista e produttore californiano Van Dyke Parks alla band chicana Los
Tigres del Norte, dall’attore Liam Neeson (recita versi scritti dallo scrittore irlandese Brendam
Graham, su musica composta da Moloney) al virtuoso della gaita galiziana (della famiglia delle
cornamuse) Carlos Núñez.
Luigi Lozzi
ML 31
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: THE WHO
TITLE:
Greatest Hits & More
LABEL:
Polydor | Universal
[2 CD]
RELEASE: 2010
WEBSITE:
www.thewho.com
MLVOTE: 9/10
Nella querelle infinita su chi fosse meglio tra i Beatles e i Rolling Stones non sono stati pochi
quelli che hanno optato per il classico terzo incomodo, gli Who, gli unici capaci (con i Kinks nella
loro scia) di mettere d’accordo tutti. Considerazione invero da consenso ampio visto che il loro
approccio con il rock, energico e potente, va annoverato tra quelli senza tempo; c’è poco da
girarci attorno, la band va inclusa di certo tra le prime cinque di ogni tempo. L’errore oggi, a mio
avviso, è d’essersi rimessi “on the road” (sebbene privi della loro metà, gli scomparsi Keith Moon
e John Entwistle) a fare il verso alla loro grandezza. Da qualche anno assistiamo al ritorno sulla
scena live di giurassici eroi del rock; il mio pensiero al riguardo (forse anche non condivisibile) è
che proporsi come sessantenni cavalli di ritorno a sgambettare sul palcoscenico con lo spirito
(presunto) dei vent’anni è solo un’operazione commerciale e nient’altro, che per di più reca danno
a quell’immagine di costoro che si è solidamente sedimentata nell’immaginario collettivo. Con
tutto il rispetto per Roger Daltrey e Pete Townshend, indiscussi leader e “deux ex machina”
della mitica formazione, e con le debite (e doverose) distanze che il tempo impietoso lascia calare
come un maglio sulle attuali loro performance live, ditemi cosa possono essere gli Who al giorno
d’oggi privi di due colonne come i compianti Keith Moon e John Entwhistle? Non c’è da sentirsi
un po’ orfani se privati dell’esuberanza esplosiva del drumming del primo (scomparso nel ’78) e
degli storici riff di basso del secondo (che ci ha lasciato nel 2002)? Senza di loro lo spirito
autentico del complesso è irrimediabilmente smarrito. Credo che gli Who davvero rappresentino
nel nostro immaginario d’appassionati del rock un’entità fatta di magia che è ben più della somma
delle parti che la compongono. Per riappropriarsi dell’immagine più autentica del gruppo inglese
niente di meglio di questa doppia antologia che nel primo disco riporta i 19 maggiori successi del
gruppo inglese, tra cui i brani storici della band (e penso a I Can't Explain, Substitute, The Kids
Are Alright, Magic Bus, I Can See For Miles, Pinball Wizard, Won’t Get Fooled Again, Baba O’Riley,
Who Are You) e nel secondo CD 13 performance Live registrate tra il ’65 e il ’76, un paio dell’89 e
una, finale, che risale al recente tour della reunion del 2007. Insomma la summa del loro
massimo fulgore artistico. Tutti inni viscerali alla giovinezza e ai fermenti di quegli anni e che
hanno contribuito a scrivere la nascente grammatica del ribellismo rock, al grido di “I hope to die
before I get old” (“spero di morire prima di diventare vecchio”) contro la mediocrità della middleclass. Un’antologia come questa ha ben poco per lasciare delusi gli appassionati e fa il paio, tanto
da esserne degno complemento, con il film dedicato al gruppo, The Kids Are Alright diretto da
Jeff Stein nel 1979, a sancirne per sempre l’immortalità.
Luigi Lozzi
ML 32
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: ROKY ERICKSON
WITH
OKKERVIL RIVER
TITLE:
True Love Cast Out All Evil
LABEL:
Anti Records
RELEASE: 2010
WEBSITE:
www.myspace.com/rokyerickson
MLVOTE: 8/10
È un colpo al cuore ma anche una bella botta di adrenalina questo True Love Cast Out All
Evil di Roky Erickson with Okkervil River. Un ibrido perfetto di suoni corrosivi, spirito rock
and roll e infinita poesia che riconsegna alle cronache musicali una delle menti più tormentate
della
psichedelia
americana
(ricordate i 13th Floor Elevators?). Un
album
arrangiato,
supportato e prodotto egregiamente da Will Sheff (e la sua banda) che ha il merito di aver
saputo rovistare nel passato di Roky Erickson tirando fuori questi dodici brani che, ad ascoltarli
ora,
lasciano
un
nodo
in
gola. Un
album
intenso
e
vibrante
che
unisce
sapientemente rock, pop, country e tutti quegli istinti primordiali delrocker fatti di musica e
sentimento. Un disco costruito su splendide ballate folk (Be And Bring Me Home e Forever),
passaggi visionari a bassa fedeltà (Devotional Number One e God Is Everywhere) e travolgenti
incursioni rockcome John Lawman e Bring Back The Past ma soprattutto come Goodbye Sweet
Dreams che da sola vale l’intero lavoro. Dentro True Love Cast Out All Evil c’è il dolore
trasformato in amore, c’è la voce graffiante e commovente del vecchio Roky ma più di ogni
altra cosa c’è l’empatia con una grande e giovane band americana: gli Okkervil River. Una fatica
dal songwriting sostanzialmentemainstream (Dylan, Cash, Springsteen, Fogerty…) che segna
il ritorno (o, se preferite, la rinascita) del pioniere texano dell’LSD, personaggio capace di unire
genio e sregolatezza alla maniera di Syd Barrett, Brian Wilson e Daniel Johnston. Ecco
perché True Love Cast Out All Evil è uno di quei dischi da mettere assolutamente nella lista
delle migliori uscite discografiche dell’anno.
Luca D’Ambrosio
ML 33
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: TOM PETTY & THE HEARTBREAKERS
TITLE:
The Live Anthology
LABEL:
Warner Bros.
RELEASE: 2009
WEBSITE:
www.tompetty.com
MLVOTE: 8/10
Gran parte del popolo rock pensa che la E Street Band di Bruce Springsteen sia stata l’unica
grande orchestra di “mainstream rock” americana degli ultimi 35 anni ignorando completamente i
favolosi Heartbreakers di Tom Petty. A questa grossa ingiustizia si può agevolmente rimediare
acquistando i 4 CD (48 tracce) di The Live Anthology (esiste anche una versione Deluxe
composta da: 5 CD contenenti 14 canzoni in più, un documentario in DVD realizzato durante il
“Wildflowers Tour”, un concerto californiano in DVD del 1978, un LP in vinile rimasterizzato di un
Bootleg live del 1976, un Blu-ray Audio Disc contenente tutti i 62 brani ad altissima fedeltà, un
libro con foto e note di Tom Petty e giornalisti musicali e per finire una litografia che riproduce il
poster delle 20 serate al Fillmore del 1997. Se poi siete degli inguaribili romantici del vinile potete
procurarvi anche una versione di lusso composta da 7 LP ma dovete rinunciare a dieci canzoni.)
che raccoglie pezzi dal vivo compresi in un arco temporale che parte dal 1980 per arrivare al tour
del 2007. L’impostazione dell’opera ricalca lo spirito del famoso Live 1975-1985 del Boss uscito
nel 1986 (non viene ripreso un singolo concerto ma si mettono insieme tante canzoni estrapolate
da varie performance relative a periodi e anni diversi). Il progetto è ambizioso ma dopo ripetuti
ascolti si può tranquillamente affermare che il bersaglio è stato centrato in pieno: il rocker della
Florida con una presenza scenica non da protagonista assoluto ma quasi come parte integrante
dei bravissimi Heartbreakers (soprattutto nelle persone del chitarrista Mike Campbell e del
tastierista Bemmonth Tench suoi sodali fin dagli esordi) snocciola per quasi 3 ore e mezza una
sequenza impressionante di classici della band (Even The Losers, Here Comes My Girl,
Breakdown, Refugee, Wildflowers, Jammin’ me, Lousiana Rain, Amercan girl, Free Fallin’) e cover
come I’m In Love (Bobby Womack), I’m a Man (Ellas McDaniel/Koko Taylor), Diddy Wah
Diddy (Willie Dixon/Ellas McDaniel), I Want you Back (Rod Argent), Friend of the Devil
(Grateful dead), Oh Well dei Fleetwood Mac e altre ancora. The live Anthology è la
rappresentazione scenica di quel rock americano che attraversando sempre “la strada principale”
ha prima o poi incontrato tutti senza mai deviare verso vie elitarie o malsane. Ci sono il folk rock
e la sana psichedelica dei Byrds con le Rickenbacker stampate nel cuore, il pop dei Beatles e dei
Zombies, i Rolling Stones, i Creedence Clearwater Revival, Bo Diddley, Willie Dixon,
Chuck berry, Buddy Holly, Dylan e se proprio vogliamo dirla tutta non mancano nemmeno gli
hit da radio FM. La caratteristica peculiare del biondo di Gainesville è l’approccio enciclopedico e
stakanovista, quasi da fan verso il rock’n’roll e la sua storia. Come disse anni fa il giornalista
musicale Bill Flanagan: “Tom Petty è un tradizionalista del rock. Per lui il più grande
insegnamento del rock è la continuità nel mutamento.”
Domenico De Gasperis
ML 34
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: THE CORONAS
TITLE:
Tony Was An Ex-Con
LABEL:
3ú Records
RELEASE: 2009
WEBSITE:
www.thecoronas.net
MLVOTE: 8/10
Sappiamo tutti quanti e quali fermenti di novità in campo musicale animino Dublino che, assieme
a Berlino, si può fregiare del titolo di capitale europea più giovane e dinamica sotto il profilo
culturale. Così, dalla capitale irlandese arriva l’eco del successo crescente che accompagna una
delle tante band emergenti che hanno stabilito il loro quartier generale in quel di Temple Bar: i
Coronas, quattro baldi giovanotti che tutti assieme nemmeno assommano a 90 anni, sono una
delle formazioni che vantano maggiore appeal nei circuiti frequentati dal popolo studentesco. Alla
fine di febbraio si sono aggiudicati con questo secondo album il Meteor Ireland Music Awards
2010 (l’equivalente del Grammy Awards americano e del Brit Awards inglese) come miglior Album
dell'anno, precedendo U2 (No Line on the Horizon) e Snow Patrol (Up to Now), ed erano in
nomination come Miglior Band Irlandese (il premio è andato ai Snow Patrol; e U2 sconfitti
ancora una volta e battuti anche come Miglior Act Live dagli Script). Insomma qualcosa di più di
una semplice affermazione, una sorta di piccola consacrazione per i Coronas, il giovane gruppo
capitanato da Danny Reilly, figlio di Mary Black, che ha in avvio gettato le basi del proprio
successo nell’area dell’audience studentesco, universitario e non, a Dublino e dintorni (un po’
com’è accaduto oltreoceano per Dave Matthews Band). All’inizio sono stati guardati con un
certo scetticismo dalla critica per questa realtà all’apparenza limitativa, mentre i sostenitori ne
hanno apprezzato la dimensione naive. Di sicuro i Coronas (che citano Beatles, Jeff Buckley,
Stone Roses e Radiohead tra i loro principali ispiratori) hanno beneficiato di una eccellente
spinta promozionale, che ha portato alcuni loro singoli in più che proficua “heavy rotation”
radiofonica. Ben poco nel loro sound può essere assimilato alla musica irlandese più tradizionale,
ma nulla ci vieta di individuare una certa continuità con il passato alla luce della considerazione di
avere cotanto genitori: Mary è la regina del vocalismo nell’isola di San Patrizio mentre il papà di
Danny, Joe, è titolare di un’etichetta discografica che divulga buona musica traditional. Insomma
difficile pensare che non si avvertano buone vibrazioni in casa. Il nuovo disco, registrato in
Cornovaglia sotto la supervisione produttiva di John Cornfield (è la cartina tornasole della
ricerca di un’identità più matura da parte della formazione), è più meditato ed è meritevole d’ogni
attenzione. La crescita artistica si coglie fin dalla traccia iniziale, Won't Leave You Alone, che
poggia su un pregevole lavoro della chitarra. Ad essere più maturo è soprattutto il vocalismo
“scuro” di Danny, il range espressivo cui sa arrivare. Pecca l’album solo di equilibrio: ha una
partenza a tutto gas mentre sul finire lascia perplessi per una serie di ballate piuttosto scontate,
come scontati sono i riff chitarristici che le sostengono. Destinato a convincere anche i più
riluttanti della loro bontà o della potenzialità che si prospettano all’orizzonte.
Luigi Lozzi
ML 35
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update n. 71
musica
ARTIST: UNDERWORLD VS THE MISTERONS
TITLE:
Athens
LABEL:
K7
RELEASE: 2009
WEBSITE:
www.k7.com
MLVOTE: 8/10
Amo le compilation, anzi chiamiamole antologie di autori vari (Antologia dal greco è raccolta di
fiori). Tante di queste negli anni ci hanno colmato di sorprese, facendoci assaporare artisti ed
etichette che altrimenti mai avremmo così apprezzato, oppure donandoci inediti dei nostri artisti
preferiti… Poi, le nostre Antologie, condensati del nostro animo, attraverso la musica che
ameremo per sempre, e che ci aiuta a vivere: quante ne abbiamo seminate per il mondo,
facendone dono agli amici ed alle ragazze? Amo la Radio, specie quelle rare volte che ti permette
di conoscere progetti altrimenti ignoti, ed ancor più quando sai che per caso sei capitato a
quell’ora su quella stazione, per ricevere quel dono inatteso! Era Dicembre, mi trovavo in viaggio
e, nel primo pomeriggio Radio 3 dedica un programma a questo CD: impossibile non coglierne la
ricchezza e la squisitezza dei contenuti. Come si evince dalle note di copertina, si tratta della
prima tappa di un percorso tra gli ascolti che Karl Hyde e Rick Smith hanno avuto l’opportunità
di fare in tanti anni di immersione nel mondo della musica grazie a familiari, amici, colleghi, DJ’s,
conoscenze attraverso la rete e, non ultimi, gli appassionati amanti della musica che lavorano nei
negozi di dischi (lunga vita ai negozi di dischi!). Non ci dilunghiamo sugli Underworld
menzionando solo le strepitose e seminali opere prime, “Dubnobasswithmyheadman” (1994)
e “Second Toughest In The Infants” (1996), chiariamo che The Misterons è un collettivo che
include loro stessi in una più ampia “famiglia creativa” e andiamo ad annusare i nettari e la
primizia che compongono l’album, 12 brani per circa 65 minuti che spaziano dal 1970 al 2009. Si
inizia con Journey In Satchidananda (feat. Pharoah Sanders) di Alice Coltrane: porte che si
aprono su porte, in un mantra che disvela free-jazz straniante; segue You know You Know della
Mahavishnu Orchestra, ancora primissimi anni ’70, per convincerci che i diaframmi tra vari stati
di coscienza sono quanto mai sottili e fragili, quanto impalpabili. Il brano successivo di
Squarepusher è un cammeo in onore al “giovane” talento che tanto ha riversato, nella musica
contemporanea, di quei patrimoni appena prima ascoltati. Poi c’è “Penny Hitch” (1973) dei Soft
Machine, un surrogato/condensato della pietra miliare “Out-Bloody-Rageous” (dall’album “Third”)
che come una cometa annunciava già in quegli anni gli sviluppi trance e triphop di là da venire.
Ma il balzo dalla poltrona te lo fà fare il brano seguente, “2HB” (1972), ed è un balzo diretto allo
scaffale dei vinili: dov’è? Anzi, dove sono Roxy Music e Four Your Pleasure primi due album
dei Roxy Music appunto, nei quali Brian Eno, Phil Manzanera, Andy McKay e Brian Ferry
donavano alla storia i nuovi stilemi del rock? Che brividi! Il percorso procede, via The Detroit
Experiment di Carl Craig, Moodyman, Osunlade e Underworld medesimi (eccellente Oh, la
loro traccia) a chiarire che il jazz è la madre della techno; a seguire Laurent Garnier va a ricercare le radici del tutto in Africa e di rimando Miroslav Vitous ci riporta in New York City,
crogiuolo delle culture, dove jazz, funk e disco si intrecciavano preparando il terreno a geni pronti
a dichiararsi al mondo, come David Byrne. Siamo così al brano finale, inedito, che porta la firma
di Brian Eno e degli Underworld stessi: Beebop Hurry, un brano nervoso, ribelle, ultramoderno,
urbano, incompiuto alla ricerca di una nuova forma/canzone che intenzionalmente lascia il
discorso, ops, il percorso in sospeso, perché, come già accennato, questa compilation avrà un
seguito. Come il nostro doppio incipit: “Amo le compilation. Amo la Radio”.
Gianluigi Palamone
ML 36
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: JOHN GRANT
TITLE:
Queen of Denmark
LABEL:
Bella Union
RELEASE: 2009
WEBSITE:
www.myspace.com/johnwilliamgrant
MLVOTE: 8/10
Alzino la mano quanti ricordano i Czars. Splendida, oscurissima band capitanata dal talentuoso
vocalist e pianista John Grant, posizionata più o meno tra Scott Walker, Mark Lanegan e
virate quasi dark. Io, uno tra i pochi italiani, credo, ad averli visti live (essì, supportavano The
Album Leaf, fecero cinque canzoni e aprirono con quella che poi scoprii essere Drug, che,
ovviamente, mi stese), non li ho dimenticati. Dopo il magnifico cover album Sorry I made you
cry, le notizie si fecero incerte e, complice la solita combinazione di abusi vari e frustrazione per
mancanza di riscontro economico e di pubblico, arrivò lo scioglimento, ma John Grant ha
continuato, grazie anche a qualche entità che dirige i nostri destini, a scrivere canzoni, e la sua
strada ha incrociato quella dei magnifici Midlake, compagni di etichetta (Bella Union), i quali si
sono perdutamente innamorati delle canzoni che John, nei momenti di resurrezione dal baratro,
proponeva dal vivo. Lo hanno preso e portato a casa loro, a Denton, Texas. Hanno interrotto le
lavorazioni del loro ultimo The courage of others per darsi da fare ad arrangiare, registrare e
produrre queste canzoni, che narrano dell’adolescenza di un giovane omosessuale in una cittadina
di provincia americana, abitata da rednecks razzisti e dispersa nel nulla. Ne esce, vivaddio, un
album a nome John Grant, intitolato Queen of Denmark, ed è semplicemente magnifico. Non è
cambiato granchè, nella scrittura di Grant. Propende sempre per il dramma puro, assoluto, lento,
pianistico, che dà alla sua voce incredibile modo di distendersi e vibrare. C’è, però, qualche
novità: scorre, sotterranea, una vibrante energia glam, propria di certe ballate di David Bowie,
dei lustrini di Gary Glitter, una sorta di grazia un po’ sguaiata, di trucco sfatto e serate vane
fatte di drink e sessualità adombrata di peccato e pentimento. Ci tranquillizza subito, il buon
John: si parte con tre slow (TC and the honeybear, I wanna go to Marz e Where the dreams go to
die) da brividi, che fanno subito accapponare la pelle: è qui, è lui, è tutto (o meglio niente) a
posto, ma gli andamenti caracollanti (che fanno pensare addirittura, con piano “battente”, al Paul
McCartney migliore, quello di Penny Lane) di Sigourney Weaver, Chicken bones explicit e Silver
platter club ci svelano un John Grant vizioso e lascivo, anche se sempre malinconico di un post
orgasmic chill o di down da coca, e la sintesi di queste anime si ha nella perfetta JC hates faggots
(dove la solita ballata è governata e condotta da solenni synth quasi space) e Caramel (dove il
nostro esplora i territori dove abitano Antony e Baby Dee).Bravissimi anche i Midlake. Disco
molto, molto grande.
Valerio Granieri
ML 37
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: IL DISORDINE DELLE COSE
TITLE:
S.T.
LABEL:
Tamburi Usati | Venus
RELEASE: 2009
WEBSITE:
www.ildisordinedellecose.it
MLVOTE: 6,5/10
Il Disordine delle Cose sono in cinque e vengono dal Piemonte. L'album, il secondo dal 2008, si
sviluppa su trame leggere, per conto di un pop d'autore ben strutturato da una cifra stilistica
riconoscibile, eppur figlia legittima di nomi conosciuti quali Perturbazione, Valentina Dorme,
Non Voglio che Clara e Amor Fou. Il filone di cui fanno parte è questo. Fra gli ospiti Gigi
Giancursi e Cristiano Lo Mele, componenti dei succitati Perturbazione che si sono occupati della
produzione artistica, ma anche Paolo Benvegnù, Marco Notari e Syria, colei che conferisce al
disco quel tocco sanremese, nel senso buono. Dopo un po' di ascolti la formula de Il Disordine
delle Cose si svela in tutta la sua purezza. I testi si fanno riconoscibili tanto che si canticchiano
alla fermata del bus, e si mandano a memoria
durante la lezione di psicologia mentre il
professore ampolloso tenta di spiegare Freud. "Io sono il capo, sono il migliore, la vera crema del
genere umano, sono il numero uno", inserita in Don Giovanni, cerca di connotare un senso di
"impegno" al disco, con un risultato apprezzabile. È una formula che alla lunga potrebbe mostrare
un po' la corda; forse non guasterebbe una piccola iniezione di adrenalina. Per adesso è più che
lecito godere di queste tredici tracce, più una bonus track, se quello che si cerca non è altro che
un gradevolissimo disco di canzoni pop.
Jori Cherubini
ML 38
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: FEVER RAY
TITLE:
S.T.
LABEL:
Rabid Records
RELEASE: 2009
WEBSITE:
www.myspace.com/feverray
MLVOTE: 8/10
Propongo a tutti gli amici di Musicletter di differenziarci dalle altre testate, e dal giornalismo del
“non è mai troppo presto”, procrastinando di almeno 5-6 mesi (quindi a subito prima dell’estate)
la pubblicazione delle nostre scelte su “The Best” dell’anno precedente. Sarebbe un ottimo
incentivo per qualche acquisto di recupero per l’estate, e anche un modo più razionale e completo
di assimilare il meglio che ci possa essere capitato di cogliere nel campo sterminato di uscite,
l’anno prima. Mi eviterei così di incoronare ex-post, a pari merito con Franklin (“Every Now and
Then” Wool Recordings), come miglior album del 2009 Fever Ray , progetto solista, a lunga
gestazione, di Karin Dreijer Andersson. Costei insieme al fratello Olof sta svolgendo gran parte
della propria carriera nel progetto The Knife, piuttosto sottovalutati, ma che ancora non conosco
se non per la recentissima uscita del doppio CD Tomorrow, In A Year, pura avanguardia di
musica concreta, lirica, techno/dark, un’esperienza dura ed affascinante, non c’è che dire. E di
certo tutti i germogli di tale svolta evolutiva sono seminati in questa opera solista di Karin,
ricettario di antica saggezza per una preparazione al futuro, in musica. Fever Ray, disponibile in
3 formati: standard con 10 brani (si può beccare in economica); doppio con 2 bonus tracks e DVD
con 5 video (valore assoluto); triplo con, rispetto al precedente, l’aggiunta di Live in Lulea,
performance dell’album in cui K. Dreijer Andersson rimette in ordine la track list del CD in
studio, alterata dalle bonus tracks. Inutile davvero “stilare” i singoli brani, ognuno di voi potrà
piuttosto “distillare” a piacere nell’ascolto straripetuto, come capitato a me. Volete sapere come?
Ecco. Mi accade nel 2010: il video di When I Grow Up captato distrattamente su Brand New
(MTV), uno stillicidio di recensioni oscure ma promettenti, lo compro! Mi rapisce. Ecco, i dischi
memorabili sono come questo: lo ascolti tutto, ti piace tutto (video compresi), ogni volta
qualcosina in più… e poi dici: cavolo (!) vita da sciamani, l’energia della Terra, e dell’Acqua; le
ombre e la rovina delle case antiche, lo specchio riflettente delle nostre emozioni; il Fuoco che
traduce l’Aria in stille di musica arcana, due voci che cercano l’esegesi delle nostre esistenze.
Tutto troppo bello per non tradursi in preghiera, incanto. Memoria. Come quando l’ultimo brano
Coconut ti lascia con il lusso del già sentito (NB: non si tratta di sampling, ma di emozione)
quando riaffiora alla mente Decades dei Joy Division. Fidatevi, amici, e attendiamo insieme (vedi
copertina) che la Signora della Scandinavia si concentri e, distanziando piano i palmi delle mani,
faccia vibrare a meraviglia lo spazio/tempo e chissà quali altre dimensioni.
Gianluigi Palamone
ML 39
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: THE JAI-ALAI SAVANT
TITLE:
Flight of the Bass Delegate
LABEL:
City Slang
RELEASE: 2007
WEBSITE:
http://savant.paintthesky.org
MLVOTE: 7/10
Vorrei fare un esperimento alquanto anomalo, almeno in campo giornalistico, che servirebbe da
cartina al tornasole per valutare la capacità di noi recensori nell’invogliare l’acquisto di un disco
sconosciuto al lettore. Il gioco è semplice e consiste nel mandare una mail al sottoscritto
all’indirizzo [email protected] e io vi spedirò gratis a casa il disco in questione (solo alla prima
persona che mi contatterà perché di cognome non faccio Paperoni). Ovviamente niente parenti,
amici o collaboratori, solo persone che in queste poche righe capteranno qualcosa e vorranno
approfondire delle semplici parole gettate sullo schermo (prima però passano su carta,
sono
legato al rumore della matita sul foglio) ricevendo in regalo un elegante digipack da girare e
rigirare fra le dita e nel lettore. Flight of The Bass Delegate si muove su binari
rock/reggae/punk/dub ed è l’unico parto discografico di The Jai-Alai Savant, gruppo capitanato
dal chitarrista di colore Ralph Darden. È un disco anomalo perché riesce a fare quello che i
Clash hanno fatto in Sandinista, mischiando gli scatti d’ira punk dei Bad Brains e le rilassate
melodie jamaicane filtrate dal pop dei Police, suonando talmente attuali da paragonarli ai TV on
The Radio. Potere delle canzoni con melodie killer (Arcane Theories, White On White Crime),
degli intermezzi dub che seguono le onde del mare (Transmissions From The Dub Delegate) e
della capacità di non seguire nessuno schema se non quello dell’istinto. A voi ora seguire il vostro.
Aspetto con ansia una vostra lettera elettronica.
Nicola Guerra
ML 40
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: REMO REMOTTI
TITLE:
Canottiere
LABEL:
ConcertOne
RELEASE: 2005
WEBSITE:
www.myspace.com/remoremotti
MLVOTE: 8/10
Ognuno ha il suo filosofo preferito. Socrate, Engels, Marx, Platone, Machiavelli, Kant,
Shopenhauer. A ognuno il suo. Il mio è Remo Remotti. Perché è spiccio, schietto, anche
brutale, e parla di cose talmente vere che ti pare di vedertici dentro, come uno specchio dei nostri
tic, delle nostre manie, delle nostre ossessioni, delle nostre paure. Il sesso, il tempo, la guerra, la
mamma, le donne, la proprietà privata, la televisione, le perette (“era così che mia mamma me lo
metteva nel culo. Anzi, nel culetto”), i Tampax, le seghe. Remo nasce borgataro ma diventa
subito artista a tutto tondo. Pittore, scultore, attore, poeta e canottiere. A farlo diventare
“cantante” ci pensano due “non musicisti” come Emilio Loizzo e H501, in arte Recycle. È il
1997 e lui ha incontrato un po’ di gente, nella sua vita sregolata che ha già visto più di settanta
capodanni: Nanni Moretti, i fratelli Taviani, Nanni Loy (del quale sposò la moglie Maria Luisa
nel 1960, NdLYS), Carlo Verdone, Marco Bellocchio. Recycle è dunque il barcone dentro cui
Remo si nasconde per sbarcare sulle spiagge delle nuove generazioni. Lo fa da clandestino, senza
averne consapevolezza eppure (Mamma) Roma Addio, uno dei suoi monologhi più celebri, sbarca
nei club facendo diventare Remotti un personaggio di culto anche per il popolo alternativo che in
quegli anni sta riempiendo le sale attirata dalle nuove musiche digitali, il trip hop, il big beat, la
jungle. Il tappeto elettronico steso sotto le imprecazioni di Remo sono perfette per fare breccia. Il
Remotti cantante nasce lì. Il suo primo disco esce tuttavia molto dopo, a ottanta anni suonati,
raccogliendo 21 frammenti dei taccuini zeppi delle sue osservazioni sul mondo, su se stesso e
sugli altri. Il pezzo con i Recycle è, ovviamente, il “singolo”, l’apripista, ma quello che segue non
è da meno, anche se ad accompagnarlo sono altri, ovvero la fida chitarra di Paolo Zanardi dei
Borgo Pirano e il sampling di Giorgio Spada. Ci sono momenti esilaranti e, ovviamente geniali.
Come Sesso e matematica dove, con due calcoli facili facili, si rivaluta il valore specifico delle
seghe. Non quelle dei falegnami, quelle di tutti gli altri. Oppure Professionismo e non, dove si
ridistribuiscono gli spazi tra lavoro e hobby. Tra chi puttaneggia per l’uno e chi lo fa per l’altro.
Tutto giocato con un’abilità linguistica e arricchito da un uso del paradosso creativo, acuto,
ingegnoso. Anche quando si lambisce il territorio della parolaccia, non si tocca mai il triviale di
bestie come gli Squallor. Perché è l’onestà politicamente scorretta di Remo a galleggiare su
tutto, il suo sapore autentico da barbone un po’ coatto. Come quelli che per un dollaro ti
raccontano una barzelletta per le strade di New York. Solo che Remo te la racconta con tutta la
forza espressiva tipica del romanaccio un po’ boccaccesco e, come quando ti alzi da Cencio dopo
esserti sorbito per trentavolte che sei un procione e la dama che ti siede accanto una bocchinara,
alla fine sei pure contento di pagare. Poi ci sono le amare ma sempre aguzze e riflessive
dissertazioni di Vita e Morte e Tempo (“voi correte…ma dove correte? Non sapete dove andare, e
ci volete arrivare di corsa?”) e un mare di brani ispirati o dedicati alle sue donne, reali e presunte:
Silvana, Mia, Rosa, Rossella, Antonella, Barbara o la Marcella di Tampax d’artista e qualche
variazione sul “tema principale” come Me ne vado dalle cattive notizie, La mamma e Me ne
andavo da Roma. Oppure la bella visione artistica di Noi non riusciamo più a vedere. Se state
preparando il vostro consueto pacchetto di dischi da viaggio, lasciate a casa le pernacchie digitali
dei Radiohead e le chitarre tritaballe dei Naam che tanto dopo venti minuti vi viene il
voltastomaco, e mettete un disco che può farvi veramente compagnia. Dentro l’abitacolo e dentro
la vostra pancia.
Franco Dimauro
ML 41
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: LIFT TO EXPERIENCE
TITLE:
The Texas Jerusalem Crossroads
LABEL:
Bella Union
RELEASE: 2001
WEBSITE:
www.myspace.com/officiallifttoexperience
MLVOTE: 9/10
A volte i dischi si accodano. A volte inventano abbastanza, mischiando diversamente ingredienti
conosciuti. A volte, anche con questa modalità, creano mondi. Un paragone: chiedo un grande,
grandissimo sforzo immaginativo. Punto imprecisato del continuum spazio-tempo. Morrissey è
nato in Texas, è ossessionato dalla religione e dagli inni, si è perso nel deserto, adora gli U2 ma
con se ha un iPod miracolosamente funzionante in cui girano Cocteau Twins e Mono. Ah,
ovviamente è cresciuto a pane e 13th Floor Elevators e ha una chitarra elettrica con una
batteria di delay, chorus, ampli Lesile (la sa suonare, ovviamente). Riuscite a immaginare il disco
che scriverebbe? Non serve, eccolo. Lunghe litanie fragili, preghiere, invocazioni all’Altissimo,
figlie dell’epos dei primi U2 e dei tintinnii post-rock migliori, cantate con una fragilità totalmente
esposta, assoluta, che divengono mantra figli degli Spacemen 3 e degli Spiritualized, ma con
quel senso di precarietà e incertezza border, desertico, dell’uomo che si perde, del viaggio, e di
quanto conti più il percorso che la meta. Poi c’è il concept, un delirio a base di Armageddon,
Texas come terra promessa (in fondo cosa sono gli USA, se non il centro di JerUSAlem?stupidi noi
a non capirlo), rivelazioni dal Cielo, angeli che arrivano, profeti che accompagnano; i due CD,
uno denominato Texas e uno Jerusalem, i cui titoli letti tutti consecutivamente formano frasi di
senso compiuto (Just as was told/down came the angels/falling from cloud 9/with crippled
wings/waiting to hit/the ground so soft, per Texas; These are the days/when we shall touch/down
with the prophets/to guard and guide you/into the storm per Jerusalem). Poi, ovvio, ci sono le
canzoni. Canzoni come non ne avete mai sentite, giuro, se non nella vostra testa. Una preghiera
disperata ma ferma, tremante ma nel contempo sicura, cantata da Morrissey e suonata da un
gemello posseduto di The Edge, con quel senso di precario proprio della poetica del confine, e
dell’uomo che lo guarda nella consapevolezza di non poterlo raggiungere. Del resto bisogna
essere veramente speciali per essere cowboy di Denton, Texas, e far innamorare Robin Guthrie
e Simon Raymonde al punto da veder campeggiare sul cd il logo Bella Union e e avere il disco
mixato da loro. Josh Pearson (vocals/guitar)è spesso in tour. Non suona più queste canzoni,
gira per lo più da solo e ha una barba chilometrica. Non ha più inciso dischi, se non qualche ultra
limited edition dal vivo, che vende in quella sede. Forse s’è perso. Ecco il suo viaggio. Non trovo
le parole. Prendete e ascoltatene tutti.
Valerio Granieri
ML 42
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: CESARE BASILE
TITLE:
Stereoscope
LABEL:
Universal
RELEASE: 1998
WEBSITE:
www.myspace.com/cesarebasile
MLVOTE: 7,5/10
Quando dedicai su Musicletter uno sguardo critico alla discografia di Cesare Basile lasciai
polemicamente una casella vuota, quella che doveva essere riempita da Stereoscope, il secondo
album dell'artista catanese di casa (anche) a Milano. Il disco era introvabile da anni, una vera
chimera. Anche ai tempi in cui uscì non era propriamente in vetrina nei negozi, anzi. La Universal
lo ha appena ristampato e anche stavolta pare destinato a un'accoglienza misera. Non è la qualità
della musica a non andare bene; anche in questo caso, come in tutti gli altri raccontati, si parla di
un disco poco meno che grandioso. La brutta notizia riguarda la cervellotica operazione
commerciale. Per comprare quest'agognata pepita, dopo anni di oblio, dovrete infatti sborsare
29,9 euro perché Stereoscope è inserito in un cofanetto di 6 cd del vecchio catalogo Black Out
insieme a cose che probabilmente già avete o che probabilmente non vi interessano (Luciferme,
Madaski, Africa Unite, Giovanni Lindo Ferretti, Soon); quindi "in solitario" non si trova, e la
versione uscita è rilegata, anzi relegata, in una bustina di cartone senza libretto. Detto questo,
Stereoscope è un disco di passaggio che porta un Basile ancorato alla scena rock italiana del
tempo, con tanto di suoni pieni e potenti in linea con le produzioni degli altri grandi eroi di quegli
anni (Flor De Mal, Scisma, Estra, Lula), verso la maturità del capolavoro Closet Meraviglia e
delle successive gemme che lo hanno incoronato re della musica d'autore indipendente. Ci sono
chitarre zeppeliniane, momenti elettroacustici e una verve che rendono l'album brillante e
viscerale, di certo meno ambizioso di ciò che sarà ma ugualmente urgente e necessario. In questo
periodo storico Basile urla il suo sarcasmo, non fa ancora parlare le pause e i dettagli, ma è un
gran bel sentire da parte nostra. Finisce anche un'epoca, quella del Cesare Basile che ha il
suono di una band rock pur firmandosi come solista; Paolo Benvegnù, più o meno nello stesso
periodo, staccherà nettamente dagli Scisma affermandosi come artista di culto. Lo stesso farà
anche Giulio Casale per quanto riguarda gli Estra. Non è più un paese per giovani, l'Italia, ma la
maturità di questi signori è quanto di meglio potessimo volere. Senza dimenticare però di
riscoprire, così tardi, una meraviglia come Stereoscope.
Marco Archilletti
ML 43
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: KARATE
TITLE:
The Bed is in the Ocean
LABEL:
Southern
RELEASE: 1998
WEBSITE:
www.myspace.com/karateband
MLVOTE: 6/10
Sapete chi sono i “sordi” più famosi del rock? Pete Townshend. Certo, e Lemmy. Ovvio. Aveva
pure scritto una canzone intitolata Deaf Forever… E, credeteci o meno, Geoff Farina. Ahahah. Ma
come avrà fatto? Cioè, diventare sordi con la musica dei Karate è un po’ come diventare ciechi
leggendo le insegne dell’Autogrill. Per carità, non c’è nulla da ridere. Però è difficile pensare ai
Karate come a una delle band più rumorose del mondo, perché in effetti non lo sono stati. Anzi,
piuttosto una silenziosa via al rock degli anni Novanta. Quello di fine decennio, quando tutti
cominciarono a spegnere gli amplificatori, a rimodulare i gain, a ridisegnare il rock partendo dalla
strada opposta a quella del grunge e del rumorosissimo crossover del primo giro di boa.
Finiranno a flirtare con il jazz da camera, giocando con le ombre, ma i Karate di The Bed is in
the Ocean sono ancora una band che vale la pena buttarsi addosso, lasciare dilagare nei silenzi
della nostra camera. Silenzi talmente assordanti che, come dicono loro “possiamo sentire che il
frigo è acceso”. In assoluto, assieme ai “cimiteri di appendini” di Capossela la definitiva
dichiarazione di una solitudine estrema, asfissiante. Il rumore delle cose quotidiane che fanno eco
al battito solitario del nostro cuore: esiste un dolore più devastante? The Bed is in the Ocean è
uno dei dischi-chiave della breve stagione emo-core, quella in cui il suono di derivazione punk e
indie rock si infilava nelle viscere dell’accidia indolente e pigra del proprio dolore, senza cercare
una via di fuga ma trovandone una compiacenza complice e ignava. Una apatia che si srotola
lenta dalla stanza di Geoff Farina e tracima avvolgendo anche noi. I movimenti sono lenti,
annoiati, appesantiti da un tedio che non è più personale ma generazionale, universale. Sembra
di poterci sprofondare, ed è questo che lo rende indisponente, ben oltre la soglia di tolleranza. Da
questo momento in poi la musica dei Karate comincia a perdersi in cerebrali, smisurate cadute di
gusto che ne appesantiscono la forma e la rendono sempre più simile a quel cliché che
degenererà presto sui dischi successivi. Succede già qui dentro, a partire da The Same Stars con
quell’interminabile serpente di assoli che Geoff vorrebbe funzionali alla rassegnazione inerte
tratteggiata dalle liriche e che invece diventano fastidiosi come cappelli di feltro sotto il sole di
Agosto. Più avanti è Up Nights a farci temere che i Karate si stiano trasformando nella band di
Eric Clapton, e le paure non si dimostreranno infondate. Poi però succede pure che un pezzo
come Diazapam ha quegli scatti nervosi e quell’ impeto da piccola città in fiamme che torna a
farceli amare davvero, per essere riusciti a far suonare i Police come fossero i Fugazi o
viceversa, oppure che gli elastici lenti di Bass Sounds siano esattamente familiari come quelli del
nostro pigiamone preferito e che sia confortevole lasciarseli scivolare addosso. Succede che The
Bed is in the Ocean, pur nella sua palese caduta di stile, rimane una piccola ancora arrugginita
nei fondali marini dell’ indie rock degli anni ’90.
Franco Dimauro
ML 44
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: WORLD PARTY
TITLE:
Goodbye Jumbo
LABEL:
Papillon | Chrysalis Records
RELEASE: 1990
WEBSITE:
www.worldparty.net
MLVOTE: 8/10
Non so quanti di voi ricorderanno i World Party di Karl Wallinger ma per chi scrive il progetto
solista dell’ex Waterboys rappresenta, a distanza di due decenni, uno dei punti di riferimento di
quel movimento d’estrazione Sixties che, a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e gli inizi degli
anni Novanta, avrebbe contribuito alla nascita del Britpop alla stregua dei suoi più illustri
rappresentanti quali La’s, Stone Roses, Blur, Verve e Oasis. L’opportunità della riscoperta dei
World Party, e in particolar modo di Goodbye Jumbo, ci è data non tanto dalla celebrazione del
suo ventesimo anniversario quanto, invece, da una più che casuale e banale riorganizzazione
primaverile dei miei “materiali sonori”; gradevole passatempo che spesso mi fa riportare alla luce
gemme di ordinaria bellezza inghiottite dal tempo e dimenticate dai critici. E qui scattano le
domande. Sarà forse che l’indie cultore a forza di scavare il “fondo del barile” rischia di trascurare
certi lavori così belli e così straordinariamente popolari? Oppure sarà colpa di un retaggio
culturale che nel corso degli anni, vuoi per svogliatezza, vuoi per consuetudine o vuoi ancora per
un eccessivo atteggiamento anticonformista, ci ha portato a omettere di default certi piccoli
capolavori? Mah... Comunque, al di là della ricerca di una spiegazione ben precisa, ciò che risulta
evidente è che Goodbye Jumbo è uno di quei dischi che molti recensori hanno relegato
nell’oblio. Non a caso infatti, soprattutto in quest’ultimo decennio, non si è fatto altro che
produrre e tessere lodi sperticate per dischi perlopiù carini ma spesso manieristici e irrilevanti. Un
comportamento che ha generato confusione e che ci ha fatto ignorare fatiche discografiche ben
più rilevanti come, appunto, questo secondo album del multistrumentista gallese che, tre anni
dopo Private Revolution, realizza uno dei lavori più cristallini del british sound e di quello che
oggi potremmo tranquillamente definire “pop contemporaneo”. Composto, suonato, arrangiato e
naturalmente cantato dallo stesso Karl Wallinger, Goodbye Jumbo è l’opera migliore di un
artista che in un solo colpo riesce a frullare i Beatles, Donovan e Prince mettendo in luce
melodie a tutto tondo poggiate su basso/batteria/chitarra e capaci di riempirsi anche di spunti
orchestrali, cori, sonorità sintetizzate e battiti elettronici. Con questo disco Wallinger scrive testi
di protesta ambientalista (del resto lo si può intuire già dalla sua immagine di copertina) che,
tuttavia, non perdono mai la speranza per il futuro e che oltretutto sanno parlare al cuore e all’io
più profondo. Basta ascoltare canzoni come Way Down Now, Put The Message In The Box, Take It
Up e Love Street e vi renderete conto che difficilmente riuscirete a togliervele dalla testa.
Luca D’Ambrosio
ML 45
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: THE FUZZTONES
TITLE:
Lysergic Emanations
LABEL:
Pink Dust
RELEASE: 1989
WEBSITE:
www.fuzztones.net
MLVOTE: 9/10
I Fuzztones nel 1984 sono la più grande garage band in azione. Un’abrasione sul culetto liscio
dei frocetti che in quegli anni si inzuppano lo slippino con le merdate di Heaven 17, Thompson
Twins, Level 42, Go West e ABC. Garage punk, cultura trash (zombie-movies, fumetti,
supervixen e quant’altro), ghiandole surrenali che secernono testosterone, estrogeni, adrenalina,
gonadi che lavorano a ritmo esasperato, producendo tutto quello che vi permette di stare a letto
con la tivù spenta e con poche coperte. Chi ebbe la fortuna di vederli dal vivo sa di cosa sto
parlando: una macchina da sesso e rock‘n’roll, che scende dal palco a fatica, dopo prolungati e
ripetuti orgasmi sul ventre del rock‘n’roll che Rudi Protrudi si è portato a letto per le sue
polluzioni giovanili: Seeds, Sonics, Love, Link Wray, We the People, Cramps, Stooges,
Haunted, Count Five, Music Machine e quelle centinaia di minuscole band di cui tutti nel giro
di qualche mese ci troveremo a parlare e che allora conoscono in pochissimi: Bees, Bold,
Human Expression, Tropics, Chob, Outcasts, Gonn, Calico Wall... Lasciate perdere
Wikipedia, non vi aiuterà. Deb O’Nair è una delle ragazze che segue Rudi con costanza e
libidinoso interesse, sin dai tempi dei Tina Peel, dei Dognappers e dei Possum Boys. Rudi se
la porta prima a letto, poi nella primissima line-up dei Fuzztones. Michael Jay e Ira Elliott
sono reclutati tra le fila dei Drive-Ins, una band di rockabilly esasperato che gira per i locali di
New York. Sono loro a convincere Rudi a riformare i Fuzztones dopo il fugace primo tentativo
conclusosi nel 1982. La gente sputava a terra e qualche volta anche sul palco, se suonavi i
Sonics nel 1982, e questo è bene ricordarselo. Michael e Ira portano con loro un amico: si
chiama Elan Portnoy. Nascono così, i Fuzztones “storici”. Fanno tre dischi dal vivo e uno in
studio. Se avete inseguito un qualche cazzo di sogno rock‘n’roll nella vostra vita c’avete sbattuto
il muso di sicuro. Io glielo sbattei quando avevo quindici anni e mi fanno ancora male le gengive
ogni volta che lo risento. Il disco si apre con 1-2-5: brevissimo e incisivo attacco della batteria in
4/4 e armonica che gli si attacca subito alle ossa, bucando le casse, poi si va avanti così, tra
ficcanti fraseggi di chitarra fuzz e di armonica. Io che allora ero ignorantello in materia pensavo
fosse un pezzo loro. I grandi esperti dell’epoca invece mi fecero sapere trattarsi di un pezzo degli
Haunted. Scoprì poi che molti degli esperti erano tali solo perché lavoravano dentro grandi
negozi di dischi. Avessero lavorato in un salumificio avrebbero saputo tutto sui salamini Negroni.
Io invece dei salumi Negroni conoscevo solo la musica dello spot. Del garage punk avrei imparato
tutto negli anni successivi, senza lavorare nei negozi di dischi ma scavando con la pala.
Scoprendo tra l’altro che gli Haunted facevano pure una bella cover in francese di Purple Haze e
che avevano inciso questo pezzo con un testo leggermente diverso rispetto a quello dei
Fuzztones. E anche rispetto al loro, a dirla tutta: lo avevano dovuto spurgare per non incappare
nelle maglie della censura. Jurgen Peter concederà il testo originale ai Teeny Boppers, 43 anni
dopo, ma questa è una storia che non vi riguarda. A ruota seguono altre due cover.
ML 46
musicletter.it
update n. 71
musica: the fuzztones
Anche queste rese con una forza impressionante. Perché i Fuzztones non sono i Chesterfield
Kings. A loro non interessa suonare come una garage band del ’66, a loro serve appropriarsi di
quell’energia, e sboccarla sul pubblico. Il primo pezzo originale è Ward 81, in assoluto il primo
brano dei Fuzztones a essere documentato su disco. Esce infatti nel 1983 su The Rebel Kind, la
compilation su cui debuttano al fianco di Unclaimed, Slickee Boys, Nomads, Miracle
Workers, Plasticland e qualche altro bel nome dell’epoca. È un pezzo che parla di case di cura,
accompagnato da un video eccezionale che i Ramones avrebbero più tardi saccheggiato per
Psychotherapy. A chiudere la prima facciata altre due cover: Strychnine è il primo dei due omaggi
ai Sonics (e il primo dei due pezzi aggiunti alla versione originale dell’ album che di questa e di
As time‘s gone era orfana, NdLYS). Introdotta dall’organo Vox di Deb, è un assalto al rock‘n’roll
lercio dei ragazzacci di Tacoma. Radar Eyes è uno spiritato pezzo dei Godz, una delle più
misconosciute band di rock eccentrico degli anni Sessanta, provenienti proprio da New York. Una
martellante litania psichedelica, marziana e psichiatricamente instabile. Sono di nuovo i Sonics
ad accoglierci, sulla seconda facciata: è una versione devastante di Cinderella con l’armonica di
Rudi spinta in un assolo micidiale. Il secondo originale del gruppo ha ancora un numero nel
titolo: si chiama Highway 69, un pezzo dilatato e morbidamente psichedelico che nasce col titolo
di Fabian Lips e un ingenuo pigiamino di fiati, ai tempi dei Tina Peel. Il pezzo successivo è una
cover a metà, o un originale a metà, se preferite. Rudi lo ruba a una minuscola band della
Pennsylvania che ha conosciuto ai tempi dei Tina Peel. Si sono battezzati Punk Rock Janitors su
suggerimento dello stesso Protrudi e hanno scritto una manciata di pezzi. Just Once è uno di
questi. I Fuzztones se ne appropriano e ne fanno la loro versione. Onirica, avvolgente. Si apre
come The Killing Moon di Echo & The Bunnymen e prosegue come The Killing Moon di Echo &
The Bunnymen, ma io adoro quel pezzo e non posso non amare Just Once, comprese le
nacchere che ogni tanto arrivano a spezzare l’aria. She‘s wicked è l’ultimo dei pezzi scritti dai
Fuzztones, l’unico scritto proprio per l’album, avvolto in quest’aria macabra da horror movie di
serie Z evocata dalla copertina disegnata dallo stesso Protrudi. Un classico tra i classici, per il
garage rock degli anni Ottanta. A chiudere, altre due cover sconosciute: As time‘s gone è un
pezzo dei Tropics, la band della Florida che spaccò il culo a più di 1000 band durante
l’International Battle of the Bands di Chicago nel 1966, Tommy James and The Shondells
compresi. A me la versione dei ‘tones piace più dell’originale. Credo che basti. A chiudere una
pepita delle Pebbles, un malatissimo pezzo dei Calico Wall che i Fuzztones rendono
esasperandone il tono raccapricciante e condendolo con un pianto di donna che penetra dentro le
viscere mettendo a disagio l’ascoltatore. Lysergic Emanations resta l’insuperato e bruciante
testamento del sixties punk. Per gli anni Ottanta, per gli anni Novanta, per gli anni Zero, per il
decennio che ci siamo lasciati alle spalle e per tutti gli altri che verranno.
Franco Dimauro
ML 47
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: HÜSKER DÜ
TITLE:
Warehouse: Songs And Stories
LABEL:
Warner Bros.
RELEASE: 1987
WEBSITE:
www.myspace.com/flipyourwig
MLVOTE: 9/10
Il rock alternativo americano degli anni Ottanta è un tavolo che si regge su quattro gambe: Sonic
Youth, Pixies, R.E.M. e Hüsker Dü. Provate a tagliarne uno e vi crollerà addosso buona parte di
quello che fu l’indie rock di venti anni fa. Warehouse aveva le colonne anche sulla copertina, e
ho detto tutto. Che bella storia quella degli Hüskers! Che grande, bella, fottuta storia! Un
chitarrista con la faccia da bombolone alla crema di arachidi, un batterista coi capelli unti come
quelli di un hippie, un bassista con dei baffi da camionista messicano che saltano in groppa a un
selvaggio mustang che sputa vapore dalle narici e polvere da sotto gli zoccoli e finiscono per
addomesticarlo senza sbalzare dalla sella, addolcendolo un po’ alla volta. Una storia cominciata a
sputi in faccia e finita a sputi in faccia. Prima sul pubblico, poi tra di loro. In quattro anni e cinque
dischi (dei quali due doppi, NdLYS) gli Hüsker Dü hanno cambiato la faccia del punk. Lo hanno
riempito di schiuma da barba, lo hanno rasato e quando alla fine lo hanno messo davanti allo
specchio non era più lui. La rivoluzione comincia a casa. Preferibilmente davanti allo specchio del
bagno. Proprio così, ma quando esce Warehouse: songs and stories, la rivoluzione degli
Hüsker Dü è finita, e loro ne sono usciti comunque vincitori. Hanno ridefinito le coordinate del
suono punk e sono stati i primi figli di puttana della scena indipendente a varcare la porta di una
major, venire accolti dalla receptionist in calze a 8 den e dal pappone di turno che ti offre un
sigaro cubano. Anzi, tre. Qualcuno li odierà per questo. Qualcuno ci scriverà pure un’orribile
canzone (Middle dei Fifteen, NdLYS) che tutta intera non vale un solo accordo della chitarra di
Mould. Per la Warner incidono due dischi che sono il preludio alla fine, e anche alla tragedia: le
tensioni tra Bob Mould e Grant Hart sono diventate insanabili, acuite dall’uso smoderato di
eroina e del metadone che Grant usa nelle pause tra una pera e l’altra. Non sono gli unici ad
avvertire la pressione. Dietro di loro c’è il loro manager che cerca di ricucire ciò che ricucibile non
è: Warehouse esce a Gennaio del 1987, il 7 Febbraio David Savoy completa le ultime piccole
cose perché i ragazzi non abbiano problemi durante il tour, contatta gli agenti, i locali, gli
alberghi. Fa una telefonata ai ragazzi per augurare loro un “in bocca al lupo”. Scende le scale,
prende la macchina, accosta, e salta giù da un ponte mentre i ragazzi preparano i bagagli per
l’ultima tournèe. Warehouse: songs and stories, testamento della loro bruciante avventura, è
un album disgiunto. Anche senza farsi suggestionare da quello che succede negli equilibri della
band, perché tutti i dischi degli Hüsker Dü vivono di questa dicotomia, di queste due facce che
sono gli identikit di Mould e di Hart. Il primo scrive robuste ballate power pop inzuppate nel
rumore, anthemiche e amare. Scrive quasi sempre al passato. Hart ha una scrittura meno
incisiva, più complessa, dissonante ma con meno artigli.
ML 48
musicletter.it
update n. 71
musica: hüsker dü
Non scrivono insieme, mai. Non solo non riescono, ma non sopportano l’ idea che qualcuno possa
modificare le idee dell’altro. Si dividono le quote su ogni disco, come fossero porzioni della loro
stessa vita. Non sono una band, eppure sono la band più perfetta del mondo. C’è un’ostilità
montante
ma
creativa.
Mould
e
Hart
scrivono
canzoni
perfette,
ma
non
sono
Lennon/McCartney, né Jagger/Richards, né Strummer/Jones. Sono Bob Mould e Grant
Hart. Due animali che condividono lo stesso fienile e adesso davvero per l’ultima volta. Mould
non sbaglia un colpo. È sua la “metà” che pesa di più, e non solo per le banali questioni di
percentuali che Grant Hart chiamerà ripetutamente a sua difesa. These important years,
Standing in the rain, Ice cold Ice, Could you be the one?, Visionary, Bed of nails. Se ci avete
rinunciato, vi siete negati una bella porzione di canzoni da poter cantare con le lacrime agli occhi
sotto una pioggia di rumore. In compenso, scommetto, vi siete fatti abbindolare da qualche abile
venditore senza scrupoli che vi ha venduto l’emo-core come il punk dell’anima. Senza accorgervi
che nelle sue bocce di merda d’autore non c’era né il primo né il secondo. I pezzi di Grant, come
da tradizione, sono più sgranati, hanno un guscio più molle ma spendono in zuccheri quello che il
compagno invece sborsa in vitamine, dalle campanelline che risuonano lungo Charity, Chastity,
Prudence and Hope e She floated away al pop alla Buddy Holly di Actual Condition ai passi
marziali di You ‘re a soldier e Tell you why tomorrow. Sono due anime scollate, come sempre.
Che però stanno ancora lì, in quella casa burrascosa e nemica a entrambi. Come una coppia di
separati in casa. Non un doppio album, ma un album doppio. Dentro, c’è tutto il disincanto di chi
è cresciuto con certezze che cominciano a crollare una dopo l’altra, facendoti il vuoto attorno e
seppellendoti di macerie. Niente è per sempre, neanche la tua band del cuore. Effimera e precaria
proprio quando tu la credevi essere lì per sempre. Magari solo per te. Le colonne doriche della
bottega degli Hüskers si sbricioleranno di lì a poco, e io non riesco ancora a liberarmi dalle sue
rovine.
Franco Dimauro
ML 49
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: THE SISTERS OF MERCY
TITLE:
First And Last And Always
LABEL:
Merciful Release
RELEASE: 1985
WEBSITE:
www.thesistersofmercy.com
MLVOTE: 7/10
C’è un momento preciso in cui la musica dark si trasforma in musica gotica. Un momento che è il
primo, l’ultimo e per sempre ed è l’11 marzo del 1985, quando arriva nei negozi il primo album
dei Sisters of Mercy, il disco che trasforma il sogno dei Cult di Dreamtime in un incubo horror.
Preceduto da una sfilza di singoli che ne diffondono il culto tra gli orfanelli dei Joy Division che
ne accettano la candidatura a eredi legittimi anche davanti a una sfacciata copia cinetica di She‘s
lost control come Body Electric, First and last and always accende nuovi entusiasmi tra i tenebrosi
darkettini trasportati dai Cure dentro le discoteche del vecchio continente e poi lasciati lì a
marcire. Le vendite per corrispondenza di Inferno & Suicidio e World‘s End hanno una nuova
impennata. L’ultima. C’è una nuova smorfia d’angoscia che attrae i cuori di tenebra e che per un
po’ raggela le viscere, facendo leva su due tratti essenziali della loro musica e che da lì in avanti
sarà il marchio di fabbrica di tanta goth music cannibale e ne permetterà l’infiltrazione nelle
maglie della musica industriale e del metal. La voce di Andrew Eldritch innanzitutto.
Catacombale, oppressiva, glaciale, doomy. Come uno Ian Curtis seppellito vivo, e poi il passo
gelido di Dr. Avalanche. Biondo e con gli occhi cerchiati di nero a dispetto di una forma che,
invece, non ha. Perché è una drum machine. Tra l’uno e l’altro si stende un manto di jangle
chitarristici tenebrosamente psichedelico. È il dono portato dall’arrivo di Wayne Hussey, appena
reclutato dopo la defezione di Ben Gunn, il primo a rimanere schiacciato dall’ ego immenso di
Eldritch. Durante il tour per First and Last and Always se ne andranno tutti gli altri. Andrew li
avrebbe perseguitati ossessivamente per mesi, prima in strada, poi dentro i tribunali. Quella che
rimbomba sorda dentro la musica dei Sisters of Mercy è una claustrofobia costruita, ricercata,
perseguita con l’obiettivo dichiarato di intossicare l’aria. È questo a farne il capostipite della
tradizione goth e a differenziarlo dalle produzioni chiave del giro dark wave che lo hanno
preceduto. La musica di First and Last and Always pesa come una lastra di marmo che ti si
chiude sopra portandosi via prima la luce, poi il tuo respiro. L’angoscia non è più uno stato
d’animo, una condizione psichica. È una gita organizzata per i gironi infernali. Una messinscena
pateticamente dolorosa, asfittica, tetra ed enfatica. Una marcia di cavalieri senza testa che vaga
per foreste spettrali. Eldritch è l’officiante di questo sabba. Ray-Ban perennemente calati sugli
occhi, capello sudicio, completi in pelle, capello da cowboy, non un accenno di sorriso. Veste
quest’ aria di uno con tante cose da dire ma poca gente con cui condividerle che però suona tanto
di fasullo proprio perché ostentata senza nessun filtro, con pacchiana inclemenza. Una caricatura
del rocker cattivo in cerca di guai. È un po’ la sensazione che lascia l’ascolto di First and Last
and Always, anche dopo tanti anni. Una rappresentazione volgare del teatro del dolore. Con
tanti aghi da infilzare e poca forza di penetrare davvero sotto la pelle, se non con l’ausilio di un
buon impianto scenico. Sarà mica per questo che abbondavano così tanto di fumi e fasci di luci?
Franco Dimauro
ML 50
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: PLAN 9
TITLE:
Keep Your Cool And Read The Tules
LABEL:
Pink Dust
RELEASE: 1985
WEBSITE:
www.myspace.com/plan9
MLVOTE: 6/10
Chiariamo subito un malinteso: i Plan 9 con la scena neo-garage degli anni Ottanta c’entravano
poco o niente. Un equivoco nato dalla pubblicazione di un mini album d’ispirazione Pebbles su
etichetta Voxx a inizio carriera e che qualcuno ha frainteso per anni. I Plan 9 sono una guitar
band figlia dei funghi acidi dei Grateful Dead e di altre comuni di svitati degli anni Sessanta e dei
Settanta, dai Lothar and the Hand People dei quali riprendono, proprio su questo disco, la
bellissima avanguardia freak di Machines ai Fugs, dall’Experience hendrixiana alle visioni espanse
dei Third Barbo. Quando incidono questo loro capolavoro hanno ben quattro chitarre in officina.
La copertina non è più quella fluorescente di Dealing with the dead ma è ugualmente visionaria e
splatter come un Dalì in fuga con Rick Griffin. L’opera è di Richard Kenneth Sloane, l’artista
italoamericano che disegnerà le storiche copertine per Accused, Upset Noise e delle seminali
raccolte di pepite garage Vyle Vinyl per la High Noon Records e che lavorerà più tardi con i Guns
N’ Roses. R.K. è morto quattro anni fa. Lui non leggerà questa recensione ma credo non
l’avrebbe letta comunque. Dentro si muove la musica del gruppo del Rhode Island (nel frattempo
approdato alla corte dell’Enigma assieme a una manciata di altre guitar band dell’epoca
come
True West, Green on Red, Rain Parade, Leaving Trains, Giant Sand, Wipers, ecc. ecc.) che
ci accoglie col pigro tappeto elettrico di That‘s life prima di virare al suo terzo minuto di vita in
una versione corretta di Fire di Hendrix. Poor Boy, a ruota, ha quel taglio leggermente nervoso
che qualcuno ricorderà nei primissimi R.E.M. e nei Feelies. The beast was an old tale, 11th Hour
e Hot Day sono l’ archetipo della canzone psichedelica di stampo Plan 9 con questa mandria di
chitarre che scorazza libera lungo queste terre polverose ma sempre un po’ plumbee. For Hillary
ha un suono liturgico imposto dall’organo Super Continental di Debora DeMarco e che ritorna
anche su House of painted lips pure se immerso dentro un’atmosfera da rituale blasfemo che pare
rubato alle messinscene sacrileghe dei Virgin Prunes. Le due mini jam di King 9 will not return e
Keep your cool sono invece la dimostrazione pratica di quanto lo spirito dei Plan 9 sia
completamente libero da ogni prigione “di genere”, men che meno da quelle un po’ legnose del
garage-rock. All’epoca nel gruppo gira ancora John DeVault, aspirante filmmaker, che realizza
pure un video della title track, rimasto inedito per più di venti anni senza che se ne accorgesse
nessuno, neanche dopo essere reso pubblico. Ma forse dei Plan 9 tutti si conserva poca memoria,
così come di ogni gruppo incatalogabile e perennemente fuori moda. Qualcuno per caso si ricorda
di band stratosferiche come Electric Peace, Stewed o Texas Instruments? Niente, inghiottiti
dalle polveri sottili. Per sempre dispersi tra i peli pubici della generazione iPod, a mordicchiargli i
coglioni mentre scelgono la canzoncina n. 4 della lista n. 6 della cartella n. 3 sulla playlist n. 8 e si
mettono in calzamaglia sul loro tappeto fitness.
Franco Dimauro
ML 51
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: BLACK FLAG
TITLE:
Slip it in
LABEL:
SST Records
RELEASE: 1984
WEBSITE:
www.sstsuperstore.com
MLVOTE: 8,5/10
Ognuno di noi, amanti del sano e longevo rock and roll, ha il suo gruppo del cuore. Magari
passano gli anni, si ascoltano centinaia di nuove band ma, quando si rimette sul piatto qualche
loro vecchio disco, non c’è storia che regga. Allora non si può discutere, non si sente ragione,
niente critiche e il resto sembra inutile, più superfluo di un cappotto di montone durante l’estate
calabra, si ha difficoltà anche a mettere nero su bianco il vero motivo di quest’attrazione, il
perché si crei quello strano legame così simile a quello affettivo con un parente stretto. Non ci si
spiega il motivo ma è come se facesse parte del proprio DNA, come se ogni nota, parola e ritmo
risuonasse da sempre nella propria scatola cranica, nella gabbia toracica allo stesso ritmo del
pulsar del cuore. La mia preferenza va probabilmente sui Black flag di Henry Rollins e Greg
Ginn, sintesi del malessere urbano americano d’inizio anni ottanta, e Slip it in è uno dei miei
album preferiti, forse non il più rappresentativo della discografia ma quello che sento
epidermicamente mio, anche alla soglia dell’età da crocefissione. La severità della bandiera nera
suona rassicurante, il rigore e la coerenza del suono che esce dai solchi di questo classico punk li
hanno fatti entrare nella leggenda, la scena hardcore non sarebbe stata la stessa senza il loro
insegnamento. L’inizio dissacrante ed eiaculante dell’omonima Slip it in rompe il patto di non
belligeranza di qualsiasi armistizio, morbosa quanto la splendida copertina per opera del solito
Raymond Pettibon, seguito dall’incedere massacrante e privo di qualsiasi controllo della bollente
Black coffee, rende la raccolta la naturale prosecuzione di quello splendido embrione ibrido di My
war (non digerito di buon grado dallo zoccolo duro dei fan dell’epoca). Le sempre più frequenti
tinte scure e le varianti heavy rock di Rat’s eyes, rugginosa e cancerogena, camminano
barcamenandosi nel fango barcollando come un eroinomane. Anticipazione del futuro sonicamente
drogato e allucinato di Ginn è Obliteration, strumentale psicotica, ossessione pura della durata di
sei minuti, preambolo di quella che sarà l’eterna ricerca di sperimentazione del quartetto negli
anni a venire. The bars è una delle canzoni che preferisco, l’esatto incrocio tra i Germs di Darby
Crash (RIP) e i Black Sabbath, sangue sulle corde e testi rigettati, assalti nichilistici senza
futuro nelle detonazioni finali di My ghetto, luce negli occhi degli amanti del hardcore punk old
school, e You’re not evil, hard rock da cesso pubblico. Dicevo ognuno di noi, amanti del sano e
longevo rock and roll, ha il suo gruppo del cuore. Il mio è quello dei Black Flag.
Antonio Anigello
ML 52
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: GREEN ON RED
TITLE:
S.T.
LABEL:
Down There
RELEASE: 1982
WEBSITE:
www.greenonred.net
MLVOTE: 7/10
Non ho mai sentito un altro disco, a parte il primo dei Doors, in cui l’organo sia così insistente da
far venir voglia di vomitare fuori dal finestrino. Una presenza ossessiva, tormentosa, opprimente.
Eppure necessaria. Non lo sarà già più dal primo album vero e proprio, di un anno successivo, e
via via scomparirà dalla vita della band dell’Arizona, portandosi via la sua anima più acida e
psichedelica, sacrificandola in nome della riscoperta delle radici del polveroso rock americano
figlio/orfano di Neil Young e Springsteen. Lo registrano per 180 Dollari ai Program Studios di
Hollywood nel maggio del 1982, dove intanto si sono spostati dalla natìa Tucson in cerca di
miglior fortuna. Qui, per evitare di essere confusi con la locale scena surf punk, qualcuno consiglia
loro di cambiare il nome originario di Serfers in qualcos’altro. Qualsiasi altra cosa. Loro accettano
il consiglio e non avendo altre idee, scelgono il titolo della loro prima canzone verde su rosso, e la
fortuna arriva: al Cathay DeGrande hanno l’occasione di suonare assieme ai Dream Syndicate e,
approfittando del pretesto, consegnano a Steve Wynn la cassetta con i loro nuovi sette pezzi.
Steve decide di mettere il marchio della sua etichetta su quella musica che sembra inghiottire lo
spirito di Dylan dentro un vortice doorsiano: sarà la terza uscita per la sua Down There. Steve e
Dan Stuart hanno interessi musicali comuni. Un’intesa sancita discograficamente dai dischi siglati
come Danny & Dusty, il primo nel 1985, il secondo ventidue anni dopo. I Green On Red degli
esordi sono una band ancora acerba e come tale hanno quel taglio disperato e acre che si respira
nelle cantine americane dei primi anni Ottanta. Sono una band che corre. All’indietro, come tante
altre lungo la costa e nell’entroterra americano. Scavando nei ricordi di una terra giovane ma già
piena di una sua identità, di una sua fisiognomica. Corrono, scavano, riempiono le bisacce e
tornano a correre. Se seguite e date retta alla critica “seria”, quella che analizza con gli
alambicchi della logica ogni disco, ogni carriera, ogni vicenda artistica, allora lasciate perdere:
questo non è il miglior disco dei Green On Red. Non per loro. I “capolavori”, le pietre angolari,
quelli verranno dopo, consegnano agli archivisti del rock un’ottima chiave di accesso per il rootsrock, il new country, il revisionismo, la no depression e tutte quelle balle lì, ma a me che
piacciono le cose con poco senso storico ma molta energia, molto stomaco e molta disperazione,
continua a piacere per questa sua atmosfera straniante, questa acida terra americana che diventa
confessione illogica delle proprie paure. Basta dare una scorta ai titoli delle canzoni o, per chi
mastica l’inglese, ai testi di Dan Stuart per vedere quanto siano lontani dal populismo oleografico
che verrà sui dischi seguenti. Quanto siano inopportuni, deliranti, carichi di quella vocazione al
dolore e al tormento che è adolescenziale. Morte e angeli volano tutt’attorno. Non c’è mai
veramente angoscia nella musica dei primi Green On Red ma c’è quest’inquietudine epidermica
che viene inoculata sottopelle, attraverso questi spettri velvetiani che si aggirano tra i corridoi di
un’immensa casa di cura psichiatrica. Sono strade lastricate di cocci di vetri in frantumi che non
portano da nessuna parte, si limitano a girare attorno, in una spirale che diventa sempre più
stretta fino a diventare un intollerabile cerchio di paura. Un ottimo posto dove perdersi, un
labirinto concentrico attorno al vostro piccolo mondo, mentre tutto il resto rimane fuori dalle
persiane spalancate.
Franco Dimauro
ML 53
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: THE CLASH
TITLE:
Rat Patrol from Fort Bragg
LABEL:
Red Line
RELEASE: 1981
WEBSITE:
www.theclash.com
MLVOTE: 8/10
Dopo i pasti abbondanti di London Calling e Sandinista! i Clash non sono ancora sazi. Quando
è il momento di mettere mano a quello che diventerà l’ultimo album dei Clash “storici” decidono
che sarà ancora un album doppio. I Clash sono, in quel momento, una balena dalla bocca
gigantesca che ingoia qualunque cosa. Musica sudamericana, rock‘n’roll, jazz, musica western,
rap, swing, reggae, punk rock, dub, garage, calypso, bluegrass, protest songs, funky, disco
music. Una babele che permette loro di poter dire qualunque cosa, e sempre in forme diverse. Già
da qualche anno non sono più una punk band ma un’intera orchestra, sono i Beatles dentro gli
Abbey Road, sono Phil Spector dentro i Gold Star Studios. A metterci le mani c’è lo stesso Mick
Jones, ma i rapporti tra Joe e Mick non sono più quelli di cinque anni prima. Joe storce il naso
un po’ troppo quando si parla del vecchio amico. Si dichiarerà insoddisfatto del suo lavoro al
mixer, prima di cacciarlo fuori dalla band a lavoro ultimato. Alla produzione viene chiamato Glyn
Johns, una porzione del disco viene definitivamente cestinata, un’altra fetta viene ristrutturata,
un’altra costituirà l’ossatura di quello che invece diventa un album singolo con il titolo di Combat
Rock. Un disco che è sempre stato offuscato da quello che c’è stato prima. Come quando stai per
troppo tempo affacciato al balcone, arrendevole alla luce e al calore di un sole troppo bello per
starsene da solo e poi rientri repentinamente. Gli occhi faticano a riadattarsi e quello che ti salva
da quell’improvvisa muta tenebrosa è la familiarità col posto, con l’ambiente. Riesci a evitare
abilmente il salotto e il tavolo, probabilmente inciamperai in una sedia riposta malamente.
Difficilmente sbatterai il grugno su qualche porta. Combat Rock è invece un disco bello,
irrequieto, anche se la sua seconda parte lascia trapelare uno spirito ammansito, come di un
leone che dopo la sua battuta di caccia torna a godersi il torpore. Perché i Clash a quel punto
possono nutrirsi di tutto e questo, se da un lato incute rispetto e timore, è una consapevolezza
che ne ha ormai attutito l’effetto sorpresa. Possono ancora sprofondarci le zanne al collo, ma ora
abbiamo l’accortezza di saperne stare alla larga. Loro sono sempre i re della foresta, ma noi
sappiamo essere cauti. È il prezzo da pagare per essere ammessi alla “classicità” del rock system,
per avere le loro figurine sull’ album delle stelle del rock ma Rat Patrol from Fort Bragg, la
minaccia di aborto che lo precede, è molto più bello. Ha lo stesso carico di merci buttate un po’
alla rinfusa che stava sul tir di Sandinista! ma qui è tutto stipato in un furgone. The Beautiful
People Are Ugly Too è un pezzone pieno di groove nero, con le voci di Joe e Mick in perfetta
sintonia su un tappeto di percussioni sudamericane. Verrà escluso dal disco e sostituito con le
epilessie di Overpowered by funk. Kill time è uno degli altri esclusi dalla versione definitiva. Un
reggae solare e proletario, come quelli che Strummer riprenderà molti anni dopo con i
Mescaleros.
ML 54
musicletter.it
update n. 71
musica: the clash
Il primo pezzo conosciuto è Should I stay or should I go, ovvero il pezzo più minchione mai inciso
dai Clash, con quell’orribile riff rubato a Farmer John, ma la sua versione originale, che è quella
racchiusa qui dentro, gli dà una dignità nuova, pur mantenendone la forma. I versi in spagnolo
(quelli cantati da Strummer, NdLYS) hanno un’esuberanza che la versione di Combat Rock
sacrificherà e l’assolo di trombone le dà quest’aria un po’ zigana che l’avvolge di un calore nuovo.
Rock the Casbah è quella cosa straordinaria che tutti sappiamo: una danza multirazziale tra le
sabbie del deserto, sotto le ombre dei Phantom F-4 e i MiG-21 che si scambiano occhiate di
fuoco nei cieli sauditi. Know your rights verrà scelta per aprire il disco ufficiale. Ha questo tono
barricadero delle cose migliori dei Clash. Fiera e incalzante, come un cane da combattimento. La
versione di Rat Patrol indugia un po’ di più sull’eco e sull’aria da proclama che avvolge la canzone.
Joe non canta, declama. Tutte le tracce restanti sono per molti versi simili a quelle ufficiali, ma
pensate per un disco doppio, quindi allungate (come l’intro di Sean Flynn, per esempio), meno
“costrette”. Ci sono leggere variazioni nei volumi che ne esaltano le parti vocali o ne colorano
meglio le sfumature (l’organo di Red Angel Dragnet, i cori e il vero e proprio tappeto di voci che
sono un po’ la vera caratteristica del disco, quello che lo distingue da quanto fatto in precedenza
dai Clash, NdLYS). Inoculated City è imbevuta di effetti e dilatata rispetto alla versione mutilata
che finirà su Combat Rock, con la lunga “suppellettile” dello spot per il lavacessi. Walk Evil Walk
è uno strumentale jazz che poi non avrebbe avuto nessuno sbocco e che avrebbe potuto suonare
chiunque. Non vi stessi dicendo che sono i Clash, vi sareste pure sucati che era il quartetto di
Dave Brubeck. First night back in London e Cool Confusion sperimentano col dub e col reggae,
un vezzo che i Clash si concedono sempre volentieri. Finiranno disperse sui singoli, prima di
essere amorevolmente raccolte su Super Black Market Clash. Da lì a breve della più bella rock
band del mondo resterà solo qualche briciola di rancore e qualche muso lungo, un’appendice di
storia intitolata Cut the Crap che vale quanto il sequel di Psycho, ovvero meno che niente, e
un’altra bara da seppellire. Con buona pace per quanti non avevano loro mai perdonato di non
aver sacrificato i propri martiri sull'altare pagano della rivoluzione punk. Ora il debito è saldato.
Potete finalmente aggiornare i vostri merdosi libri di storia con gli aggettivi che gli avete sempre
negato.
Franco Dimauro
ML 55
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: SEX PISTOLS
TITLE:
Never Mind the Bollocks, Here ‘s the Sex Pistols
LABEL:
Virgin
RELEASE: 1977
WEBSITE:
www.sexpistolsofficial.com
MLVOTE: 9/10
Rischioso parlare dei Sex Pistols. Facile cadere nella banalità, nel luogo comune, nel già detto e
già scritto mille volte. Una band su cui si è detto tutto e il contrario di tutto, cadendo milioni di
volte nel tranello teso da loro stessi e dal loro manager Malcolm McLaren. I Sex Pistols hanno
rappresentato e continuano a rappresentare il marcio del rock‘n’roll. La messa al bando della sua
depravazione. La spettacolarizzazione di tutto il suo male, con tanto di finale da cronaca nera.
Una band che continua a mettere soggezione, inquietudine, disagio. Entrati nell’immaginario
popolare come la più eversiva banda di merdosi figli di puttana. Diseducativi, dissidenti,
irriverenti, iconoclasti, blasfemi. Totalmente family banned. Il che significa che se passate le
serate a scorrere la lista delle stronzate musicali che il vostro decoder digitale vi propina come
imperdibili, non ci troverete mai i Sex Pistols. Avreste troppe cose da dover spiegare ai vostri
bambini. Vi chiederebbero anzi tutto perché sembravano così arrabbiati con tutti, e poi perché
sputavano sul pubblico; e ancora perché quel cantante dallo sguardo spiritato e coi denti marci
cantava con una camicia di forza, e avreste ancora il culo salvo perché i vostri bimbi con l’inglese
non vanno oltre il “good morning teacher” e il testo di Jingle Bells. I Sex Pistols erano, sono, il
rock ‘n’ roll che non crede nel futuro. Dietro di loro, c’ è un manager che sa come trarre profitto
da questa idea. Insieme, sanno vendere il presente a caro prezzo: nel giro di un anno hanno già
spillato a ben tre case discografiche il totale di 170.000 sterline senza aver ancora messo in giro
nient’altro che un singolo, peraltro immediatamente ritirato. Quando finalmente il loro album
arriva sul mercato, i Sex Pistols non esistono già più. Sì, esistono ancora dei fantasmi che per
qualche
mese
intascano
i
soldi
delle
vendite
stratosferiche
del
loro
album,
in
barba
all’ostruzionismo di gran parte della classe politica, dei distributori e degli stessi rivenditori e si
recano negli Stati Uniti per un’ultima allucinante tournèe ma i Sex Pistols, quel concentrato di
energia e sciattaggine, non ci sono più. Il punk è morto. John Lydon lo aveva già annunciato
l’estate precedente, dai microfoni di Capitol Radio, presentando una scaletta di suoni che
transitavano dal kraut rock al dub, le due colonne portanti del suo primo progetto post-Pistols: i
Public Image Ltd, e lo ribadisce al termine dell’ultimo concerto dei Sex Pistols. Dopo aver
sputato sul pubblico la sua devastante versione di No Fun degli Stooges chiede, con aria
sprezzante: Non vi siete mai accorti di essere stati truffati? Il punk diventa canone musicale:
nasce il punk rock. Roba per ragazzini drogati dalla televisione e con i poster sbagliati nella
cameretta. Never Mind the Bollocks è invece una istantanea del punk. Che istantaneo lo fu per
davvero. Il tempo di questo scatto, ed era già morto, ma è una foto intensissima. I Sex Pistols
vengono allevati da Malcolm McLaren ed educati al rock ‘n’ roll.
ML 56
musicletter.it
update n. 71
musica: sex pistols
Bazzicano la boutique che lui gestisce assieme alla moglie Vivienne Westwood al civico 430
della King’s Road di Londra. Dentro quella stanza tappezzata di graffiti c’è un jukebox che macina
ininterrottamente 13th Floor Elevators, Monkees, Creation, Flamin’ Groovies, Troggs,
Vince Taylor, Sonics, Screaming Jay Hawkins, Modern Lovers. Sono le famose “radici”. Il
ritorno a un’epoca in cui l’attitudine contava più di ogni altra cosa e in cui non era ancora lecito
complicare quella cosa stramaledettamente viscerale che era il rock‘n’roll. Era la stessa lezione
che era stata impartita alle New York Dolls. Solo che adesso i tempi sono maturi per fare
breccia nel mercato. C’è ostilità verso il vecchio che si respira per ogni strada del Regno Unito.
L’aria è satura come quella di tunnel invasi dal grisù. Quello che serve è una scintilla che faccia
esplodere tutto. Quella scintilla si chiama Sex Pistols. Un oltraggio all’ordine, alla disciplina, alle
regole del buoncostume e del comune pudore. Quando cominciano a lavorare all’album Glen
Matlock non è più nella band. Al suo posto Malcolm ha reclutato un allampanato tossicomane
che non sa legare due note manco sotto ricatto. Veste con scarponi da motociclista e indossa una
catena con tanto di lucchetto al collo. Si chiama Simon John Ritchie ed è stato presente a tutti i
concerti punk della capitale. Sempre. McLaren lo battezza Sid Vicious e lo impone agli altri.
Durante le registrazioni si appende il basso al collo ma è Glen a suonare al posto suo, lui si limita
a sputare e saltare come un matto. Del resto, vista la sua inezia, si decide a incidere per prima
chitarre e batteria. Il basso, che solitamente fa da traccia, viene aggiunto solo alla fine, ma quello
che nel settembre del 1977 McLaren consegna tra le mani della Virgin è un disco che brucia. Non
concede nessuna conciliazione e non si permette nessuna digressione da quella che è la loro
formula dissacrante e lercia. È contro tutti, anche contro se stesso. Ogni pezzo, un manifesto di
inconciliabilità col resto del mondo. Vero, sentito, simulato, orchestrato, architettato, sincero,
montato ad arte. Chi può dirlo? A chi gioverebbe? Never Mind the Bollocks è un disco che fa il
vuoto attorno a sé.
Franco Dimauro
ML 57
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: ALAN SORRENTI
TITLE:
Aria
LABEL:
Harvest
RELEASE: 1972
WEBSITE:
www.alansorrenti.com
MLVOTE: 7/10
Il primo disco del “figlio delle stelle” esce nel 1972 per la Harvest. Proprio così. All’alba del
decennio, prima delle tronfie e galoppanti rime in falsetto, delle palle con gli specchi e di quelle
ostentate dai suoi pantaloni stretti di monta, Alan Sorrenti condivide la stessa etichetta con i
Deep Purple e i Pink Floyd, con Kevin Ayers e Syd Barrett, con i Pretty Things, i Love e la
Third Ear Band. La copertina è bellissima: apribile, con questa figura bucolica un po’ sinistra del
Sorrenti accartocciato in un mantello tra cespugli dal cromatismo tetro che a me ha sempre un
po’ ricordato l’immagine di copertina dell’ omonimo dei Black Sabbath. All’epoca lui ha appena
ventidue anni e ha una voce duttile, androgina, vicina alle delicate cromature di Tim Buckley e
Robert Wyatt. Nell’ epoca della disco music e della pop music transgender sarebbe diventato il
suo cavallo vincente, all’epoca ne ostacolò il percorso. Il pubblico non è pronto e in verità non lo
sarà mai: chi va fuori dai canoni subisce l’arrendevolezza intellettuale del critico d’arte, raramente
l’attenzione della platea. In quei primi anni della sua carriera Sorrenti è un vero sperimentatore
della voce, come più tardi lo sarà Demetrio Stratos e come, quasi simultaneamente, aveva
osato Claudio Rocchi sul suo Volo Magico #1 di un anno più vecchio. Abita a Napoli ma porta
dentro se questo atavico sapore delle brume gallesi anche se, a differenza della sorella, non
cercherà mai di affondarci del tutto le mani. Ma il suo primo disco ha quest’ “Aria” un po’ fiabesca
di muschi e di felci, di brezza umida e caliginosa, di pareti scrostate e annerite dalla fuliggine di
inverni lunghi e surreali che cercherà di replicare anche sul successivo Come un vecchio
incensiere…, riuscendovi solo in parte. Aria è pervaso da questa aulicità solenne ma un po’
metereopatica, decadente che piove su tutto il disco, non soltanto sulla lunghissima title-track che
occupa tutta la prima facciata dell’ album (si, piccole carogne cresciute a Chicken Nuggets e
iPod, una volta i dischi avevano forma circolare e avevano due facciate. A metà durata, all’incirca,
occorreva alzarsi il culo dal divano o dal gabinetto e andare a girarlo, altrimenti finivi per fare un
solco nuovo sul disco e uno sulle tue tasche, NdLYS) e che ne riassume, senza peccare in
essenzialità, i toni, il clima e anche il tema. Che è profondamente erotico, quantunque sia
foderato da questa veste panteista e carico di simbolismo ecologico. Un erotismo dove la carnalità
viene inghiottita dalla sacralità biologica fino a diventare parte integrante dell’ ecosistema. Le
modulazioni di Alan Sorrenti che si articolano per tutta la durata della suite fino alla simulazione
orgasmica del finale si muovono in questa selva disegnata dal violino di Jean-Luc Ponty (suo il
violino su It must be a camel su Hot Rats di Frank Zappa, NdLYS), dalle percussioni di Toni
Esposito (che lo accompagnerà anche sul disco successivo, NdLYS) e dal piano di Albert Prince
abili a costruire questi intrecci tra folk pastorale, suggestioni gaeliche, aliti jazz e crinali
progressive.
ML 58
musicletter.it
update n. 71
musica: alan sorrenti
La voce si scompone, si ricompone, si decompone, si apre e si richiude, vibra, allunga le parole a
dismisura, le sfigura, le spalma, le rende acqua, aria, terra, fuoco. Alan Sorrenti diventa
Nettuno, poi Atlante, infine Icaro. Sotto, i paesaggi si fanno mutevoli, cangianti. Diventano grotte
ed abissi, cascate e alberi sferzati dal vento. L’altro lato del disco ospita tre lunghe composizioni
che mèdiano la sperimentazione con la ricerca di un’inedita via cantautorale, spostando l’obiettivo
nazionale dai folksingers americani (Dylan, Ochs, Bob Lind ecc.) e dai cantastorie francesi
(Brèl, Brassens, Gainsbourg, ecc.) che rappresentarono per tutto il decennio i due modelli
fondamentali per i cantautori italiani, verso artisti dalla musicalità più complessa come Hammill,
Buckley, Shawn Phillips, Roy Harper. Vorrei incontrarti è una dolce invocazione d’amore
adagiata su un morbido velluto acustico e pigramente appoggiata ai tocchi di chitarra vagamente
medievale di Vittorio Nazzaro. Il passo di Alan è misurato, lieve, come la canzone richiede.Una
delle perle seppellite nella merda della pop music italiana. La mia mente si introduce con
maggiore decisione lasciandosi poi intorbidire dall’incestuoso incontro fra strumenti elettrici e
acustici mentre Sorrenti torna ad esasperare le sue doti vocali prima pestando i grappoli di piano
di Albert Prince, poi giocando con i ricami della tromba, prima circuendola, quindi sovrastandola,
infine domandola. Un fiume tranquillo, il pezzo conclusivo, parte sereno, rassicurante. Fino ai
primi 88 secondi. Poi il gioco torna a farsi peso. Il piano elettrico parte come il C.T.A. 102
doppiato dalla voce, poi tornano gli uccellini ad annunciare la tromba di Andrè Lajdli che regala
al pezzo l’ennesimo, pregiato abito stravagante. Alan tornerà a lambire gli stessi territori con il
disco successivo. Poi, la svolta pop. Quindi, quella dance. Infine, il buio. Pare che quando venne
spento l’ultimo faretto alogeno dello Studio 54 lui si trovasse nei bagni a reggersi l’uccello dopo
aver urinato dieci bicchieri di Martini Dry. Sembra stesse cantando C’è sempre musica nell’aria.
Senza accorgersi che invece era stata spenta per sempre.
Franco Dimauro
ML 59
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: TERRY CALLIER
TITLE:
What Color Is Love
LABEL:
The Verve Music Group
RELEASE: 1972
WEBSITE:
www.myspace.com/terrycallier
MLVOTE: 8/10
Il colore dell’amore, nell’immaginario musicale, è un rosso che tende all’infinito, una vasta
gamma di sfumature che soavi navigano in un mare di suoni lievi. Nella black music tutto è più
acceso, i colori sono visibili a distanza e i suoni con i quali le intermittenze si fondono sono
squillanti ma non recano disturbo, solo scosse interiori, ma esistono eccezioni, e una di queste
risponde al nome di Mr. Terry Callier. Nato il 24 maggio del 1945 negli Stati Uniti d’America,
cresciuto a pane, pianoforte e musica di Ella Fitzgerald e Billie Holiday nonché compagno di
giochi di un certo Curtis Mayfield, il ragazzo di Chicago è diventato un grande uomo del soul che
ha guadagnato la stima di musicisti attuali (esemplari le collaborazioni con Massive Attack e
Beth Orton) per la sua capacità innata di fondere elementi differenti come il jazz, il funk
soprattutto il folk con la
e
musica dell’anima. Colori, si diceva, che in questo capolavoro datato
1972, oltre ad assumere sfumature si sparpagliano e mirano al cuore con armi differenti. L’arma
del folk è quella che fa più stragi, già nell’iniziale Dancing Girl, dove un gospel oppiaceo fa
capolino nella nebbia irradiata da un tiepido sole; quasi come se Nick Drake (che nel 1972 aveva
già dato alle stampe anche l’ultimo Pink Moon) fosse folgorato dalla black music senza rinunciare
alla malinconia che anima(va) le sue composizioni. Un disco ibrido di rara eleganza che si
destreggia senza paura fra la musica nera e la musica anglosassone, una voce calda che si fa
largo fra archi, saxofoni e melodie soul/funky raffinate come in You Goin’ Miss Your Candyman
che fanno invidia al primo Wonder o a un Marvin Gaye meno zuccherino. Un capolavoro della
musica soul che non farete fatica a trovare nelle librerie, lì da qualche parte fra il jazz, il soul o il
blues. Perché alla bellezza non è ancora stata data un’etichetta. Magari solo un colore, che va dal
bianco al nero, passando per l’infinito.
Nicola Guerra
ML 60
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: LOU REED
TITLE:
Transformer
LABEL:
RCA
RELEASE: 1972
WEBSITE:
www.loureed.org
MLVOTE: 7/10
Immergersi in un disco di Lou Reed è come infilarsi sotto le coperte con metà degli abitanti di
New York. Papponi, travestiti, taxi drivers, mignotte, barboni, pusher e sputafuoco, e ognuno ti
racconta la propria storia, mentre ti svuotano il frigo e ti macchiano le lenzuola di sugo. È il 1971
e mentre Doug Yule spalma merda sul nome dei Velvet pubblicando l’ignobile Squeeze, Reed si
sposta a Londra. Infila la sua New York nelle valigie e la porta via con sé. Nel bagaglio a mano ha
qualche canzone che aveva scritto per i Velvet. Sono i suoi primi trenta anni di vita che sorvolano
l’oceano con lui. È anche per questo che il suo primo album si chiude con Ocean, un pezzo scritto
un paio di anni prima e che adesso è arrivato finalmente a riva. In studio con lui ci sono gli Yes,
per un disco che porta il suo nome e il suo cognome: una carta d’identità. Di più, un attestato di
vita. Considerati gli eccessi con i Velvet Underground, ha quasi il sapore di un miracolo.
Transformer arriva l’anno dopo, celebrando le nuove cattive amicizie di Lou: Ziggy Stardust e
Mick the Spider from Mars. Con loro c’è pure Herbie Flowers, il bassista di Space Oddity e del
tour di Diamond Dogs. Sono loro a mettere mano su uno dei dischi che, anche per questo,
diventa una delle icone del glam rock. Il rock che ama il make up, le pailettes, i capelli cotonati e
celebra l’androginia come il confine tra l’uomo comune e l’ artista. La coda lunga della cometa
Velvet non è ancora del tutto passata ed è da certi abbozzi di quel periodo che vengono fuori
Satellite of love, Andy‘s Chest e Vicious. La prima si muove sul ritmo morbido di un pianoforte
prima di prendere quota sollevata dai palloncini di un coro bubblegum ed esplodere in un tipico
crescendo di lustrini come quelli che piacevano a Marc Bolan. Le altre due sono ancora una volta
ispirate dall’amico/maestro Andy Warhol. La prima racconta del suo scampato omicidio per
mano di Valerie Solanas, l’altra dei suoi appetiti omosessuali, ma i fantasmi di Drella e degli
stravaganti personaggi che gli giravano intorno abitano tutto il disco. Walk on the wild side ne
offre una carrellata. Ritmo sincopato, spazzole e un piccolo tappeto di velluto fatto di violini e
sassofono. Sembra di passeggiare per i corridoi della Factory guardando i suoi abitanti come
dentro teche di vetro. Un abito ruffiano che, malgrado le censure, riuscirà a portare la fellatio ai
piani alti delle classifiche. Le reginette del pop la useranno (la fellatio) per garantirsi lo stesso
successo, da lì in avanti. Costrette a fare come Candy, ma sotto i tavoli delle case discografiche.
Per il mondo sarebbe diventato il tormentone di Lou Reed. Per lui, il suo tormento. Costretto a
dimenticare i nomi dei protagonisti pur di farla scomparire dal proprio repertorio. Gli altri
capolavori del disco sono sempre sulla prima facciata dell’album: lo scattante rock ‘n’ roll di
Hangin’ Round affonda i denti nel boogie elettrico di T. Rex e Flamin’ Groovies mentre Perfect
day è una ballata decadente.
ML 61
musicletter.it
update n. 71
musica: lou reed
Una canzone su una giornata perfetta al parco, col sole che ti taglia in due e la sangria a rendere
tutto più allegro. In compagnia della tua ragazza. Dovrebbe suonare come una canzoncina degli
Herman‘s Hermits, con i campanellini e lo schiocco delle frecce sotto ogni ritornello. Invece
affoga in uno struggente giro di pianoforte (lo stesso che Nick Cave sfrutterà per There is a
kingdom 25 anni dopo, NdLYS) e in una bava di violini. Forse perché la ragazza di cui parla Lou è
ancora quella di qualche anno prima e si chiama eroina. Il resto del disco non ha grossi picchi,
nonostante il vestito di capolavoro assoluto che la critica mondiale gli ha cucito addosso, anno
dopo anno. Eccede nel cattivo gusto sin dalla tuba di Make Up fino al delirio broadwayano di
Goodnight Ladies passando per la marcetta da cartoon di New York Telephone Conversation, ma
Transformer rimane il disco che consegna Lou Reed alla storia. Lou che è sopravvissuto a se
stesso ma non solo. Passato indenne attraverso le sedute di elettroshock pagate dal padre.
Passato indenne dalle feste sulla 47ma strada di Manhattan. Passato indenne dalle siringhe di
felicità artificiale. Passato indenne dal feedback di Metal Machine Music. Passato indenne tra i
cadaveri dei suoi più cari amici e dei suoi nemici migliori. Pregando Dio che lo facesse diventare
un buon chitarrista ritmico, e poco più.
Franco Dimauro
ML 62
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: SLY & THE FAMILY STONE
TITLE:
There’s a Riot Goin’ On
LABEL:
Epic
RELEASE: 1971
WEBSITE:
www.slystonemusic.com
MLVOTE: 9/10
C’è puzza di rivolta in questi solchi. Non solo per il programmatico titolo There’s a Riot Goin’
on, ma per l’atteggiamento con cui Sly Stone e la sua allegra banda sfidarono il mondo. Un
atteggiamento rilassato eppure carico di tensione, filtrato attraverso un groove cupo e
narcolettico che addormenta la mente e smuove lentamente il corpo. Solo due anni prima si
pensava di cambiare il mondo, guardando verso il cielo ricoperti di fango e stelle, le stesse che
l’America stava oscurando con l’inutile guerra in Vietnam e la politica conservatrice di Richard
Nixon. In una situazione instabile che ghettizzava ancora il colore della pelle, la famiglia Stone
dimostrava che l’unione fra razze e sessi, se l’obiettivo comune era quello di cantare i mali del
mondo, avrebbe comunque smosso le coscienze; e se a distanza di anni, questo disco è ancora un
baluardo bellicoso di un certo soul funk psichedelico, vuol dire che l’oste (in quel periodo non
ebbro di vino ma stonato di LSD) aveva fatto bene i suoi conti. Il tempo difatti non ha intaccato la
chiara polemica dell’hit Family Affair nascosta da un ritornello orecchiabile, sexy e trascinate, con
la voce calda di Sylvester Stewart (il vero nome di Sly) che si fonde con il soul in un duttile
saliscendi di sensualità. Quello che rimane e stupisce, in codesto gigante di espressionismo funk,
è l’uso lascivo dei fiati e soprattutto dell’organo, che a dispetto del precedente Stand (1969) o
del successivo Fresh (1972, comunque lavori onestissimi) gettano le fondamenta liquide di un
suono che rappresentava le paure di una nazione. Non c’è spazio per divertirsi, non c’è spazio per
ballare, piuttosto di sballare per dimenticare la capacità insita nell’uomo di distruggere anche la
sua stessa natura. Perdersi nei battiti di Thank You For Talkin’ To Me Africa, districarsi fra le
frange della lunga suite Africa Talk To You (The Asphalt Jungle), dimenarsi nei campi di cotone
cantando all’unisono il gospel di Spaced Cowboy e godere di sussulti erotici con Luv N’ Haight è
ancora possibile; questa famiglia ha avviato una rivoluzione musicale convogliando in un unico
suono la cultura americana di una certa soul music (Otis Redding e Aretha Franklin) con la
black music che partiva da Marvin Gaye passando per James Brown fino ad arrivare ai groove
infetti di funky di George Clinton e dei suoi Parliament e Funkadelic. Ha senso oggi ascoltare
un disco che avviò una rivoluzione nel 1971? Ovviamente sì, perché le strade brulicano di gente
con la camicia verde che ripete troppe volte la parola negro.
Nicola Guerra
ML 63
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: BOB DYLAN
TITLE:
Highway 61 Revisited
LABEL:
Columbia
RELEASE: 1965
WEBSITE:
www.bobdylan.com
MLVOTE: 9/10
Nove pezzi, e ogni pezzo, un’opera d’arte. Ogni pezzo, una novella. Che dico? Ogni pezzo un libro
intero! Quanti sono i personaggi citati in questa Divina Commedia della letteratura pop?
Cinquanta? Sessantuno? Cento? Potreste provare a contarli, e di sicuro ve ne sfuggirebbe
qualcuno. È tutta la storia d’America raccontata in 50 minuti. Un film western dove le comparse
contano più degli attori e i sorrisi sono un po’ di cartapesta, perché nascondono un mondo di
dolore. L’America grande e quella piccina. Quella ordinaria delle fattorie e quella dei grandi sogni,
ma più la prima che l’altra, a dirla con franchezza. Un disco del quale si è sviscerato tutto e
parlando del quale si cade nella gran parata delle banalità che io vi risparmierò. Si sa chi ci suona,
cosa suona, perché ci suona. Si sa che dentro contiene quella che nel 2004 venne ufficialmente
riconosciuta come la canzone più bella della storia. Si sa che spesso molti ne storpiano il titolo in
Like a Rolling Stone’s, finendo per dimostrare come sempre che non sanno di cosa stanno
cianciando ad altri che non sanno cosa stanno leggendo. Si sa che c’è un pezzo impenetrabile e
profondo come un buco artesiano che si intitola Ballad of a thin man che da solo potrebbe valere
la vostra più lunga giornata di angoscia. Si sa cosa successe subito prima e subito dopo: più o
meno il terremoto che buttò giù le mura di Jerico dietro cui si era trincerata la scena folk,
talmente impegnata a cantare di tempi che stavano cambiando da non accorgersi che i tempi
erano cambiati veramente, senza travolgerli, passando loro semplicemente sopra. Loro erano
rimasti lì dov’erano, basiti. Seduti in circolo a cantare le loro canzoni di protesta. Dylan invece
era andato avanti. Aveva spinto l’acceleratore della sua Tiger T100 oltre ogni limite consentito da
quei conservatori vestiti come degli asceti, da quegli apostoli meschini che avrebbero urlato
“Giuda!” al loro profeta, e lui li avrebbe puniti intimando alla sua band di suonare il più forte
possibile. Avrebbe accelerato così tanto da schiantarsi, in quel caldo 29 Luglio del 1966. È
l’occasione per ritirarsi dalle scene, concentrarsi su se stesso, mettersi a letto con la Bibbia sul
comodino. Ne uscirà un Dylan rinnovato nello spirito ma alla disperata ricerca di radici, di
tradizione, di sapori ordinari, familiari, domestici. Tornerà a interessarsi al folk, alla country
music, alla musica popolare, raccogliendo il testimone di Woody Guthrie. Farà dischi
ordinariamente belli e ordinariamente meno belli, ma la magica spinta libertaria di Highway 61
Revisited, quella non riuscirà a replicarla più, neanche lontanamente; e del resto, come avrebbe
potuto?
Franco Dimauro
ML 64
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: THE KINKS
TITLE:
Kinda Kinks
LABEL:
PYE
RELEASE: 1965
WEBSITE:
www.raydavies.info
MLVOTE: 7/10
Ditemi una band inglese, al volo! Ahahah. Fermi, fermi. So già le risposte. Beatles, Rolling
Stones, Sex Pistols, Clash. Come dite laggiù in fondo? Ah sì, Smiths, Oasis, Blur… Eh? Stone
Roses? Ok. Ora ve ne nomino una io: The Kinks. Non un gruppo di musica inglese, ma
l’Inghilterra in musica. Una delle meraviglie del mondo moderno. Quando escono col primo album
i Beatles hanno già inciso i loro primi tre dischi e gli Stones un intero album di pezzi altrui. La
Gran Bretagna sta già cambiando volto ma non ci sono ancora né My Generation e neppure (I
can’ t get no) Satisfaction. Loro invece hanno un pezzo come You really got me, che cambia più di
quanto forse loro stessi possano immaginare. La storia del rock moderno parte da lì, più o meno,
Jimmy Page compreso. Ray Davies è uno che scrive di getto, con lo stomaco. Quando tornano
dal primo tour orientale, scrivono e incidono Kinda Kinks in due settimane. Shel Talmy
impacchetta tutto in fretta e sputa il disco nel mercato il 5 marzo del 1965, sfuttando gli stessi
criteri di produzione del primo disco: presa diretta, sovraincisioni ridotte al minimo, suono
asciutto come un biscotto secco. Ray non ne resta pienamente soddisfatto e gli ruberà pian piano
il posto dietro il banco di produzione trasformando la musica dei Kinks prima in un biscotto al
burro, poi in quello di un muffin. Il suono dei Kinks di questi anni è ancora elementare, privo di
quell’ eleganza vittoriana e liberty che caratterizzerà il loro periodo dei tardi anni Sessanta
disegnando ritratti di vita inglese belli come un drappo barocco. È un avvolgimento di rame
attorno al cuore del rock ‘n’ roll che sta invadendo l’ Inghilterra di quegli anni. Bo Diddley più
che Chuck Berry. È quello che ne fa, assieme ai Troggs, i profeti di un’essenzialità primitiva,
troglodita, non mediata, che in molti poi prenderanno ad archetipo del garage rock, ma Ray ama
pure l’amara disillusione dei folksingers, ama contorcesi nel tormento prima di affrancarlo in
qualcosa di dolcemente liberatorio. Sono due facce che conviveranno a lungo nell’anima dei
Kinks, quella feroce e anche spietata e quella gentile e amabile. Cui si aggiungerà negli anni
quella del Davies maturo, cinico, sarcastico, osservatore e commentatore placido delle manie che
si agitano nella sua Inghilterra. Qui emerge più il lato garbato di pezzi come Tired of waiting for
you e di cupe ballate come Nothin’ in the world e So long che fanno affiorare le ombre di Jake
Holmes rispetto a quello crudo di pezzi come Look for me baby o Got my feet on the ground che
sfruttano il calco dei pezzi più tirati. Non è il disco perfetto dei Kinks, quelli arriveranno più tardi,
ma ha già tutto il loro fascino odioso di una imperfezione ostentata, esibita con la spocchia di chi
ti sta dipingendo la Gioconda davanti al muso. Eleganti gentlemen che sanno come dosare lo
zucchero nelle tazze da tè, e che quando suonano non si guardano nemmeno in faccia.
Franco Dimauro
ML 65
musicletter.it
update n. 71
musica
ARTIST: ELLA FITZGERALD
TITLE:
Ella Fitzgerald Sings the Cole Porter Song Book
LABEL:
Verve | Essential Jazz Classics | Egea
[2 CD]
RELEASE: 1956/2010
WEBSITE:
www.ellafitzgerald.com
MLVOTE: 9/10
È un punto fermo nelle cognizioni sulla storia della musica contemporanea che Ella Jane
Fitzgerald (Newport News, 25 aprile 1917 – Beverly Hills, 15 giugno 1996) sia stata una delle
più grandi e influenti cantanti di sempre, non solo in ambito jazz. Enorme l’estensione vocale di
cui era capace e proverbiale la capacità d’improvvisare, e di personalizzare qualsiasi brano, di cui
era dotata. Nel 1956 (e fino al 1964), sotto la guida del produttore Norman Granz, la
Fitzgerald dava inizio alla registrazione per la Verve Records di una serie di "Song Books"
dedicati (monograficamente) al repertorio di canzoni scritte da sette dei più grandi compositori
americani di Tin Pan Alley (Cole Porter, George e Ira Gershwin, Duke Ellington, Johnny
Mercer, Irving Berlin, Rodgers & Hart, Harold Arlen). Un progetto di vaste dimensioni che
portò la cantante a incidere complessivamente 250 canzoni. Il primo “Song Book” veniva dedicato
a Cole Porter, uno dei più sofisticati ed eleganti autori della musica jazz e uno dei primi cinque
più importanti compositori di Musical americani (N.B.: attualmente per chi volesse approfondire la
conoscenza di Porter consigliamo la visione del film biografico De-Lovely, 2004, di Irwin
Winkler, interpretato da Kevin Kline, con Ashley Judd nel ruolo della moglie). Queste incisioni
sarebbero state pubblicate su disco solamente nel 1964, mentre un secondo livello di ristampa dei
materiali, opportunamente rimasterizzati, vedeva la luce nel 1993 in un corpo formato da 16 CD.
Il lavoro dedicato a Cole Porter è di tutti il più significativo perché la combinazione tra i testi
concepiti dall’autore e l’abilità interpretativa della cantante concorrono a creare un risultato
sublime che trascende i confini dei generi (musical e jazz) di riferimento dei due. Tra i 36 brani
contemplati ci sono standard immortali come Night and Day, I Get a Kick Out of You, Beguin the
Beguine, I've Got You Under My Skin, In The Still of The Night, I Love Paris, What Is This Thing
Called Love, Miss Otis Regrets, You're the Top e Love for Sale. L’album della Fitzgerald è stato
inserito nella Grammy Hall of Fame nel 2000 per le sue qualità artistiche e nel 2003 è stato uno
dei 50 dischi scelti dalla Library of Congress per far parte del National Recording Registry. N.B.
attualmente in circolazione un’edizione 2010 che fa parte della collana Essential Jazz Classics,
distribuita dalla Egea, e contenente (rispetto alle precedenti release) una versione Live di Love
For Sale registrata a Stoccolma nel 1957.
Luigi Lozzi
ML 66
musicletter.it
update n. 71
speciale
SAN MIGUEL PRIMAVERA SOUND 2010
Parc del Forum, Barcellona 27-28-29.05.2010
© 2010 di
Alessio Zago
Riassumere i tre giorni / sei palchi del festival più
importante d’Europa in una serie di mini recensioni
fa un effetto castrante, da twitter, ma noi ci si
prova lo stesso. Ecco qui allora solo una selezione
dei concerti visti.
Giovedì 27.05.2010
SIC ALPS Il primo bel concerto della giornata. Il palco Pitchfork non
brilla per acustica ma i volumi sono migliori rispetto all’assordante live
dei Biscuit. Le miniature noise pop del trio californiano, spesso di
strutture semplicissime (una strofa e poco più), sono decisamente un
bel sentire; non resta che muovere la testa a tempo avanti e indietro,
a tranche di un minuto e mezzo per volta.
THE WAVE PICTURES Inaugurano il palco Ray-Ban e sono un po’
sfortunati. Iniziano con Just Like a Drummer ma la chitarra si sente
pochissimo, la batteria ha dei suoni orrendi e la prima parte del live
rende poco. Le cose iniziano ad aggiustarsi solo dopo Now You Are
Pregnant ed è in salire fino alla conclusiva Leave The Scene Behind.
Nel mezzo alternano pezzi del nuovo disco, chiacchiere e assoli vari (troppi), ma le canzoni ci
sono, e pure il gruppo. Proprio quando ci si inizia a divertire, sono costretti a staccare.
TITUS ANDRONICUS Potenti ed epici come su disco, validi e
casinisti. Il cantante stona spesso e volentieri ma fa tutto molto punk.
Un gruppo interessante.
THE SMITH WESTERNS Il giovanissimo quartetto americano diviso
tra un pop chitarristico di buona fattura (e discreta resa live) e la
tendenza a dimostrarsi dei veri fighetti, tanto che il chitarrista
cantante usa una chitarra mancina pur essendo destro. Quando si
dice l’inutilità nell’estetica. Né bene né male.
ML 67
musicletter.it
update n. 71
speciale: san miguel primavera sound 2010
SUPERCHUNK Me ne vado in cerca di
concretezza, ed ecco
provenire da lontano i timbri di chitarra che tanto mi sono cari;
ringiovanisco, ci sono i Superchunk. Saltellando mi ritrovo a poche file
dal palco; Driveway to Driveway, The First Part, Cast Iron. Arriva Tim
Harrington dei Les Savy Fav e parte Precision Auto: non resta che
tuffarmi nel pogo ma i tempi stringono e di là stanno per iniziare i BSS, finita la canzone decido di
andarmene ma vengo calamitato indietro dagli arpeggi metallici di Slack Motherfucker. Ok, me ne
vado una volta per tutte; è stato bello avere diciassette anni.
BROKEN SOCIAL SCENE I BSS me li vedo dall’alto delle scalinate,
iniziano con World Sick, passano per Shoreline e Cause=Time e a un
certo punto compare pure Owen Pallet sul palco ma i BSS è un gruppo
che non ho mai capito fino in fondo, che ci voglio bene più per quello
che sono che quello che fanno e mi rendo conto che i salatini che ho
fregato in sala stampa mi stanno dando più soddisfazione del concerto.
PAVEMENT Visti pure a Bologna un paio di giorni prima, il giudizio
rimane lo stesso. Sono annoiatissimi. Le canzoni sono perfette ma
meccanicamente eseguite e Malkmus non sa più dove ficcarsi la
chitarra per fare un po’ di spettacolo. Qui iniziano con Cut Your Hair,
ci infilano un po’ tutti i classici da Silent Kit a We Dance a Here. Bis
con Gold Soundz, Shady Lane e Stop Breathin’; ma Fillmore Jive non la fanno mai?
FUCK BUTTONS Del concerto dei Fuck Buttons rimarrà indelebile il
momento nel quale quello-dietro-di-me si è messo a pisciare addosso
alla gente; e Surf Solar, ma quella la conoscevo già.
Venerdì 28.05.2010
WILD HONEY Sestetto spagnolo, dedito a un folk pop gentile. Amano
tanto i Beach Boys da mutuare il nome della band da un loro album e
suonare la cover di Heroes and Villians. Qual è l’aggettivo che si usa
per i gruppi indiepop? Ah sì. Deliziosi.
HARLEM Il concerto più divertente del festival. Degli adorabili cazzoni
che fanno canzoni pop’n’roll dal retrogusto anni ‘60; il ritmo vince.
Chitarrista e batterista si scambiano il ruolo a metà concerto. Il tutto
per un totale di mezzora (precisa) nella quale ci infilano 10/12 pezzi.
Così si fa.
ML 68
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update n. 71
speciale: san miguel primavera sound 2010
BEST COAST Bethany Cosentino era attesa al varco. Dopo una serie
di singoli mozzafiato c’era molta curiosità di vederla alla prova con un
live. La voce c’è, il gruppo è quadrato (lei, un altro chitarrista e una
corposa batterista) ma le canzoni non rendono come su disco.
Peccato.
CONDO FUCKS Ovvero Georgia, James e Ira; ovvero gli Yo la Tengo
che giocano a fare le loro cover preferite dei Flaming Groovies, Fugs,
Small Faces e altri gioielli anni ‘60 – ‘70. Perché loro ne sanno, le
fanno bene, e non li scambierei con nessun Cucchiaio del mondo. In
formazione due chitarre e batteria divertono dall’inizio alla fine.
Concludono con la cover di Re-Make: Re-Model, e suona come una dichiarazione d’intenti.
BEACH HOUSE Riesco a piazzarmi vicino al palco Atp e me lo godo, i
Beach house non son fatti né per i grandi palchi, né per le
manifestazioni all’aperto ma riescono a rendere bene lo stesso.
Aprono con Walk in the park e passano per Master of None, Zebra,
House of Chambers, Take Care. Suonano ed emozionano. Uno dei
migliori live del festival.
PIXIES Un-due-tré Vamos! I Pixies sono una macchina da concerto.
Pur avendoli sempre apprezzati di meno, dal vivo sono molto meglio
dei Pavement. Black la voce ce l’ha ancora tutta, Kim Deal un po’
meno, ma ogni pennata è da brivido. Monolitici e potenti, finale da
accendini con Gigantic e Where’s my mind?
Sabato 29.05.2010
REAL ESTATE Me li sono visti due volte, anche il giorno dopo al
parco, e me li sarei visti altre tre. Basta lasciarsi andare ai suoni
acquosi, soavemente psichedelici e si è completamente rapiti. Un
gruppo che nel 2010 ha ragione di esistere.
THE CLEAN Il momento più atteso. I Clean sono uno dei gruppi più
anziani
del
festival
e
allo
stesso
tempo
i
più
scoordinati.
Probabilmente le canzoni non le provano mai, non gliene importa
niente e ogni volta vengono diverse, come hanno voglia di farle al
momento. Vecchi pezzi come Fish, Outside the Cage, Whatever i do is
Right, Point that Thing, alternati ai nuovi Tensile e In The Dreamlife
You Need a Rubber Soul. Usano tutto il tempo a disposizione, ma hanno chiacchierato un sacco.
L’unico concerto durato troppo poco, e alla fine girarsi e trovarsi alle spalle James Mc New e i Real
Estate in mezzo al pubblico non stupisce per niente. Tutto torna.
ML 69
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update n. 71
speciale: san miguel primavera sound 2010
GRIZZLY BEAR Una canzone per aggiustare i suoni e poi sono
perfetti. I GB sono dei gran bravi musicisti, hanno delle belle voci,
fanno una musica interessante. Quanta noia però. Rischio di crollare
dal sonno e a metà decido di andarmene.
DUM DUM GIRLS Le DDG hanno un repertorio di una canzone
copiata dai Shop Assistants, e la ripetono dieci volte. Tutto qui.
PET SHOP BOYS L’angolo trash del Primavera. Che ci fanno i PSB a
chiudere il main stage dopo che ci sono passati gruppi rock come
Pavement e Pixies? Ma il pubblico sembra coinvolto. Prova che sul
palco grande potresti piazzarci anche dei pupazzi e la gente si
divertirebbe lo stesso. I PSB l’hanno capito e infatti usano un sacco di
animazioni. Go west.
SAN MIGUEL PRIMAVERA SOUND 2010
Foto per gentile concessione di www.primaverasound.com
Intervista di Alessio Zago
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ML 70
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update n. 71
speciale
RONNIE JAMES DIO
L’uomo sulla montagna d’argento
© 2010 di
Manuel Fiorelli
Avrei voglia di esordire con “Caro Ronnie”, come
se stessi scrivendo a un vecchio affezionato zio
perché la notizia della sua scomparsa mi ha
colpito proprio come la perdita di un parente a cui
si
è
sempre
voluto
bene,
uno
dei
pochi
ovviamente. La voce dell’heavy metal ha smesso
di tuonare sulla terra forse perché consapevole di
aver comunque perpetrato nel tempo un lascito
inimitabile e inavvicinabile per le ambizioni di
chiunque; quasi mezzo secolo di carriera sulla
quale sarebbe velleitaria una qualsiasi analisi fatta
su due piedi; io non ne avrei il coraggio né le
capacità, per questo preferisco tratteggiare le
sensazioni che mi ha fatto vivere con la sua
musica, come nell’immaginario fiabesco e surreale
che ha sempre iniettato nelle sue liriche e che si è
photo by www.ronniejamesdio.com
materializzato agli occhi e alle orecchie di un
allora entusiasta quindicenne. Nascere in una famiglia di musicisti difficilmente lascerà la libertà
di occuparsi d’altro e buon per tutti che all’età di cinque anni il babbo gli impose di imparare a
suonare la tromba, senza sapere che stava gettando le basi per la sua fortuna; applicando le
tecniche per lo strumento all’utilizzo della voce, svilupperà la timbrica che lo consegnerà agli
annali, con tutta la sua veemenza e potenza. All’inizio furono Ronnie and the Prophets e gli
Electric Elves (poi Elf) e sarebbero servite a rodare un talento inversamente proporzionale alla
sua statura fisica; quando però sua eminenza chitarristica, Ritchie Blackmore, lo osservò
cantare on stage, capì prima ancora di batter ciglio quale avrebbe dovuto essere il primo mattone
per costruire il prosieguo della sua carriera post Purple, magari non prima d’essersi chiesto come
un corpo così minuto potesse emettere una voce di tale imponenza. Da quella scintilla sarebbero
scaturiti tre meravigliosi scrigni in vinile coronati da un moniker che è storia dell’hard rock:
Rainbow. Io cito titoli come Long Live Rock’n’Roll o quel vertice inaccessibile che porta il nome
di Rising con la certezza inossidabile di illustrarne a sufficienza spessore e statura. Quando Dio
avrebbe lasciato per seguire nuove strade, i Rainbow sarebbero diventati un’altra cosa, non sto
dicendo brutta ma certamente un’altra cosa. Riascoltare quei dischi oggi è una esperienza che
sortisce lo stesso calcio in culo della prima volta, un biglietto per una corsa fantastica su un
veicolo che si alimenta della sua stessa leggenda…
ML 71
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update n. 71
speciale : ronnie james dio
E
un’altra
Sabbath
cosa
che,
sarebbero
orfani
del
diventati
i
Black
madman
Ozzy
Osbourne, avrebbero risollevato le sorti di una
carriera ormai in discesa libera proprio grazie al
sorprendente ingresso in line-up del piccolo grande
Ronnie, un innesto che ha risvegliato il verbo
seminale del Sabba Nero sviluppandolo in una
chiave più squisitamente metal; ogni volta che tiro
fuori Heaven and Hell mi vedo seduto al primo
banco di fronte a quattro loschi figuri che mi
insegnano cosa significhi Heavy Metal (come se poi
Mob Rules gli fosse da meno). Mentre il mondo
cantava speranzoso le melodie di U.S.A. for Africa
e Band Aid, solo una ristretta cerchia urlava a pieni
polmoni Stars, l’inno degli Hear’n’Aid, progetto a
sfondo
benefico
portato
avanti
da
eminenti
photo by www.ronniejamesdio.com
“capelloni drogati metallici” chiamati a raccolta
proprio dallo spirito nobile del buon Ronnie che comunque, in quanto a solidarietà e aiuti
concreti, non si sarebbe limitato solo a quell’episodio. Un bel giorno deve essersi frantumato i
genitali, basta con i litigi con Blackmore prima e poi con Tony Iommi, era tempo di formare un
gruppo a sua immagine e somiglianza dove un chitarrista virtuoso suonava alle sue dipendenze e
non viceversa; venne così il tempo di Holy Diver e The Last in line, dei tour grandiosi e della
consapevolezza che il metallo pesante aveva tra i suoi numi tutelari e ispiratori una tra le figure
più fulgide e (purtroppo solo apparentemente) immortali! Anche lui è incappato nei passi incerti di
chi si sente fuori dal tempo e cerca di mettersi al passo con risultati francamente opinabili
(Strange Highways e Angry Machines) e quasi lo immagino che si chiede cosa cazzo stia
combinando prima di rimettere le cose a posto e sfornare un album strepitoso come Magica
all’alba del nuovo millennio, tanto per ricordare che chi inventa un gioco è in grado di ricordarne
alla perfezione le regole anche se per un po’ di tempo lo ha abbandonato. Per quanto mi riguarda,
rispetto sconfinato per l’uomo, deferenza e considerazione per il professionista di cui ogni addetto
ai lavori non può non aver riconosciuto meriti e qualità, venerazione e riconoscenza per l’artista…
Il resto lo lascio ai biografi, ai critici, agli almanacchi e ai maniaci della minuziosità, io mi tengo
stretto quello che mi ha lasciato e trasmesso, tanto basta. L’ho visto in concerto dal vivo la prima
volta nel 1987, poco più di undici mesi fa per l’ultima e mentre lo ammiravo sfavillante e in forma
strepitosa sul palco con gli Heaven & Hell, a sessantasei primavere suonate, sembrava che i
ventidue anni trascorsi tra i due eventi fossero passati solo per me. La morte non cancella la
storia, si limita a prendersi il disturbo di tramutarla in leggenda. Grazie di tutto e per sempre
eroe, “catch the rainbow” e osserva pure da lassù il vuoto che hai lasciato, un vuoto tale che
quasi non ti perdonerei…
ML 72
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update n. 71
live review
ARTIST: BAUSTELLE
LOCATION:
Roma, Atlantico (ex Palacisalfa)
DATE: 17.04.2010
WEBSITE:
www.baustelle.it
photo by Nicola Pice
Che i Baustelle non fossero più un piccolo gruppo di culto ma, al contrario, un fenomeno di
massa a me (vecchio) ammiratore della prima ora - legato tenacemente quanto in maniera
oramai patetica a un'idea di musica "altra" - era chiaro da tempo (perlomeno dal successo
popolare del precedente “Amen”). All’ottimo e immediato riscontro commerciale – tre settimane
in top ten - dell’affascinante e obliquo “I mistici dell’occidente” (alla cui recensione dell’ottimo Jori
Cherubini vi rimando su questo stesso numero) è seguito, pertanto, un mini-tour di tre date
(Roma-Milano-Firenze) per supportarne le vendite e per presentare al meglio con l'ausilio di
un'orchestra la complessità sonora di un disco dalle sonorità barocche ancorché decisamente poprockeggianti. La data numero uno all'Atlantico di Roma in una bella serata primaverile, dunque,
ha costituito per chi vi scrive non solo l'occasione per rincontrare vecchi amici (altrettanto)
appassionati ma anche per saggiare gli innegabili progressi live di una band che in passato ha
mostrato qualche incertezza, comunque, giustificabile dalle poche occasioni che erano loro
concesse d'esibirsi dal vivo (almeno fino a La Malavita) e migliorare le loro performance. In un
palazzetto stipato all'inverosimile - che vedeva la presenza d'un pubblico davvero trasversale - i
“baustelli” non hanno deluso le aspettative di quanti erano accorsi per ascoltarli da tutte le parti
d'Italia con una esibizione d'altissimo livello. Accompagnati da un quartetto di fiati e d’archi, un
quartetto di coristi, un chitarrista aggiunto all wall of sound di Claudio Brasini, un tastierista
aggiunto a Rachele (Ettore Bianconi), basso, batteria e percussioni, la band ha privilegiato
nella scaletta i brani de I Mistici dell’Occidente con gli highlights di Amen e de La Malavita
vista la necessità di fidelizzare quella parte di pubblico che ha imparato ad amarli solo
recentemente. Diversamente, però, che dal tour di Amen, in cui il suono era uniformemente
rockeggiante nei momenti più trascinanti e intimamente cantautoriale in quelli più introspettivi, in
cui, pertanto, i Baustelle apparivano come una rock band fine anni '70 con gli arrangiamenti
asciugati dai barocchismi da studio, le possibilità dall'orchestra “mistica” hanno consentito al
gruppo di offrire al pubblico un'esibizione variegata dalle molteplici quasi psichedeliche
suggestioni sonore. È stato piacevole scoprire la maturità raggiunta dai componenti dei
Baustelle. Strabiliante il miracolo vocale del Bianconi, solo qualche sbavatura nell'arrampicarsi
sulle impossibili scale armoniche di San Francesco, emozionante su Il sottoscritto e Il corvo Joe,
sicuro e spigliato con il pubblico nonostante la proverbiale timidezza. Rachele in tiro con coda di
cavallo, ispirata e trascinante in Groupies e La bambolina, sempre più “the maudit side of
baustelle” con quella torbida allure decadente e sexy (per inciso l'unica a fermarsi e salutare il
pubblico all'uscita). Esuberante Brasini soprattutto nel cavalcare le lunghissime “progressive”
code di stampo pinkfloydiano di alcuni brani (come nella Beethoven o Chopin de La Moda del
Lento). Ai fan della prima ora dispiace che la produzione pre-Charlie sia stata penalizzata,
sembra quasi che il gruppo - o il Bianconi non so - voglia segnare il distacco con il suo passato
recente, più plasticoso nei suoni e certamente più nostalgicamenteadolescenziale anche se, la
rimasterizzazione de Il Sussidiario Illustrato della Giovinezza, potrebbe essere il preludio alla
riscoperta (e speriamo riproposta anche live) di quei capolavori ormai lontani nel tempo ma
sempre amatissimi. Ciò che conta, comunque, è la capacità di un gruppo per certi versi innovativo
della nostra musica leggera di essere riuscito a diventare anche una grande “live band”. Menzione
particolare all'esecuzione della suite morriconiana de Il grande silenzio tratta dall'omonimo
capolavoro di Sergio Corbucci (omaggio persino dovuto al grande e neanche troppo nascosto
ispiratore del westernariato sonoro de I mistici dell'occidente) e alla divertente e tenera presenza
entusiasta di un gruppo di giovanissimi beneventani nelle prime file del palazzetto con lo
striscione e annessa caricatura bianconiana recitante: “Francesco, ci pensi ancora alle rane?”.
Nota di colore, certo, ma anche simbolo d'un meritato successo popolare.
Nicola Pice
ML 73
musicletter.it
update n. 71
live review
ARTIST: WILLIE NILE
LOCATION:
Trieste, Teatro Miela
DATE: 15.04.2010
WEBSITE:
www.willienile.com
photo by Jeff Fasano
È da parecchio che ho riscontrato un’intima e oramai consolidata incapacità di gustare un
concerto di qualsivoglia artista. Nessun rammarico in merito, anzi, ma evidentemente “c’è un
tempo per ogni cosa”. Ciò nonostante: Willie avrebbe suonato in centro città (nella mia Trieste) il
15 di aprile, alcuni tra i maggiori specialisti del rock a stelle e strisce lo avevano ripetutamente
citato ed elogiato nei rispettivi blog, il livello dei nomi che approdano in questa evidentemente
remota area geografica è per lo più trascurabile, e infine la figura di “beatiful loser” – titolo
honoris causa decretato al rocker di Buffalo, N.Y. per “meriti” conseguiti in trent’anni di carriera esercita sul sottoscritto un richiamo tutto particolare. Di Willie Nile non avevo sentito che
qualche “sample” qua e là, troppo poco per capirne qualcosa, ma mi sembrava venisse
sopravvalutato (ho sempre avuto la presunzione di capire in poche note se un artista mi piace o
meno e mi ostino da anni con questa idiozia anche se l’esperienza m’ha insegnato il contrario, ma
tant’è…) oppure, come spesso accade, rappresentasse un salvagente in tempi di magra, come
quelli odierni: impressione ovviamente smentita a fine concerto. Anzi, molto prima: certamente
dopo la terza canzone ma, in effetti, qualche avvisaglia di rettifica s’era già sentita sui primi
accordi del primo pezzo. Figura esile, nervosa (non nevrotica), capigliatura simile a quella di Lyle
Lovett, continuamente allontanata dalla fronte assieme a un continuo gesticolare, ammiccare ed
alzare gli occhi al cielo, frenetico enfatizzare delle parole cantate. L’inizio è nello standard ma
l’atmosfera, difficile comprenderne il motivo, è serena. Nel giro di pochi minuti le ritmate ballate
elettriche, metropolitane (è il suo humus, d’altronde), in queste prime fasi debitrici più ai riffs di
Keith Richards che alle armonie dylaniane, sono state capaci di creare l’atmosfera giusta in un
tempo brevissimo e la sensazione dominante è di trovarsi in un locale del Greenwich Village
(dove, in effetti, vive), causa anche il suono del teatro, non propriamente cristallino e le luci,
scarne ed essenziali. Il pubblico, circa 200 persone, partecipa da subito e non esita un momento a
mettersi sotto il palco, faccia a faccia con Willie. L’artista che in questo frangente ritengo più
affine a Willie è l'Elliott Murphy di Murph the Surf: per radici e formazione, esperienza,
(s)fortuna, stile, sonorità, e una voce che spesso vira verso il più caldo dei toni disponibili, nel
disperato tentativo di non disperdere al vento nessuna delle proprie emozioni. Elliott Murphy è
più romantico e bohémien per attitudine laddove Willie Nile potrebbe ricordare una gatto
randagio, un Jack Kerouac, un idealista, un sopravvissuto della Beat Generation (sua effettiva
ispirazione). Entrambi schiacciati, a inizio carriera, dal peso del peggiore dei paragoni possibile:
“nuovo Dylan”. Alla conclusione dei due pezzi introduttivi se ne esce con un “my italiano is not so
good but rock and roll is not so bad”: ci sa fare, è evidente, e spiega com’è nata la bellissima
‘Vagabond Moon’ dal primo album. Da songwriter-storyteller purosangue racconta poi come
durante gli spostamenti in auto per l’attuale tour, gli sia capitato di sentire alla radio Ray Charles
nella sua Hit the road Jack: “La dobbiamo fare!” – dice, rivivendo al presente quel momento di
euforia. È il primo pezzo davvero eccellente, trascinante, e il fatto che sia una cover non toglie
nulla alla sua performance. “Brother Ray – we love you”, e l’indice ad indicare il Paradiso.
ML 74
musicletter.it
update n. 71
live review
Non è facile confrontarsi con il soul di Uncle Ray, eppure il piccolo newyorkese non ha un attimo
di esitazione; impossibile restare fermi o non battere le mani. Grandissimo, e il concerto decolla.
Willie è un personaggio che ispira simpatia, trascina: lui è la parte candida del rock and roll,
quella nata dal sorriso di Buddy Holly. Introducendo Give me tomorrow si espone politicamente
come sostenitore di Obama (“No more George Bush!”). “La mia preghiera”, dice: “ringrazio Gesù
Bambino per essere qui tonight’”. Un puro: deo gratias ne esistono ancora. La band –
apparentemente giovanissima – lo accompagna più che dignitosamente: la batteria, in
particolare, sembra una versione minore di Max Weinberg. Willie è sinceramente contento e
soddisfatto. Rappresenta l’essenza di un rock and roll romantico, sconfitte comprese; è una
rockstar alla periferia dell’establishment e quindi depurata da tutto quello che, personalmente,
faccio fatica a buttar giù quando penso a Dylan e Bruce. Dopo il successo planetario,
quest'ultimo ha cambiato spesso direzione, negli anni, cercando prevalentemente ispirazione
all'esterno quasi che il naturale ammorbidirsi della propria energia lo avesse preso in contropiede
e spaventato all'ipotesi che la sua musa ispiratrice stesse esaurendo il suo compito. Così, molti
lavori hanno lasciato perplessi i fan del Boss che, me compreso, a quasi ogni uscita fanno salti
mortali per comprenderne la chiave di lettura (ascolto). A Willie Nile questo non succede: lui
vede la strada, ogni giorno ed ogni notte; ne annusa gli odori e le esalazioni, ne sopporta
l’impossibile temperatura estiva; si trova fianco a fianco con la gente di ogni genere e razza con
relativi sogni e paure. Lì nascono le sue emozioni e le sue canzoni; questo si può leggere nella
profondità di quello sguardo, quello ritratto nella cover del suo album Beautiful Wreck Of The
World. Bruce è un miliardario: nulla da dire in merito, ma per certe emozioni credo si trovi
costretto ad andare molto indietro con la memoria. Chiusa parentesi. Seguono She’s so cold,
sferzante, dal primo album e Cell Phones Ringin' ecc... “This song is about terrorism and is my
pray for human race”: un’altra preghiera (e non sarà l’ultima) strepitosa, vicina al leggendario
schitarrare di Joe Strummer, lunghissima senza stancare. Abbandona la chitarra, si siede di
fronte alla tastiera, in un angolo buio del palco, illuminato da un unico faro azzurro, fisso, quasi
un riflesso lunare, e il gruppo tace, nell’ombra, mentre Willie si piega sopra i primi bellissimi
accordi di Streets of New York (“I love it”… e chi ne dubitava?). Appassionata dichiarazione
d’amore. Il bassista lo fotografa. Sembra una riunione di famiglia a cui tutti sono invitati. Grande.
Willie canta una N.Y. notturna, solitaria, conosciuta passeggiando sui marciapiedi e a fianco della
gente, come si diceva, una N.Y. che non si concede ai turisti. Il pezzo sembra una jungleland
stroncata all’Intro, forse per una forma di rispetto o forse perché il suo mondo è molto più piccolo
di quello del Boss. In un vecchio numero del Mucchio Selvaggio si parlava delle vite di serie B, di
perdenti, di Beatiful Losers, perché così hanno scelto e non hanno mai avuto alcuna intenzione
di vincere. Willie ha rinunciato a tutto per essere libero. Un baluardo dell’innocenza e della
purezza. Uno che ancora oggi sogna Muddy Waters, Dylan, Hendrix, Hooker, ecc. ecc. e ha
coraggio di metterlo nero su bianco (House Of A Thousand Guitars). Anticipa un brano dell'ultimo
album, in uscita per questa estate, che si chiama The innocent one (“innocent victims around the
world, this is my pray”). Bellissima e drammatica. Si va avanti così a forza di riffs in un vortice
sonoro che a tratti sembra una Vision of Johanna suonata, anche questa volta, da Joe
Strummer. Conclude il concerto con un medley dei Ramones (Blitzkrieg bop-Sheena is a punk
rocker). Applausi a scena aperta, un’ovazione. I miei due ragazzi devono alzarsi presto la mattina
– devono andare a scuola… - e decido di non aspettare il bis, ma sono soddisfatti pure loro.
Buonanotte e in bocca al lupo, Willie, te lo meriti.
Stefano Sciortino
ML 75
musicletter.it
update n. 71
live review
ARTIST: A TRIBUTE TO NICO
LOCATION:
Roma, Auditorium Parco della Musica
DATE: 11.04.2010
WEBSITE:
http://smironne.free.fr/nico/
photo by Rossella Spadi
Quando il 10 maggio dello scorso anno mi ritrovai nel settecentesco Teatro Comunale di
Ferrara per assistere al concerto A Life Along The Borderline - A Tribute To Nico (evento
realizzato da John Cale nel 2008 per il ventennale dalla scomparsa, avvenuta ad Ibiza in una
calda giornata di luglio per una banale caduta di bicicletta, di Nico, al secolo Christa Paffgen,
fotomodella, attrice nonché cantante dei Velvet Underground al fianco di Lou Reed e John
Cale e musa ispiratrice di Andy Warhol alla Factory Newyorkese), beh, quel giorno, non avrei
mai potuto immaginare che l'evento si sarebbe potuto addirittura ripetere l'anno successivo e,
per giunta, proprio qui a Roma! Yes, il giorno 11 aprile all'Auditorium, nel contesto dell'evento
Meet In Town, si è ripetuta quella stessa magia! John Cale e tutta la sua strepitosa banda di
artisti, ancora una volta, nel prestigioso salone Santa Cecilia, quasi tremila spettatori e
naturalmente "sold out". Coadiuvato da Dustin Boyer (chitarre), Michael Jerome (percussioni)
Josh Schwartz (basso) e con gli effetti elettronici di Nick Franglen, Cale ha riproposto i brani
scritti e arrangiati per una donna dalla esagerata bellezza, dalla grande personalità e carisma, sua
musa indiscussa, Nico. Un totale di 18 brani, due per ogni artista intervenuto, divisi in due tempi.
Si apre con la solenne "Frozen Warnings", brano tratto dal glaciale The Marble Index (1969),
con John che, entrato tra l’ovazione del pubblico, si siede schivo al suo pianoforte e ci
regala subito tanta emozione. È quasi totale l’assenza di grossi effetti luce, che invece al concerto
di Ferrara erano stati usati senza parsimonia (cfr foto), cosa che ha dato al concerto la
connotazione che doveva avere, quella di un (purtroppo) mesto e struggente tributo, privo cioè di
quella euforia, di quella leggerezza che siamo abituati a respirare in
tutti i concerti pop rock
(anche il recente evento luttuoso, la prematura scomparsa di Mark Linkous di Sparklehorse,
interprete delle sentite Afraid e You Forgot To Answer nella prima edizione, ha probabilmente
accentuato questa china). Lo segue Lisa Gerrard (Dead Can Dance), voce importante,
coadiuvata anche da effetti ed eco, statuaria nel suo velluto rosso, nella riproposizione di "The
Falconer" (Desertshore, 1970). In un secondo tempo interpreterà No One is There (The Marble
Index), accompagnata dal solo ensemble di archi, in una versione molto evocativa. Poi è la volta
di Laetitia Sadier (Stereolab) nella sua delicata interpretazione di "My Only Child" (da
Desertshore), accompagnata per l'occasione dall'istrionico Jonathan Donahue, frontman dei
Mercury Rev, alle prese con uno strano strumento, una "sega" suonata con l'archetto per
ricreare l’effetto del theremin, dai suoni acuti e vibranti. Il suo secondo pezzo, dopo la pausa,
sarà Afraid ( da Desertshore). A differenza dello scorso anno stavolta Cale ha portato sul palco
quasi solo voci femminili, eccezione fatta per Donahue e per l’ex Screaming Trees Mark
Lanegan, molto amato qui da noi ed accolto anche quest anno molto calorosamente, capace di
interpretazioni dense e molto sentite delle bellissime Roses in The Snow (The Marble Index) e
poi di You Forgot To Answer (da The End). È il turno delle CocoRosie nella persona di Coco, aka
Bianca Casady, che dopo tanta mestizia riesce a darci una vera sferzata di energia con la più
"improbabile" delle voci, modulata in varie tonalità e timbri, interpretando Abschied (da
Desertshore).
ML 76
musicletter.it
update n. 71
live review: a tribute to nico
Stesso stile e stessa energia che ci trasmetterà, poi, nel secondo tempo, la sorella Rosie, aka
Sierra Casady, con Win A Few (da Camera Obscura), che invece l'anno prima era stata
interpretata da Lanegan. Le CocoRosie sono due interpreti dalla grande tenuta scenica,
vivacissime e così creative nelle loro "mise" molto londinesi [adoro]. Richiamano, sia nel modo di
cantare che nel look, le veterane Kate Bush e Cindy Lauper ma anche Nina Hagen e Lene
Lovich. Per chi come me non le aveva mai viste live sono state una vera rivelazione. Grandi
Cocorosie! Joan As Policewoman, al secolo Joan Wasser, alle prese con Janitor of Lunacy non
ripete la performance di Peter Murphy dei Bauhaus (che a Ferrara sorprese tutti spargendo
ovunque petali di rose rosse!) ma è tuttavia perfetta nella sua esibizione. Emozionata, indossa un
gilet nero su bermuda, con lustrini e paillettes, mentre ai piedi spiccano un paio di tronchetti anni
'20, tacco alto, allacciati davanti e laccati total white: bel contrasto! La Donnapoliziotto si
ripresenterà, dopo la pausa, da sola al pianoforte, per regalarci una magistrale interpretazione di
My Heart is Empty (da Camera Obscura), con una voce carica di emozione che ha strappato a
un pubblico, in generale molto contenuto e anche un po’ distratto, uno scrosciante applauso!
Indimenticabile Joan! È poi la volta poi dell "extraterrestre" Jonathan Donahue, fondotinta
verde/argento sul viso e orecchie da Star Trek, l'anno prima aveva addirittura un cerchietto
luminescente in testa, a interpretare Fearfully in Danger (da Camera Obscura), e poi Evening of
Light (da The Marble Index), trascinante, nel quale spicca il suono di una chitarra che ha più
del mandolino, suonata con l'archetto dall'eccellente Sean Mackowiak. Chiude il primo tempo la
brava My Brightest Diamond aka Shara Worden, con una imponente interpretazione di Ari's
Song (da The Marble Index). La scopriamo, osservandola di profilo, essere addirittura in
avanzato stato di gravidanza! Auguri Shara! In tutto questo alternarsi di personaggi, Cale,
naturalmente, ha lasciato la scena alle sue/suoi bravi interpreti accompagnando la maggior parte
dei brani all'organo/tastiera, per poi riproporsi di nuovo in voce, nel secondo tempo, in una
stupenda Sixty Forty (da The Drama Of Exile) e infine Facing the Wind (da The Marble Index).
Molto pathos e menzione particolare per il bravissimo batterista/percussionista Michael Jerome.
Così scivolano via due ore di altissima qualità. Penultimo brano per Soap & Skin, al secolo Anja
Plaschg, giovanissima pianista austriaca, autrice e cantante dalla voce molto simile a quella di
Nico (ed interprete di una pellicola cinematografica sulla vita della Paffgen). Anja è una ragazza
di grande modestia, ha avuto il giusto riconoscimento del suo talento poiché, fino a un'ora prima
di entrare in scena sul palco del Tributo per interpretare, come l'anno precedente, una perfetta
Tananore (da Camera Obscura), in Sala Sinopoli aveva dato vita a uno stupendo concerto al
piano ed archi, nel quale ha veramente sfoggiato tutta la sua bravura (sono riuscita ad assistere a
una sola mezz'ora del suo bellissimo concerto, perché, in effetti, gli eventi del Meet In Town si
sono accavallati gli uni sugli altri: c'erano persone che non avevano acquistato il biglietto
omnicomprensivo di tutti gli spettacoli, tanti gli intrattenimenti senza soluzione di continuità,
addirittura dj set allestiti nei foyers delle sale, che producevano i più vari generi musicali dal dub
alla house, dal funk all'elettronica. Ovunque esplosioni di musica! Per citare i Blackbyrds un vero
Walking in Rythm per tutto l'auditorium! Straordinario! Gran finale: tutti sul palco performing All
that is my own (da Desertshore), Cale appare soddisfatto e, finalmente, nel finale ci saluta con
un sorriso! Inchino generale, tutti contraccambiano l'applauso ed ecco uscire tutti di scena,
invano il pubblico chiama per il bis... le luci in sala si accendono; Cale non si concede, come
invece aveva fatto l'anno precedente nella bella cornice del teatro di Ferrara, dove il Maestro non
poté esimersi dal rientrare in scena per il bis... Dopo cinque minuti almeno di chiamate urlanti del
pubblico!
ML 77
musicletter.it
update n. 71
live review: a tribute to nico
Difatti rientrò sul palco addirittura in camicia, semi allacciata e a piedi scalzi, si mise al piano e
con vera commozione ci disse: ”Thank you, you are amazing!" e ci regalò una strepitosa versione
di Close Watch, che tuttora, a pensarci, mi vengono i brividi! Unforgettable! Invece quest’anno
niente, l'atmosfera più contenuta, pubblico un pò troppo distratto... Forse troppi accreditati,
troppi fotografi, gente "fluttuante" tra gli eventi. Il concerto invece avrebbe meritato un religioso
silenzio. Una cosa è certa: se il prossimo anno ripeteranno il Meet In Town sarà estremamente
difficile eguagliare il livello raggiunto da Cale, sia per intensità e qualità dei pezzi, sia per le
interpretazioni che per la solennità dell'evento. Nico resterà così, per sempre, viva nel ricordo di
tutti finché ci saranno musicisti di questo calibro su di un palco riuniti per lei! John, sei stato
grande, non potevi renderle omaggio più degno. Lunga vita a Nico!
Rossella Spadi
ML 78
musicletter.it
update n. 71
live review
ARTIST: FATSO JETSON
LOCATION:
Brescia, Latte Più
DATE: 08.04.2010
WEBSITE:
www.myspace.com/fatsojetson
photo by fatsojetson.com
Non so se vi è mai capitato di andare a un concerto da soli. La sensazione è strana: da una parte
la possibilità di concentrarsi pienamente sull’esecuzione, dall’altra la tristezza del non poter
condividere il momento insieme alla tua ragazza o a qualche amico. Essendo in solitaria la prima
cosa sui cui focalizzo ogni mia mira è il banchetto del merchandising. Come spesso succede quello
del gruppo spalla è custodito, mentre per il gruppo principale bisognerà aspettare più di un’ora.
Dopo un’attesa abbastanza snervante di due ore (una birra non può tenerti compagnia più di
tanto) salgono sul palco i piacentini Oak’s Mary. Il loro rock è molto onesto e d’impatto, un misto
di stoner, rock Seventies, Jimi Hendrix: i dieci anni passati su palchi italiani e esteri si fanno
sentire. Ottima la sezione ritmica, buoni i riff, sicuramente più convincenti rispetto all’ultima volta
che li ho visti come opening per Brant Bjork. L’unico appunto negativo che potrei fare è il fatto
che cerchino di creare un siparietto goliardico tipico di un certo provincialismo italico che spesso e
volentieri è mal digerito dal sottoscritto (tipico di molte realtà musicali italiane del resto).
Probabilmente sono troppo esterofilo o troppo vincolato all’idea di una certa professionalità su un
palco o non colgo l’ironia. Tolto questo piccolo appunto, sicuramente promossi per un prossimo
live. Verso mezzanotte è il turno dei Fatso Jetson. Prima della loro esibizione avevo concesso
solo qualche ascolto distratto ai loro dischi etichettandoli (che brutto questo termine!) come
stoner sperimentale. Per la serie “Ti aspetti una cosa ed è tutt’altro”. Nulla di più diverso in
realtà: il suddetto genere c’è, ma è centrifugato tra divagazioni psichedeliche degne dei migliori
Gong e mazzate hard boogie con unvago sentore blues qua e là. All’interno di un suono molto
amalgamato e ottimamente suonato risaltano le prestazioni di Mario Lalli, ottimo chitarrista e
cantante (Fatso per intenderci…) e il nuovo membro Vince Meghrouni, che si destreggia
abilmente tra sassofono e armonica. È proprio quest’ultimo elemento che permette al gruppo di
uscire dai canoni di un genere solitamente molto statico per inseguire fughe allucinogene e
allucinanti per chi le ascolta. Ottima pure la sua presenza sul palco, un piccolo Jack Nicholson
indemoniato che salta e si contorce come se fosse immerso completamente nell’atmosfera
improvvisata di questa esibizione. Il ristretto pubblico della serata applaude e sembra
assolutamente coinvolto dal quartetto, segno che la sperimentazione sonora può entusiasmare
pure se a discapito dell’immediatezza. Mi allontano dal locale solo ma sicuramente soddisfatto per
la bella serata regalataci da questi divertenti californiani, e se qualcuno, prossimamente, si
trovasse a bazzicare per le vie di Sierra Madrè (California) e si imbattesse in un piccolo ristorante
in cui suonano musica jazz e blues, potrebbe avere la possibilità di vedere i Fatso Jetson dal
vivo. Ebbene sì, uno di questi locali è di proprietà dei cugini Lalli (di Mario ne abbiamo già parlato
precedentemente, Larry è il bassista del gruppo). Chi organizza il prossimo viaggio?
Matteo Ghilardi
ML 79
musicletter.it
update n. 71
live review
ARTIST: SIX MINUTE WAR MADNESS
LOCATION:
Mezzago, Bloom
DATE: 05.03.2010
WEBSITE:
www.myspace.com/sixminutewarmadness
photo by sixminutewarmadness.com
Un mese. Ho impiegato tutto questo tempo per cercare di dar forma all’ultima esibizione pubblica
dei Six Minute War Madness. Il contesto è la festa per i dieci anni di attività della Wallace
Records. La location è il Bloom di Mezzago, da sempre una delle mie mete preferite, uno dei pochi
locali in cui mi sento veramente a casa ogni volta che trascorro una serata al suo interno. Apre le
danze un gruppo anconetano a me sconosciuto, i Leg Leg: math rock strumentale pregno di
richiami al suono doncaballeriano. La proposta è interessante, sicuramente da rivedere per una
valutazione più approfondita. Subito dopo è il turno dei R.U.N.I.: hanno dalla loro la capacità di
intrattenere e far divertire il pubblico, tra nonsense e ilarità. La musica? Fondamentalmente un
synth pop in puro stile anni ’80 che giustifica e aumenta il mio disprezzo per queste sonorità. I
Six Minute iniziano il loro set poco prima dell’una rispolverando uno dei loro primissimi pezzi,
L’ora giusta (anche se la versione inglese è inferiore a quella ascoltata sul loro primo disco). Il
suono iniziale è abbastanza confuso anche se da subito sono in risalto le geniali intuizioni di
Xavier Iriondo e l’ottima presenza scenica del cantante Federico Ciappini. La scaletta è
improntata sulle canzoni più rappresentative del complesso… E mentre riascolto con immenso
piacere pezzi come Test test (una delle mie preferite) e Il tuo nemico in più (Even song, sempre
in inglese) rispolvero la prima volta in cui ascoltai questo gruppo milanese. All’epoca ero un
assiduo lettore di Rocksound, che non era ancora quella rivista patinata e insulsa che è oggi. In
allegato c’era un disco in omaggio (più o meno) con musica selezionata dai redattori e ricordo di
essere rimasto folgorato da Dolores, canzone che faceva da trait d’union tra un rumorosissimo
alternative rock e una biascicata e sbilenca voce, il tutto in lingua italiana. Poi di colpo li ho
abbandonati, vuoi per la difficoltà nel reperire materiale, vuoi per distrazione… Fin quando un mio
carissimo amico riuscì a recuperarmi gran parte della loro produzione. Da lì fu un lento e graduale
avvicinarsi alle cupe sonorità di questo gruppo milanese, ma sto divagando, probabilmente per
l’attuale interesse verso la riscoperta di Lester Bangs (ma di questo n potremo parlare
successivamente). Ripassare la scaletta in questo caso non ha senso, l’unico modo per
raccontarla è l’essere stati presenti. È ancora con un briciolo di emozione che ricordo la
commozione dei componenti della band alla fine della loro esibizione, un dispiacere pensare che
questo sia un addio e non un ritorno. Me ne vado con un po’ di magone e la discografia omnia
sottomano… “Sì come dice un motto: ‘La fine loda tutto’. E tutto ciò ch’on face, pensa o parla o
tace, a tutte guise intende a la fine ch’atende: dunqu’è più graziosa la fine d’ogni cosa che tutto
l’altro fatto” (Brunetto Latini, “Il tesoretto”).
Matteo Ghilardi
ML 80
musicletter.it
update n. 71
rubrica
PRESI NELLA RETE
Belladonna, Addiction Crew, Wipe Away, Betty Poison e Heike Has The Giggles
© 2010 di
Stefano Bon
Come ben si sa, la presenza femminile in campo
musicale è sempre stata di contorno, nonostante
l’input sessuale sia la vera scintilla alla base della
nascita del rock. Con il tempo e grazie al fottuto e
abusato “progresso” le donne si sono ritagliate ampi
spazi e oltre al classico ruolo di interprete si sono
fatte notare come strumentiste, tecnici e produttrici
di
valore.
Ad
esempio
questi
Belladonna
(www.myspace.com/wwwbelladonnatv) di ragazze
in formazione ne hanno tre e quella che risalta
maggiormente è come da copione la vocalist Luana, che mostra un’ottima preparazione e una
gran presenza. Si potrebbe paragonare a Cristina Scabbia seppure non ne replichi le arditezze
vocali. Belladonna è una band di metal classico che vira verso un AOR piacevole, un genere che
da noi è considerato poco; infatti sul loro sito fanno bella mostra collaborazioni con artisti stranieri
e fior di tournèe in paesi anglosassoni, dove per questa musica impazziscono. Le belle trame
chitarristiche della band romana mettono in evidenza anche un’ispirazione oscura che rende più
interessante
il
loro
lavoro.
Ottimo
pedigree
metal
anche
per
gli
Addiction
Crew
(www.myspace.com/addictioncrew) che sono in giro da tanti anni, ma non per questo hanno
annacquato il loro sound. Sono passati anche dai lidi della Earache, a cui però mi paiono
piuttosto estranei e nel frattempo hanno cambiato la voce che da maschile è passata a Marta
Innocenti (che da par suo si diletta in cose più soft www.myspace.com/martainnocenti) Il loro
nu metal (cassettone un po’ malandato in cui vengono buttati tutti gli artisti che non si rifanno ai
dei classici dell’heavy)
ha beneficiato di questi cambi, anche se una maggior convinzione nei
propri mezzi ed una ricerca più approfondita verso sonorità diverse li farebbe risaltare nel
mucchio. Restando dalle parti della “musica pesante”, ma volando oltre Adriatico arriviamo in
Montenegro dove troviamo i Wipe Away (www.myspace.com/wipeaway); qui le armi del critico
sono veramente poca cosa perché si entra in un’altra dimensione. Non essendo adepto del genere
probabilmente mi sfugge qualcosa, ma non può non incuriosire un tentativo di unire il suono
balcanico (già a suo modo crocevia di influenze europee e arabe) anche in questo caso ad
appannaggio di una voce femminile e il growl classico del metal estremo.
Se ci mettete le
inclinazioni gotiche e l’ispirazione biblica, il quadro è completo. Facendo un doppio salto mortale
torniamo in patria e cambiano genere con i Betty Poison, (www.myspace.com/bettypoison1)
band frusinate dedita a un crudo alternative senza fronzoli e molto efficace; la rabbiosa sensibilità
vocale di Lucia Rehab è una delle più belle che ci siano in giro e poi non si può non amare un
gruppo che ha in repertorio una canzone intitolata Paris Hilton up your ass.
ML 81
musicletter.it
update n. 71
rubrica: presi nella rete
Recentemente hanno aperto per le Hole di Courtney Love e, senza temere di sfiorare il ridicolo,
ammetto di preferire i Betty Poison. Per chiudere una band di cui si è fatto giustamente un gran
parlare: gli Heike Has The Giggles, terzetto che vede alla chitarra e voce Emanuela Drei e
sulla
cui
pagina
www.myspace.com/heikehasthegiggles
trovate
alcune
canzoni
che
loro
definiscono heavy pop. Dal mio punto di vista sono più pop che heavy, ma questo non è certo un
demerito, anzi, e la loro freschezza indie può essere messa sullo stesso piano di più blasonate
band italiane ed estere. Il fatto che siano giovanissimi e che arrivino dallo stesso paese della
Pausini può essere divertente, ma non getta ombre sul loro percorso artistico (semmai è la
Pausini l’Alien in una scena creativa…) che li ha fatti approdare a un primo album (Sh! – Kitano
Rec.) e a una crescita continua dal vivo.
ML 82
musicletter.it
update n. 71
altri percorsi: libri
SIMON WINCHESTER
Krakatoa
Longanesi & C., 2004
di Ilario La Rosa
Le eruzioni vulcaniche e la presenza stessa dei vulcani rappresentano uno dei migliori esempi di
convivenza forzata tra la specie umana e le forze più devastanti della natura. In Italia a riguardo
abbiamo due esempi tra i più significativi a livello mondiale, ovvero il Vesuvio e l’Etna. Entrambi
gli edifici vulcanici sono collocati, infatti, nelle immediate vicinanze di due grossi centri urbani,
Napoli e Catania e, specialmente nel primo caso, costituiscono una minaccia costante per gli
stessi abitanti che ne abitano le pendici. Non si tratta di un caso; molto spesso i terreni circostanti
gli edifici vulcanici sono tra i più fertili in assoluto, in virtù della elevata alterabilità delle lave e dei
prodotti di ricaduta delle eruzioni, che vengono immediatamente invasi dalla vegetazione,
perlomeno fino alla successiva eruzione e sono stati, per tale motivo, rapidamente colonizzati in
passato dai nostri predecessori. Il libro di Simon Winchester, geologo, reporter del National
Geographic, contempla perfettamente tutti questi aspetti. Infatti, il Krakatoa è un vulcano molto
attivo, situato al centro dello stretto della Sonda, il braccio di mare che divide l’isola di Sumatra
da quella di Giava, in Indonesia. Si tratta, com’è noto, di luoghi molto popolati (oggi tale stato
conta 220 milioni di abitanti e rappresenta il paese a maggioranza mussulmana più popoloso del
mondo), in cui gli abitanti convivono da sempre con la presenza ingombrante di numerosi vulcani
molto attivi. Negli ultimi giorni di Agosto del 1883, l’edificio vulcanico del Krakatoa, un’isoletta al
centro dello stretto, esplose quasi totalmente in una immane eruzione vulcanica, producendo il
suono più forte mai udito da orecchio umano, avvertito distintamente fino in India, a 4000 km di
distanza. Le conseguenze per i luoghi abitati immediatamente adiacenti al vulcano, ma non solo
quelli, furono ovviamente devastanti; un onda di maremoto alta fino a 40 m travolse ogni cosa
nelle coste dello stretto, una nube alta fino a 80 km (!!!) si levò dalla sommità del vulcano e le
ceneri di ricaduta si depositarono a centinaia di km di distanza, nell’isola di Giava e Sumatra. Le
ceneri giunte alle quote più alte finirono nella stratosfera e entrarono nella circolazione
atmosferica globale, facendo il giro del mondo e fornendo utili indicazioni agli scienziati
dell’atmosfera riguardo la dinamica delle correnti in quota. In tutta l’Europa occidentale per molti
mesi i tramonti ebbero una colorazione rossastra particolarmente accesa, a causa delle polveri
immesse nell’atmosfera, che fu immortalata in molti dipinti dell’epoca, come era già accaduto
alcuni anni prima nelle più famose opere del pittore inglese William Turner, in seguito alle
conseguenze dell’eruzione vulcanica del Tambora nel 1815, avvenuta sempre in Indonesia.
ML 83
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update n. 71
altri percorsi: simon winchester
Simon Winchester descrive benissimo tutta la vicenda, non solo dal punto di vista tecnico e
documentale, ma inquadra l’evento nel contesto storico e socio-antropologico dell’epoca; vengono
descritti i traffici della Compagnia delle Indie, tra l’Europa e l’Indonesia, con tutte le navi che
passavano vicino allo stretto dirette nella madrepatria. Tutta l’eruzione è narrata attraverso le
fonti storiche dell’epoca, tramite i bollettini delle stesse navi e le testimonianze degli abitanti del
luogo. Le fasi che precedono l’eruzione vengono descritte in un crescendo parossistico, con la
minaccia che incombe, i boati sempre più frequenti, le prime eruzioni di minore entità, preludio
alla catastrofe del 28 Agosto, giorno dell’eruzione principale. In realtà, i giorni 26-27-28 Agosto
furono tutti caratterizzati da esplosioni violentissime, che sconvolsero la vita degli abitanti fino
alla capitale Giakarta, situata a 300 km di distanza, in cui il cielo si era completamente oscurato
durante le fasi più acute dell’eruzione e l’aria era diventata irrespirabile. La vita di milioni di
persone fu quindi
completamente stravolta da un evento naturale, forse il primo seriamente
documentato con questi dettagli nella storia umana, in un periodo ormai caratterizzato da
conoscenze scientifiche più approfondite e dall’avvento della rivoluzione industriale e tecnologica
della seconda metà dell’ottocento, che già consentiva una comunicazione più rapida tra i
continenti ed un afflusso più massiccio di notizie dall’oriente al’occidente. La storia del Krakatoa è
narrata in tutta la sua completezza nel libro, che dedica gli ultimi capitoli ad Anak Krakatoa (il
figlio di Krakatoa), il nuovo vulcano emerso dall’acqua dopo la distruzione del cono principale.
Questo piccolo edificio vulcanico è già cresciuto ed è attivo come il suo predecessore; le
caratteristiche tettoniche e petrografiche dell’area in cui è situato lo condurranno inevitabilmente
ad accumulare energia negli anni (decenni, forse secoli) futuri, riproponendo le condizioni
scatenanti che avevano innescato l’eruzione del 1883, come già successo in passato e come
succederà in futuro, in attesa della prossima colossale eruzione del nuovo figlio di Krakatoa.
ML 84
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frammenti di cinema rimosso: undicesima parte
LETTERA APERTA A UN GIORNALE DELLA SERA
Un film di Francesco Maselli
Regia di Francesco Maselli
Franco Cristaldi per Vides Cinematografica-Italnoleggio Cin.Co
1970 (Italia)
di Nicola Pice
Dopo aver esplorato (con scarso successo commerciale) non senza asciutto acume e buona dose di
ironia gli ambiti della commedia di costume con “Fai in fretta ad uccidermi... ho freddo” del 1967 e
“Ruba al prossimo tuo” del 1969, Francesco “Citto” Maselli decide che è arrivato il momento di
rivolgere lo sguardo all'ambiente dell'intellighenzia di sinistra – che è anche il suo mondo - per
metterne in evidenza abitudini e manie, limiti e velletarismi. “Lettera aperta a un giornale della sera”,
film in cui il regista recita ed è anche autore del soggetto e della sceneggiatura, da un punto di vista
strettamente filologico, apparterrebbe, pertanto, al fertile filone della commedia all'italiana
configurando il tentativo di realizzare in maniera più o meno esplicita un certo tipo di amarognola
satira sociale e politica dall'impianto fintamente realistico e molto attento agli umori e agli accadimenti
contemporanei. Stilisticamente, invece, Maselli – al fine della determinazione d'un effetto di ambiguo
straniamento - adotta gli insegnamenti del frammentario cinèma-vèritè godardiano: gira interamente il
film in 16mm utilizzando con grande frequenza la macchina a mano e lo zoom (in controtendenza alle
proprie abitudini che prevedono ariose carrellate) e doppiando “fuori sincrono” i personaggi-interpretidi-sé-stessi. La lettera a cui fa riferimento il titolo è quella che un gruppo di intellettuali comunisti
scrive a un giornale, dichiarandosi “disponibile” a combattere volontariamente in Vietnam, e che sarà
pubblicata, diventando un piccolo caso internazionale, sull'Espresso anziché sul foglio di partito a cui
era stata indirizzata nella certezza di non vederla uscire. Le adesioni (anche prestigiose come quella di
Sartre) si moltiplicano rendendo più che possibile l'ipotesi d'una partenza che in realtà nessuno dei
firmatari vorrebbe e si aspetterebbe. La descrizione quasi cronachistica del lento scorrere delle vuote
giornate del gruppo nell’attesa per qualcosa che (non) sarà risulta, pertanto, impietosa. Maselli opta,
infatti, per un'esemplare - sincera quanto algida - rappresentazione delle ipocrisie che costituiscono il
sostrato alle esitazioni dei personaggi (esistenziali ancor prima che decisionali). Lunghe,
autoreferenziali ed infruttuose discussioni avvolgono, come il fumo delle loro sigarette, i fatui e narcisi
protagonisti, seduti su scomodi e bassi divani moderni o distesi su letti ancor più bassi con le loro
donne che, pur passando con indifferenza dall'uno all'altro, sono molto critiche nei confronti dei
compagni. Nei desiderata dell'autore l'inerzia del gruppo appare, quindi, evidente metafora
dell'impotenza della sinistra (italiana?) incapace (al di là di sterili elaborazioni teoriche) di fornire con
concretezza nella magmatica e cruciale fase storica post-sessantottina stili di vita progettualmente
alternativi ai clichè della borghesia capitalistica. Il “dispiacere” con cui alla fine dell'opera accolgono la
notizia che la partenza non ci sarà è paradossalmente sincero perchè inconscia consapevolezza della
propria inettitudine. La fiacca rassegnazione con cui si allontanano senza parlare improvvisando una
partita di calcio con un barattolo (situazione, nell’immaginario, tipicamente italiana) prefigura
simbolicamente l'incerto futuro “conformista” d'una sinistra purtroppo non in grado di modificare il
corso impetuoso della storia e che, al contrario, diventerà essa stessa “èlite” molto lontana dai bisogni
di quelle masse che pretenderebbe di rappresentare.
ML 85
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frammenti di cinema rimosso: undicesima parte
VITA PRIVATA DI SHERLOCK HOLMES
Un film di Billy Wilder
Regia di Billy Wilder
Phalanx Mirisch | United Artists
1970 (Gran Bretagna – U.S.A.)
di Nicola Pice
Dopo aver segnato le origini del noir con “La fiamma del peccato” (1944) e aver svelato nel biennio
1950-1951 prima con il sublime e, al contempo, doloroso flashback de “Il viale del tramonto” l’anima
oscura di Hollywood e, poi, i retroscena del mondo del giornalismo con “L’asso nella manica”, Billy
Wilder aveva seguito le orme del suo maestro Lubitsch votandosi prevalentemente alla commedia
leggera. Vedranno la luce in questo decennio (e in quello successivo) opere brillanti come “Sabrina”,
“Quando la moglie è in vacanza”, “A qualcuno piace caldo” e, soprattutto, lo straordinario
“L’appartamento”, film destinati a occupare un posto di assoluto rilievo nella storia del cinema. Quattro
anni dopo il fortunato e divertente “Non per soldi…ma per denaro”, il regista d’origine austriaca
intraprende una singolare, quanto coraggiosa, riscrittura dell’affascinante personaggio creato dalla
penna di Conan Doyle: “La vita privata di Sherlock Holmes”. L’attrazione fatale per il detective – da cui
scaturisce la decisione di rappresentarlo come mai prima d’ora – è determinata con ogni probabilità dai
(casuali ma numerosi) punti di contatto tra le caratteristiche psicologiche di Holmes, lucidamente
analitico ed in apparenza sempre composto ed equilibrato, e l’ars cinematografica di Wilder, costruita
con l’ausilio - anch’esso equilibratissimo - di dialoghi rigorosi e di sceneggiature estremamente fluide.
All’autore, però, non interessano le regole del mystery movie e la (possibile) congruità del suo gioco ad
incastro. Di certo, da un punto di vista strettamente formale l’opera ci appare come un’elegante spystory (confezionata con scenografie e costumi sofisticati e resa ancor più accattivante dai raffinati
movimenti di macchina e da un montaggio che riesce ad evidenziare i momenti narrativi più
importanti) ma per Wilder assume maggior rilievo la rappresentazione delle debolezze (e, dunque,
l’umanità) del personaggio. L’incontro di Holmes con la donna misteriosa (spia internazionale dai molti
nomi) che gli commissionerà l’incarico di ritrovare il marito in una girandola di intrighi segna anche il
personale “sunset boulevard” del detective, il momento in cui la corazza di razionalità indossata per
difendersi dall’insensatezza del vivere si sgretolerà a contatto con l’astuzia istintuale – animalesca
verrebbe da dire – della donna, simbolo genuino delle forze della natura. Siamo di fronte, dunque, a un
profondo capovolgimento narrativo: nel palcoscenico della vita il vero sconfitto è quello che vince
tacitando le pulsioni dell’es(sere) nella presunzione – novello demiurgo fallito – di comprendere,
svelare e ragionare. L’Holmes di Wilder, infatti, ha perso il carisma di investigatore infallibile ed ha
smarrito il senso stesso delle sue azioni, si mostra stanco e confuso suscitando nello spettatore
tenerezza in luogo dell’ammirazione che spetterebbe all’eroe. La stessa compassione riservatagli dal
fido sodale dottor Watson, che nel film non è più il testimone delle imprese del suo amico (pubblica su
un giornale il resoconto dei casi risolti dal detective) ma un assistente spirituale pronto a confortarlo
nel momento più basso della sua miseria morale fornendogli l’oblio della droga. “La vita privata di
Sherlock Holmes” assume, dunque, il significato della decostruzione di un mito letterario con i segni,
però, dello stile malinconicamente struggente del suo autore che lo rendono un’elegia crepuscolare
sulla solitudine e sull’imperfezione umana, un apologo decadente sull’impossibilità di piegare
l’esistenza ai propri voleri.
ML 86
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frammenti di cinema rimosso: undicesima parte
ZABRIESKIE POINT
Un film di Michelangelo Antonioni
Regia di Michelangelo Antonioni
Carlo Ponti per MGM
1970 (Italia)
di Nicola Pice
Con “Blow-up” Michelangelo Antonioni era entrato in un filone cinematografico radicalmente
autoriflessivo al servizio della “messa a nudo” della reificazione della cultura di massa. Quattro
anni più tardi “Zabriskie Point” rimescola violentemente le carte in tavola per disorientare critica e
pubblico. Solo in apparenza dedicato alla contestazione studentesca (e, per questo motivo
assimilato erroneamente al coevo “Fragole e Sangue” di Hagmann, apprezzabile ma diversissimo)
racchiude una serie impressionante di provocazioni che rendono pressoché impossibile distinguere
gli innegabili riflessi esistenziali del suo autore dagli elementi di analisi politica e di critica sociale.
Sullo sfondo dei cambiamenti sociali sessantottini viene rappresentata una storia d’amore (e
morte), l'incontro di due solitudini, di due anime quanto più lontane possibili si possa immaginare,
la fuga da un mondo impossibile e l’avventura verso un mondo improbabile alla ricerca di una
felicità probabilmente impossibile. È solo un caso che il teatro di questi avvenimenti sia l’America
(la California, il deserto del Mojave, il campus universitario di Los Angeles), la frontiera di un
(possibile) nuovo mondo (migliore?!) già contaminato dai vizi di quello che abbiamo conosciuto?
Oppure che la messa in scena si svolga sugli scontri universitari (filmati con freddezza quasi
documentaristica), che prosegua con l’odissea nel deserto e abbia termine con la morte di Mark e
l’allucinazione (!?) della sua ragazza Daria… Non sarà (più probabilmente) lo strumento di cui
Antonioni si serva per precostituire un inquietante e lontano ambiente “alieno” in cui avvolgere
due esseri umani confusi e smarriti nel deserto della contemporaneità? L’autore non vuole chiarire
(semmai spargere incertezze), porre – forse – le fondamenta di un’opera aperta, di una maniera
differente di rappresentare la realtà in cui fluidamente gli oggetti e, dunque, gli stessi esseri
umani acquistano nuovi significati in un rinnovato ordine di senso. Agli spettatori attoniti, al
contempo affascinati e infastiditi, rimangono, alla fine, i segni di un anomalo straniamento, di un
film “comunque” delirante, rivoluzionario, debordante, speranzosamente utopico ma
drammaticamente cinico, angoscioso ma liberatorio, hippy seppur anarchicamente iconoclasta.
Resta la forza assoluta di immagini tra le più devastanti della storia del cinema: lo scontro fra i
contestatori e la polizia a Los Angeles, l'incontro fatale nel deserto del Mojave fra Mark e Daria,
l’idilliaca, estatica ed estetizzante scena d'amore a Zabriskie Point al suono della chitarra di Jerry
Garcia, l’apocalittica esplosione finale (girata con 17 macchine da presa su musica dei Pink Floyd
con isteriche urla in pura cacofonia di Roger Waters) sul cui significato sono stati versati fiumi
d’inchiostro (allegorica cacciata dal Paradiso terrestre o autodistruzione della società
consumistica?). Nella perfezione del connubio tra immagini e musica (il lascito stilistico maggiore
di quest’opera) ci viene affidata una parabola sulla libertà che deve esser vissuta come fosse
un’esperienza psichedelica. Disse Alberto Moravia: “… è esplosa l’arte di Antonioni”.
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