ML - Update n. 71
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ML - Update n. 71
MUSICLETTER .IT © ML 2010 - FREE Musica & altri percorsi | La prima non-rivista che “sceglie il meglio” - www.musicletter.it - Anno VI - Update N. 71 INTERVISTA LALI PUNA MUSICA ...A TOYS ORCHESTRA, DEFTONES, BAUSTELLE, LIARS, AMOR FOU, BLACK REBEL MOTORCYCLE CLUB, DONDOLO, ROKY ERICKSON WITH OKKERVIL RIVER, THE MORNING BENDERS, FEVER RAY, FATSO JETSON, FONOKIT, WILLIE NILE, PASSE MONTAGNE, CESARE BASILE, MIKE PATTON, THE BRIAN JONESTOWN MASSACRE, MELISSA AUF DER MAUR, SIX MINUTE WAR MADNESS, THE PACK A.D., BLACK FLAG, THE FLESHTONES, KARATE, BOB DYLAN, AFRICA UNITE, ALAN SORRENTI, GREEN ON RED, JOHN GRANT, THE FUZZTONES, REMO REMOTTI, HÜSKER DÜ, SEX PISTOLS, ARTEMISIA, THE CORONAS, WORLD PARTY, THE KINKS, THE WHO, UFOMAMMUT, THE CLASH, ELLA FITZGERALD, TERRY CALLIER, THE CHIEFTAINS FEATURING RY COODER, RONNIE JAMES DIO, THE JAI-ALAI SAVANT, SLY & THE FAMILY STONE, THE SISTERS OF MERCY, LIFT TO EXPERIENCE, IL DISORDINE DELLE COSE, LOU REED, TOM PETTY & THE HEARTBREAKERS, A LIFE ALONG THE BORDERLINE - A TRIBUTE TO NICO, PLAN 9, (AA.VV.) UNDERWORLD VS THE MISTERONS-ATHENS SPECIALE SAN MIGUEL PRIMAVERA SOUND RUBRICA PRESI NELLA RETE LIBRI SIMON WINCHESTER FRAMMENTI DI CINEMA RIMOSSO UNDICESIMA PARTE musicletter.it chi siamo Luca D’Ambrosio Domenico De Gasperis Nicola Guerra Jori Cherubini Massimo Bernardi Marco Archilletti Manuel Fiorelli Pier Angelo Cantù Pasquale Boffoli Franco Dimauro Gianluca Lamberti “Devo tantissimo alla musica, Nicola Pice soprattutto al rock'n’roll e al blues. Se Gianluigi Palamone faccio film è perché una musica che si Stefano Bon chiamava rock'n’roll è arrivata nella Giorgia Mastropasqua Costanza Savio mia vita e mi ha dato il coraggio di Rossella Spadi esprimermi. Credo che sia, per tutta Marco Tudisco una Alessio Zago generazione e anche forse a tutt'oggi, un'energia considerevole e una sorta di liberazione immensa: la Alessandro Busi Claudia De Luca Laura Carrozza musica è stata la via d'accesso alla Antonio Anigello creatività.” Valerio Granieri Wim Wenders Matteo Ghilardi Luigi Lozzi Gaia Menchicchi Ilario La Rosa musicletter.it webmaster / progetto grafico Luca D’Ambrosio musicletter.it informazioni e contatti www.musicletter.it [email protected] musicletter.it copertina update n. 71 / 2010-06-04 Valerie Trebeljahr | photo by Gerald von Foris ML 02 musicletter.it update n. 71 sommario MUSICA | SPECIALE INTERVISTA 04 LALI PUNA by Luca D’Ambrosio MUSICA | RECENSIONI 08 …A TOYS ORCHESTRA A Midnight Talks (2010) by Massimo Bernardi 10 DEFTONES Diamond Eyes (2010) by Valerio Granieri 11 B. R. M. C. Beat the Devil's Tattoo (2010) by Laura Carrozza 13 THE BRIAN JONESTOWN MASSACRE Who Killed Sgt. Pepper? (2010) by Nicola Guerra 14 THE MORNING BENDERS Big Echo (2010) by Nicola Guerra 15 BAUSTELLE I Mistici dell’Occidente (2010) by Jori Cherubini 16 AMOR FOU I Moralisti (2010) by Nicola Pice 11 DONDOLO Une Vie de Plaisir Dans un Monde Nouveau (2010) by Nicola Pice 20 MIKE PATTON Mondo Cane (2010) by Nicola Pice 21 PASSE MONTAGNE Oh my Satan (2010) by Alessandro Busi 22 FONOKIT Amore o Purgatorio (2010) by Giorgia Mastropasqua 24 MELISSA Out of Our Minds (2010 ) by Matteo Ghilardi 25 THE PACK A.D. We Kill Computers (2010) by Matteo Ghilardi 26 THE FLESHTONES The I.R.S. Years 1980-1985 (2010) by Stefano Sciortino 28 LIARS Sisterworld (2010) by Antonio Anigello 29 AFRICA UNITE Rootz (2010) by Franco Dimauro 30 UFOMAMMUT Eve (2010) by Franco Dimauro 31 THE CHIEFTAINS FEATURING RY COODER San Patricio (2010) by Luigi Lozzi 32 THE WHO Greatest Hits & More (2010) by Luigi Lozzi 33 ROKY ERICKSON WITH OKKERVIL RIVER True Love Cast Out All Evil (2010) by Luca D’Ambrosio 34 TOM PETTY & THE HEARTBREAKERS The Live Anthology (2009) by Domenico De Gasperis 35 THE CORONAS Tony Was An Ex-Con (2009) by Luigi Lozzi 36 UNDERWORLD VS THE MISTERONS Athens (2009) by Gianluigi Palamone 37 JOHN GRANT Queen of Denmark (2009) by Valerio Granieri 38 IL DISORDINE DELLE COSE S.T. (2009) by Jori Cherubini 39 FEVER RAY S.T. (2009) by Gianluigi Palamone 40 THE JAI-ALAI SAVANT Flight of the Bass Delegate (2007) by Nicola Guerra 41 REMO REMOTTI Canottiere (2005) by Franco Dimauro 42 LIFT TO EXPERIENCE The Texas Jerusalem Crossroads (1994) by Valerio Granieri 43 CESARE BASILE Stereoscope (1998) by Marco Archilletti 44 KARATE The Bed is in the Ocean (1998) by Franco Dimauro 45 WORLD PARTY Goodbye Jumbo (1990) by Luc D’Ambrosio 46 THE FUZZTONES Lysergic Emanations (1987) by Franco Dimauro 48 HÜSKER DÜ Warehouse: Songs And Stories (1985) by Franco Dimauro 49 THE SISTERS OF MERCY First And Last And Alway (1985) by Franco Dimauro 50 PLAN 9 Your Cool And Read The Tules (1985) by Franco Dimauro 51 BLACK FLAG Slip It In (1984) by Antonio Anigello 52 GREEN ON RED S.T. (1981) by Franco Dimauro 53 THE CLASH Rat Patrol from Fort Bragg (1982) by Franco Dimauro 54 SEX PISTOLS Never Mind the Bollocks... (1977) by Franco Dimauro 58 ALAN SORRENTI Aria (1972) by Franco Dimauro 60 TERRY CALLIER What Color Is Love (1972) by Nicola Guerra 61 LOU REED Transformer (1972) by Franco Dimauro 63 SLY & THE FAMILY STONE There’s a Riot Goin’ On (1971) by Nicola Guerra 64 BOB DYLAN 61 Revisited (1965) by Franco Dimauro 65 THE KINKS Kinda Kinks (1965) by Franco Dimauro 66 ELLA FITZGERALD Ella Fitzgerald Sings the Cole Porter Song Book (1956/2010) by Luigi Lozzi MUSICA | SPECIALE 67 SAN MIGUEL PRIMAVERA SOUND 2010 by Alessio Zago 71 RONNIE JAMES DIO by Manuel Fiorelli MUSICA | LIVE REVIEW 73 BAUSTELLE Roma, Atlantico (17.04.2010) by Nicola Pice 74 WILLIE NILE Trieste, Teatro Miela (15.04.2010) by Stefano Sciortino 76 A TRIBUTE TO NICO Roma, Auditorium Parco della Musica (11.04.2010) by Rossella Spadi 79 FATSO JETSON Mezzago, Bloom (08.04.2010) by Matteo Ghilardi 80 SIX MINUTE WAR MADNESS Brescia, Latte Più (05.03.2010) by Matteo Ghilardi MUSICA | PRESI NELLA RETE 81 BELLADONNA, ADDICTION CREW, WIPE AWAY, BETTY POISON E HEIKE HAS THE GIGGLES by Stefano Bon ALTRI PERCOSRI | LIBRI 83 SIMON WINCHESTER Krakatoa (2004) by Ilario La Rosa FRAMMENTI DI CINEMA RIMOSSO | UNDICESIMA PARTE 85 LETTERA APERTA A UN GIORNALE DELLA SERA Francesco Maselli (1970) by Nicola Pice 86 VITA PRIVATA DI SHERLOCK HOLMES Billy Wilder (1970) by Nicola Pice 87 ZABRIESKIE POINT Michelangelo Antonioni (1970) by Nicola Pice © ML 2005-2010 BY L UCA D’AMBROSIO ML non ha scopi di lucro, il suo unico obiettivo è la diffusione della buona musica www.musicletter.it non contiene informazioni aggiornate con cadenza periodica regolare, non può quindi essere considerato "giornale" o "periodico" ai sensi della legge 68/01. Non esiste un editore e il webmaster non è responsabile di quanto scritto, pubblicato e contenuto nel sito e in ciascun pdf (vedi privacy e note legali su www.muscletter.it) ML 03 musicletter.it update n. 71 speciale intervista LALI PUNA Intervista Quando l’elettronica incontra la musica indie. © 2010 di Luca D’Ambrosio A più di dieci anni dalla loro formazione e dal loro primo album, i Lali Puna sono oramai una delle formazioni più rappresentaive di quella scena musicale nata in Germania, più o meno a metà/fine anni Novanta, definita indietronic (o indietronica oppure ancora indietronics) che poi, per essere chiari, non è altro che un mix di musica elettronica, pop e rock (leggi anche electropop) servito naturalmente in chiave indie. L’uscita di “Our Inventions” (Morr Music, 2010) è stata per noi una buona occasione per metterci sulle tracce del gruppo tedesco. Per saperne qualcosa di più abbiamo intervistato Christian Heiß e Markus Acher (componente anche dei Notwist) che assieme a Valerie Trebeljahr e Christoph Brandner (parte anche dei Tied & Tickled Trio) formano la band di Monaco di Baviera. Buona lettura. A distanza di sei anni da “Faking The Books” (2004) e a cinque da “I Thought I Was Over That” (2005) - lavoro di inediti, remixe e B-sides - , è uscito da qualche mese questo nuovo lavoro intitolato “Our Inventions” (2010). Beh, la prima cosa che mi viene da chiedervi è: che cosa avete fatto e che cosa è accaduto in questi anni di assenza? (Christian) Da un lato, come saprai, Valerie e Markus hanno avuto un figlio quattro anni fa quindi molto del loro tempo è stato necessariamente dedicato alla crescita del bambino. Dall’altro lato, Markus ha registrato un nuovo album con i Notwist (“The Devil, You and Me”), album che hanno anche portato in giro in tour per diverso tempo. Inoltre molti di noi hanno diversi progetti paralleli di cui occuparsi. Ci siamo, infatti, dedicati alle nostre altre band così come ai lavori da registrare in studio per il teatro o il cinema. Ecco, dunque, spiegate le due ragioni principali di questi anni di assenza. “Our Inventions” è un disco che racchiude oltre dieci anni di esperienze. Un album abbondantemente “pensato”, introspettivo, meticoloso e pieno di dettagli sonori in cui riuscite a trovare il giusto equilibrio tra forma canzone e musica elettronica. Mi pare di capire, però, che sono lontani i tempi di Tridecoder (1999) in cui tutto era, come dire, così istintivo e immediato. ML 04 musicletter.it update n. 71 speciale intervista: lali puna (Christian) Beh, speriamo di aver conservato ancora qualcosa di quell’istinto e di quella spontaneità, perché è proprio quello il modo in cui noi cerchiamo di fare musica. Ciò nonostante, come hai già ricordato, sono trascorsi oltre dieci anni dalla realizzazione di “Tridecoder” e naturalmente molte cose sono cambiate, sia nella nostra vita privata sia nel mondo intorno a noi e probabilmente tutto questo si riflette anche nella nostra musica. Nel corso di questo processo abbiamo sicuramente provato a fare un passo avanti mantenendo il sound, lo stile, dei Lali Puna. (Markus) Quando abbiamo cominciato la carriera come Lali Puna tutto veniva fuori dai lavori che avevamo registrato da noi e dalle prove. Suonavamo con un campionatore, un drumcomputer, due tastiere, un basso e la batteria. Tutto era molto limitato e di conseguenza anche molto minimale, ma ci piaceva parecchio. Adesso abbiamo molte più possibilità, registriamo in sala di incisione e la maggior parte delle canzoni è arrangiata in studio e questo le rende molto più dettagliate e raffinate. Forse per i nostri prossimi lavori cercheremo di tornare a fare delle registrazioni con un approccio più immediato e diretto (live music making) come agli esordi. Il nostro stile è un continuo andare e venire. “Our Inventions” è un piacevole mix di elettronica e pop, con melodie riposanti e in parte anche vivaci, il tutto supportato come sempre dalla voce avvolgente e rassicurante di Valerie e da testi che in qualche modo sembrano riflettere il ritmo frenetico e alienante di questo tempo, di questa società. Canzoni apparentemente tranquille insomma che, nonostante una latente e diffusa malinconia, riescono tuttavia a trovare anche dei margini di speranza o, forse, di semplice illusione. (Markus) Per me “Our Inventions” è un disco molto personale mentre “Faking the Books” era un lavoro più estroverso. Queste nuove canzoni sembrano molto più calme e tranquille, ma è solo la prima impressione a livello acustico. Se le ascolti con maggiore attenzione e più volte, puoi riconoscere immagini e fatti che disturbano e che distraggono. Da dove nasce questa vostra esigenza comunicativa, diciamo, così disturbata e così carica di ansie e di preoccupazioni? Forse dal fatto che, venendo da un piccolo paese, avvertite maggiormente il peso della modernità e del progresso? (Markus) Credo che questo non abbia molto a che fare con la città da cui proveniamo. Nonostante il fatto che tutti arriviamo da piccoli centri (Valerie è cresciuta in una cittadina vicino Lisbona), viviamo a Monaco da molto tempo ormai e conduciamo la tipica vita urbana. ML 05 musicletter.it update n. 71 speciale intervista: lali puna In “Our Inventions” collaborate anche con la Yellow Magic Orchestra di Yukihiro Takahashi. Come è nata l’idea di questa collaborazione? (Markus) Yukihiro Takahashi ha contattato Valerie per collaborare con lei e per farla cantare in due brani del suo ultimo album. Siccome le canzoni ci sono piaciute davvero molto (Valerie ha scritto i testi e suonato le tastiere), abbiamo deciso di registrare una diversa versione di uno dei brani e inserirla anche nel nostro disco. Oltre che con Yukihiro siamo stati molto felici di aver avuto la possibilità di collaborare con l’intera Yellow Magic Orchestra. Come definireste “Our Inventions”? (Markus) È un disco incentrato sul come le nuove tecnologie, soprattutto internet, cambiano le nostre vite e il nostro modo di comunicare, e anche quello degli uccelli. (Ndr: ironica allusione al testo della title track Our Inventions) Ora, invece, facciamo un salto nel passato. Sono passati più di dieci anni dalla vostra formazione. Bene, cosa resta nella vostra testa dopo tutti questi anni? (Markus) Principalmente cose positive: molti bei concerti, molte persone interessanti incontrate grazie alla musica e la possibilità di viaggiare e recarci in molti luoghi in cui probabilmente non saremmo mai stati, come il Giappone per esempio. Alla luce delle vostre esperienze ci sono cose che non rifareste? (Markus) No. La vostra crescita artista è in qualche modo legata al vostro sodalizio con la Morr Music, e viceversa. Quanto è importante nel prosieguo di una carriera artistica l’incontro con certe etichette indipendenti “a misura d’uomo”? (Markus) Thomas (Nrd: Thomas Morr fondatore della Morr Music) è davvero un buon amico e siamo stati fortunati a incontrarlo. Ho sempre lavorato con etichette indipendenti e per me non ci sono alternative. C’è bisogno di persone non interessate al marketing ma alla musica in quanto tale, in grado di fare questo lavoro come se fossero dei fan. Non c’è nulla di nuovo ed è abbastanza noioso da dire, ma è l’unica strada che per me funziona. ML 06 musicletter.it update n. 71 speciale intervista: lali puna Tutti i vostri dischi sono dei piccoli gioielli di avanguardia e di sperimentazione pop, basti pensare al già citato “Faking The Books” del 2004 e a “Scary World Theory” del 2001 che vi hanno fatto assurgere all’olimpo di quel movimento oramai noto come “indietronic” (o “indietronica” oppure ancora “indietronics”). Una bella soddisfazione o soltanto un’altra definizione dei critici? (Markus) Non abbiamo nulla contro la parola “indietronics”, anche se questa definizione copre solo una parte della nostra musica. Abbiamo sempre visto la nostra band come una band di elettronica: partendo proprio da lì, credo ci siano moltissime possibilità in questa costellazione, ma non tutto suonerà come “indietronics”. Da “Scare World Theory” il regista italiano Paolo Sorrentino ha estrapolato e poi inserito due vostre tracce nella colonna sonora del suo film “Le conseguenze dell’amore” che, indubbiamente, hanno esaltato certe atmosfere così malinconiche e così alienanti del film. Ecco: quando componete c’è qualcosa, un’idea o un pensiero, di “cinematografico” nella vostra musica? (Markus) Inizialmente quando scriviamo una canzone non pensiamo inizialmente a un film. Partiamo semplicemente da quello che ci piace. Talvolta però capita che il nostro mood e il nostro sound possano rappresentare in modo molto efficace delle immagini. Ecco perché siamo felici che la nostra musica sia stata inclusa nel film “Le conseguenze dell’amore”. È molto bello tutto questo. Il fatto che un nostro pezzo sia stato inserito in un film così bello, tutto acquista all’improvviso un nuovo significato. Ci piacciono queste situazioni e forse un giorno faremo proprio musiche originali per altri film. C’è un tipo di cinema o un regista che preferite particolarmente e che, forse, vi rappresenta meglio di altri? (Markus) “Le conseguenze dell’amore” mi sembra davvero perfetto. Mi pare di aver letto che tra i vostri estimatori ci siano nientemeno che i Radiohead. Puoi dirmi qualcosa in più? (Markus) Dopo il primo album, Colin Greenwood, il bassista dei Radiohead, disse che gli era piaciuto il nostro disco e così venne a un nostro concerto, a Manchester, per suonare con noi. Fu molto bello averlo lì e comprò anche diversi dischi. Invece voi avete qualche particolare debolezza per una o più band, per una specifica scena musicale o, semplicemente, per certi dischi? (Markus) Mi piace molto quello che sta venendo fuori da Los Angeles, come Lucky Dragons ma anche quello che ruota intorno alla Dublab Radio Network, ad esempio Ras G, Flying Lotus, Koushik e tutti gli Stones Throw Records. Inoltre, ascolto tanti dischi anni ’60 e anche più vecchi che compro nei negozi di dischi quando siamo in tour. ML 07 musicletter.it update n. 71 speciale intervista: lali puna Come sta andando il tour e come sta reagendo il pubblico? (Markus) Il tour sta andando molto bene. Le persone sembrano apprezzare e a noi piace suonare ancora questi pezzi dopo così tanto tempo, e non vediamo l’ora di suonare in Italia. State per caso pensando a un altro album oppure dovremo aspettare altri sei anni? (Markus) Innanzitutto ci sarà un EP, con molte canzoni e remix, e poi vedremo. Cercheremo di essere più veloci. Chiudo questa intervista con una domanda banale ma che mi incuriosisce: perché avete scelto come nome Lali Puna? (Markus) Lali era il soprannome di Valerie da bambina, Pusan è la città in cui è nata. Non riuscivo a ricordare il nome corretto della città così ho suggerito Puna ed è rimasto quello. Grazie per la disponibilità e buona fortuna! (Markus) Prego e grazie a voi per l’intervista. Vi auguriamo il meglio! LALI PUNA: www.myspace.com/morrlalipuna Foto di Jörg Koopmann (pag. 4,5,6) e Gerald von Foris (pag. 7) Intervista di Luca D’Ambrosio www.musicletter.it ML 08 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: …A TOYS ORCHESTRA TITLE: Midnight Talks LABEL: Urtovox RELEASE: 2010 WEBSITE: www.myspace.com/atoysorchestra MLVOTE: 7,5/10 Fare il critico è un mestiere strano, difficile, contraddittorio. Non è neanche un mestiere infatti, è un’invenzione, un artifizio, una mediazione per avvicinare un pubblico troppo pigro a opere troppo trasparenti da risultare invisibili. Eppure il critico è, spesso, incapace di assolvere al suo ruolo, in un avvitamento concentrico di dubbia utilità. Già fare il critico d’arte, soprattutto di contemporanea, offre pericolose e scivolose discese da farsi male all’osso sacro e, spesso anche contemporaneamente, appigli davvero insperati… Pensate un po’ quando si tratta di rock’n’roll, più o meno la roba più sdrucciolosa e irriducibile del mondo, e più è incatalogabile e più piace al critico (o supposto tale) ma il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto? Così, un disco che ne richiama cento altri può, per alcuni, rappresentare un miracolo di concisione e sincretismo moderno, per altri un immondo frankenstein di nessun talento, al massimo, se proprio si deve, furbizia del furto legalizzato. Per me, che sovente sono uno che il bicchiere non lo vede riempito di liquido, il nuovo disco di ATO appare un piccolo prodigio di equilibrio tra decenni di pop’n’roll. Di più, mi fa venire voglia di non stare troppo a menarla sul fatto che il gruppo non proviene né dal Wisconsin né da Canterbury ma è italianissimo, e pure del sud. La dimensione di nuova scoperta del Rock Italiano non si addice molto a una banda che incide dal 2001 e che, col penultimo Technicolor Dream (2007, ne passa di tempo….), aveva già dato prova di aver acquisito definitivamente ogni carta regolamentare per i cuori di ogni latitudine. Proseguendo sul cammino di quel disco fortunato e ben fatto, Enzo Moretto si è inoltrato ulteriormente nei meandri e nelle meraviglie del pop orchestrale, quello che se sbagli le dosi ti vengon le madonne e tiri il disco dal quarto piano ma anche quello che se ti viene bene diventa lo Skylarking o il Sergeant Pepper della bisogna. Oppure piglia i contorni di un Bacharach a caso. Oddio, non tutto qui è rosolato a puntino ma è proprio la materia in sé ad offrire centimetri di arrosto un po’ troppo scurito, forse perché lavorato troppo a lungo (quanti sono i dischi nella storia che si sarebbero giovati di dieci giorni di baloccamento in meno in sala di incisione o di un produttore esterno capace di dire ORA BASTA?) e tratti dello stesso in cui vorresti aggiungere sughetto ad insaporire. Comunque sono quisquilie: Midnight Talks è un disco ricchissimo di suoni, iperarrangiato ma funzionevole; il precedente album, al morire di un decennio citava i ‘60 a più non posso, questo giunge all’alba di un altro e celebra i ‘70, offrendo perle di meravigliosa melodia (Sunny days) legate a pop in odor di vaudeville (Red alert) e ad apparentemente cafonissimo glam seventies (Mystical mystake), il tutto nel breve volgere dei primi 3 pezzi. È proprio l’incedere enciclopedico di Moretto nel comporre e rivestire i suoi brani che dà quasi l’idea di un concept album, idea che fa a cazzotti con l’attuale epoca dello sminuzzamento stilistico e strutturale e che invece fu maniera magnificata (e poi degenerata) proprio nel così nominato “decennio dimenticato dal gusto”. ML 08 musicletter.it update n. 71 musica: …a toys orchestra The day of the bluff è splendida e vi lascia lì a cercare di ricordare dove avevate già sentito, una quarantina o una trentina di anni prima, quel giro armonico; Celentano (il brano), oltre a citare Yuppi Du (la canzone) e a farti venire a memoria di tutto, da Gainsbourg ai Devics ai Pink Floyd allegrotti è comunque una canzone coi fiocchetti. Ogni tanto la tentazione della torch song stile radio solo-grandi-successi trova lo stradone (il trittico Plastic romance 1&2 e Pills on my bill) ma io sarei entusiasta di ascoltare gli A toys Orchestra su Radio Veronica Olandese piuttosto che Dimensione Tuono Soft (salvo poi cambiare frequenza a fine brano, che mi viene l’orticaria) ma non c’è una sola cosa realmente deludente in tutto il disco (Frankie Pyroman è eccellente), gli archi, i fiati ed i violini non servono solo per cesellare (è straniante Backbone blues, che rischia col suo clash di stilli di diventare la cosa che amerò di più da questo disco nei prossimi mesi), Look in your eyes l’avrebbe voluta scrivere Mr. E(els) e Summer potrebbe quasi diventare una hit per ragazzini pomicioni durante le vacanze estive, se solo qualche coglione a capo delle radio che codesti sbarbi ascoltano se ne accorgesse. Gli …A Toys Orchestra hanno un songwriting talmente maturo che non stupisce affatto che vadano in giro per l’Europa a raccogliere consensi, piuttosto che nella terra della povertà culturale, la nostra, donde provengono: è gente che produce grana sottile eppure potenzialmente popular mentre qui, spiace dirlo, vince il modello coatto e cafone pure tra gli alternativi. Gli …A Toys Orchestra, che vi piacciano o meno, scrivono musica come se il mondo non avesse alcun tipo di confine, cosa che nel nostro paese è oggettivamente merce rara. Gli …A Toys Orchestra, infine, che vi piacciano o meno, che ci riescano o meno, sono pronti per qualsiasi sfida, dalle colonne sonore di qualche film di peso a collaborazioni succosamente di grido sino al successo internazionale tout court. Massimo Bernardi ML 09 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: DEFTONES TITLE: Diamond Eyes LABEL: Maverick | Warner Bros. RELEASE: 2010 WEBSITE: www.deftones.com MLVOTE: 9/10 Il dolore. Ciò che non uccide, rende più forti, dicono. C’è da crederci, almeno a giudicare certi avvenimenti, certi percorsi, certe vite. Prendete i Deftones, per esempio. Carriera inattaccabile, nuovo disco in arrivo nell’Anno Domini 2008 e poi? L’incidente del bassista Chi Cheng, il coma, il disco (Eros) dalla pubblicazione sospesa a tempo indeterminato (un tributo a Cheng, un gesto di rispetto? un non sentirsi rappresentati più da certe canzoni/suoni/scelte?un dolore, al sentirle risuonare in milioni di impianti stereo nel mondo mentre uno degli autori, un amico da sempre, è ridotto come è ridotto? non è chiaro: un po’ di tutto, probabilmente), un’attività futura in forte dubbio. Poi, la decisione. L’ingaggio di Sergio Vega al basso (ex Quicksand, e scusate se è poco), fare quadrato, trovare forza, decisioni, emozioni (che, almeno scopertamente, non sembrano il rosario di dolore e rassegnazione che si immagina di sentir rappresentati in un disco con questa genesi) e motivazioni, e scrivono un disco spaventoso, il loro migliore dai tempi di White Pony (e pure questo scusate se è poco: chiarisco, peraltro, di essere uno che ha apprezzato, e molto, sia Deftones che Saturday Night Wrist, così l’affermazione acquisisce il giusto peso), focalizzato, emotivo, spettacolare.Anzitutto le chitarre: sembra che Stephen Carpenter abbia una nuova 8 strings customizzata. Non so se è vero. Certo è che il suono delle chitarre, complice una produzione realmente perfetta, è spettacolo puro: cristallina melodia, echi e profondità nel momento della riflessione, grana del cemento armato dipinto di oscura antracite, onda d’urto all’altezza dello stomaco, quando c’è da smuovere montagne, e poi la voce: mai come ora, Chino Moreno rappresenta pura esposizione emotiva, tormento, estasi, (stavolta poco) furore. Il suono, in generale, è compatto come non mai, con tutto, ma proprio tutto ciò che si conosce e si ama del sound così conosciuto e adorato elevato al cubo: poderoso ma volatile, emozionale, commovente e profondo. Non so bene, veramente, se serva parlare di singole canzoni, in casi simili: basta forse dire che Diamond Eyes, figlio del dramma, del dolore e della rinascita rappresenta qualcosa di molto vicino al meglio che i nostri abbiano mai prodotto. C’è un’umanità incredibile, disperata ma viva, paurosamente nuda nelle varie You’ve seen the butcher, Beauty school, Prince, This place is death e tutte, tutte le altre tracce di questo disco magnifico, consapevole, e profondo, un’umanità che fa volare alta, per l’ennesima volta ancora, una band inimitabile che il dolore ha reso più forte, quasi indistruttibile. Chi Cheng sente, sicuramente, e sorride compiaciuto. Valerio Granieri ML 10 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: B. R. M. C. TITLE: Beat the Devil's Tattoo LABEL: Abstract Dragon RELEASE: 2010 WEBSITE: www.blackrebelmotorcycleclub.com MLVOTE: 8,5/10 A tre anni di distanza dal fortunato Baby 81, ecco Beat the Devil’s Tattoo, ultima fatica del trio californiano Black Rebel Motorcycle Club. Lo ammetto, i ragazzi sono nella mia top ten da sempre, sin da quando ascoltai il primo album: il loro esordio coincise con quello di band che a sguardi distratti potevano garantire maggiore appeal sul pubblico (vedi alla voce The Strokes) e inizialmente non fu semplice per Peter Hayes, Robert Levon Been e Nick Jago conquistarsi un posto d’onore. Tuttavia, dopo quasi dieci anni, con cinque album all’attivo e una nuova formazione (Jago ha ceduto il posto a Leah Shapiro, già batterista dei Raveonettes), i B.R.M.C. sono ancora qui, in splendida forma. Il titolo dell’album omaggia un racconto di Edgar Allan Poe (“The devil in the belfry”) e le peculiarità dello scrittore sono senza dubbio affini a buona parte dell’intero lavoro: il disco è cupo, ruvido, a tratti gotico e buio. Nel 2005, la band ha avuto il coraggio di abbandonare una major (Virgin Records) per realizzare, con un’etichetta britannica indipendente, Howl, un album completamente diverso dai precedenti che pesca a piene mani nella tradizione americana più vera: nei brani che lo compongono riecheggia l’eco della letteratura beat, della musica folk, della libertà estrema e assoluta, in pieno mood a stelle e strisce. Con Beat the Devil’s Tattoo, i B.R.M.C. sono riusciti a individuare e mischiare tutto quello che di buono c’era nei primi due lavori e in Baby 81 (dove la componente dark e psichedelica era molto più sentita) con la migliore base intimista propria di Howl. La piattaforma di lancio è riservata al pezzo che dà il titolo all’album: Beat the devil’s tattoo è una canzone fatta per entrare in testa e restarci, con un sound incessante e ossessivo, simile a una cantilena cupa e per certi versi piuttosto inquietante (“I bled the needle through/You beat the devil's tattoo”). La successiva Conscience Killer è uno dei punti più alti dell’intero disco: potente e travolgente, con diversi punti in comune con vecchi brani manifesto come Berlin o Weapon of choice, dà un senso a quell’etichetta da bad boys con chiodo d’ordinanza che Peter e Robert si portano dietro sin dagli esordi. Stesso discorso può farsi per Mama taught me better, altro pezzo che senza dubbio incendierà le prime file ai live, grazie anche alle possenti venature shoegaze (lo spirito dei Jesus and Mary Chain è sempre vicino ai B.R.M.C.). Bad blood è un buon pezzo, orecchiabile e comprensibile, triste al punto giusto a livello testuale ma con l’energia che serve per riprendere le forze, molto simile alle sonorità caratteristiche del primo disco; in War Machine si percorre, in modo efficace, la strada della sperimentazione e della ricerca continua, a cui la band non ha mai avuto timore ad abbandonarsi; ed eccola lì, Sweet feeling. Sembra quasi un paradosso accostare la dolcezza ai B.R.M.C. ma questa ballad ne possiede le caratteristiche: ascoltandola, l’anima trema e si riempie di struggente malinconia per qualcosa che ormai si perde nella memoria e l’armonica di Hayes rende il tutto ancora più doloroso e nostalgico. ML 11 musicletter.it update n. 71 musica: b.r.m.c. Il sound di Ryver Styx ha il sapore acre della Roadhouse blues dei Doors e riff potenti e distorti a scontrarsi con l’incedere ritmico del tamburello (date qualsiasi cosa a Peter Hayes e sarà in grado di suonarla con maestria). The toll sarebbe la colonna sonora perfetta per un viaggio on the road di Kerouac o Ginsberg: è un pezzo riflessivo e intimo che riporta alla mente strade deserte, in cui chitarra e armonica accarezzano la voce di Peter Hayes e della cantante Courtney Laye. È in brani simili che il frontman dei B.R.M.C. mostra con palese evidenza la sua ammirazione per un’icona della musica americana come Johnny Cash e riporta alla memoria le atmosfere di Howl, facendoci desiderare con ardore nuove puntate di quella virata country/folk degna del miglior cantautorato made in Usa. Da segnalare Aya, impegnativa cantilena in pieno stile B.R.M.C. che mescola rabbia urlata e misticismo sussurrato: un pezzo che merita un secondo ascolto perché in prima battuta non è semplice comprenderne la portata innovativa e nello stesso tempo non lontana dalla corrente dark rock di cui la band fa parte a pieno titolo. Evol e Shadow’s keeper presentano tratti simili, con una parte strumentale molto curata nei dettagli, in un crescendo di batteria e basso che quasi sfinisce. Beat the Devil’s Tattoo è un album cupo al pari e forse più dei precedenti: in buona parte dei pezzi si parla di morte, delitti, sangue e altri ingredienti che non faremmo fatica a ritrovare nei racconti di Poe. Leah Shapiro appare un po’ troppo concentrata sulla necessità di far bene a tutti costi e talvolta la batteria risulta meno incisiva e travolgente rispetto a Nick Jago ma Peter Hayes e Robert Levon Been sono una garanzia: i Black Rebel Motorcycle Club posseggono un’originalità a livello compositivo e un’onestà artistica che non è semplice trovare nelle band dei giorni nostri. Chissà cosa saranno capaci di fare nei prossimi dieci anni… Laura Carrozza ML 12 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: THE BRIAN JONESTOWN MASSACRE TITLE: Who Killed Sgt. Pepper? LABEL: A Records RELEASE: 2010 WEBSITE: www.brianjonestownmassacre.com MLVOTE: 8/10 Con il precedente My Bloody Underground (2008), Anton Newcombe era davvero sceso in profondità; un disco quasi perfetto che tastava nel buio alla ricerca di mistiche illuminazioni e sanguinava cozzando su aculei fatti di nuovo e contagioso shogaze. Sangue ne defluiva parecchio, lento e infetto, e ci voleva una cura adatta per ridare vita alla musica dei Brian Jonestown Massacre; qualora avessero seguito questa via sarebbero sicuramente diventati (poco male) i My Bloody Valentine del ventesimo secolo. Invece, come Bobby Gillespie dei Primal Scream, che contaminò il soul con la dancefloor più elettronica per dare alle stampe l’immenso Scremadelica, anche Newcombe decide di registrare Who Killed Sgt. Pepper? fra Berlino e Islanda avvalendosi della preziosa collaborazione di Will Carruters (Spaceman 3) e cerca di racchiudere in un unico disco il post-punk degli anni ‘80, la tecno dei rave, il soul e la psichedelia sixties. A conti fatti l’impresa è davvero riuscita, perché dal grosso calderone fuoriescono fumi tossici e ammalianti, e attorno gente di tutte le razze balla soddisfatta in modo sghembo e anomalo. Che sia una danza psicotropa scandita da regolare cadenza new wave nell’omaggio (neanche troppo celato) a Ian Curtis di This is the one Thing We Did Not Want To Happen, che sia una danza popolare ubriaca e annaffiata da vodka scadente in Detka!Detka!Detka! o una sensuale dance-soul della migliore scuola Massive Attack come This is the First Of Your Last Warning con tanto di voce (nera) femminile che sale in cielo fino alle stelle. Un vortice sonoro racchiuso in una austera confezione che paragona Gesù Cristo alla “vecchia” psichedelia; la resurrezione è questa “nuova” psichedelia, che ci prende per mano e ci ingloba a se, ignara del contagio fra nuovo e antico (testamento). Lo stesso che Newcombe e i suoi Brian Jonestown Massacre hanno lasciato ai posteri qualora il mondo finisse davvero nel 2012; e sarebbe di certo la colonna sonora perfetta... Nicola Guerra ML 13 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: THE MORNING BENDERS TITLE: Big Echo LABEL: Rough Trade RELEASE: 2010 WEBSITE: www.myspace.com/themorningbenders MLVOTE: 7/10 Si può sentire l’eco del mare fra i solchi del secondo lavoro dei Morning Benders; dalla California infatti, le onde si sono infrante sulla porta della sede della Rough Trade (e chi sennò) che da anni si batte per ricreare una nuova Summer of Love, licenziando dischetti come questo che rimangono a mezz’aria fra la Bay Area degli anni ‘60 ed un futuro indefinito che guarda avanti alla ricerca di “vibrazioni” positive. Anni fa (2003 per la precisione) mi innamorai di Twice dei Tyde (editi sempre da Rough Trade) e immaginai nella splendida copertina il mio “mercoledì da leoni” alla ricerca dell’onda perfetta immerso in melodie pop senza tempo. La storia oggi si ripete con Big Echo dei fratelli Chu, che dietro la stratificata eppur pulita produzione di Chris Taylor (bassista dei Grizzly Bear) modellano dieci composizioni color pastello che hanno lo stesso profumo del mare disegnato in copertina. Il sale in Promises ti si secca addosso, la schiuma marina ti accarezza in All Day Light e si può intravedere il tramonto dell’ultimo giorno di vacanza nella dolcissima Excuses. Un estate al mare. Sempre uguale, sempre diversa. Nicola Guerra ML 14 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: BAUSTELLE TITLE: I Mistici dell’Occidente LABEL: Warner Music RELEASE: 2010 WEBSITE: www.baustelle.it MLVOTE: 9/10 Premessa. La musica italiana non se la sta passando affatto male, ma forse ce ne renderemo conto soltanto fra dieci anni. D'altro canto è quello che sta accadendo oggi con la "riscoperta" e il conseguente elogio degli anni '90. Per fare un esempio, i Massimo Volume hanno più seguaci adesso di quanti non ne potessero vantare sul finire del secolo. Oltre ai Baustelle, gruppo del quale ci accingiamo a parlare, tra Luci della Centrale Elettrica, Teatro degli Orrori, Zen Circus e Dente, per citarne soltanto una manciata dello lo scorso anno, e i numerosi album degni di nota che stanno vedendo la luce in questi giorni - Virginiana Miller; l'egregio esordio solista di Alessandro Fiori; la recente prova su "major" degli Amor Fou, come il notevole esordio della ventiduenne Simona Gretchen o i Perturbazione; e la lista sarebbe ancora lunga - si può quasi parlare di rinascimento della "musica italiana, cantata in italiano". Nel panorama variopinto e luminoso appena descritto, il gruppo di Francesco Bianconi rappresenta il capofila. Grazie a una indiscussa bravura che, aggiunta a un meritato contratto discografico e centinaia di concerti in giro per la penisola, ha portato i nostri a diventare idoli e involontari (?) portavoce di una generazione: checché ne abbiano a vaneggiare gli amici di OndaRock, o i pochi maligni che quando un gruppo diventa famoso girano sistematicamente le spalle. Peggio per loro. Chissà se il giovane Bianconi, all'epoca in cui abitava la minuscola frazione di Abbadia di Montepulciano, pensava a un futuro del genere: inverosimile... Servizi al TG nazionale, copertine su copertine, singoli passati in loop su tutte le radio, interviste, foto, scoop e chi più ne ha più ne metta, ma ecco I Mistici dell'Occidente: belli e saggi, melodici e persino irriverenti: disco che si rivela di una portata artistica enorme. Appena inizia a girare non si ferma più. Prima di tutto grazie ai testi, che sono delle poesie in musica, senza paragoni nell'attuale scena italiana. Poi per l'incredibile coesione fra i componenti principali: Francesco Bianconi, Claudio Brasini e l'affascinante lato femminile Rachele Bastreghi. Per questo lavoro si sono circondati di gregari importanti, come il famoso produttore dei R.E.M. Pat McCarthy e altri maestri menestrelli che hanno tirato a lustro sezione ritmica e archi. Alcuni pezzi sono già dei "classici" come il primo singolo estratto: Gli Spietati, che prende il ritmo dagli indimenticabili Rockers rendendo omaggio a Ma Che Colpa Abbiamo Noi. Le Rane, brano che evoca corse in campagna, pizzichi alle gambe e sole che batte in viso, rimanda a ere passate: "Eccoci che attraversiamo i girasoli, bucanieri nati, andiamo via dalla realtà, dalle case popolari" là dove L'Estate Enigmistica sembra un estratto del Sussidiario Illustrato della Giovinezza (la mitica, e oramai introvabile, prima produzione dei Baustelle. Anno 2000). Ne La Bambolina la voce di Rachele, glaciale carezzevole e in perenne stato di grazia, racconta una storia di emarginazione sociale, invero molto attuale. Poi San Francesco, La Canzone della Rivoluzione, Follonica (che ha suscitato scalpore nella cittadina tirrenica spingendo addirittura il sindaco a invocare - ovviamente invano - una "canzone riparatoria"; giudicate voi). Potremmo stare qui a descrivere la bellezza di ogni brano svelandone contenuti e pregi, ma preferiamo lasciare all'ascoltatore il piacere della scoperta. Per quanto riguarda la resa dal vivo, tra poche pagine troverete la recensione del buon Nicola Pice sul concerto romano. In sintesi: disco imprescindibile e album dell'anno, già da adesso. Jori Cherubini ML 15 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: AMOR FOU TITLE: I Moralisti LABEL: Emi Music RELEASE: 2010 WEBSITE: www.myspace.com/amorfou MLVOTE: 10/10 "... dacci la gioia di conoscer bene le nostre gioie con le nostre pene...". La brevissima poesia di Sandro Penna letta dalla piccola Giorgia nella conclusiva title track I Moralisti condensa il senso dell'opera seconda degli Amor Fou. L'invocazione laica a un equilibrio interiore nell'epoca della disgregazione morale e il ritorno "necessario" a un'innocenza fanciullesca come nuovo umanesimo testimoniato dalle voci dei bambini nella parte iniziale del brano alla maniera dei Comizi d'Amore di pasoliniana memoria. Prima: tanti ritratti di personaggi gli uni diversi dagli altri, a ribadire non solo la difficoltà di una "reconductio ad unum" etica ma probabilmente anche l'inutilità della ricerca d'un tratto comune nelle vicende umane che, al contrario, proprio per la loro diversità, definiscono ciascuna i contorni di un estremo relativismo morale. Pertanto, le storie di Enrico "Renatino" De Pedis, boss della famigerata banda della Magliana, della suicida omosessuale Anita, delle insicurezze della madre di Le promesse, della pericolosa attrazione di un sacerdote per un ragazzo, del politico qualunquista di turno sono la metafora della parcellizzazione atomistica di una società che fluttua nell'impossibilità di trovare un orizzonte di senso condiviso e, dunque, incapace di fare scelte che abbiano per oggetto il bene comune. Il formato decisamente "concept", la sua pensosa complessa profondità, la ricchezza dei rimandi letterari non fanno, però, de "I Moralisti" un'opera artificiosamente intellettuale: a differenza de La Stagione del Cannibale, più algido e analitico, Raina spinge il pedale sulle emozioni che arrivano, questa volta, diritte al cuore dell'ascoltatore avvolgendolo alla perfezione nella disillusa e malinconica amarezza del disco. Le atmosfere elettroniche del debutto qui vengono accantonate in favore di sonorità più analogiche a sostegno del lodevole progetto di rinnovamento della tradizione musicale italiana assimilabile, per esempio, ai tentativi già posti in essere da Paolo Benvegnù. Con raffinata naturalezza gli Amor Fou, quindi, coniugano il beat radiofonico di Peccatori in Blue Jeans alla robustezza post-punk di Dolmen, il cantautorato degregoriano di Il mondo non esiste alla new wave più nevrile di a.t.t.e.n.u.r.B. (geniale il campionamento della squallida invettiva del ministro contro il presunto parassitismo del mondo della cultura italiano che fatto girare al contrario assume le fattezze di un'allucinata nenia aliena), il luciobattisti di Filemone e Bauci al brit-pop-rock-già-un-classicobaustelliano della splendida Cocaina di domenica, le inquietudini melodiche da soundtrack cinematografiche di De Pedis e di Anita alle acrobazie sonore di Un ragazzo come tanti che tiene insieme Blonde Redhead e Wilco, la canzone d'autore d'oltralpe e il folk italico gucciniano e tanto altro ancora... Il fatto, dunque, che la Emi Music Italia abbia deciso di pubblicare in extremis un disco sostanzialmente autoprodotto (che sarebbe dovuto uscire per la Tempesta / Venus) non è solo una straordinaria opportunità per la band e il segno che nelle case discografiche esiste ancora qualcuno in grado di apprezzare la musica "alternativa" al nulla da classifica ma, soprattutto, il riconoscimento al valore assoluto di un'opera che può essere definita solo in un modo: capolavoro. Nicola Pice ML 16 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: DONDOLO TITLE: Une Vie de Plaisir Dans un Monde Nouveau LABEL: Division Alèatoire | Anticraft RELEASE: 2010 WEBSITE: www.myspace.com/dondolo8 MLVOTE: 9/10 Dunque: mangiare, bere, baciare, fare l'amore, ascoltare buona musica, guardare uno splendido paesaggio, tuffarsi in una piscina quando fa troppo caldo, circondarsi di cose belle, guardare i bambini giocare, andare in bicicletta le sere d'estate, suonare la chitarra ad alto volume sapendo di avere amici che ci amano, sentire l'odore dei fiori, vincere una partita di tennis, guardare le nuvole passare sopra la testa, scrivere una buona canzone, non fare nulla... Costruire il mondo "nuovo" (certamente diverso da quello in cui trasciniamo la vita) che esiste intatto nelle nostre menti lì in una delle tante piccole Roanne dove abbiamo passato l'infanzia distante appena 406 chilometri (forse più o forse meno) da una qualsiasi grande e caotica Marsiglia oppure a Shimera - o, comunque, in qualche altro luogo immaginario - novella arca di Noè dove trasferire quanto abbiamo di più caro. Il bizzaro pop mutante di Une vie de plaisir dans un monde nouveau è la veste sonora di tutto questo: di un disco che oscilla in continuazione tra la nostalgia di un impossibile totalmente altro che abbia i contorni, però, di un eden laico e l'allegria festaiola con cui esorcizzare la propria inquietudine per ridere di se stessi e delle altrui miserie (La vraie vie des milliardaires). Un pop "schizofrenico" (almeno quanto il mood percepito) che unisce con spregiudicato azzardo le schitarrate post-punk degli anni '80 del '900 (Fauvisme sembra venire direttamente dagli Stranglers o dai Wire) agli arpeggi di synth (Madnight summer dream è ode agli Watoo Watoo) definendo gli ambiti di un'estetica talvolta parodisticamente kitsch (quando il verso sonoro è electro-oriented) oppure proto-minimalista (vedi il caso di Pendant ce temps là au chateau altro rimando ai Daft Punk più Eighties). Il disco precedente (Dondolisme) era altrettanto eclettico ma dai contorni forse più perimetrabili: un gioco spudorato con i fantasmi di Serge Gainsbourg e Francois de Roubaix, sublime riproposizione giorgiomoroderiana della musica da film di serie “b”, kraut rock servito per la MTV generation a costruire l’immagine (vera sino a un certo punto) di un folletto del pop in grado di saltare con gigionesca maestria da un universo sonoro all’altro senza soluzione di continuità, una sorta di Sebastian Tellier meno interessato alla politica e ai temi con la “T” maiuscola e più votato alla definizione del proprio mondo interiore. Quest'opera, al contrario, appare eccentrica e indefinibile nel non essere affatto come sembra. Fluida e postmoderna. Bambocheur et Mélancolique. Tutto sommato breve nel minutaggio e di immediata fruibilità musicale ma al contempo intensa nell'instancabile gioco di rimandi sonori e di metafore immaginifiche. Il prodotto di un genio di nome Romain Guerret potete chiamarlo, se volete, Dondolo. Vi farà girare la testa. Nicola Pice ML 17 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: ARTEMISIA TITLE: Gocce d’Assenzio LABEL: Videoradio RELEASE: 2010 WEBSITE: www.artemisiaband.it MLVOTE: 7/10 Torna ad alzare il volume degli amplificatori la proposta ambiziosa e sfaccettata dei goriziani Artemisia. Lo fanno ancora per la Videoradio, etichetta milanese che crede fermamente in questa band e la cura con cui il disco è confezionato (il booklet è davvero molto curato) è certamente una dimostrazione della fiducia della label. Gocce d’Assenzio, secondo episodio discografico dopo il debut album omonimo del 2007, si snoda lungo tre quarti d’ora in cui la chiara matrice hard rock della chitarra di Vito Flebus si sposa con diluiti inserti psichedelici che flirtano con una certa tradizione prog, un connubio che contrassegna una struttura completata dall’interpretazione solenne di Anna Ballarin che, per melodie e arrangiamenti, professa a mio giudizio uno stile molto italiano nell’intendere il rock (e non lo si legga necessariamente come un difetto, anzi). Gli undici brani sono figli delle sessioni di registrazione tenute nell’estate scorsa nei triestini Fandango Sound Studios di Andrea Bondel che, oltre a occuparsi della regia, ha anche contribuito in prima persona mettendo le dita sui tasti di Hammond e fisarmonica. Umana forma apre col giusto piglio la scaletta, un riff quadrato e di sostanza che poi prende vita in altre forme per poi ritornare alla sua essenza rock; una serie di metamorfosi nello stesso brano che palpitano anche nella title track e ne Il vortice, e che mettono sale lungo tutta la struttura dell’album. Personalmente preferisco le loro sferzate hard rispetto alle fughe oniriche, probabilmente per una mera questione di gusti personali, tuttavia mi sembra che proprio nei frangenti più robusti il disco trovi i suoi migliori picchi; dalla loro trasposizione sul palco queste composizioni non potranno che beneficiarne ulteriormente. La distribuzione digitale, piuttosto capillare, dovrebbe garantire un’adeguata fruibilità per questo valido prodotto che comunque la band sta promuovendo dal vivo attraverso un’intensa attività live. Una curiosità niente male in chiusura: in questo paese ormai schiavo dei club per sole cover band, gli Artemisia si distinguono per il non volerne sapere di eseguirne… Il rock di questo paese non si arrende, almeno lui! Manuel Fiorelli ML 19 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: MIKE PATTON TITLE: Mondo Cane LABEL: Ipecac Recordings RELEASE: 2010 WEBSITE: www.myspace.com/mikepattonofficial MLVOTE: 10/10 L'Italia assume sempre più i contorni di un tetro palcoscenico dell'orrore. Inguardabile perchè osceno(a). Come dev'essere l'orrore... Invecchiamento della popolazione - e, dunque, incapacità di vedere e progettare il futuro - disgregazione del tessuto sociale, crisi finanziaria e declino economico, corruzione e mancato rinnovamento delle classi dirigenti, legislazione razzista, repressiva violenza istituzionale, prove tecniche di secessione travestita da federalismo, imbarbarimento culturale... Quest'ultimo, forse, il problema più grande perchè quello da cui probabilmente discendono tutti gli altri... Un paese "laboratorio" in cui si consuma (caso unico nell'occidente) l'esperimento "estremo" di una pseudo-democrazia autoritaria, spregiudicatamente eterodiretta con la manipolazione dei mezzi di comunicazione. Una sofisticata forma di neofascismo-televisivo. Drammatica deriva di una nazione che ha perso memoria della sua straordinaria storia passata e che, al contrario, dopo secoli di accumulazione di un immenso patrimonio artistico, attraverso le molteplici suggestioni paesaggistiche di un territorio non ancora completamente sfregiato dalla modernità, avrebbe tutti i presupposti per essere avanguardia della bellezza, leader del gusto e, in definitiva, avamposto di elaborazione di nuove forme di rinascita culturale. Negli anni '60 - e per una buona parte degli anni '70 - del '900, quando l'Italia era punto di riferimento nel mondo per il design industriale e non, riconosciuto centro del “bon vivre”, i grandi cantanti stranieri rendevano indirettamente omaggio al nostro stile inconfondibile incidendo nella lingua di Dante i propri pezzi di maggior successo oppure portando in giro per il mondo brani dei nostri autori più prestigiosi. Persino nei territori della pop rock music, terreni di conquista anglosassone, e ben al di là del mainstream sanremese, comunque dignitosissimo, musicisti straordinari hanno lasciato un segno indelebile: Ennio Morricone, Armando Trovajoli, Piero Umiliani, Bruno Nicolai, Nino Rota, Piero Piccioni... Anche se lontani ormai dal revival lounge degli anni '90 (centinaia di colonne sonore saccheggiate dalle compilation Easy Tempo, Beat at Cinecittà e Mo'Plen) non ci stupisce, pertanto, il tributo reso alla nostra migliore - e in qualche caso misconosciuta - tradizione da Mike Patton con Mondo Cane. Chiunque abbia fatto musica si è imbattuto in questi grandi autori, soprattutto chi, come Patton, ama affrontare esperienze sonore estreme e, particolare non indifferente, è stato sposato sette anni con un'italiana. Un disco, dunque, di 11 cover (già suonate dal vivo in una serie di concerti italiani del nostro), scelte senza un apparente criterio, che è testimonianza della profonda conoscenza del patrimonio musicale del nostro paese, arrangiate con un "groove" oscuro e malinconico dal genio mai abbastanza celebrato di Daniele Luppi ed eseguite da musicisti eccellenti quali - tra gli altri - Roy Paci e Alessandro Stefana. Si passa da Nicola Arigliano (20 km al giorno) a Ennio Morricone (la diabolika Deep down depauperata dell'elegante allure lounge per assumere le sembianze di un manifesto "maudit", e la tenchiana Quello che conta), dal beat dadaisticamente scomposto e ricomposto con stilemi hardcore dei Blackmen (L'urlo negro) alla melodia da crooner di Nico Fidenco (L'uomo che non sapeva amare un grido di disperata impotenza), dagli standard della canzone napoletana (Scalinatella) agli evergreen ginopaoliani ("Il cielo in una stanza" e "Senza fine"), dall'istrionismo cabarettisco di Fred Buscaglione (Che notte!) al bislacco pop-adolescenziale di Gianni Meccia (Ti offro da bere frantumazione malinconica di un amore finito) con una freschezza e un'intensità davvero rara. Su tutto, però, prevale l'incredibile voce di Mike Patton, misurato più che in altre occasioni, e l'enigmatico titolo della raccolta: quel Mondo Cane di jacopettieprosperiana memoria, sbattuto con brutalità in faccia all'ascoltatore a dispetto di un disco dolcemente triste. Metafora probabilmente di quel paese un tempo meraviglioso popolato da individui che non sanno più volersi bene, gli uni cani con gli altri. Nicola Pice ML 20 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: Passe Montagne TITLE: Oh my Satan LABEL: African Tape RELEASE: 2010 WEBSITE: www.myspace.com/passemontagne MLVOTE: 8/10 Ci sono alcuni dischi che andrebbero venduti con le indicazioni per l'ascolto. Oh My Satan dei Passe Montagne è esattamente uno di quelli. I ritmi matematici e incalzanti, assieme alle chitarre graffianti che lo caratterizzano, infatti, necessitano di una preparazione psicofisica, prima di mettercisi. Allora io ci scriverei che è un disco da ascoltare in apnea, in quanto nei suoi brevissimi 12 pezzi, non c'è tempo per respirare. Sembra come di stare sotto il fuoco di pugni dei tre francesi, che, lavorando su velocità sinaptiche accelerate, propongono un post-rock/postpunk, che prende a piene mani dai maestri dei generi (Shellac, Fugazi, Three Second Kiss, Uzeda), ma che riesce a portare a una formula propria, assolutamente straniante dal pensiero normale, verso una condizione di ipnosi agitata, di ipnosi da metropoli nevrotica. Questo stato tocca i suoi apici con pezzi come More mormon, con il dialogo di chitarra (Cochetel) e synth (Montaufray), oltre che con la disordinata 98% cuir 2% sky. Premier Flocon e Positive Manouche, poi, sono due pezzi estremamente correlati tra loro che sembrano, il primo la scena di un delitto e il secondo la discesa vera e propria verso gli inferi. A dire il vero, però, basta sentire Jupiter, apertura del disco, con il suo incipit di batteria (Fernandez), per restare letteralmente travolti da quel procedere veloce e prepotente che trascina dentro una marcia dagli sguardi serrati. Sì, perché alla fine dei suoi venti minuti e spicci, alla fine di Vice is good, ultimo brano dei Passe Montagne, si ha la netta sensazione di essere entrati in un'altra dimensione, di poter tirare il fiato dopo un'esperienza unica e stordente, che sicuramente un po' ha modificato chi l'ha vissuta, tanto che ripensandoci, con stupore, non si può che sedersi ed esclamare: Oh My Satan! Alessandro Busi ML 21 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: FONOKIT TITLE: Amore o Purgatorio LABEL: Fondazione Sonora RELEASE: 2010 WEBSITE: www.myspace.com/fonokitband MLVOTE: 8/10 Preceduto dal singolo Non esiste, l'album Amore o Purgatorio è la prima uscita del trio salentino Fonokit, l'interessante progetto di Marco Ancona, Ruggero Gallo e Paolo Provenzano, tutti provenienti dalla band Bludinvidia, nome storico dell'indie italiano. La caratteristica fondamentale di queste tredici tracce è l'eterogeneità dello stile, la molteplicità delle atmosfere come delle influenze, attraverso un album tuttavia compatto dal punto di vista sonoro; il merito è della produzione estremamente curata, opera della band e Domenico Capuano, fondamentale specialmente in fase di post produzione; scelta felice quella di seguire principalmente l'inclinazione british dei Fonokit in un amalgama sonora assai più vicina al gusto internazionale che allo standard italiano. Amore o Purgatorio è un disco rock, a detta degli stessi autori, prodotto con l'approccio elettronico (il suono di Fine è influenzato dall'industrial e da certe produzioni trasversali della Mute), intento perfettamente percettibile, pensando alle robuste linee di basso, in una sezione ritmica estremamente presente, come alle molteplici declinazioni sonore della chitarra, ugualmente credibile che l'attitudine sia punk o più sperimentale. Se il suono è un elemento unificante in Amore o Purgatorio, le tracce non potrebbero essere più varie; si passa dall'impatto possente di un brano come il già citato, Fine, forte di un crescendo emotivo nel ritornello che fa capo a un basso tirato e coinvolgente e allo stesso tempo interamente orecchiabile (una cifra stilistica dell'album) all'atmosfera impalpabile, venata di dream pop, di un brano etereo come Materia tattile, forse uno degli episodi più affascinanti dell'intero lavoro. Chi sono io e Vendimi un sogno chiamano in causa l'influenza Brit, rintracciabile soprattutto nelle linee vocali ma elaborata alla luce dello stile dei salentini, mentre No Money, No Cash (l'altro singolo), Sedia elettrica e in parte Non posso farne a meno tracciano una linea d'ideale continuità con lo stile dei Bludinvidia, in una vicinanza soprattutto di struttura ma evolutasi qui grazie all'approccio meno sporco eppure più graffiante. Ho deciso è un brano molto interessante, anche per via del testo, profondamente pregno di richiami ai due filoni sviluppati in Amore o Purgatorio, la riflessione individuale più intima e il disagio dell'individuo rispetto alla società e alle sue delusioni, senza trascurare una certa ironia; l'andamento è piuttosto wave, impressione che ritorna in numerosi momenti del disco, Nes invece, richiama maggiormente l'influsso del grunge, perfettamente coerente per una band che al rock dei '90 deve molto e senza farne mistero. ML 22 musicletter.it update n. 71 musica: fonokit Non esiste e Viene sera sono forse i brani più intimi dell'album, eppure si tratta di due pezzi profondamente diversi, la prima, una ballata elettrica, si apre sul ritornello sofferto, con un testo curato e semplice che parla d'abbandono e il drammatico crescendo conclusivo realizzato in una negazione, dove il suono si fa più aspro, la seconda è una canzone estremamente atmosferica, caratterizzata dal testo malinconico, notturno appunto, e dal giro di chitarra prezioso tessuto in un'atmosfera sonora ricca di particolari cosmetici. Il rock di Ammirami, struttura di un testo ambiguamente ironico, accompagna verso la chiusura, Materia Tattile. Con Amore o Purgatorio, insomma, i Fonokit sembrano proporre una fotografia moderna ma consapevole delle proprie radici musicali, la fotografia di un momento difficile, il basimento e le incertezze di una generazione di fronte a un periodo particolare (Sedia elettrica) senza pretese unificanti e anzi con un linguaggio estremamente personale, suburbano e asfittico, nell'album c'è questo, c'è l'elaborazione delle esperienze artistiche di Ancona fuori dai Bludinvidia (la collaborazione con Amerigo Verardi, il progetto Il Paese è Reale assieme agli Afterhours) tutti elementi che hanno collaborato a una evoluzione nello stile dei tre, consentendo di firmare un disco allo stesso tempo innovativo, tagliente e con un buon potenziale commerciale. Giorgia Mastropasqua ML 23 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: MELISSA AUF DER MAUR TITLE: Out of Our Minds LABEL: Roadrunner Records RELEASE: 2010 WEBSITE: www.myspace.com/aufdermaur MLVOTE: 8/10 Personaggio multiforme, Melissa. Quando pensi di essere riuscito a inquadrare la direzione musicale che intraprenderà, la nostra rossa cantante canadese riesce a stupire l’ascoltatore. Basti solo pensare al suo curriculum musicale: è stata bassista delle Hole per cinque anni, ha militato negli Smashing Pumpkins, ha fondato una cover band dei Black Sabbath (gli Hands Of Doom), ha collaborato con diversi artisti del mondo del rock e del pop e ha registrato un ottimo disco di rock desertico omonimo nel 2004. Oltre a tutto questo ha fatto qualche comparsa in alcune serie televisive, è un’ottima fotografa (la rivista “Spin” ha già pubblicato qualche sua foto in passato) e ha stipulato un contratto come modella per Calvin Klein. Ma, non ancora sazia di tutto ciò, ha deciso di dare un seguito al suo precedente album, a distanza di sei anni da Auf Der Maur. Il progetto Out Of Our Minds è strutturato in più parti: una colonna musicale, un cortometraggio e un fumetto. Musicalmente quest’opera si distacca notevolmente dal suo predecessore. Se avevamo apprezzato il suono aspro e la varietà di generi del precedente, questo lascia di stucco per la sua completezza stilistica. In realtà non mi ha colpito particolarmente durante i primi ascolti: mi sembrava troppo posato e pretenzioso. In realtà, ha bisogno di essere assimilato e metabolizzato per bene, come se fosse una nuova pietanza a cui non siamo abituati ma che pian piano diventa sempre più appetibile. Stupisce come così tante collaborazioni non vadano a discapito dell’omogeneità del prodotto. È questa la grossa novità: Melissa riesce a creare un prodotto con un suono proprio, non particolarmente derivativo come in passato; pur se collocabile tra Celebrity Skin e Auf Der Maur, la personalità emerge prepotentemente senza farsi carico di tutte le influenze palesate in precedenza. È un disco rock fosco, notturno eppure tremendamente commerciale: diversi opening strumentali fanno da introduzione ai brani, creando una sorta di concept musicale variegato e ottimamente prodotto (Chris Goss e Alan Moulder vi dicono nulla?). Out Of Our Minds è un lenta discesa verso la desolazione, come risulta dal trittico Meet me on the dark side, His would be paradise e l’ottima Father’s grave, in duetto con la bellissima voce di Glenn Danzig. L’unica vera canzone riconducibile a quello che già conoscevamo è Follow the map: ottimo mix tra elettronica minimale e chitarre sature di elettricità. La voce di Melissa è il giusto controcanto all’atmosfera generale del disco, è l’ancora di salvezza che ci permette di essere ripescati incolumi dall’oscurità e dal vago sentore di solitudine trasmesso da alcuni di questi ispirati racconti. 1000 years chiude egregiamente il disco: un pezzo che racchiude il passato e il presente dell’artista, richiamando alcune sonorità care ai Queens Of The Stone Age di Lullabies For Paralyze quanto ai primi Yeah Yeah Yeahs. Ancora una volta la Maur mi ha lasciato piacevolmente spiazzato ma, allo stesso tempo, mi ha entusiasmato, dandomi conferma che abbiamo tra le mani un ottimo album di una nuova stella. Matteo Ghilardi ML 24 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: THE PACK A.D. TITLE: We Kill Computers LABEL: Mint Records RELEASE: 2010 WEBSITE: www.myspace.com/thepackad MLVOTE: 7/10 Solitamente la ricerca di un nuovo disco si basa, oltre al fattore emotivo, su tre criteri: la voglia di ascoltare qualcosa di nuovo; l’acquisto a scatola chiusa della produzione del nostro gruppo/cantante preferito; la volontà di sentire qualcosa che si rifaccia ai generi più graditi dall’acquirente. Partendo dall’ultimo punto mi sono ritrovato con la gran voglia di avere tra le mani qualcosa che potesse rimandarmi al suono dei White Stripes, probabilmente per il fatto che l’attesa di una nuova uscita con il loro marchio sembra sempre più distante, o addirittura improbabile. Ho un debole per i duo, soprattutto se riconducibili al suono sporco del blues e all’arroganza del rock distorto. È stata una pura casualità quella che mi ha portato ad ascoltare We Kill Computers, ovvero averle viste come gruppo spalla in uno degli ultimi concerti a cui ho assistito. L’impatto e la proposta sonora della loro esibizione mi hanno convinto all’acquisto della loro ultima fatica, la terza per la precisione (i primi due si intitolano Tintype e Funeral Mixtape). Se avessi dovuto acquistarlo a scatola chiusa penso proprio che la copertina non mi avrebbe certamente aiutato: le due canadesi sembrano uscite dritte dritte da telefilm come Gossip girl e l’imbarazzante cintura di Star Wars della batterista Maya Miller non mi avrebbe entusiasmato particolarmente. L’estetica viene ribaltata all’ascolto, le ragazze sanno il fatto loro e le chitarre sature di elettricità supportante da un’incessante martellare sulle pelli dei tamburi riescono nell’intento di menare il monello e uccidere i computer. Assomigliare ai fratelli/amanti/ex coniugi/amici di Detroit è semplice a livello di strumentazione, più complesso diventa sul fattore del discorso compositivo. Nei momenti più ispirati The Pack A.D. riescono a risultare convincenti: Deer è il connubio perfetto tra Bikini Kill e garage; Big Anvil riesce a rispolverare Blue Cheer, i superfuzziani e bigmuffiani Mudhoney, i primissimi Yeah Yeah Yeahs, accelerate alla Black Math in soli tre minuti; Cobra matte sembra uscita da Elephant; Crazy e B.c. is on fire ci ricordano quanto la bella voce di Becky Black sia influenzata da Karen O e da un’improbabile Morrissette; Crazy una versione riveduta in chiave attuale di Hardest button to button. Se riusciranno ad aumentare ulteriormente la posta in gioco, prossimamente ci ritroveremo tra le mani un ottimo disco. Se qualcuno avesse da recriminare sul fatto che le due musiciste dovrebbero versare dei diritti nei confronti dei White Stripes, chissà cosa dovrebbero dire i Gories! Matteo Ghilardi ML 25 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: THE FLESHTONES TITLE: The I.R.S. Years (1980-1985) LABEL: Raven RELEASE: 2010 WEBSITE: www.fleshtones.org MLVOTE: 8/10 Perché mai un’antologia al posto delle agognate – soprattutto per chi anni or sono si è privato dei vinili - ristampe di Hexbreaker! e Roman Gods? Probabilmente perché oggi come oggi nessuno è più disposto a rischiare il becco di un quattrino e se poi si tratta di esporsi per un gruppo ‘noto’ (termine azzardato, nel loro caso) con il nome di Fleshtones, la faccenda diventa ancora più seria: Collection, The Best of, Anthology e simili sono sinonimo di sicurezza sia per discografici che per distratti acquirenti. The Fleshtones: raro e meraviglioso manipolo di rock and rollers magicamente estratto dal cilindro della gloriosa I.R.S. di Miles Copeland (R.E.M., Wall of Voodoo, Alarm, ecc…); gioco di prestigio rivelatosi vano, realizzato purtroppo nel momento meno adatto, davanti a una platea evidentemente distratta; e non c’è più stato verso, malgrado in molti li avessero, a più riprese, indicati nientemeno che “il futuro del Rock and Roll”. Inspiegabilmente incapaci di sfondare e nello stesso tempo in grado di raccogliere attorno a sé una schiera di orgogliosi seguaci, quasi fossero delle star di prima grandezza. La selezione in questione riguarda gli anni dal 1980 al 1984, periodo in cui hanno inciso per la citata etichetta, vale a dire trenta anni fa. In lettere risalta un po’ meno ma non toglie il fatto che in quell’anno il sottoscritto andava ancora a scuola e gli mancasse oltretutto una vita per concluderla (si faceva pure bocciare, il disadattato). Se avessi allora retrocesso di trent’anni le lancette del tempo, mi sarei ritrovato nel 1950, faccia a faccia con il rock and roll nelle sue forme primordiali: Fats Domino, Louis Jordan, Johnny Otis, Professor Longhair, ovvero l’R&B di New Orleans: un melting pot ancora troppo nero e troppo race per il mondo, quello che sborsa i quattrini e decreta successi e fortune. Benché non altrettanto clamorosi, anche gli anni Ottanta furono eccezionalmente vivaci e, ancora oggi, alcuni dei nomi che allora emersero dalla mischia potrebbero essere ricordati come leggendari se non fossero stati preceduti da tale progenie. Molti dei loro lavori sono infatti indiscutibili capolavori: Medicine Show dei Dream Syndicate, Gravity Talks dei Green on Red, Under the Big Black Sun degli X, Miami dei Gun Club, Call of the West dei Wall of Voodoo, l’omonimo dei Violent Femmes, Stoneage Romeos degli Hoodoo Gurus, tanto per elencarne alcuni; e i due sopra citati album dei newyorkesi Fleshtones. Questi ultimi, polveroso scomparto alla voce oggi garage, come ma allora, la si classificazione possono scovare in è puramente qualche indicativa, di orientamento (losers suonerebbe più adeguata, ma dubito possa essere apprezzata dai diretti interessati). Agli inizi della loro carriera, la loro musica venne invece definita “una miscela unica e senza tempo di proto-punk e R&B anni ‘50, alla Little Richard, con aggiunti sprazzi di surf e soul alla James Brown” (Andy Shwartz – New York Rocker - 1978): ecco, il piatto è servito; ML 26 musicletter.it update n. 71 musica: the fleshtones ma, secondo il sottoscritto, la miglior definizione possibile per i Fleshtones si può recuperare in una ancora più lontana e nobile citazione, e per trovarla è necessario spostarsi (di nuovo) negli anni 50: “La mia musica è molto semplice. Volevo suonare il blues ma non ero abbastanza blue. Non ero come Muddy Waters o altra gente che aveva veramente sofferto. In casa nostra non mancava il cibo in tavola ed eravamo benestanti rispetto a tante altre famiglie. Così mi sono concentrato sul divertimento, l'allegria e sulle novità. Ho scritto di automobili perché una persona su due le possiede. Ho scritto d'amore perché tutti vogliono l'amore.” (Chuck Berry) Questo è stato il rock and roll prima che quella generazione ne cogliesse l’affinità con il proprio spirito di ribellione e lo eleggesse pertanto a miglior interprete possibile dello stesso, centrando un clamoroso obiettivo e determinandone in tal modo la divulgazione su scala mondiale. Non serve molto altro per definire i Fleshtones: divertimento allo stato puro, rappresentato per l’occasione da 25 brani – 5 dei quali dal vivo, non particolarmente incisivi ma significativi dell’atmosfera da toga-party percepibile durante le loro performance – accortamente selezionati dall’etichetta australiana e riesumati dai loro anni d’oro (per quanto riguarda il livello creativo più che gli introiti…), durante i quali, dopo una parentesi nei club di New York, hanno visto concretizzare la loro esperienza in uno dei ‘sound’ più brillanti e originali dell’epoca, e non solo. Benché originale possa sembrare incompatibile con ‘revival’ risulta evidente, riascoltando queste incisioni, come i suoni dei sixties siano stati profondamente assimilati e finemente rielaborati da Peter Zaremba & C. per armonizzarli infine a una inquietudine e a una esagitazione entrambe tipicamente punk (di cui ben pochi riuscirono allora ad esimersi). Frequenti le incontrollabili ed euforiche alterazioni da adrenalina: nessuno dei pezzi selezionati stride in questa baraonda di suoni, battimani, cori e urla da stadio, “greasy horn riffs and a whomping big beat” (citazione dalle note interne che ‘suona’ molto meglio in lingua originale). La scelta dei pezzi è ottima, tanto da cancellare per una buona ora e un quarto il rammarico dovuto alle mancate ristampe; non si viene mai tentati dallo stimolo di oltrepassare qualcuna delle tracce a cagione dell’alto coinvolgimento, ambito in cui ancora oggi i Fleshtones eccellono. Impossibile citare solo alcuni tra i pezzi in questo susseguirsi di suoni saturi (in particolare quello fuzz della chitarra di Streng assieme a quello psichedelico dell’organo di Zaremba) armonizzati su un tappeto ritmico secco, deciso ed euforico, spesso debitore verso la Jungle Music di Bo Diddley, e intercalato da fulminei arresti e repentine riprese. L’armonica di Zaremba, quando emerge, rievoca il rythm and blues, quasi in un debito di riconoscenza verso le radici del proprio albero genealogico (quello musicale, obviously). Nel 1980, le puntine dei nostri giradischi sfiorarono per la prima volta questi pezzi - allora ci si riferiva ai ‘solchi’ - tra i quali i Fleshtones avevano celato le loro perle. Nel frattempo il mondo si è digitalizzato, così la gente e le relazioni. Il vinile, con i suoi riflessi arcobaleno - se osservato in controluce - gira oggi in poche case, sostituito nel rimanente resto del mondo da inconsistenti sequenze di bit organizzate allo scopo di dar forma a quello che nel parlato comune è – ahimè – diventato sinonimo di musica: l’emme-pi-tre, capace di attraversare un imprecisato numero di reti da un capo all'altro del pianeta in pochi secondi e da un iPod all'altro in un tempo prossimo allo zero. È il futuro, bellezza! Eppure, in questo vortice evolutivo (si fa per dire) qualcosa si è fermato, non è diventato adulto ed è, una volta in più, una vera fortuna: è la nostra emozione per il rock and roll più sincero e spontaneo che dopo più di un quarto di secolo è rimasta più o meno la stessa. Anche Zaremba & C. sono rimasti più o meno gli stessi: stessa sfacciataggine, stesso entusiasmo, stessa verve, e sono proprio loro a ricordarcelo e di questo non possiamo che essergliene infinitamente grati. Stefano Sciortino ML 27 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: LIARS TITLE: Sisterworld LABEL: Mute Records RELEASE: 2010 WEBSITE: www.liarsliarsliars.com MLVOTE: 8,5/10 Io amo i Liars. Amo i Liars dalla prima volta che ho ascoltato la voce spiritata di Angus Andrew nell’esordio They Threw Us All in a Trench and Stuck a Monument on Top. Li amo perché sono tra i pochi gruppi degli anni Zero che hanno saputo osare e andare sempre oltre il limite della sanità mentale e dell’equilibrio musicale con caparbietà, senza mai essere eccessivi. Li amo perché sono dei cavalli di razza; ogni loro scelta, ogni loro disco, ogni loro produzione supera notevolmente i canoni dell’album di routine, scorrono sangue e scorie nel loro sistema circolatorio, un po’ Velvet underground, un po’ Sonic Youth e un pizzico di Suicide ma sempre e comunque soprattutto Liars. Sisterwold, al primo ascolto, mi ha drogato, non riesco più a togliermelo dalla testa, amo la cantilena ipnotica di Scissor suggellata da un tappeto martellante di chitarre e organi, amo il riverbero sonoro di No barrier fun, inquietante e degna colonna sonora di Inland empire insieme alla prosecuzione naturale di Here comes all the people. Non è musica, è malessere profondo, ossessione e droga, amore forse, non ne sono convinto, ma ammalia, ipnotizza, mai si rende prevedibile. Non avrei mai pensato che dopo il bello, è più digeribile, Liars (2007) il trio di New York riuscisse ad arrivare a questo Eden musicale. Scarecrows on a killer slant è un attacco nichilistico, noise punk corrosivo, d’impatto, quasi come se fossero una versione non buzzurra e retorica degli Atari Teenage Riot. Come si fa a non amarli quando poi ci accarezzano la guancia e ci mettono a nanna con la litania I still can see an outside world o quando ci fanno ballare con il sound acido di Proud evolution, Doors impasticcati a morte e sputati nel 2010 mentre con Drop dead si vira ancora verso una forma rock molto più claustrofobia; piacerebbe molto al Kurt Cobain più depresso. La compattezza di Sisterworld fa paura, il trio di pezzi in chiusura aumenta ancora di più il tiro, il punk rock di Overachievers è la conferma di quello che a tutti gli effetti i Liars sono, un vero gruppo punk dei giorni nostri. Volete avere la conferma del fatto che questo è un album da recuperare urgentemente? Da amare? Allegato al disco un bonus CD con tutti i pezzi presenti su Sisterworld remixati e rifatti da gente del calibro di Melvins, Alan Vega e Thom Yorke (ma anche Devendra Banhart, Kazu Makino, etc.). Io amo i Liars. Antonio Anigello ML 28 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: AFRICA UNITE TITLE: Rootz LABEL: Universal RELEASE: 2010 WEBSITE: www.africaunite.com MLVOTE: 7/10 Roots: radici. Una delle parole chiave della musica reggae, da sempre legata alle radici religiose, sociali, geografiche, culturali della propria terra. La sfida degli Africa Unite fu, trenta anni fa, quella di trapiantare quelle radici all’ interno di un contesto metropolitano europeo come quello torinese. Prima, limitandosi a usare la stessa tecnica appresa dai coltivatori giamaicani, Bob Marley in primis. Poi, producendo una sensimilla che innestasse la propria peculiarità di appartenenza al territorio con la forza di quelle radici. Arborescenze che avrebbero, di fatto, aperto una via italiana al reggae. Una contestualizzazione all’ epoca resa possibile grazie all’abbattimento delle barriere di espressione favorite dalla necessità di eloquenza del rap. Il primo esperimento in tal senso venne infatti mascherato sotto l’ egida della stagione delle posse italiane, sotto lo pseudonimo di To.sse., quindi rivendicato in quel piccolo manifesto che divenne Babilonia e Poesia. Da allora gli Africa Unite non hanno mai smesso di sperimentare, con ogni mezzo possibile. Da quello elettronico del dub e delle sue derive ritmiche della jungle a quello di scuola classica della musica per archi. Rielaborando i classici di Marley in lingua originale ma pure mischiandosi con i dialetti, lavorando su dischi strumentali o chiedendo ad altri di dare una visione inedita del proprio lavoro. Facendo dischi solari, scuri, brillanti o appannati. Permeabili al clima interiore di chi li ha creati e a quello globale che ci avvolge tutti. Rootz riporta la band di Pinerolo in grande forma, tornando alle sue “radici” che sono quelle di un suono reggae compatto e rotondo, di tanto in tanto avvelenato dalle profondità scure del vortice dub, secondo lo schema di Un sole che brucia. Si avverte una forte inclinazione al poetry-dub di Linton Kwesi Johnson e Mutabaruka, un’esigenza a far affiorare le parole restituendo loro il compito di veicolo di comunicazione, di denuncia, di confessione. Si percepisce in maniera chiara su Music ‘n’ Blood affidata alla voce cavernicola di Madaski, su Cosa Resta commissionata a Bunna e su Mr. Time, dove se la giocano entrambi, ma è una necessità che si avverte chiara su tutto il disco. Ed è un’urgenza spinta dal bisogno di allontanarsi dalle ideologie radicali e dai fanatismi che affliggono il pianeta, anche quello a loro caro della cultura giamaicana, anche facendo nomi e cognomi su un pezzo che farà discutere come Così sia e con cui gli Africa prendono le distanze dalle istanze maschiliste e sessiste di alcuni rastaman e schierandosi contro il cameratismo complice che fomenta ogni ideologia, anche la più ignobile rivestendola di una dottrina comune che ne alimenta la diffusione, raccogliendo proseliti. Il fanatismo religioso è invece preso di mira su Mr.Time dove, sapientemente, la band tratta con distacco e sfiducia ogni forma di delirio spirituale, anche quello del rastafarianesimo esaltato da figure come Bob Marley o Burning Spear dimostrando un punto di vista critico e adulto, affrancato dalle febbri d’emulazione incosciente che caratterizzano le sottoculture popolari. Gli altri attacchi sono quelli contro le nefandezze delle istituzioni o da esse taciute, condonate, esonerate dall’infamia e organizzate come regola, come precetto non ammonibile e idoneo all’indulto. Il malcostume politico denunciato sull’anti-singolo che chiude il disco e reso disponibile in download gratuito sul sito del gruppo e i misfatti contro l’ambiente raccontate lungo Il movimento immobile. Ma ci sono anche i momenti di puro svago in levare, da quelli più morbidi come Si e Here and Now fino al rocksteady acceso di The Lady in compagnia del prodigio pugliese Mama Marjas. La Lady, appunto. Soli o in ballotta (oltre alla Marjas ci sono l’asso Alborosie e i cameo di Jacob dei Yellow Mood e Piero e Roddy dei Franziska, NdLYS) gli Africa continuano a maneggiare la musica giamaicana con l’assodata padronanza di linguaggio lirico e musicale che ne fa la cosa più preziosa dell’ ormai affollata scena reggae italiana. Franco Dimauro ML 29 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: UFOMAMMUT TITLE: Eve LABEL: SupernaturalCat RELEASE: 2010 WEBSITE: www.ufomammut.com MLVOTE: 8/10 Ogni nuovo album degli Ufomammut è il “loro miglior album”. In teoria, essendo arrivati al quinto disco, siedono già alla destra del Padre. Molto più verosimilmente quella degli Ufomammut è una progressione “orizzontale”. Non ascende ma si allarga. Come una chiazza d’ olio. Sarà per questo che io li ho sempre definiti i Macchianera del rock italiano. Una macchia vischiosa che si muove animata di vita propria. Ma forse addirittura no, nemmeno questo. Progrediscono in senso inverso, affondando. La musica del gruppo di Tortona si è fatta sempre più profonda, scavando il suolo sotto i propri piedi, infilando le dita nel bitume, svuotando gli anfratti di roccia nascosti sotto l’asfalto, fino a penetrare nei fiumi di lava che scorrono nella pancia di Madre Terra, come succede intorno al settimo minuto dell’ ultima tranche di questa megasuite in cinque movimenti dedicata alla figura di Eva. Prima donna e prima figura eversiva del mondo che conosciamo. Ma non c’è traccia dell’ Eden. Nessun paradiso terrestre. Al suo posto una selva sinistra, minacciosa ed ostile, una giungla di liane e radici dove si incunea la musica dell’Ufomammut, l’unico essere che la abita. È qui che lui riversa la sua furia primordiale, carica di fiele e incattivita dal malanimo di una solitudine immensa, ancestrale; ed è tra le reti di questa trincea primitiva che acquieta il suo tormento, impigrito dalla stanchezza, intorpidito da un vagare che non trova destinazione, abbrutito dalla desolante furia degli elementi. Sembra l’ultimo giorno di vita sulla Terra, e invece è soltanto il primo. L’aria è carica di zolfo, pesante, greve, asfittica. Il passo dell’Ufomammut è parimenti pachidermico, rovinoso. Attorno a lui ci sono rocce che si sgretolano e pozze di polveri e gas, geyser che sbuffano da queste terre ancora vergini ma già ferite. Un paesaggio ancora impenetrabile, ostile. Refrattario alla luce, non ancora educato alla disciplina e all’ ordine, come la donna che lo abita. Eve è il rumore dei primordi, degli elementi che il big bang ha generato e che non hanno ancora scelto come spartirsi questa libertà che gli è stata donata, di questa lotta biologica per la conquista del territorio, di questa sfida tra se stessi e con Dio. Ti schiaccia e ti solleva, la musica degli Ufomammut. Per poi riscaraventarti giù, da questi burroni infernali, lungo queste serpentine di acqua che poi precipitano fumanti di vapori, imbizzarrite come cavalli in fuga. Sabbie, acque, rocce e fango, polveri e sterpaglie, terra che ancora non conosce la fatica umana e l’armonia delle stagioni, vapore insalubre, magma, abominio, caos. Eva raccolse dall’albero della conoscenza. Per scoprire che non sarebbe mai stata veramente felice. Ora le toccava dare il nome ad ogni cosa. Alle bestie, alle piante, ai frutti del suo peccato, e alle sue paure. Di cui, fino ad allora, conosceva solo il rumore: questo. Franco Dimauro ML 30 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: THE CHIEFTAINS FEATURING RY COODER TITLE: San Patricio – Deluxe Edition LABEL: [CD + DVD] Hear Music | Universal RELEASE: 2010 WEBSITE: www.thechieftains.com MLVOTE: 7/10 Si rinnova la collaborazione musicale tra Chieftains e Ry Cooder in un disco con il quale il gruppo irlandese racconta (in musica) un capitolo oscuro e controverso della storia americana al tempo della guerra tra il Messico e gli Stati Uniti (1846–48) riguardante il Batallòn San Patricio (dal nome del santo protettore dell’Isola di Smeraldo), un’unità dell’esercito messicano composto per intero da disertori irlandesi delle truppe americane. Un episodio che ha suscitato nel tempo non poco imbarazzo ma che trova una sua ragione d’essere se si guarda alle comuni radici cattoliche di messicani e irlandesi. Ancora più credibile la spiegazione che gli irlandesi, sempre trattati come miserabili dagli americani, avessero trovato maggiore comunanza e affinità con i peones. «Gli irlandesi – come ha spiegato Paddy Moloney, leader dei Chieftains - erano arrivati in America per sfuggire alla grande carestia causata dall’occupatore inglese. Si trovarono in un nuovo paese, obbligati a prendere le armi con vacue promesse di soldi e di terre, a sparare contro altri cattolici. Non ci pensarono due volte e passarono dalla parte dei messicani». Il progetto del gruppo irlandese era in partenza molto ambizioso e Moloney & Co., grazie alla collaborazione di una giornalista argentina e di Cooder, sono risaliti a una serie di brani tradizionali messicani risalenti all’epoca dei fatti e che sono andati a comporre l’ossatura del nuovo album, per il quale i Chieftains si sono limitati a produrre nuovi arrangiamenti, ad aggiungere alcune nuove canzoni e a circondarsi di musicisti messicani al momento delle sedute di registrazione avvenute in giro per il mondo (Messico, Spagna, Los Angeles, New York e Dublino). Ovviamente predominano atmosfere messicane alle quali i Chieftains donano il distintivo Irish Touch che contraddistingue da sempre la loro musica. Ovviamente c’è Ry Cooder, da sempre innamorato delle sonorità tex mex, che con la sua esperienza e la sensibilità musicali, il desiderio costante di approfondire la ricerca di roots comuni, ampiamente messe in mostra con Buena Vista Social Club, fa da collante tra due anime musicali di paesi divisi dall’oceano. Un disco appassionato cantato in spagnolo e inglese, ricco di atmosfere folk, dove si fondono strumenti acustici irlandesi con strumenti tradizionali messicani, più violini, flauti e chitarre messicane a mescolarsi con momenti orchestrali di più ampio respiro. Il brano più emozionante e lirico è The Sands of Mexico, firmata e cantata da Cooder. Molte guest star sono presenti: da Linda Ronstadt alla leggenda messicana Chavela Vargas, dal pianista e produttore californiano Van Dyke Parks alla band chicana Los Tigres del Norte, dall’attore Liam Neeson (recita versi scritti dallo scrittore irlandese Brendam Graham, su musica composta da Moloney) al virtuoso della gaita galiziana (della famiglia delle cornamuse) Carlos Núñez. Luigi Lozzi ML 31 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: THE WHO TITLE: Greatest Hits & More LABEL: Polydor | Universal [2 CD] RELEASE: 2010 WEBSITE: www.thewho.com MLVOTE: 9/10 Nella querelle infinita su chi fosse meglio tra i Beatles e i Rolling Stones non sono stati pochi quelli che hanno optato per il classico terzo incomodo, gli Who, gli unici capaci (con i Kinks nella loro scia) di mettere d’accordo tutti. Considerazione invero da consenso ampio visto che il loro approccio con il rock, energico e potente, va annoverato tra quelli senza tempo; c’è poco da girarci attorno, la band va inclusa di certo tra le prime cinque di ogni tempo. L’errore oggi, a mio avviso, è d’essersi rimessi “on the road” (sebbene privi della loro metà, gli scomparsi Keith Moon e John Entwistle) a fare il verso alla loro grandezza. Da qualche anno assistiamo al ritorno sulla scena live di giurassici eroi del rock; il mio pensiero al riguardo (forse anche non condivisibile) è che proporsi come sessantenni cavalli di ritorno a sgambettare sul palcoscenico con lo spirito (presunto) dei vent’anni è solo un’operazione commerciale e nient’altro, che per di più reca danno a quell’immagine di costoro che si è solidamente sedimentata nell’immaginario collettivo. Con tutto il rispetto per Roger Daltrey e Pete Townshend, indiscussi leader e “deux ex machina” della mitica formazione, e con le debite (e doverose) distanze che il tempo impietoso lascia calare come un maglio sulle attuali loro performance live, ditemi cosa possono essere gli Who al giorno d’oggi privi di due colonne come i compianti Keith Moon e John Entwhistle? Non c’è da sentirsi un po’ orfani se privati dell’esuberanza esplosiva del drumming del primo (scomparso nel ’78) e degli storici riff di basso del secondo (che ci ha lasciato nel 2002)? Senza di loro lo spirito autentico del complesso è irrimediabilmente smarrito. Credo che gli Who davvero rappresentino nel nostro immaginario d’appassionati del rock un’entità fatta di magia che è ben più della somma delle parti che la compongono. Per riappropriarsi dell’immagine più autentica del gruppo inglese niente di meglio di questa doppia antologia che nel primo disco riporta i 19 maggiori successi del gruppo inglese, tra cui i brani storici della band (e penso a I Can't Explain, Substitute, The Kids Are Alright, Magic Bus, I Can See For Miles, Pinball Wizard, Won’t Get Fooled Again, Baba O’Riley, Who Are You) e nel secondo CD 13 performance Live registrate tra il ’65 e il ’76, un paio dell’89 e una, finale, che risale al recente tour della reunion del 2007. Insomma la summa del loro massimo fulgore artistico. Tutti inni viscerali alla giovinezza e ai fermenti di quegli anni e che hanno contribuito a scrivere la nascente grammatica del ribellismo rock, al grido di “I hope to die before I get old” (“spero di morire prima di diventare vecchio”) contro la mediocrità della middleclass. Un’antologia come questa ha ben poco per lasciare delusi gli appassionati e fa il paio, tanto da esserne degno complemento, con il film dedicato al gruppo, The Kids Are Alright diretto da Jeff Stein nel 1979, a sancirne per sempre l’immortalità. Luigi Lozzi ML 32 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: ROKY ERICKSON WITH OKKERVIL RIVER TITLE: True Love Cast Out All Evil LABEL: Anti Records RELEASE: 2010 WEBSITE: www.myspace.com/rokyerickson MLVOTE: 8/10 È un colpo al cuore ma anche una bella botta di adrenalina questo True Love Cast Out All Evil di Roky Erickson with Okkervil River. Un ibrido perfetto di suoni corrosivi, spirito rock and roll e infinita poesia che riconsegna alle cronache musicali una delle menti più tormentate della psichedelia americana (ricordate i 13th Floor Elevators?). Un album arrangiato, supportato e prodotto egregiamente da Will Sheff (e la sua banda) che ha il merito di aver saputo rovistare nel passato di Roky Erickson tirando fuori questi dodici brani che, ad ascoltarli ora, lasciano un nodo in gola. Un album intenso e vibrante che unisce sapientemente rock, pop, country e tutti quegli istinti primordiali delrocker fatti di musica e sentimento. Un disco costruito su splendide ballate folk (Be And Bring Me Home e Forever), passaggi visionari a bassa fedeltà (Devotional Number One e God Is Everywhere) e travolgenti incursioni rockcome John Lawman e Bring Back The Past ma soprattutto come Goodbye Sweet Dreams che da sola vale l’intero lavoro. Dentro True Love Cast Out All Evil c’è il dolore trasformato in amore, c’è la voce graffiante e commovente del vecchio Roky ma più di ogni altra cosa c’è l’empatia con una grande e giovane band americana: gli Okkervil River. Una fatica dal songwriting sostanzialmentemainstream (Dylan, Cash, Springsteen, Fogerty…) che segna il ritorno (o, se preferite, la rinascita) del pioniere texano dell’LSD, personaggio capace di unire genio e sregolatezza alla maniera di Syd Barrett, Brian Wilson e Daniel Johnston. Ecco perché True Love Cast Out All Evil è uno di quei dischi da mettere assolutamente nella lista delle migliori uscite discografiche dell’anno. Luca D’Ambrosio ML 33 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: TOM PETTY & THE HEARTBREAKERS TITLE: The Live Anthology LABEL: Warner Bros. RELEASE: 2009 WEBSITE: www.tompetty.com MLVOTE: 8/10 Gran parte del popolo rock pensa che la E Street Band di Bruce Springsteen sia stata l’unica grande orchestra di “mainstream rock” americana degli ultimi 35 anni ignorando completamente i favolosi Heartbreakers di Tom Petty. A questa grossa ingiustizia si può agevolmente rimediare acquistando i 4 CD (48 tracce) di The Live Anthology (esiste anche una versione Deluxe composta da: 5 CD contenenti 14 canzoni in più, un documentario in DVD realizzato durante il “Wildflowers Tour”, un concerto californiano in DVD del 1978, un LP in vinile rimasterizzato di un Bootleg live del 1976, un Blu-ray Audio Disc contenente tutti i 62 brani ad altissima fedeltà, un libro con foto e note di Tom Petty e giornalisti musicali e per finire una litografia che riproduce il poster delle 20 serate al Fillmore del 1997. Se poi siete degli inguaribili romantici del vinile potete procurarvi anche una versione di lusso composta da 7 LP ma dovete rinunciare a dieci canzoni.) che raccoglie pezzi dal vivo compresi in un arco temporale che parte dal 1980 per arrivare al tour del 2007. L’impostazione dell’opera ricalca lo spirito del famoso Live 1975-1985 del Boss uscito nel 1986 (non viene ripreso un singolo concerto ma si mettono insieme tante canzoni estrapolate da varie performance relative a periodi e anni diversi). Il progetto è ambizioso ma dopo ripetuti ascolti si può tranquillamente affermare che il bersaglio è stato centrato in pieno: il rocker della Florida con una presenza scenica non da protagonista assoluto ma quasi come parte integrante dei bravissimi Heartbreakers (soprattutto nelle persone del chitarrista Mike Campbell e del tastierista Bemmonth Tench suoi sodali fin dagli esordi) snocciola per quasi 3 ore e mezza una sequenza impressionante di classici della band (Even The Losers, Here Comes My Girl, Breakdown, Refugee, Wildflowers, Jammin’ me, Lousiana Rain, Amercan girl, Free Fallin’) e cover come I’m In Love (Bobby Womack), I’m a Man (Ellas McDaniel/Koko Taylor), Diddy Wah Diddy (Willie Dixon/Ellas McDaniel), I Want you Back (Rod Argent), Friend of the Devil (Grateful dead), Oh Well dei Fleetwood Mac e altre ancora. The live Anthology è la rappresentazione scenica di quel rock americano che attraversando sempre “la strada principale” ha prima o poi incontrato tutti senza mai deviare verso vie elitarie o malsane. Ci sono il folk rock e la sana psichedelica dei Byrds con le Rickenbacker stampate nel cuore, il pop dei Beatles e dei Zombies, i Rolling Stones, i Creedence Clearwater Revival, Bo Diddley, Willie Dixon, Chuck berry, Buddy Holly, Dylan e se proprio vogliamo dirla tutta non mancano nemmeno gli hit da radio FM. La caratteristica peculiare del biondo di Gainesville è l’approccio enciclopedico e stakanovista, quasi da fan verso il rock’n’roll e la sua storia. Come disse anni fa il giornalista musicale Bill Flanagan: “Tom Petty è un tradizionalista del rock. Per lui il più grande insegnamento del rock è la continuità nel mutamento.” Domenico De Gasperis ML 34 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: THE CORONAS TITLE: Tony Was An Ex-Con LABEL: 3ú Records RELEASE: 2009 WEBSITE: www.thecoronas.net MLVOTE: 8/10 Sappiamo tutti quanti e quali fermenti di novità in campo musicale animino Dublino che, assieme a Berlino, si può fregiare del titolo di capitale europea più giovane e dinamica sotto il profilo culturale. Così, dalla capitale irlandese arriva l’eco del successo crescente che accompagna una delle tante band emergenti che hanno stabilito il loro quartier generale in quel di Temple Bar: i Coronas, quattro baldi giovanotti che tutti assieme nemmeno assommano a 90 anni, sono una delle formazioni che vantano maggiore appeal nei circuiti frequentati dal popolo studentesco. Alla fine di febbraio si sono aggiudicati con questo secondo album il Meteor Ireland Music Awards 2010 (l’equivalente del Grammy Awards americano e del Brit Awards inglese) come miglior Album dell'anno, precedendo U2 (No Line on the Horizon) e Snow Patrol (Up to Now), ed erano in nomination come Miglior Band Irlandese (il premio è andato ai Snow Patrol; e U2 sconfitti ancora una volta e battuti anche come Miglior Act Live dagli Script). Insomma qualcosa di più di una semplice affermazione, una sorta di piccola consacrazione per i Coronas, il giovane gruppo capitanato da Danny Reilly, figlio di Mary Black, che ha in avvio gettato le basi del proprio successo nell’area dell’audience studentesco, universitario e non, a Dublino e dintorni (un po’ com’è accaduto oltreoceano per Dave Matthews Band). All’inizio sono stati guardati con un certo scetticismo dalla critica per questa realtà all’apparenza limitativa, mentre i sostenitori ne hanno apprezzato la dimensione naive. Di sicuro i Coronas (che citano Beatles, Jeff Buckley, Stone Roses e Radiohead tra i loro principali ispiratori) hanno beneficiato di una eccellente spinta promozionale, che ha portato alcuni loro singoli in più che proficua “heavy rotation” radiofonica. Ben poco nel loro sound può essere assimilato alla musica irlandese più tradizionale, ma nulla ci vieta di individuare una certa continuità con il passato alla luce della considerazione di avere cotanto genitori: Mary è la regina del vocalismo nell’isola di San Patrizio mentre il papà di Danny, Joe, è titolare di un’etichetta discografica che divulga buona musica traditional. Insomma difficile pensare che non si avvertano buone vibrazioni in casa. Il nuovo disco, registrato in Cornovaglia sotto la supervisione produttiva di John Cornfield (è la cartina tornasole della ricerca di un’identità più matura da parte della formazione), è più meditato ed è meritevole d’ogni attenzione. La crescita artistica si coglie fin dalla traccia iniziale, Won't Leave You Alone, che poggia su un pregevole lavoro della chitarra. Ad essere più maturo è soprattutto il vocalismo “scuro” di Danny, il range espressivo cui sa arrivare. Pecca l’album solo di equilibrio: ha una partenza a tutto gas mentre sul finire lascia perplessi per una serie di ballate piuttosto scontate, come scontati sono i riff chitarristici che le sostengono. Destinato a convincere anche i più riluttanti della loro bontà o della potenzialità che si prospettano all’orizzonte. Luigi Lozzi ML 35 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: UNDERWORLD VS THE MISTERONS TITLE: Athens LABEL: K7 RELEASE: 2009 WEBSITE: www.k7.com MLVOTE: 8/10 Amo le compilation, anzi chiamiamole antologie di autori vari (Antologia dal greco è raccolta di fiori). Tante di queste negli anni ci hanno colmato di sorprese, facendoci assaporare artisti ed etichette che altrimenti mai avremmo così apprezzato, oppure donandoci inediti dei nostri artisti preferiti… Poi, le nostre Antologie, condensati del nostro animo, attraverso la musica che ameremo per sempre, e che ci aiuta a vivere: quante ne abbiamo seminate per il mondo, facendone dono agli amici ed alle ragazze? Amo la Radio, specie quelle rare volte che ti permette di conoscere progetti altrimenti ignoti, ed ancor più quando sai che per caso sei capitato a quell’ora su quella stazione, per ricevere quel dono inatteso! Era Dicembre, mi trovavo in viaggio e, nel primo pomeriggio Radio 3 dedica un programma a questo CD: impossibile non coglierne la ricchezza e la squisitezza dei contenuti. Come si evince dalle note di copertina, si tratta della prima tappa di un percorso tra gli ascolti che Karl Hyde e Rick Smith hanno avuto l’opportunità di fare in tanti anni di immersione nel mondo della musica grazie a familiari, amici, colleghi, DJ’s, conoscenze attraverso la rete e, non ultimi, gli appassionati amanti della musica che lavorano nei negozi di dischi (lunga vita ai negozi di dischi!). Non ci dilunghiamo sugli Underworld menzionando solo le strepitose e seminali opere prime, “Dubnobasswithmyheadman” (1994) e “Second Toughest In The Infants” (1996), chiariamo che The Misterons è un collettivo che include loro stessi in una più ampia “famiglia creativa” e andiamo ad annusare i nettari e la primizia che compongono l’album, 12 brani per circa 65 minuti che spaziano dal 1970 al 2009. Si inizia con Journey In Satchidananda (feat. Pharoah Sanders) di Alice Coltrane: porte che si aprono su porte, in un mantra che disvela free-jazz straniante; segue You know You Know della Mahavishnu Orchestra, ancora primissimi anni ’70, per convincerci che i diaframmi tra vari stati di coscienza sono quanto mai sottili e fragili, quanto impalpabili. Il brano successivo di Squarepusher è un cammeo in onore al “giovane” talento che tanto ha riversato, nella musica contemporanea, di quei patrimoni appena prima ascoltati. Poi c’è “Penny Hitch” (1973) dei Soft Machine, un surrogato/condensato della pietra miliare “Out-Bloody-Rageous” (dall’album “Third”) che come una cometa annunciava già in quegli anni gli sviluppi trance e triphop di là da venire. Ma il balzo dalla poltrona te lo fà fare il brano seguente, “2HB” (1972), ed è un balzo diretto allo scaffale dei vinili: dov’è? Anzi, dove sono Roxy Music e Four Your Pleasure primi due album dei Roxy Music appunto, nei quali Brian Eno, Phil Manzanera, Andy McKay e Brian Ferry donavano alla storia i nuovi stilemi del rock? Che brividi! Il percorso procede, via The Detroit Experiment di Carl Craig, Moodyman, Osunlade e Underworld medesimi (eccellente Oh, la loro traccia) a chiarire che il jazz è la madre della techno; a seguire Laurent Garnier va a ricercare le radici del tutto in Africa e di rimando Miroslav Vitous ci riporta in New York City, crogiuolo delle culture, dove jazz, funk e disco si intrecciavano preparando il terreno a geni pronti a dichiararsi al mondo, come David Byrne. Siamo così al brano finale, inedito, che porta la firma di Brian Eno e degli Underworld stessi: Beebop Hurry, un brano nervoso, ribelle, ultramoderno, urbano, incompiuto alla ricerca di una nuova forma/canzone che intenzionalmente lascia il discorso, ops, il percorso in sospeso, perché, come già accennato, questa compilation avrà un seguito. Come il nostro doppio incipit: “Amo le compilation. Amo la Radio”. Gianluigi Palamone ML 36 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: JOHN GRANT TITLE: Queen of Denmark LABEL: Bella Union RELEASE: 2009 WEBSITE: www.myspace.com/johnwilliamgrant MLVOTE: 8/10 Alzino la mano quanti ricordano i Czars. Splendida, oscurissima band capitanata dal talentuoso vocalist e pianista John Grant, posizionata più o meno tra Scott Walker, Mark Lanegan e virate quasi dark. Io, uno tra i pochi italiani, credo, ad averli visti live (essì, supportavano The Album Leaf, fecero cinque canzoni e aprirono con quella che poi scoprii essere Drug, che, ovviamente, mi stese), non li ho dimenticati. Dopo il magnifico cover album Sorry I made you cry, le notizie si fecero incerte e, complice la solita combinazione di abusi vari e frustrazione per mancanza di riscontro economico e di pubblico, arrivò lo scioglimento, ma John Grant ha continuato, grazie anche a qualche entità che dirige i nostri destini, a scrivere canzoni, e la sua strada ha incrociato quella dei magnifici Midlake, compagni di etichetta (Bella Union), i quali si sono perdutamente innamorati delle canzoni che John, nei momenti di resurrezione dal baratro, proponeva dal vivo. Lo hanno preso e portato a casa loro, a Denton, Texas. Hanno interrotto le lavorazioni del loro ultimo The courage of others per darsi da fare ad arrangiare, registrare e produrre queste canzoni, che narrano dell’adolescenza di un giovane omosessuale in una cittadina di provincia americana, abitata da rednecks razzisti e dispersa nel nulla. Ne esce, vivaddio, un album a nome John Grant, intitolato Queen of Denmark, ed è semplicemente magnifico. Non è cambiato granchè, nella scrittura di Grant. Propende sempre per il dramma puro, assoluto, lento, pianistico, che dà alla sua voce incredibile modo di distendersi e vibrare. C’è, però, qualche novità: scorre, sotterranea, una vibrante energia glam, propria di certe ballate di David Bowie, dei lustrini di Gary Glitter, una sorta di grazia un po’ sguaiata, di trucco sfatto e serate vane fatte di drink e sessualità adombrata di peccato e pentimento. Ci tranquillizza subito, il buon John: si parte con tre slow (TC and the honeybear, I wanna go to Marz e Where the dreams go to die) da brividi, che fanno subito accapponare la pelle: è qui, è lui, è tutto (o meglio niente) a posto, ma gli andamenti caracollanti (che fanno pensare addirittura, con piano “battente”, al Paul McCartney migliore, quello di Penny Lane) di Sigourney Weaver, Chicken bones explicit e Silver platter club ci svelano un John Grant vizioso e lascivo, anche se sempre malinconico di un post orgasmic chill o di down da coca, e la sintesi di queste anime si ha nella perfetta JC hates faggots (dove la solita ballata è governata e condotta da solenni synth quasi space) e Caramel (dove il nostro esplora i territori dove abitano Antony e Baby Dee).Bravissimi anche i Midlake. Disco molto, molto grande. Valerio Granieri ML 37 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: IL DISORDINE DELLE COSE TITLE: S.T. LABEL: Tamburi Usati | Venus RELEASE: 2009 WEBSITE: www.ildisordinedellecose.it MLVOTE: 6,5/10 Il Disordine delle Cose sono in cinque e vengono dal Piemonte. L'album, il secondo dal 2008, si sviluppa su trame leggere, per conto di un pop d'autore ben strutturato da una cifra stilistica riconoscibile, eppur figlia legittima di nomi conosciuti quali Perturbazione, Valentina Dorme, Non Voglio che Clara e Amor Fou. Il filone di cui fanno parte è questo. Fra gli ospiti Gigi Giancursi e Cristiano Lo Mele, componenti dei succitati Perturbazione che si sono occupati della produzione artistica, ma anche Paolo Benvegnù, Marco Notari e Syria, colei che conferisce al disco quel tocco sanremese, nel senso buono. Dopo un po' di ascolti la formula de Il Disordine delle Cose si svela in tutta la sua purezza. I testi si fanno riconoscibili tanto che si canticchiano alla fermata del bus, e si mandano a memoria durante la lezione di psicologia mentre il professore ampolloso tenta di spiegare Freud. "Io sono il capo, sono il migliore, la vera crema del genere umano, sono il numero uno", inserita in Don Giovanni, cerca di connotare un senso di "impegno" al disco, con un risultato apprezzabile. È una formula che alla lunga potrebbe mostrare un po' la corda; forse non guasterebbe una piccola iniezione di adrenalina. Per adesso è più che lecito godere di queste tredici tracce, più una bonus track, se quello che si cerca non è altro che un gradevolissimo disco di canzoni pop. Jori Cherubini ML 38 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: FEVER RAY TITLE: S.T. LABEL: Rabid Records RELEASE: 2009 WEBSITE: www.myspace.com/feverray MLVOTE: 8/10 Propongo a tutti gli amici di Musicletter di differenziarci dalle altre testate, e dal giornalismo del “non è mai troppo presto”, procrastinando di almeno 5-6 mesi (quindi a subito prima dell’estate) la pubblicazione delle nostre scelte su “The Best” dell’anno precedente. Sarebbe un ottimo incentivo per qualche acquisto di recupero per l’estate, e anche un modo più razionale e completo di assimilare il meglio che ci possa essere capitato di cogliere nel campo sterminato di uscite, l’anno prima. Mi eviterei così di incoronare ex-post, a pari merito con Franklin (“Every Now and Then” Wool Recordings), come miglior album del 2009 Fever Ray , progetto solista, a lunga gestazione, di Karin Dreijer Andersson. Costei insieme al fratello Olof sta svolgendo gran parte della propria carriera nel progetto The Knife, piuttosto sottovalutati, ma che ancora non conosco se non per la recentissima uscita del doppio CD Tomorrow, In A Year, pura avanguardia di musica concreta, lirica, techno/dark, un’esperienza dura ed affascinante, non c’è che dire. E di certo tutti i germogli di tale svolta evolutiva sono seminati in questa opera solista di Karin, ricettario di antica saggezza per una preparazione al futuro, in musica. Fever Ray, disponibile in 3 formati: standard con 10 brani (si può beccare in economica); doppio con 2 bonus tracks e DVD con 5 video (valore assoluto); triplo con, rispetto al precedente, l’aggiunta di Live in Lulea, performance dell’album in cui K. Dreijer Andersson rimette in ordine la track list del CD in studio, alterata dalle bonus tracks. Inutile davvero “stilare” i singoli brani, ognuno di voi potrà piuttosto “distillare” a piacere nell’ascolto straripetuto, come capitato a me. Volete sapere come? Ecco. Mi accade nel 2010: il video di When I Grow Up captato distrattamente su Brand New (MTV), uno stillicidio di recensioni oscure ma promettenti, lo compro! Mi rapisce. Ecco, i dischi memorabili sono come questo: lo ascolti tutto, ti piace tutto (video compresi), ogni volta qualcosina in più… e poi dici: cavolo (!) vita da sciamani, l’energia della Terra, e dell’Acqua; le ombre e la rovina delle case antiche, lo specchio riflettente delle nostre emozioni; il Fuoco che traduce l’Aria in stille di musica arcana, due voci che cercano l’esegesi delle nostre esistenze. Tutto troppo bello per non tradursi in preghiera, incanto. Memoria. Come quando l’ultimo brano Coconut ti lascia con il lusso del già sentito (NB: non si tratta di sampling, ma di emozione) quando riaffiora alla mente Decades dei Joy Division. Fidatevi, amici, e attendiamo insieme (vedi copertina) che la Signora della Scandinavia si concentri e, distanziando piano i palmi delle mani, faccia vibrare a meraviglia lo spazio/tempo e chissà quali altre dimensioni. Gianluigi Palamone ML 39 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: THE JAI-ALAI SAVANT TITLE: Flight of the Bass Delegate LABEL: City Slang RELEASE: 2007 WEBSITE: http://savant.paintthesky.org MLVOTE: 7/10 Vorrei fare un esperimento alquanto anomalo, almeno in campo giornalistico, che servirebbe da cartina al tornasole per valutare la capacità di noi recensori nell’invogliare l’acquisto di un disco sconosciuto al lettore. Il gioco è semplice e consiste nel mandare una mail al sottoscritto all’indirizzo [email protected] e io vi spedirò gratis a casa il disco in questione (solo alla prima persona che mi contatterà perché di cognome non faccio Paperoni). Ovviamente niente parenti, amici o collaboratori, solo persone che in queste poche righe capteranno qualcosa e vorranno approfondire delle semplici parole gettate sullo schermo (prima però passano su carta, sono legato al rumore della matita sul foglio) ricevendo in regalo un elegante digipack da girare e rigirare fra le dita e nel lettore. Flight of The Bass Delegate si muove su binari rock/reggae/punk/dub ed è l’unico parto discografico di The Jai-Alai Savant, gruppo capitanato dal chitarrista di colore Ralph Darden. È un disco anomalo perché riesce a fare quello che i Clash hanno fatto in Sandinista, mischiando gli scatti d’ira punk dei Bad Brains e le rilassate melodie jamaicane filtrate dal pop dei Police, suonando talmente attuali da paragonarli ai TV on The Radio. Potere delle canzoni con melodie killer (Arcane Theories, White On White Crime), degli intermezzi dub che seguono le onde del mare (Transmissions From The Dub Delegate) e della capacità di non seguire nessuno schema se non quello dell’istinto. A voi ora seguire il vostro. Aspetto con ansia una vostra lettera elettronica. Nicola Guerra ML 40 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: REMO REMOTTI TITLE: Canottiere LABEL: ConcertOne RELEASE: 2005 WEBSITE: www.myspace.com/remoremotti MLVOTE: 8/10 Ognuno ha il suo filosofo preferito. Socrate, Engels, Marx, Platone, Machiavelli, Kant, Shopenhauer. A ognuno il suo. Il mio è Remo Remotti. Perché è spiccio, schietto, anche brutale, e parla di cose talmente vere che ti pare di vedertici dentro, come uno specchio dei nostri tic, delle nostre manie, delle nostre ossessioni, delle nostre paure. Il sesso, il tempo, la guerra, la mamma, le donne, la proprietà privata, la televisione, le perette (“era così che mia mamma me lo metteva nel culo. Anzi, nel culetto”), i Tampax, le seghe. Remo nasce borgataro ma diventa subito artista a tutto tondo. Pittore, scultore, attore, poeta e canottiere. A farlo diventare “cantante” ci pensano due “non musicisti” come Emilio Loizzo e H501, in arte Recycle. È il 1997 e lui ha incontrato un po’ di gente, nella sua vita sregolata che ha già visto più di settanta capodanni: Nanni Moretti, i fratelli Taviani, Nanni Loy (del quale sposò la moglie Maria Luisa nel 1960, NdLYS), Carlo Verdone, Marco Bellocchio. Recycle è dunque il barcone dentro cui Remo si nasconde per sbarcare sulle spiagge delle nuove generazioni. Lo fa da clandestino, senza averne consapevolezza eppure (Mamma) Roma Addio, uno dei suoi monologhi più celebri, sbarca nei club facendo diventare Remotti un personaggio di culto anche per il popolo alternativo che in quegli anni sta riempiendo le sale attirata dalle nuove musiche digitali, il trip hop, il big beat, la jungle. Il tappeto elettronico steso sotto le imprecazioni di Remo sono perfette per fare breccia. Il Remotti cantante nasce lì. Il suo primo disco esce tuttavia molto dopo, a ottanta anni suonati, raccogliendo 21 frammenti dei taccuini zeppi delle sue osservazioni sul mondo, su se stesso e sugli altri. Il pezzo con i Recycle è, ovviamente, il “singolo”, l’apripista, ma quello che segue non è da meno, anche se ad accompagnarlo sono altri, ovvero la fida chitarra di Paolo Zanardi dei Borgo Pirano e il sampling di Giorgio Spada. Ci sono momenti esilaranti e, ovviamente geniali. Come Sesso e matematica dove, con due calcoli facili facili, si rivaluta il valore specifico delle seghe. Non quelle dei falegnami, quelle di tutti gli altri. Oppure Professionismo e non, dove si ridistribuiscono gli spazi tra lavoro e hobby. Tra chi puttaneggia per l’uno e chi lo fa per l’altro. Tutto giocato con un’abilità linguistica e arricchito da un uso del paradosso creativo, acuto, ingegnoso. Anche quando si lambisce il territorio della parolaccia, non si tocca mai il triviale di bestie come gli Squallor. Perché è l’onestà politicamente scorretta di Remo a galleggiare su tutto, il suo sapore autentico da barbone un po’ coatto. Come quelli che per un dollaro ti raccontano una barzelletta per le strade di New York. Solo che Remo te la racconta con tutta la forza espressiva tipica del romanaccio un po’ boccaccesco e, come quando ti alzi da Cencio dopo esserti sorbito per trentavolte che sei un procione e la dama che ti siede accanto una bocchinara, alla fine sei pure contento di pagare. Poi ci sono le amare ma sempre aguzze e riflessive dissertazioni di Vita e Morte e Tempo (“voi correte…ma dove correte? Non sapete dove andare, e ci volete arrivare di corsa?”) e un mare di brani ispirati o dedicati alle sue donne, reali e presunte: Silvana, Mia, Rosa, Rossella, Antonella, Barbara o la Marcella di Tampax d’artista e qualche variazione sul “tema principale” come Me ne vado dalle cattive notizie, La mamma e Me ne andavo da Roma. Oppure la bella visione artistica di Noi non riusciamo più a vedere. Se state preparando il vostro consueto pacchetto di dischi da viaggio, lasciate a casa le pernacchie digitali dei Radiohead e le chitarre tritaballe dei Naam che tanto dopo venti minuti vi viene il voltastomaco, e mettete un disco che può farvi veramente compagnia. Dentro l’abitacolo e dentro la vostra pancia. Franco Dimauro ML 41 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: LIFT TO EXPERIENCE TITLE: The Texas Jerusalem Crossroads LABEL: Bella Union RELEASE: 2001 WEBSITE: www.myspace.com/officiallifttoexperience MLVOTE: 9/10 A volte i dischi si accodano. A volte inventano abbastanza, mischiando diversamente ingredienti conosciuti. A volte, anche con questa modalità, creano mondi. Un paragone: chiedo un grande, grandissimo sforzo immaginativo. Punto imprecisato del continuum spazio-tempo. Morrissey è nato in Texas, è ossessionato dalla religione e dagli inni, si è perso nel deserto, adora gli U2 ma con se ha un iPod miracolosamente funzionante in cui girano Cocteau Twins e Mono. Ah, ovviamente è cresciuto a pane e 13th Floor Elevators e ha una chitarra elettrica con una batteria di delay, chorus, ampli Lesile (la sa suonare, ovviamente). Riuscite a immaginare il disco che scriverebbe? Non serve, eccolo. Lunghe litanie fragili, preghiere, invocazioni all’Altissimo, figlie dell’epos dei primi U2 e dei tintinnii post-rock migliori, cantate con una fragilità totalmente esposta, assoluta, che divengono mantra figli degli Spacemen 3 e degli Spiritualized, ma con quel senso di precarietà e incertezza border, desertico, dell’uomo che si perde, del viaggio, e di quanto conti più il percorso che la meta. Poi c’è il concept, un delirio a base di Armageddon, Texas come terra promessa (in fondo cosa sono gli USA, se non il centro di JerUSAlem?stupidi noi a non capirlo), rivelazioni dal Cielo, angeli che arrivano, profeti che accompagnano; i due CD, uno denominato Texas e uno Jerusalem, i cui titoli letti tutti consecutivamente formano frasi di senso compiuto (Just as was told/down came the angels/falling from cloud 9/with crippled wings/waiting to hit/the ground so soft, per Texas; These are the days/when we shall touch/down with the prophets/to guard and guide you/into the storm per Jerusalem). Poi, ovvio, ci sono le canzoni. Canzoni come non ne avete mai sentite, giuro, se non nella vostra testa. Una preghiera disperata ma ferma, tremante ma nel contempo sicura, cantata da Morrissey e suonata da un gemello posseduto di The Edge, con quel senso di precario proprio della poetica del confine, e dell’uomo che lo guarda nella consapevolezza di non poterlo raggiungere. Del resto bisogna essere veramente speciali per essere cowboy di Denton, Texas, e far innamorare Robin Guthrie e Simon Raymonde al punto da veder campeggiare sul cd il logo Bella Union e e avere il disco mixato da loro. Josh Pearson (vocals/guitar)è spesso in tour. Non suona più queste canzoni, gira per lo più da solo e ha una barba chilometrica. Non ha più inciso dischi, se non qualche ultra limited edition dal vivo, che vende in quella sede. Forse s’è perso. Ecco il suo viaggio. Non trovo le parole. Prendete e ascoltatene tutti. Valerio Granieri ML 42 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: CESARE BASILE TITLE: Stereoscope LABEL: Universal RELEASE: 1998 WEBSITE: www.myspace.com/cesarebasile MLVOTE: 7,5/10 Quando dedicai su Musicletter uno sguardo critico alla discografia di Cesare Basile lasciai polemicamente una casella vuota, quella che doveva essere riempita da Stereoscope, il secondo album dell'artista catanese di casa (anche) a Milano. Il disco era introvabile da anni, una vera chimera. Anche ai tempi in cui uscì non era propriamente in vetrina nei negozi, anzi. La Universal lo ha appena ristampato e anche stavolta pare destinato a un'accoglienza misera. Non è la qualità della musica a non andare bene; anche in questo caso, come in tutti gli altri raccontati, si parla di un disco poco meno che grandioso. La brutta notizia riguarda la cervellotica operazione commerciale. Per comprare quest'agognata pepita, dopo anni di oblio, dovrete infatti sborsare 29,9 euro perché Stereoscope è inserito in un cofanetto di 6 cd del vecchio catalogo Black Out insieme a cose che probabilmente già avete o che probabilmente non vi interessano (Luciferme, Madaski, Africa Unite, Giovanni Lindo Ferretti, Soon); quindi "in solitario" non si trova, e la versione uscita è rilegata, anzi relegata, in una bustina di cartone senza libretto. Detto questo, Stereoscope è un disco di passaggio che porta un Basile ancorato alla scena rock italiana del tempo, con tanto di suoni pieni e potenti in linea con le produzioni degli altri grandi eroi di quegli anni (Flor De Mal, Scisma, Estra, Lula), verso la maturità del capolavoro Closet Meraviglia e delle successive gemme che lo hanno incoronato re della musica d'autore indipendente. Ci sono chitarre zeppeliniane, momenti elettroacustici e una verve che rendono l'album brillante e viscerale, di certo meno ambizioso di ciò che sarà ma ugualmente urgente e necessario. In questo periodo storico Basile urla il suo sarcasmo, non fa ancora parlare le pause e i dettagli, ma è un gran bel sentire da parte nostra. Finisce anche un'epoca, quella del Cesare Basile che ha il suono di una band rock pur firmandosi come solista; Paolo Benvegnù, più o meno nello stesso periodo, staccherà nettamente dagli Scisma affermandosi come artista di culto. Lo stesso farà anche Giulio Casale per quanto riguarda gli Estra. Non è più un paese per giovani, l'Italia, ma la maturità di questi signori è quanto di meglio potessimo volere. Senza dimenticare però di riscoprire, così tardi, una meraviglia come Stereoscope. Marco Archilletti ML 43 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: KARATE TITLE: The Bed is in the Ocean LABEL: Southern RELEASE: 1998 WEBSITE: www.myspace.com/karateband MLVOTE: 6/10 Sapete chi sono i “sordi” più famosi del rock? Pete Townshend. Certo, e Lemmy. Ovvio. Aveva pure scritto una canzone intitolata Deaf Forever… E, credeteci o meno, Geoff Farina. Ahahah. Ma come avrà fatto? Cioè, diventare sordi con la musica dei Karate è un po’ come diventare ciechi leggendo le insegne dell’Autogrill. Per carità, non c’è nulla da ridere. Però è difficile pensare ai Karate come a una delle band più rumorose del mondo, perché in effetti non lo sono stati. Anzi, piuttosto una silenziosa via al rock degli anni Novanta. Quello di fine decennio, quando tutti cominciarono a spegnere gli amplificatori, a rimodulare i gain, a ridisegnare il rock partendo dalla strada opposta a quella del grunge e del rumorosissimo crossover del primo giro di boa. Finiranno a flirtare con il jazz da camera, giocando con le ombre, ma i Karate di The Bed is in the Ocean sono ancora una band che vale la pena buttarsi addosso, lasciare dilagare nei silenzi della nostra camera. Silenzi talmente assordanti che, come dicono loro “possiamo sentire che il frigo è acceso”. In assoluto, assieme ai “cimiteri di appendini” di Capossela la definitiva dichiarazione di una solitudine estrema, asfissiante. Il rumore delle cose quotidiane che fanno eco al battito solitario del nostro cuore: esiste un dolore più devastante? The Bed is in the Ocean è uno dei dischi-chiave della breve stagione emo-core, quella in cui il suono di derivazione punk e indie rock si infilava nelle viscere dell’accidia indolente e pigra del proprio dolore, senza cercare una via di fuga ma trovandone una compiacenza complice e ignava. Una apatia che si srotola lenta dalla stanza di Geoff Farina e tracima avvolgendo anche noi. I movimenti sono lenti, annoiati, appesantiti da un tedio che non è più personale ma generazionale, universale. Sembra di poterci sprofondare, ed è questo che lo rende indisponente, ben oltre la soglia di tolleranza. Da questo momento in poi la musica dei Karate comincia a perdersi in cerebrali, smisurate cadute di gusto che ne appesantiscono la forma e la rendono sempre più simile a quel cliché che degenererà presto sui dischi successivi. Succede già qui dentro, a partire da The Same Stars con quell’interminabile serpente di assoli che Geoff vorrebbe funzionali alla rassegnazione inerte tratteggiata dalle liriche e che invece diventano fastidiosi come cappelli di feltro sotto il sole di Agosto. Più avanti è Up Nights a farci temere che i Karate si stiano trasformando nella band di Eric Clapton, e le paure non si dimostreranno infondate. Poi però succede pure che un pezzo come Diazapam ha quegli scatti nervosi e quell’ impeto da piccola città in fiamme che torna a farceli amare davvero, per essere riusciti a far suonare i Police come fossero i Fugazi o viceversa, oppure che gli elastici lenti di Bass Sounds siano esattamente familiari come quelli del nostro pigiamone preferito e che sia confortevole lasciarseli scivolare addosso. Succede che The Bed is in the Ocean, pur nella sua palese caduta di stile, rimane una piccola ancora arrugginita nei fondali marini dell’ indie rock degli anni ’90. Franco Dimauro ML 44 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: WORLD PARTY TITLE: Goodbye Jumbo LABEL: Papillon | Chrysalis Records RELEASE: 1990 WEBSITE: www.worldparty.net MLVOTE: 8/10 Non so quanti di voi ricorderanno i World Party di Karl Wallinger ma per chi scrive il progetto solista dell’ex Waterboys rappresenta, a distanza di due decenni, uno dei punti di riferimento di quel movimento d’estrazione Sixties che, a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e gli inizi degli anni Novanta, avrebbe contribuito alla nascita del Britpop alla stregua dei suoi più illustri rappresentanti quali La’s, Stone Roses, Blur, Verve e Oasis. L’opportunità della riscoperta dei World Party, e in particolar modo di Goodbye Jumbo, ci è data non tanto dalla celebrazione del suo ventesimo anniversario quanto, invece, da una più che casuale e banale riorganizzazione primaverile dei miei “materiali sonori”; gradevole passatempo che spesso mi fa riportare alla luce gemme di ordinaria bellezza inghiottite dal tempo e dimenticate dai critici. E qui scattano le domande. Sarà forse che l’indie cultore a forza di scavare il “fondo del barile” rischia di trascurare certi lavori così belli e così straordinariamente popolari? Oppure sarà colpa di un retaggio culturale che nel corso degli anni, vuoi per svogliatezza, vuoi per consuetudine o vuoi ancora per un eccessivo atteggiamento anticonformista, ci ha portato a omettere di default certi piccoli capolavori? Mah... Comunque, al di là della ricerca di una spiegazione ben precisa, ciò che risulta evidente è che Goodbye Jumbo è uno di quei dischi che molti recensori hanno relegato nell’oblio. Non a caso infatti, soprattutto in quest’ultimo decennio, non si è fatto altro che produrre e tessere lodi sperticate per dischi perlopiù carini ma spesso manieristici e irrilevanti. Un comportamento che ha generato confusione e che ci ha fatto ignorare fatiche discografiche ben più rilevanti come, appunto, questo secondo album del multistrumentista gallese che, tre anni dopo Private Revolution, realizza uno dei lavori più cristallini del british sound e di quello che oggi potremmo tranquillamente definire “pop contemporaneo”. Composto, suonato, arrangiato e naturalmente cantato dallo stesso Karl Wallinger, Goodbye Jumbo è l’opera migliore di un artista che in un solo colpo riesce a frullare i Beatles, Donovan e Prince mettendo in luce melodie a tutto tondo poggiate su basso/batteria/chitarra e capaci di riempirsi anche di spunti orchestrali, cori, sonorità sintetizzate e battiti elettronici. Con questo disco Wallinger scrive testi di protesta ambientalista (del resto lo si può intuire già dalla sua immagine di copertina) che, tuttavia, non perdono mai la speranza per il futuro e che oltretutto sanno parlare al cuore e all’io più profondo. Basta ascoltare canzoni come Way Down Now, Put The Message In The Box, Take It Up e Love Street e vi renderete conto che difficilmente riuscirete a togliervele dalla testa. Luca D’Ambrosio ML 45 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: THE FUZZTONES TITLE: Lysergic Emanations LABEL: Pink Dust RELEASE: 1989 WEBSITE: www.fuzztones.net MLVOTE: 9/10 I Fuzztones nel 1984 sono la più grande garage band in azione. Un’abrasione sul culetto liscio dei frocetti che in quegli anni si inzuppano lo slippino con le merdate di Heaven 17, Thompson Twins, Level 42, Go West e ABC. Garage punk, cultura trash (zombie-movies, fumetti, supervixen e quant’altro), ghiandole surrenali che secernono testosterone, estrogeni, adrenalina, gonadi che lavorano a ritmo esasperato, producendo tutto quello che vi permette di stare a letto con la tivù spenta e con poche coperte. Chi ebbe la fortuna di vederli dal vivo sa di cosa sto parlando: una macchina da sesso e rock‘n’roll, che scende dal palco a fatica, dopo prolungati e ripetuti orgasmi sul ventre del rock‘n’roll che Rudi Protrudi si è portato a letto per le sue polluzioni giovanili: Seeds, Sonics, Love, Link Wray, We the People, Cramps, Stooges, Haunted, Count Five, Music Machine e quelle centinaia di minuscole band di cui tutti nel giro di qualche mese ci troveremo a parlare e che allora conoscono in pochissimi: Bees, Bold, Human Expression, Tropics, Chob, Outcasts, Gonn, Calico Wall... Lasciate perdere Wikipedia, non vi aiuterà. Deb O’Nair è una delle ragazze che segue Rudi con costanza e libidinoso interesse, sin dai tempi dei Tina Peel, dei Dognappers e dei Possum Boys. Rudi se la porta prima a letto, poi nella primissima line-up dei Fuzztones. Michael Jay e Ira Elliott sono reclutati tra le fila dei Drive-Ins, una band di rockabilly esasperato che gira per i locali di New York. Sono loro a convincere Rudi a riformare i Fuzztones dopo il fugace primo tentativo conclusosi nel 1982. La gente sputava a terra e qualche volta anche sul palco, se suonavi i Sonics nel 1982, e questo è bene ricordarselo. Michael e Ira portano con loro un amico: si chiama Elan Portnoy. Nascono così, i Fuzztones “storici”. Fanno tre dischi dal vivo e uno in studio. Se avete inseguito un qualche cazzo di sogno rock‘n’roll nella vostra vita c’avete sbattuto il muso di sicuro. Io glielo sbattei quando avevo quindici anni e mi fanno ancora male le gengive ogni volta che lo risento. Il disco si apre con 1-2-5: brevissimo e incisivo attacco della batteria in 4/4 e armonica che gli si attacca subito alle ossa, bucando le casse, poi si va avanti così, tra ficcanti fraseggi di chitarra fuzz e di armonica. Io che allora ero ignorantello in materia pensavo fosse un pezzo loro. I grandi esperti dell’epoca invece mi fecero sapere trattarsi di un pezzo degli Haunted. Scoprì poi che molti degli esperti erano tali solo perché lavoravano dentro grandi negozi di dischi. Avessero lavorato in un salumificio avrebbero saputo tutto sui salamini Negroni. Io invece dei salumi Negroni conoscevo solo la musica dello spot. Del garage punk avrei imparato tutto negli anni successivi, senza lavorare nei negozi di dischi ma scavando con la pala. Scoprendo tra l’altro che gli Haunted facevano pure una bella cover in francese di Purple Haze e che avevano inciso questo pezzo con un testo leggermente diverso rispetto a quello dei Fuzztones. E anche rispetto al loro, a dirla tutta: lo avevano dovuto spurgare per non incappare nelle maglie della censura. Jurgen Peter concederà il testo originale ai Teeny Boppers, 43 anni dopo, ma questa è una storia che non vi riguarda. A ruota seguono altre due cover. ML 46 musicletter.it update n. 71 musica: the fuzztones Anche queste rese con una forza impressionante. Perché i Fuzztones non sono i Chesterfield Kings. A loro non interessa suonare come una garage band del ’66, a loro serve appropriarsi di quell’energia, e sboccarla sul pubblico. Il primo pezzo originale è Ward 81, in assoluto il primo brano dei Fuzztones a essere documentato su disco. Esce infatti nel 1983 su The Rebel Kind, la compilation su cui debuttano al fianco di Unclaimed, Slickee Boys, Nomads, Miracle Workers, Plasticland e qualche altro bel nome dell’epoca. È un pezzo che parla di case di cura, accompagnato da un video eccezionale che i Ramones avrebbero più tardi saccheggiato per Psychotherapy. A chiudere la prima facciata altre due cover: Strychnine è il primo dei due omaggi ai Sonics (e il primo dei due pezzi aggiunti alla versione originale dell’ album che di questa e di As time‘s gone era orfana, NdLYS). Introdotta dall’organo Vox di Deb, è un assalto al rock‘n’roll lercio dei ragazzacci di Tacoma. Radar Eyes è uno spiritato pezzo dei Godz, una delle più misconosciute band di rock eccentrico degli anni Sessanta, provenienti proprio da New York. Una martellante litania psichedelica, marziana e psichiatricamente instabile. Sono di nuovo i Sonics ad accoglierci, sulla seconda facciata: è una versione devastante di Cinderella con l’armonica di Rudi spinta in un assolo micidiale. Il secondo originale del gruppo ha ancora un numero nel titolo: si chiama Highway 69, un pezzo dilatato e morbidamente psichedelico che nasce col titolo di Fabian Lips e un ingenuo pigiamino di fiati, ai tempi dei Tina Peel. Il pezzo successivo è una cover a metà, o un originale a metà, se preferite. Rudi lo ruba a una minuscola band della Pennsylvania che ha conosciuto ai tempi dei Tina Peel. Si sono battezzati Punk Rock Janitors su suggerimento dello stesso Protrudi e hanno scritto una manciata di pezzi. Just Once è uno di questi. I Fuzztones se ne appropriano e ne fanno la loro versione. Onirica, avvolgente. Si apre come The Killing Moon di Echo & The Bunnymen e prosegue come The Killing Moon di Echo & The Bunnymen, ma io adoro quel pezzo e non posso non amare Just Once, comprese le nacchere che ogni tanto arrivano a spezzare l’aria. She‘s wicked è l’ultimo dei pezzi scritti dai Fuzztones, l’unico scritto proprio per l’album, avvolto in quest’aria macabra da horror movie di serie Z evocata dalla copertina disegnata dallo stesso Protrudi. Un classico tra i classici, per il garage rock degli anni Ottanta. A chiudere, altre due cover sconosciute: As time‘s gone è un pezzo dei Tropics, la band della Florida che spaccò il culo a più di 1000 band durante l’International Battle of the Bands di Chicago nel 1966, Tommy James and The Shondells compresi. A me la versione dei ‘tones piace più dell’originale. Credo che basti. A chiudere una pepita delle Pebbles, un malatissimo pezzo dei Calico Wall che i Fuzztones rendono esasperandone il tono raccapricciante e condendolo con un pianto di donna che penetra dentro le viscere mettendo a disagio l’ascoltatore. Lysergic Emanations resta l’insuperato e bruciante testamento del sixties punk. Per gli anni Ottanta, per gli anni Novanta, per gli anni Zero, per il decennio che ci siamo lasciati alle spalle e per tutti gli altri che verranno. Franco Dimauro ML 47 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: HÜSKER DÜ TITLE: Warehouse: Songs And Stories LABEL: Warner Bros. RELEASE: 1987 WEBSITE: www.myspace.com/flipyourwig MLVOTE: 9/10 Il rock alternativo americano degli anni Ottanta è un tavolo che si regge su quattro gambe: Sonic Youth, Pixies, R.E.M. e Hüsker Dü. Provate a tagliarne uno e vi crollerà addosso buona parte di quello che fu l’indie rock di venti anni fa. Warehouse aveva le colonne anche sulla copertina, e ho detto tutto. Che bella storia quella degli Hüskers! Che grande, bella, fottuta storia! Un chitarrista con la faccia da bombolone alla crema di arachidi, un batterista coi capelli unti come quelli di un hippie, un bassista con dei baffi da camionista messicano che saltano in groppa a un selvaggio mustang che sputa vapore dalle narici e polvere da sotto gli zoccoli e finiscono per addomesticarlo senza sbalzare dalla sella, addolcendolo un po’ alla volta. Una storia cominciata a sputi in faccia e finita a sputi in faccia. Prima sul pubblico, poi tra di loro. In quattro anni e cinque dischi (dei quali due doppi, NdLYS) gli Hüsker Dü hanno cambiato la faccia del punk. Lo hanno riempito di schiuma da barba, lo hanno rasato e quando alla fine lo hanno messo davanti allo specchio non era più lui. La rivoluzione comincia a casa. Preferibilmente davanti allo specchio del bagno. Proprio così, ma quando esce Warehouse: songs and stories, la rivoluzione degli Hüsker Dü è finita, e loro ne sono usciti comunque vincitori. Hanno ridefinito le coordinate del suono punk e sono stati i primi figli di puttana della scena indipendente a varcare la porta di una major, venire accolti dalla receptionist in calze a 8 den e dal pappone di turno che ti offre un sigaro cubano. Anzi, tre. Qualcuno li odierà per questo. Qualcuno ci scriverà pure un’orribile canzone (Middle dei Fifteen, NdLYS) che tutta intera non vale un solo accordo della chitarra di Mould. Per la Warner incidono due dischi che sono il preludio alla fine, e anche alla tragedia: le tensioni tra Bob Mould e Grant Hart sono diventate insanabili, acuite dall’uso smoderato di eroina e del metadone che Grant usa nelle pause tra una pera e l’altra. Non sono gli unici ad avvertire la pressione. Dietro di loro c’è il loro manager che cerca di ricucire ciò che ricucibile non è: Warehouse esce a Gennaio del 1987, il 7 Febbraio David Savoy completa le ultime piccole cose perché i ragazzi non abbiano problemi durante il tour, contatta gli agenti, i locali, gli alberghi. Fa una telefonata ai ragazzi per augurare loro un “in bocca al lupo”. Scende le scale, prende la macchina, accosta, e salta giù da un ponte mentre i ragazzi preparano i bagagli per l’ultima tournèe. Warehouse: songs and stories, testamento della loro bruciante avventura, è un album disgiunto. Anche senza farsi suggestionare da quello che succede negli equilibri della band, perché tutti i dischi degli Hüsker Dü vivono di questa dicotomia, di queste due facce che sono gli identikit di Mould e di Hart. Il primo scrive robuste ballate power pop inzuppate nel rumore, anthemiche e amare. Scrive quasi sempre al passato. Hart ha una scrittura meno incisiva, più complessa, dissonante ma con meno artigli. ML 48 musicletter.it update n. 71 musica: hüsker dü Non scrivono insieme, mai. Non solo non riescono, ma non sopportano l’ idea che qualcuno possa modificare le idee dell’altro. Si dividono le quote su ogni disco, come fossero porzioni della loro stessa vita. Non sono una band, eppure sono la band più perfetta del mondo. C’è un’ostilità montante ma creativa. Mould e Hart scrivono canzoni perfette, ma non sono Lennon/McCartney, né Jagger/Richards, né Strummer/Jones. Sono Bob Mould e Grant Hart. Due animali che condividono lo stesso fienile e adesso davvero per l’ultima volta. Mould non sbaglia un colpo. È sua la “metà” che pesa di più, e non solo per le banali questioni di percentuali che Grant Hart chiamerà ripetutamente a sua difesa. These important years, Standing in the rain, Ice cold Ice, Could you be the one?, Visionary, Bed of nails. Se ci avete rinunciato, vi siete negati una bella porzione di canzoni da poter cantare con le lacrime agli occhi sotto una pioggia di rumore. In compenso, scommetto, vi siete fatti abbindolare da qualche abile venditore senza scrupoli che vi ha venduto l’emo-core come il punk dell’anima. Senza accorgervi che nelle sue bocce di merda d’autore non c’era né il primo né il secondo. I pezzi di Grant, come da tradizione, sono più sgranati, hanno un guscio più molle ma spendono in zuccheri quello che il compagno invece sborsa in vitamine, dalle campanelline che risuonano lungo Charity, Chastity, Prudence and Hope e She floated away al pop alla Buddy Holly di Actual Condition ai passi marziali di You ‘re a soldier e Tell you why tomorrow. Sono due anime scollate, come sempre. Che però stanno ancora lì, in quella casa burrascosa e nemica a entrambi. Come una coppia di separati in casa. Non un doppio album, ma un album doppio. Dentro, c’è tutto il disincanto di chi è cresciuto con certezze che cominciano a crollare una dopo l’altra, facendoti il vuoto attorno e seppellendoti di macerie. Niente è per sempre, neanche la tua band del cuore. Effimera e precaria proprio quando tu la credevi essere lì per sempre. Magari solo per te. Le colonne doriche della bottega degli Hüskers si sbricioleranno di lì a poco, e io non riesco ancora a liberarmi dalle sue rovine. Franco Dimauro ML 49 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: THE SISTERS OF MERCY TITLE: First And Last And Always LABEL: Merciful Release RELEASE: 1985 WEBSITE: www.thesistersofmercy.com MLVOTE: 7/10 C’è un momento preciso in cui la musica dark si trasforma in musica gotica. Un momento che è il primo, l’ultimo e per sempre ed è l’11 marzo del 1985, quando arriva nei negozi il primo album dei Sisters of Mercy, il disco che trasforma il sogno dei Cult di Dreamtime in un incubo horror. Preceduto da una sfilza di singoli che ne diffondono il culto tra gli orfanelli dei Joy Division che ne accettano la candidatura a eredi legittimi anche davanti a una sfacciata copia cinetica di She‘s lost control come Body Electric, First and last and always accende nuovi entusiasmi tra i tenebrosi darkettini trasportati dai Cure dentro le discoteche del vecchio continente e poi lasciati lì a marcire. Le vendite per corrispondenza di Inferno & Suicidio e World‘s End hanno una nuova impennata. L’ultima. C’è una nuova smorfia d’angoscia che attrae i cuori di tenebra e che per un po’ raggela le viscere, facendo leva su due tratti essenziali della loro musica e che da lì in avanti sarà il marchio di fabbrica di tanta goth music cannibale e ne permetterà l’infiltrazione nelle maglie della musica industriale e del metal. La voce di Andrew Eldritch innanzitutto. Catacombale, oppressiva, glaciale, doomy. Come uno Ian Curtis seppellito vivo, e poi il passo gelido di Dr. Avalanche. Biondo e con gli occhi cerchiati di nero a dispetto di una forma che, invece, non ha. Perché è una drum machine. Tra l’uno e l’altro si stende un manto di jangle chitarristici tenebrosamente psichedelico. È il dono portato dall’arrivo di Wayne Hussey, appena reclutato dopo la defezione di Ben Gunn, il primo a rimanere schiacciato dall’ ego immenso di Eldritch. Durante il tour per First and Last and Always se ne andranno tutti gli altri. Andrew li avrebbe perseguitati ossessivamente per mesi, prima in strada, poi dentro i tribunali. Quella che rimbomba sorda dentro la musica dei Sisters of Mercy è una claustrofobia costruita, ricercata, perseguita con l’obiettivo dichiarato di intossicare l’aria. È questo a farne il capostipite della tradizione goth e a differenziarlo dalle produzioni chiave del giro dark wave che lo hanno preceduto. La musica di First and Last and Always pesa come una lastra di marmo che ti si chiude sopra portandosi via prima la luce, poi il tuo respiro. L’angoscia non è più uno stato d’animo, una condizione psichica. È una gita organizzata per i gironi infernali. Una messinscena pateticamente dolorosa, asfittica, tetra ed enfatica. Una marcia di cavalieri senza testa che vaga per foreste spettrali. Eldritch è l’officiante di questo sabba. Ray-Ban perennemente calati sugli occhi, capello sudicio, completi in pelle, capello da cowboy, non un accenno di sorriso. Veste quest’ aria di uno con tante cose da dire ma poca gente con cui condividerle che però suona tanto di fasullo proprio perché ostentata senza nessun filtro, con pacchiana inclemenza. Una caricatura del rocker cattivo in cerca di guai. È un po’ la sensazione che lascia l’ascolto di First and Last and Always, anche dopo tanti anni. Una rappresentazione volgare del teatro del dolore. Con tanti aghi da infilzare e poca forza di penetrare davvero sotto la pelle, se non con l’ausilio di un buon impianto scenico. Sarà mica per questo che abbondavano così tanto di fumi e fasci di luci? Franco Dimauro ML 50 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: PLAN 9 TITLE: Keep Your Cool And Read The Tules LABEL: Pink Dust RELEASE: 1985 WEBSITE: www.myspace.com/plan9 MLVOTE: 6/10 Chiariamo subito un malinteso: i Plan 9 con la scena neo-garage degli anni Ottanta c’entravano poco o niente. Un equivoco nato dalla pubblicazione di un mini album d’ispirazione Pebbles su etichetta Voxx a inizio carriera e che qualcuno ha frainteso per anni. I Plan 9 sono una guitar band figlia dei funghi acidi dei Grateful Dead e di altre comuni di svitati degli anni Sessanta e dei Settanta, dai Lothar and the Hand People dei quali riprendono, proprio su questo disco, la bellissima avanguardia freak di Machines ai Fugs, dall’Experience hendrixiana alle visioni espanse dei Third Barbo. Quando incidono questo loro capolavoro hanno ben quattro chitarre in officina. La copertina non è più quella fluorescente di Dealing with the dead ma è ugualmente visionaria e splatter come un Dalì in fuga con Rick Griffin. L’opera è di Richard Kenneth Sloane, l’artista italoamericano che disegnerà le storiche copertine per Accused, Upset Noise e delle seminali raccolte di pepite garage Vyle Vinyl per la High Noon Records e che lavorerà più tardi con i Guns N’ Roses. R.K. è morto quattro anni fa. Lui non leggerà questa recensione ma credo non l’avrebbe letta comunque. Dentro si muove la musica del gruppo del Rhode Island (nel frattempo approdato alla corte dell’Enigma assieme a una manciata di altre guitar band dell’epoca come True West, Green on Red, Rain Parade, Leaving Trains, Giant Sand, Wipers, ecc. ecc.) che ci accoglie col pigro tappeto elettrico di That‘s life prima di virare al suo terzo minuto di vita in una versione corretta di Fire di Hendrix. Poor Boy, a ruota, ha quel taglio leggermente nervoso che qualcuno ricorderà nei primissimi R.E.M. e nei Feelies. The beast was an old tale, 11th Hour e Hot Day sono l’ archetipo della canzone psichedelica di stampo Plan 9 con questa mandria di chitarre che scorazza libera lungo queste terre polverose ma sempre un po’ plumbee. For Hillary ha un suono liturgico imposto dall’organo Super Continental di Debora DeMarco e che ritorna anche su House of painted lips pure se immerso dentro un’atmosfera da rituale blasfemo che pare rubato alle messinscene sacrileghe dei Virgin Prunes. Le due mini jam di King 9 will not return e Keep your cool sono invece la dimostrazione pratica di quanto lo spirito dei Plan 9 sia completamente libero da ogni prigione “di genere”, men che meno da quelle un po’ legnose del garage-rock. All’epoca nel gruppo gira ancora John DeVault, aspirante filmmaker, che realizza pure un video della title track, rimasto inedito per più di venti anni senza che se ne accorgesse nessuno, neanche dopo essere reso pubblico. Ma forse dei Plan 9 tutti si conserva poca memoria, così come di ogni gruppo incatalogabile e perennemente fuori moda. Qualcuno per caso si ricorda di band stratosferiche come Electric Peace, Stewed o Texas Instruments? Niente, inghiottiti dalle polveri sottili. Per sempre dispersi tra i peli pubici della generazione iPod, a mordicchiargli i coglioni mentre scelgono la canzoncina n. 4 della lista n. 6 della cartella n. 3 sulla playlist n. 8 e si mettono in calzamaglia sul loro tappeto fitness. Franco Dimauro ML 51 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: BLACK FLAG TITLE: Slip it in LABEL: SST Records RELEASE: 1984 WEBSITE: www.sstsuperstore.com MLVOTE: 8,5/10 Ognuno di noi, amanti del sano e longevo rock and roll, ha il suo gruppo del cuore. Magari passano gli anni, si ascoltano centinaia di nuove band ma, quando si rimette sul piatto qualche loro vecchio disco, non c’è storia che regga. Allora non si può discutere, non si sente ragione, niente critiche e il resto sembra inutile, più superfluo di un cappotto di montone durante l’estate calabra, si ha difficoltà anche a mettere nero su bianco il vero motivo di quest’attrazione, il perché si crei quello strano legame così simile a quello affettivo con un parente stretto. Non ci si spiega il motivo ma è come se facesse parte del proprio DNA, come se ogni nota, parola e ritmo risuonasse da sempre nella propria scatola cranica, nella gabbia toracica allo stesso ritmo del pulsar del cuore. La mia preferenza va probabilmente sui Black flag di Henry Rollins e Greg Ginn, sintesi del malessere urbano americano d’inizio anni ottanta, e Slip it in è uno dei miei album preferiti, forse non il più rappresentativo della discografia ma quello che sento epidermicamente mio, anche alla soglia dell’età da crocefissione. La severità della bandiera nera suona rassicurante, il rigore e la coerenza del suono che esce dai solchi di questo classico punk li hanno fatti entrare nella leggenda, la scena hardcore non sarebbe stata la stessa senza il loro insegnamento. L’inizio dissacrante ed eiaculante dell’omonima Slip it in rompe il patto di non belligeranza di qualsiasi armistizio, morbosa quanto la splendida copertina per opera del solito Raymond Pettibon, seguito dall’incedere massacrante e privo di qualsiasi controllo della bollente Black coffee, rende la raccolta la naturale prosecuzione di quello splendido embrione ibrido di My war (non digerito di buon grado dallo zoccolo duro dei fan dell’epoca). Le sempre più frequenti tinte scure e le varianti heavy rock di Rat’s eyes, rugginosa e cancerogena, camminano barcamenandosi nel fango barcollando come un eroinomane. Anticipazione del futuro sonicamente drogato e allucinato di Ginn è Obliteration, strumentale psicotica, ossessione pura della durata di sei minuti, preambolo di quella che sarà l’eterna ricerca di sperimentazione del quartetto negli anni a venire. The bars è una delle canzoni che preferisco, l’esatto incrocio tra i Germs di Darby Crash (RIP) e i Black Sabbath, sangue sulle corde e testi rigettati, assalti nichilistici senza futuro nelle detonazioni finali di My ghetto, luce negli occhi degli amanti del hardcore punk old school, e You’re not evil, hard rock da cesso pubblico. Dicevo ognuno di noi, amanti del sano e longevo rock and roll, ha il suo gruppo del cuore. Il mio è quello dei Black Flag. Antonio Anigello ML 52 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: GREEN ON RED TITLE: S.T. LABEL: Down There RELEASE: 1982 WEBSITE: www.greenonred.net MLVOTE: 7/10 Non ho mai sentito un altro disco, a parte il primo dei Doors, in cui l’organo sia così insistente da far venir voglia di vomitare fuori dal finestrino. Una presenza ossessiva, tormentosa, opprimente. Eppure necessaria. Non lo sarà già più dal primo album vero e proprio, di un anno successivo, e via via scomparirà dalla vita della band dell’Arizona, portandosi via la sua anima più acida e psichedelica, sacrificandola in nome della riscoperta delle radici del polveroso rock americano figlio/orfano di Neil Young e Springsteen. Lo registrano per 180 Dollari ai Program Studios di Hollywood nel maggio del 1982, dove intanto si sono spostati dalla natìa Tucson in cerca di miglior fortuna. Qui, per evitare di essere confusi con la locale scena surf punk, qualcuno consiglia loro di cambiare il nome originario di Serfers in qualcos’altro. Qualsiasi altra cosa. Loro accettano il consiglio e non avendo altre idee, scelgono il titolo della loro prima canzone verde su rosso, e la fortuna arriva: al Cathay DeGrande hanno l’occasione di suonare assieme ai Dream Syndicate e, approfittando del pretesto, consegnano a Steve Wynn la cassetta con i loro nuovi sette pezzi. Steve decide di mettere il marchio della sua etichetta su quella musica che sembra inghiottire lo spirito di Dylan dentro un vortice doorsiano: sarà la terza uscita per la sua Down There. Steve e Dan Stuart hanno interessi musicali comuni. Un’intesa sancita discograficamente dai dischi siglati come Danny & Dusty, il primo nel 1985, il secondo ventidue anni dopo. I Green On Red degli esordi sono una band ancora acerba e come tale hanno quel taglio disperato e acre che si respira nelle cantine americane dei primi anni Ottanta. Sono una band che corre. All’indietro, come tante altre lungo la costa e nell’entroterra americano. Scavando nei ricordi di una terra giovane ma già piena di una sua identità, di una sua fisiognomica. Corrono, scavano, riempiono le bisacce e tornano a correre. Se seguite e date retta alla critica “seria”, quella che analizza con gli alambicchi della logica ogni disco, ogni carriera, ogni vicenda artistica, allora lasciate perdere: questo non è il miglior disco dei Green On Red. Non per loro. I “capolavori”, le pietre angolari, quelli verranno dopo, consegnano agli archivisti del rock un’ottima chiave di accesso per il rootsrock, il new country, il revisionismo, la no depression e tutte quelle balle lì, ma a me che piacciono le cose con poco senso storico ma molta energia, molto stomaco e molta disperazione, continua a piacere per questa sua atmosfera straniante, questa acida terra americana che diventa confessione illogica delle proprie paure. Basta dare una scorta ai titoli delle canzoni o, per chi mastica l’inglese, ai testi di Dan Stuart per vedere quanto siano lontani dal populismo oleografico che verrà sui dischi seguenti. Quanto siano inopportuni, deliranti, carichi di quella vocazione al dolore e al tormento che è adolescenziale. Morte e angeli volano tutt’attorno. Non c’è mai veramente angoscia nella musica dei primi Green On Red ma c’è quest’inquietudine epidermica che viene inoculata sottopelle, attraverso questi spettri velvetiani che si aggirano tra i corridoi di un’immensa casa di cura psichiatrica. Sono strade lastricate di cocci di vetri in frantumi che non portano da nessuna parte, si limitano a girare attorno, in una spirale che diventa sempre più stretta fino a diventare un intollerabile cerchio di paura. Un ottimo posto dove perdersi, un labirinto concentrico attorno al vostro piccolo mondo, mentre tutto il resto rimane fuori dalle persiane spalancate. Franco Dimauro ML 53 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: THE CLASH TITLE: Rat Patrol from Fort Bragg LABEL: Red Line RELEASE: 1981 WEBSITE: www.theclash.com MLVOTE: 8/10 Dopo i pasti abbondanti di London Calling e Sandinista! i Clash non sono ancora sazi. Quando è il momento di mettere mano a quello che diventerà l’ultimo album dei Clash “storici” decidono che sarà ancora un album doppio. I Clash sono, in quel momento, una balena dalla bocca gigantesca che ingoia qualunque cosa. Musica sudamericana, rock‘n’roll, jazz, musica western, rap, swing, reggae, punk rock, dub, garage, calypso, bluegrass, protest songs, funky, disco music. Una babele che permette loro di poter dire qualunque cosa, e sempre in forme diverse. Già da qualche anno non sono più una punk band ma un’intera orchestra, sono i Beatles dentro gli Abbey Road, sono Phil Spector dentro i Gold Star Studios. A metterci le mani c’è lo stesso Mick Jones, ma i rapporti tra Joe e Mick non sono più quelli di cinque anni prima. Joe storce il naso un po’ troppo quando si parla del vecchio amico. Si dichiarerà insoddisfatto del suo lavoro al mixer, prima di cacciarlo fuori dalla band a lavoro ultimato. Alla produzione viene chiamato Glyn Johns, una porzione del disco viene definitivamente cestinata, un’altra fetta viene ristrutturata, un’altra costituirà l’ossatura di quello che invece diventa un album singolo con il titolo di Combat Rock. Un disco che è sempre stato offuscato da quello che c’è stato prima. Come quando stai per troppo tempo affacciato al balcone, arrendevole alla luce e al calore di un sole troppo bello per starsene da solo e poi rientri repentinamente. Gli occhi faticano a riadattarsi e quello che ti salva da quell’improvvisa muta tenebrosa è la familiarità col posto, con l’ambiente. Riesci a evitare abilmente il salotto e il tavolo, probabilmente inciamperai in una sedia riposta malamente. Difficilmente sbatterai il grugno su qualche porta. Combat Rock è invece un disco bello, irrequieto, anche se la sua seconda parte lascia trapelare uno spirito ammansito, come di un leone che dopo la sua battuta di caccia torna a godersi il torpore. Perché i Clash a quel punto possono nutrirsi di tutto e questo, se da un lato incute rispetto e timore, è una consapevolezza che ne ha ormai attutito l’effetto sorpresa. Possono ancora sprofondarci le zanne al collo, ma ora abbiamo l’accortezza di saperne stare alla larga. Loro sono sempre i re della foresta, ma noi sappiamo essere cauti. È il prezzo da pagare per essere ammessi alla “classicità” del rock system, per avere le loro figurine sull’ album delle stelle del rock ma Rat Patrol from Fort Bragg, la minaccia di aborto che lo precede, è molto più bello. Ha lo stesso carico di merci buttate un po’ alla rinfusa che stava sul tir di Sandinista! ma qui è tutto stipato in un furgone. The Beautiful People Are Ugly Too è un pezzone pieno di groove nero, con le voci di Joe e Mick in perfetta sintonia su un tappeto di percussioni sudamericane. Verrà escluso dal disco e sostituito con le epilessie di Overpowered by funk. Kill time è uno degli altri esclusi dalla versione definitiva. Un reggae solare e proletario, come quelli che Strummer riprenderà molti anni dopo con i Mescaleros. ML 54 musicletter.it update n. 71 musica: the clash Il primo pezzo conosciuto è Should I stay or should I go, ovvero il pezzo più minchione mai inciso dai Clash, con quell’orribile riff rubato a Farmer John, ma la sua versione originale, che è quella racchiusa qui dentro, gli dà una dignità nuova, pur mantenendone la forma. I versi in spagnolo (quelli cantati da Strummer, NdLYS) hanno un’esuberanza che la versione di Combat Rock sacrificherà e l’assolo di trombone le dà quest’aria un po’ zigana che l’avvolge di un calore nuovo. Rock the Casbah è quella cosa straordinaria che tutti sappiamo: una danza multirazziale tra le sabbie del deserto, sotto le ombre dei Phantom F-4 e i MiG-21 che si scambiano occhiate di fuoco nei cieli sauditi. Know your rights verrà scelta per aprire il disco ufficiale. Ha questo tono barricadero delle cose migliori dei Clash. Fiera e incalzante, come un cane da combattimento. La versione di Rat Patrol indugia un po’ di più sull’eco e sull’aria da proclama che avvolge la canzone. Joe non canta, declama. Tutte le tracce restanti sono per molti versi simili a quelle ufficiali, ma pensate per un disco doppio, quindi allungate (come l’intro di Sean Flynn, per esempio), meno “costrette”. Ci sono leggere variazioni nei volumi che ne esaltano le parti vocali o ne colorano meglio le sfumature (l’organo di Red Angel Dragnet, i cori e il vero e proprio tappeto di voci che sono un po’ la vera caratteristica del disco, quello che lo distingue da quanto fatto in precedenza dai Clash, NdLYS). Inoculated City è imbevuta di effetti e dilatata rispetto alla versione mutilata che finirà su Combat Rock, con la lunga “suppellettile” dello spot per il lavacessi. Walk Evil Walk è uno strumentale jazz che poi non avrebbe avuto nessuno sbocco e che avrebbe potuto suonare chiunque. Non vi stessi dicendo che sono i Clash, vi sareste pure sucati che era il quartetto di Dave Brubeck. First night back in London e Cool Confusion sperimentano col dub e col reggae, un vezzo che i Clash si concedono sempre volentieri. Finiranno disperse sui singoli, prima di essere amorevolmente raccolte su Super Black Market Clash. Da lì a breve della più bella rock band del mondo resterà solo qualche briciola di rancore e qualche muso lungo, un’appendice di storia intitolata Cut the Crap che vale quanto il sequel di Psycho, ovvero meno che niente, e un’altra bara da seppellire. Con buona pace per quanti non avevano loro mai perdonato di non aver sacrificato i propri martiri sull'altare pagano della rivoluzione punk. Ora il debito è saldato. Potete finalmente aggiornare i vostri merdosi libri di storia con gli aggettivi che gli avete sempre negato. Franco Dimauro ML 55 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: SEX PISTOLS TITLE: Never Mind the Bollocks, Here ‘s the Sex Pistols LABEL: Virgin RELEASE: 1977 WEBSITE: www.sexpistolsofficial.com MLVOTE: 9/10 Rischioso parlare dei Sex Pistols. Facile cadere nella banalità, nel luogo comune, nel già detto e già scritto mille volte. Una band su cui si è detto tutto e il contrario di tutto, cadendo milioni di volte nel tranello teso da loro stessi e dal loro manager Malcolm McLaren. I Sex Pistols hanno rappresentato e continuano a rappresentare il marcio del rock‘n’roll. La messa al bando della sua depravazione. La spettacolarizzazione di tutto il suo male, con tanto di finale da cronaca nera. Una band che continua a mettere soggezione, inquietudine, disagio. Entrati nell’immaginario popolare come la più eversiva banda di merdosi figli di puttana. Diseducativi, dissidenti, irriverenti, iconoclasti, blasfemi. Totalmente family banned. Il che significa che se passate le serate a scorrere la lista delle stronzate musicali che il vostro decoder digitale vi propina come imperdibili, non ci troverete mai i Sex Pistols. Avreste troppe cose da dover spiegare ai vostri bambini. Vi chiederebbero anzi tutto perché sembravano così arrabbiati con tutti, e poi perché sputavano sul pubblico; e ancora perché quel cantante dallo sguardo spiritato e coi denti marci cantava con una camicia di forza, e avreste ancora il culo salvo perché i vostri bimbi con l’inglese non vanno oltre il “good morning teacher” e il testo di Jingle Bells. I Sex Pistols erano, sono, il rock ‘n’ roll che non crede nel futuro. Dietro di loro, c’ è un manager che sa come trarre profitto da questa idea. Insieme, sanno vendere il presente a caro prezzo: nel giro di un anno hanno già spillato a ben tre case discografiche il totale di 170.000 sterline senza aver ancora messo in giro nient’altro che un singolo, peraltro immediatamente ritirato. Quando finalmente il loro album arriva sul mercato, i Sex Pistols non esistono già più. Sì, esistono ancora dei fantasmi che per qualche mese intascano i soldi delle vendite stratosferiche del loro album, in barba all’ostruzionismo di gran parte della classe politica, dei distributori e degli stessi rivenditori e si recano negli Stati Uniti per un’ultima allucinante tournèe ma i Sex Pistols, quel concentrato di energia e sciattaggine, non ci sono più. Il punk è morto. John Lydon lo aveva già annunciato l’estate precedente, dai microfoni di Capitol Radio, presentando una scaletta di suoni che transitavano dal kraut rock al dub, le due colonne portanti del suo primo progetto post-Pistols: i Public Image Ltd, e lo ribadisce al termine dell’ultimo concerto dei Sex Pistols. Dopo aver sputato sul pubblico la sua devastante versione di No Fun degli Stooges chiede, con aria sprezzante: Non vi siete mai accorti di essere stati truffati? Il punk diventa canone musicale: nasce il punk rock. Roba per ragazzini drogati dalla televisione e con i poster sbagliati nella cameretta. Never Mind the Bollocks è invece una istantanea del punk. Che istantaneo lo fu per davvero. Il tempo di questo scatto, ed era già morto, ma è una foto intensissima. I Sex Pistols vengono allevati da Malcolm McLaren ed educati al rock ‘n’ roll. ML 56 musicletter.it update n. 71 musica: sex pistols Bazzicano la boutique che lui gestisce assieme alla moglie Vivienne Westwood al civico 430 della King’s Road di Londra. Dentro quella stanza tappezzata di graffiti c’è un jukebox che macina ininterrottamente 13th Floor Elevators, Monkees, Creation, Flamin’ Groovies, Troggs, Vince Taylor, Sonics, Screaming Jay Hawkins, Modern Lovers. Sono le famose “radici”. Il ritorno a un’epoca in cui l’attitudine contava più di ogni altra cosa e in cui non era ancora lecito complicare quella cosa stramaledettamente viscerale che era il rock‘n’roll. Era la stessa lezione che era stata impartita alle New York Dolls. Solo che adesso i tempi sono maturi per fare breccia nel mercato. C’è ostilità verso il vecchio che si respira per ogni strada del Regno Unito. L’aria è satura come quella di tunnel invasi dal grisù. Quello che serve è una scintilla che faccia esplodere tutto. Quella scintilla si chiama Sex Pistols. Un oltraggio all’ordine, alla disciplina, alle regole del buoncostume e del comune pudore. Quando cominciano a lavorare all’album Glen Matlock non è più nella band. Al suo posto Malcolm ha reclutato un allampanato tossicomane che non sa legare due note manco sotto ricatto. Veste con scarponi da motociclista e indossa una catena con tanto di lucchetto al collo. Si chiama Simon John Ritchie ed è stato presente a tutti i concerti punk della capitale. Sempre. McLaren lo battezza Sid Vicious e lo impone agli altri. Durante le registrazioni si appende il basso al collo ma è Glen a suonare al posto suo, lui si limita a sputare e saltare come un matto. Del resto, vista la sua inezia, si decide a incidere per prima chitarre e batteria. Il basso, che solitamente fa da traccia, viene aggiunto solo alla fine, ma quello che nel settembre del 1977 McLaren consegna tra le mani della Virgin è un disco che brucia. Non concede nessuna conciliazione e non si permette nessuna digressione da quella che è la loro formula dissacrante e lercia. È contro tutti, anche contro se stesso. Ogni pezzo, un manifesto di inconciliabilità col resto del mondo. Vero, sentito, simulato, orchestrato, architettato, sincero, montato ad arte. Chi può dirlo? A chi gioverebbe? Never Mind the Bollocks è un disco che fa il vuoto attorno a sé. Franco Dimauro ML 57 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: ALAN SORRENTI TITLE: Aria LABEL: Harvest RELEASE: 1972 WEBSITE: www.alansorrenti.com MLVOTE: 7/10 Il primo disco del “figlio delle stelle” esce nel 1972 per la Harvest. Proprio così. All’alba del decennio, prima delle tronfie e galoppanti rime in falsetto, delle palle con gli specchi e di quelle ostentate dai suoi pantaloni stretti di monta, Alan Sorrenti condivide la stessa etichetta con i Deep Purple e i Pink Floyd, con Kevin Ayers e Syd Barrett, con i Pretty Things, i Love e la Third Ear Band. La copertina è bellissima: apribile, con questa figura bucolica un po’ sinistra del Sorrenti accartocciato in un mantello tra cespugli dal cromatismo tetro che a me ha sempre un po’ ricordato l’immagine di copertina dell’ omonimo dei Black Sabbath. All’epoca lui ha appena ventidue anni e ha una voce duttile, androgina, vicina alle delicate cromature di Tim Buckley e Robert Wyatt. Nell’ epoca della disco music e della pop music transgender sarebbe diventato il suo cavallo vincente, all’epoca ne ostacolò il percorso. Il pubblico non è pronto e in verità non lo sarà mai: chi va fuori dai canoni subisce l’arrendevolezza intellettuale del critico d’arte, raramente l’attenzione della platea. In quei primi anni della sua carriera Sorrenti è un vero sperimentatore della voce, come più tardi lo sarà Demetrio Stratos e come, quasi simultaneamente, aveva osato Claudio Rocchi sul suo Volo Magico #1 di un anno più vecchio. Abita a Napoli ma porta dentro se questo atavico sapore delle brume gallesi anche se, a differenza della sorella, non cercherà mai di affondarci del tutto le mani. Ma il suo primo disco ha quest’ “Aria” un po’ fiabesca di muschi e di felci, di brezza umida e caliginosa, di pareti scrostate e annerite dalla fuliggine di inverni lunghi e surreali che cercherà di replicare anche sul successivo Come un vecchio incensiere…, riuscendovi solo in parte. Aria è pervaso da questa aulicità solenne ma un po’ metereopatica, decadente che piove su tutto il disco, non soltanto sulla lunghissima title-track che occupa tutta la prima facciata dell’ album (si, piccole carogne cresciute a Chicken Nuggets e iPod, una volta i dischi avevano forma circolare e avevano due facciate. A metà durata, all’incirca, occorreva alzarsi il culo dal divano o dal gabinetto e andare a girarlo, altrimenti finivi per fare un solco nuovo sul disco e uno sulle tue tasche, NdLYS) e che ne riassume, senza peccare in essenzialità, i toni, il clima e anche il tema. Che è profondamente erotico, quantunque sia foderato da questa veste panteista e carico di simbolismo ecologico. Un erotismo dove la carnalità viene inghiottita dalla sacralità biologica fino a diventare parte integrante dell’ ecosistema. Le modulazioni di Alan Sorrenti che si articolano per tutta la durata della suite fino alla simulazione orgasmica del finale si muovono in questa selva disegnata dal violino di Jean-Luc Ponty (suo il violino su It must be a camel su Hot Rats di Frank Zappa, NdLYS), dalle percussioni di Toni Esposito (che lo accompagnerà anche sul disco successivo, NdLYS) e dal piano di Albert Prince abili a costruire questi intrecci tra folk pastorale, suggestioni gaeliche, aliti jazz e crinali progressive. ML 58 musicletter.it update n. 71 musica: alan sorrenti La voce si scompone, si ricompone, si decompone, si apre e si richiude, vibra, allunga le parole a dismisura, le sfigura, le spalma, le rende acqua, aria, terra, fuoco. Alan Sorrenti diventa Nettuno, poi Atlante, infine Icaro. Sotto, i paesaggi si fanno mutevoli, cangianti. Diventano grotte ed abissi, cascate e alberi sferzati dal vento. L’altro lato del disco ospita tre lunghe composizioni che mèdiano la sperimentazione con la ricerca di un’inedita via cantautorale, spostando l’obiettivo nazionale dai folksingers americani (Dylan, Ochs, Bob Lind ecc.) e dai cantastorie francesi (Brèl, Brassens, Gainsbourg, ecc.) che rappresentarono per tutto il decennio i due modelli fondamentali per i cantautori italiani, verso artisti dalla musicalità più complessa come Hammill, Buckley, Shawn Phillips, Roy Harper. Vorrei incontrarti è una dolce invocazione d’amore adagiata su un morbido velluto acustico e pigramente appoggiata ai tocchi di chitarra vagamente medievale di Vittorio Nazzaro. Il passo di Alan è misurato, lieve, come la canzone richiede.Una delle perle seppellite nella merda della pop music italiana. La mia mente si introduce con maggiore decisione lasciandosi poi intorbidire dall’incestuoso incontro fra strumenti elettrici e acustici mentre Sorrenti torna ad esasperare le sue doti vocali prima pestando i grappoli di piano di Albert Prince, poi giocando con i ricami della tromba, prima circuendola, quindi sovrastandola, infine domandola. Un fiume tranquillo, il pezzo conclusivo, parte sereno, rassicurante. Fino ai primi 88 secondi. Poi il gioco torna a farsi peso. Il piano elettrico parte come il C.T.A. 102 doppiato dalla voce, poi tornano gli uccellini ad annunciare la tromba di Andrè Lajdli che regala al pezzo l’ennesimo, pregiato abito stravagante. Alan tornerà a lambire gli stessi territori con il disco successivo. Poi, la svolta pop. Quindi, quella dance. Infine, il buio. Pare che quando venne spento l’ultimo faretto alogeno dello Studio 54 lui si trovasse nei bagni a reggersi l’uccello dopo aver urinato dieci bicchieri di Martini Dry. Sembra stesse cantando C’è sempre musica nell’aria. Senza accorgersi che invece era stata spenta per sempre. Franco Dimauro ML 59 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: TERRY CALLIER TITLE: What Color Is Love LABEL: The Verve Music Group RELEASE: 1972 WEBSITE: www.myspace.com/terrycallier MLVOTE: 8/10 Il colore dell’amore, nell’immaginario musicale, è un rosso che tende all’infinito, una vasta gamma di sfumature che soavi navigano in un mare di suoni lievi. Nella black music tutto è più acceso, i colori sono visibili a distanza e i suoni con i quali le intermittenze si fondono sono squillanti ma non recano disturbo, solo scosse interiori, ma esistono eccezioni, e una di queste risponde al nome di Mr. Terry Callier. Nato il 24 maggio del 1945 negli Stati Uniti d’America, cresciuto a pane, pianoforte e musica di Ella Fitzgerald e Billie Holiday nonché compagno di giochi di un certo Curtis Mayfield, il ragazzo di Chicago è diventato un grande uomo del soul che ha guadagnato la stima di musicisti attuali (esemplari le collaborazioni con Massive Attack e Beth Orton) per la sua capacità innata di fondere elementi differenti come il jazz, il funk soprattutto il folk con la e musica dell’anima. Colori, si diceva, che in questo capolavoro datato 1972, oltre ad assumere sfumature si sparpagliano e mirano al cuore con armi differenti. L’arma del folk è quella che fa più stragi, già nell’iniziale Dancing Girl, dove un gospel oppiaceo fa capolino nella nebbia irradiata da un tiepido sole; quasi come se Nick Drake (che nel 1972 aveva già dato alle stampe anche l’ultimo Pink Moon) fosse folgorato dalla black music senza rinunciare alla malinconia che anima(va) le sue composizioni. Un disco ibrido di rara eleganza che si destreggia senza paura fra la musica nera e la musica anglosassone, una voce calda che si fa largo fra archi, saxofoni e melodie soul/funky raffinate come in You Goin’ Miss Your Candyman che fanno invidia al primo Wonder o a un Marvin Gaye meno zuccherino. Un capolavoro della musica soul che non farete fatica a trovare nelle librerie, lì da qualche parte fra il jazz, il soul o il blues. Perché alla bellezza non è ancora stata data un’etichetta. Magari solo un colore, che va dal bianco al nero, passando per l’infinito. Nicola Guerra ML 60 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: LOU REED TITLE: Transformer LABEL: RCA RELEASE: 1972 WEBSITE: www.loureed.org MLVOTE: 7/10 Immergersi in un disco di Lou Reed è come infilarsi sotto le coperte con metà degli abitanti di New York. Papponi, travestiti, taxi drivers, mignotte, barboni, pusher e sputafuoco, e ognuno ti racconta la propria storia, mentre ti svuotano il frigo e ti macchiano le lenzuola di sugo. È il 1971 e mentre Doug Yule spalma merda sul nome dei Velvet pubblicando l’ignobile Squeeze, Reed si sposta a Londra. Infila la sua New York nelle valigie e la porta via con sé. Nel bagaglio a mano ha qualche canzone che aveva scritto per i Velvet. Sono i suoi primi trenta anni di vita che sorvolano l’oceano con lui. È anche per questo che il suo primo album si chiude con Ocean, un pezzo scritto un paio di anni prima e che adesso è arrivato finalmente a riva. In studio con lui ci sono gli Yes, per un disco che porta il suo nome e il suo cognome: una carta d’identità. Di più, un attestato di vita. Considerati gli eccessi con i Velvet Underground, ha quasi il sapore di un miracolo. Transformer arriva l’anno dopo, celebrando le nuove cattive amicizie di Lou: Ziggy Stardust e Mick the Spider from Mars. Con loro c’è pure Herbie Flowers, il bassista di Space Oddity e del tour di Diamond Dogs. Sono loro a mettere mano su uno dei dischi che, anche per questo, diventa una delle icone del glam rock. Il rock che ama il make up, le pailettes, i capelli cotonati e celebra l’androginia come il confine tra l’uomo comune e l’ artista. La coda lunga della cometa Velvet non è ancora del tutto passata ed è da certi abbozzi di quel periodo che vengono fuori Satellite of love, Andy‘s Chest e Vicious. La prima si muove sul ritmo morbido di un pianoforte prima di prendere quota sollevata dai palloncini di un coro bubblegum ed esplodere in un tipico crescendo di lustrini come quelli che piacevano a Marc Bolan. Le altre due sono ancora una volta ispirate dall’amico/maestro Andy Warhol. La prima racconta del suo scampato omicidio per mano di Valerie Solanas, l’altra dei suoi appetiti omosessuali, ma i fantasmi di Drella e degli stravaganti personaggi che gli giravano intorno abitano tutto il disco. Walk on the wild side ne offre una carrellata. Ritmo sincopato, spazzole e un piccolo tappeto di velluto fatto di violini e sassofono. Sembra di passeggiare per i corridoi della Factory guardando i suoi abitanti come dentro teche di vetro. Un abito ruffiano che, malgrado le censure, riuscirà a portare la fellatio ai piani alti delle classifiche. Le reginette del pop la useranno (la fellatio) per garantirsi lo stesso successo, da lì in avanti. Costrette a fare come Candy, ma sotto i tavoli delle case discografiche. Per il mondo sarebbe diventato il tormentone di Lou Reed. Per lui, il suo tormento. Costretto a dimenticare i nomi dei protagonisti pur di farla scomparire dal proprio repertorio. Gli altri capolavori del disco sono sempre sulla prima facciata dell’album: lo scattante rock ‘n’ roll di Hangin’ Round affonda i denti nel boogie elettrico di T. Rex e Flamin’ Groovies mentre Perfect day è una ballata decadente. ML 61 musicletter.it update n. 71 musica: lou reed Una canzone su una giornata perfetta al parco, col sole che ti taglia in due e la sangria a rendere tutto più allegro. In compagnia della tua ragazza. Dovrebbe suonare come una canzoncina degli Herman‘s Hermits, con i campanellini e lo schiocco delle frecce sotto ogni ritornello. Invece affoga in uno struggente giro di pianoforte (lo stesso che Nick Cave sfrutterà per There is a kingdom 25 anni dopo, NdLYS) e in una bava di violini. Forse perché la ragazza di cui parla Lou è ancora quella di qualche anno prima e si chiama eroina. Il resto del disco non ha grossi picchi, nonostante il vestito di capolavoro assoluto che la critica mondiale gli ha cucito addosso, anno dopo anno. Eccede nel cattivo gusto sin dalla tuba di Make Up fino al delirio broadwayano di Goodnight Ladies passando per la marcetta da cartoon di New York Telephone Conversation, ma Transformer rimane il disco che consegna Lou Reed alla storia. Lou che è sopravvissuto a se stesso ma non solo. Passato indenne attraverso le sedute di elettroshock pagate dal padre. Passato indenne dalle feste sulla 47ma strada di Manhattan. Passato indenne dalle siringhe di felicità artificiale. Passato indenne dal feedback di Metal Machine Music. Passato indenne tra i cadaveri dei suoi più cari amici e dei suoi nemici migliori. Pregando Dio che lo facesse diventare un buon chitarrista ritmico, e poco più. Franco Dimauro ML 62 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: SLY & THE FAMILY STONE TITLE: There’s a Riot Goin’ On LABEL: Epic RELEASE: 1971 WEBSITE: www.slystonemusic.com MLVOTE: 9/10 C’è puzza di rivolta in questi solchi. Non solo per il programmatico titolo There’s a Riot Goin’ on, ma per l’atteggiamento con cui Sly Stone e la sua allegra banda sfidarono il mondo. Un atteggiamento rilassato eppure carico di tensione, filtrato attraverso un groove cupo e narcolettico che addormenta la mente e smuove lentamente il corpo. Solo due anni prima si pensava di cambiare il mondo, guardando verso il cielo ricoperti di fango e stelle, le stesse che l’America stava oscurando con l’inutile guerra in Vietnam e la politica conservatrice di Richard Nixon. In una situazione instabile che ghettizzava ancora il colore della pelle, la famiglia Stone dimostrava che l’unione fra razze e sessi, se l’obiettivo comune era quello di cantare i mali del mondo, avrebbe comunque smosso le coscienze; e se a distanza di anni, questo disco è ancora un baluardo bellicoso di un certo soul funk psichedelico, vuol dire che l’oste (in quel periodo non ebbro di vino ma stonato di LSD) aveva fatto bene i suoi conti. Il tempo difatti non ha intaccato la chiara polemica dell’hit Family Affair nascosta da un ritornello orecchiabile, sexy e trascinate, con la voce calda di Sylvester Stewart (il vero nome di Sly) che si fonde con il soul in un duttile saliscendi di sensualità. Quello che rimane e stupisce, in codesto gigante di espressionismo funk, è l’uso lascivo dei fiati e soprattutto dell’organo, che a dispetto del precedente Stand (1969) o del successivo Fresh (1972, comunque lavori onestissimi) gettano le fondamenta liquide di un suono che rappresentava le paure di una nazione. Non c’è spazio per divertirsi, non c’è spazio per ballare, piuttosto di sballare per dimenticare la capacità insita nell’uomo di distruggere anche la sua stessa natura. Perdersi nei battiti di Thank You For Talkin’ To Me Africa, districarsi fra le frange della lunga suite Africa Talk To You (The Asphalt Jungle), dimenarsi nei campi di cotone cantando all’unisono il gospel di Spaced Cowboy e godere di sussulti erotici con Luv N’ Haight è ancora possibile; questa famiglia ha avviato una rivoluzione musicale convogliando in un unico suono la cultura americana di una certa soul music (Otis Redding e Aretha Franklin) con la black music che partiva da Marvin Gaye passando per James Brown fino ad arrivare ai groove infetti di funky di George Clinton e dei suoi Parliament e Funkadelic. Ha senso oggi ascoltare un disco che avviò una rivoluzione nel 1971? Ovviamente sì, perché le strade brulicano di gente con la camicia verde che ripete troppe volte la parola negro. Nicola Guerra ML 63 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: BOB DYLAN TITLE: Highway 61 Revisited LABEL: Columbia RELEASE: 1965 WEBSITE: www.bobdylan.com MLVOTE: 9/10 Nove pezzi, e ogni pezzo, un’opera d’arte. Ogni pezzo, una novella. Che dico? Ogni pezzo un libro intero! Quanti sono i personaggi citati in questa Divina Commedia della letteratura pop? Cinquanta? Sessantuno? Cento? Potreste provare a contarli, e di sicuro ve ne sfuggirebbe qualcuno. È tutta la storia d’America raccontata in 50 minuti. Un film western dove le comparse contano più degli attori e i sorrisi sono un po’ di cartapesta, perché nascondono un mondo di dolore. L’America grande e quella piccina. Quella ordinaria delle fattorie e quella dei grandi sogni, ma più la prima che l’altra, a dirla con franchezza. Un disco del quale si è sviscerato tutto e parlando del quale si cade nella gran parata delle banalità che io vi risparmierò. Si sa chi ci suona, cosa suona, perché ci suona. Si sa che dentro contiene quella che nel 2004 venne ufficialmente riconosciuta come la canzone più bella della storia. Si sa che spesso molti ne storpiano il titolo in Like a Rolling Stone’s, finendo per dimostrare come sempre che non sanno di cosa stanno cianciando ad altri che non sanno cosa stanno leggendo. Si sa che c’è un pezzo impenetrabile e profondo come un buco artesiano che si intitola Ballad of a thin man che da solo potrebbe valere la vostra più lunga giornata di angoscia. Si sa cosa successe subito prima e subito dopo: più o meno il terremoto che buttò giù le mura di Jerico dietro cui si era trincerata la scena folk, talmente impegnata a cantare di tempi che stavano cambiando da non accorgersi che i tempi erano cambiati veramente, senza travolgerli, passando loro semplicemente sopra. Loro erano rimasti lì dov’erano, basiti. Seduti in circolo a cantare le loro canzoni di protesta. Dylan invece era andato avanti. Aveva spinto l’acceleratore della sua Tiger T100 oltre ogni limite consentito da quei conservatori vestiti come degli asceti, da quegli apostoli meschini che avrebbero urlato “Giuda!” al loro profeta, e lui li avrebbe puniti intimando alla sua band di suonare il più forte possibile. Avrebbe accelerato così tanto da schiantarsi, in quel caldo 29 Luglio del 1966. È l’occasione per ritirarsi dalle scene, concentrarsi su se stesso, mettersi a letto con la Bibbia sul comodino. Ne uscirà un Dylan rinnovato nello spirito ma alla disperata ricerca di radici, di tradizione, di sapori ordinari, familiari, domestici. Tornerà a interessarsi al folk, alla country music, alla musica popolare, raccogliendo il testimone di Woody Guthrie. Farà dischi ordinariamente belli e ordinariamente meno belli, ma la magica spinta libertaria di Highway 61 Revisited, quella non riuscirà a replicarla più, neanche lontanamente; e del resto, come avrebbe potuto? Franco Dimauro ML 64 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: THE KINKS TITLE: Kinda Kinks LABEL: PYE RELEASE: 1965 WEBSITE: www.raydavies.info MLVOTE: 7/10 Ditemi una band inglese, al volo! Ahahah. Fermi, fermi. So già le risposte. Beatles, Rolling Stones, Sex Pistols, Clash. Come dite laggiù in fondo? Ah sì, Smiths, Oasis, Blur… Eh? Stone Roses? Ok. Ora ve ne nomino una io: The Kinks. Non un gruppo di musica inglese, ma l’Inghilterra in musica. Una delle meraviglie del mondo moderno. Quando escono col primo album i Beatles hanno già inciso i loro primi tre dischi e gli Stones un intero album di pezzi altrui. La Gran Bretagna sta già cambiando volto ma non ci sono ancora né My Generation e neppure (I can’ t get no) Satisfaction. Loro invece hanno un pezzo come You really got me, che cambia più di quanto forse loro stessi possano immaginare. La storia del rock moderno parte da lì, più o meno, Jimmy Page compreso. Ray Davies è uno che scrive di getto, con lo stomaco. Quando tornano dal primo tour orientale, scrivono e incidono Kinda Kinks in due settimane. Shel Talmy impacchetta tutto in fretta e sputa il disco nel mercato il 5 marzo del 1965, sfuttando gli stessi criteri di produzione del primo disco: presa diretta, sovraincisioni ridotte al minimo, suono asciutto come un biscotto secco. Ray non ne resta pienamente soddisfatto e gli ruberà pian piano il posto dietro il banco di produzione trasformando la musica dei Kinks prima in un biscotto al burro, poi in quello di un muffin. Il suono dei Kinks di questi anni è ancora elementare, privo di quell’ eleganza vittoriana e liberty che caratterizzerà il loro periodo dei tardi anni Sessanta disegnando ritratti di vita inglese belli come un drappo barocco. È un avvolgimento di rame attorno al cuore del rock ‘n’ roll che sta invadendo l’ Inghilterra di quegli anni. Bo Diddley più che Chuck Berry. È quello che ne fa, assieme ai Troggs, i profeti di un’essenzialità primitiva, troglodita, non mediata, che in molti poi prenderanno ad archetipo del garage rock, ma Ray ama pure l’amara disillusione dei folksingers, ama contorcesi nel tormento prima di affrancarlo in qualcosa di dolcemente liberatorio. Sono due facce che conviveranno a lungo nell’anima dei Kinks, quella feroce e anche spietata e quella gentile e amabile. Cui si aggiungerà negli anni quella del Davies maturo, cinico, sarcastico, osservatore e commentatore placido delle manie che si agitano nella sua Inghilterra. Qui emerge più il lato garbato di pezzi come Tired of waiting for you e di cupe ballate come Nothin’ in the world e So long che fanno affiorare le ombre di Jake Holmes rispetto a quello crudo di pezzi come Look for me baby o Got my feet on the ground che sfruttano il calco dei pezzi più tirati. Non è il disco perfetto dei Kinks, quelli arriveranno più tardi, ma ha già tutto il loro fascino odioso di una imperfezione ostentata, esibita con la spocchia di chi ti sta dipingendo la Gioconda davanti al muso. Eleganti gentlemen che sanno come dosare lo zucchero nelle tazze da tè, e che quando suonano non si guardano nemmeno in faccia. Franco Dimauro ML 65 musicletter.it update n. 71 musica ARTIST: ELLA FITZGERALD TITLE: Ella Fitzgerald Sings the Cole Porter Song Book LABEL: Verve | Essential Jazz Classics | Egea [2 CD] RELEASE: 1956/2010 WEBSITE: www.ellafitzgerald.com MLVOTE: 9/10 È un punto fermo nelle cognizioni sulla storia della musica contemporanea che Ella Jane Fitzgerald (Newport News, 25 aprile 1917 – Beverly Hills, 15 giugno 1996) sia stata una delle più grandi e influenti cantanti di sempre, non solo in ambito jazz. Enorme l’estensione vocale di cui era capace e proverbiale la capacità d’improvvisare, e di personalizzare qualsiasi brano, di cui era dotata. Nel 1956 (e fino al 1964), sotto la guida del produttore Norman Granz, la Fitzgerald dava inizio alla registrazione per la Verve Records di una serie di "Song Books" dedicati (monograficamente) al repertorio di canzoni scritte da sette dei più grandi compositori americani di Tin Pan Alley (Cole Porter, George e Ira Gershwin, Duke Ellington, Johnny Mercer, Irving Berlin, Rodgers & Hart, Harold Arlen). Un progetto di vaste dimensioni che portò la cantante a incidere complessivamente 250 canzoni. Il primo “Song Book” veniva dedicato a Cole Porter, uno dei più sofisticati ed eleganti autori della musica jazz e uno dei primi cinque più importanti compositori di Musical americani (N.B.: attualmente per chi volesse approfondire la conoscenza di Porter consigliamo la visione del film biografico De-Lovely, 2004, di Irwin Winkler, interpretato da Kevin Kline, con Ashley Judd nel ruolo della moglie). Queste incisioni sarebbero state pubblicate su disco solamente nel 1964, mentre un secondo livello di ristampa dei materiali, opportunamente rimasterizzati, vedeva la luce nel 1993 in un corpo formato da 16 CD. Il lavoro dedicato a Cole Porter è di tutti il più significativo perché la combinazione tra i testi concepiti dall’autore e l’abilità interpretativa della cantante concorrono a creare un risultato sublime che trascende i confini dei generi (musical e jazz) di riferimento dei due. Tra i 36 brani contemplati ci sono standard immortali come Night and Day, I Get a Kick Out of You, Beguin the Beguine, I've Got You Under My Skin, In The Still of The Night, I Love Paris, What Is This Thing Called Love, Miss Otis Regrets, You're the Top e Love for Sale. L’album della Fitzgerald è stato inserito nella Grammy Hall of Fame nel 2000 per le sue qualità artistiche e nel 2003 è stato uno dei 50 dischi scelti dalla Library of Congress per far parte del National Recording Registry. N.B. attualmente in circolazione un’edizione 2010 che fa parte della collana Essential Jazz Classics, distribuita dalla Egea, e contenente (rispetto alle precedenti release) una versione Live di Love For Sale registrata a Stoccolma nel 1957. Luigi Lozzi ML 66 musicletter.it update n. 71 speciale SAN MIGUEL PRIMAVERA SOUND 2010 Parc del Forum, Barcellona 27-28-29.05.2010 © 2010 di Alessio Zago Riassumere i tre giorni / sei palchi del festival più importante d’Europa in una serie di mini recensioni fa un effetto castrante, da twitter, ma noi ci si prova lo stesso. Ecco qui allora solo una selezione dei concerti visti. Giovedì 27.05.2010 SIC ALPS Il primo bel concerto della giornata. Il palco Pitchfork non brilla per acustica ma i volumi sono migliori rispetto all’assordante live dei Biscuit. Le miniature noise pop del trio californiano, spesso di strutture semplicissime (una strofa e poco più), sono decisamente un bel sentire; non resta che muovere la testa a tempo avanti e indietro, a tranche di un minuto e mezzo per volta. THE WAVE PICTURES Inaugurano il palco Ray-Ban e sono un po’ sfortunati. Iniziano con Just Like a Drummer ma la chitarra si sente pochissimo, la batteria ha dei suoni orrendi e la prima parte del live rende poco. Le cose iniziano ad aggiustarsi solo dopo Now You Are Pregnant ed è in salire fino alla conclusiva Leave The Scene Behind. Nel mezzo alternano pezzi del nuovo disco, chiacchiere e assoli vari (troppi), ma le canzoni ci sono, e pure il gruppo. Proprio quando ci si inizia a divertire, sono costretti a staccare. TITUS ANDRONICUS Potenti ed epici come su disco, validi e casinisti. Il cantante stona spesso e volentieri ma fa tutto molto punk. Un gruppo interessante. THE SMITH WESTERNS Il giovanissimo quartetto americano diviso tra un pop chitarristico di buona fattura (e discreta resa live) e la tendenza a dimostrarsi dei veri fighetti, tanto che il chitarrista cantante usa una chitarra mancina pur essendo destro. Quando si dice l’inutilità nell’estetica. Né bene né male. ML 67 musicletter.it update n. 71 speciale: san miguel primavera sound 2010 SUPERCHUNK Me ne vado in cerca di concretezza, ed ecco provenire da lontano i timbri di chitarra che tanto mi sono cari; ringiovanisco, ci sono i Superchunk. Saltellando mi ritrovo a poche file dal palco; Driveway to Driveway, The First Part, Cast Iron. Arriva Tim Harrington dei Les Savy Fav e parte Precision Auto: non resta che tuffarmi nel pogo ma i tempi stringono e di là stanno per iniziare i BSS, finita la canzone decido di andarmene ma vengo calamitato indietro dagli arpeggi metallici di Slack Motherfucker. Ok, me ne vado una volta per tutte; è stato bello avere diciassette anni. BROKEN SOCIAL SCENE I BSS me li vedo dall’alto delle scalinate, iniziano con World Sick, passano per Shoreline e Cause=Time e a un certo punto compare pure Owen Pallet sul palco ma i BSS è un gruppo che non ho mai capito fino in fondo, che ci voglio bene più per quello che sono che quello che fanno e mi rendo conto che i salatini che ho fregato in sala stampa mi stanno dando più soddisfazione del concerto. PAVEMENT Visti pure a Bologna un paio di giorni prima, il giudizio rimane lo stesso. Sono annoiatissimi. Le canzoni sono perfette ma meccanicamente eseguite e Malkmus non sa più dove ficcarsi la chitarra per fare un po’ di spettacolo. Qui iniziano con Cut Your Hair, ci infilano un po’ tutti i classici da Silent Kit a We Dance a Here. Bis con Gold Soundz, Shady Lane e Stop Breathin’; ma Fillmore Jive non la fanno mai? FUCK BUTTONS Del concerto dei Fuck Buttons rimarrà indelebile il momento nel quale quello-dietro-di-me si è messo a pisciare addosso alla gente; e Surf Solar, ma quella la conoscevo già. Venerdì 28.05.2010 WILD HONEY Sestetto spagnolo, dedito a un folk pop gentile. Amano tanto i Beach Boys da mutuare il nome della band da un loro album e suonare la cover di Heroes and Villians. Qual è l’aggettivo che si usa per i gruppi indiepop? Ah sì. Deliziosi. HARLEM Il concerto più divertente del festival. Degli adorabili cazzoni che fanno canzoni pop’n’roll dal retrogusto anni ‘60; il ritmo vince. Chitarrista e batterista si scambiano il ruolo a metà concerto. Il tutto per un totale di mezzora (precisa) nella quale ci infilano 10/12 pezzi. Così si fa. ML 68 musicletter.it update n. 71 speciale: san miguel primavera sound 2010 BEST COAST Bethany Cosentino era attesa al varco. Dopo una serie di singoli mozzafiato c’era molta curiosità di vederla alla prova con un live. La voce c’è, il gruppo è quadrato (lei, un altro chitarrista e una corposa batterista) ma le canzoni non rendono come su disco. Peccato. CONDO FUCKS Ovvero Georgia, James e Ira; ovvero gli Yo la Tengo che giocano a fare le loro cover preferite dei Flaming Groovies, Fugs, Small Faces e altri gioielli anni ‘60 – ‘70. Perché loro ne sanno, le fanno bene, e non li scambierei con nessun Cucchiaio del mondo. In formazione due chitarre e batteria divertono dall’inizio alla fine. Concludono con la cover di Re-Make: Re-Model, e suona come una dichiarazione d’intenti. BEACH HOUSE Riesco a piazzarmi vicino al palco Atp e me lo godo, i Beach house non son fatti né per i grandi palchi, né per le manifestazioni all’aperto ma riescono a rendere bene lo stesso. Aprono con Walk in the park e passano per Master of None, Zebra, House of Chambers, Take Care. Suonano ed emozionano. Uno dei migliori live del festival. PIXIES Un-due-tré Vamos! I Pixies sono una macchina da concerto. Pur avendoli sempre apprezzati di meno, dal vivo sono molto meglio dei Pavement. Black la voce ce l’ha ancora tutta, Kim Deal un po’ meno, ma ogni pennata è da brivido. Monolitici e potenti, finale da accendini con Gigantic e Where’s my mind? Sabato 29.05.2010 REAL ESTATE Me li sono visti due volte, anche il giorno dopo al parco, e me li sarei visti altre tre. Basta lasciarsi andare ai suoni acquosi, soavemente psichedelici e si è completamente rapiti. Un gruppo che nel 2010 ha ragione di esistere. THE CLEAN Il momento più atteso. I Clean sono uno dei gruppi più anziani del festival e allo stesso tempo i più scoordinati. Probabilmente le canzoni non le provano mai, non gliene importa niente e ogni volta vengono diverse, come hanno voglia di farle al momento. Vecchi pezzi come Fish, Outside the Cage, Whatever i do is Right, Point that Thing, alternati ai nuovi Tensile e In The Dreamlife You Need a Rubber Soul. Usano tutto il tempo a disposizione, ma hanno chiacchierato un sacco. L’unico concerto durato troppo poco, e alla fine girarsi e trovarsi alle spalle James Mc New e i Real Estate in mezzo al pubblico non stupisce per niente. Tutto torna. ML 69 musicletter.it update n. 71 speciale: san miguel primavera sound 2010 GRIZZLY BEAR Una canzone per aggiustare i suoni e poi sono perfetti. I GB sono dei gran bravi musicisti, hanno delle belle voci, fanno una musica interessante. Quanta noia però. Rischio di crollare dal sonno e a metà decido di andarmene. DUM DUM GIRLS Le DDG hanno un repertorio di una canzone copiata dai Shop Assistants, e la ripetono dieci volte. Tutto qui. PET SHOP BOYS L’angolo trash del Primavera. Che ci fanno i PSB a chiudere il main stage dopo che ci sono passati gruppi rock come Pavement e Pixies? Ma il pubblico sembra coinvolto. Prova che sul palco grande potresti piazzarci anche dei pupazzi e la gente si divertirebbe lo stesso. I PSB l’hanno capito e infatti usano un sacco di animazioni. Go west. SAN MIGUEL PRIMAVERA SOUND 2010 Foto per gentile concessione di www.primaverasound.com Intervista di Alessio Zago www.musicletter.it ML 70 musicletter.it update n. 71 speciale RONNIE JAMES DIO L’uomo sulla montagna d’argento © 2010 di Manuel Fiorelli Avrei voglia di esordire con “Caro Ronnie”, come se stessi scrivendo a un vecchio affezionato zio perché la notizia della sua scomparsa mi ha colpito proprio come la perdita di un parente a cui si è sempre voluto bene, uno dei pochi ovviamente. La voce dell’heavy metal ha smesso di tuonare sulla terra forse perché consapevole di aver comunque perpetrato nel tempo un lascito inimitabile e inavvicinabile per le ambizioni di chiunque; quasi mezzo secolo di carriera sulla quale sarebbe velleitaria una qualsiasi analisi fatta su due piedi; io non ne avrei il coraggio né le capacità, per questo preferisco tratteggiare le sensazioni che mi ha fatto vivere con la sua musica, come nell’immaginario fiabesco e surreale che ha sempre iniettato nelle sue liriche e che si è photo by www.ronniejamesdio.com materializzato agli occhi e alle orecchie di un allora entusiasta quindicenne. Nascere in una famiglia di musicisti difficilmente lascerà la libertà di occuparsi d’altro e buon per tutti che all’età di cinque anni il babbo gli impose di imparare a suonare la tromba, senza sapere che stava gettando le basi per la sua fortuna; applicando le tecniche per lo strumento all’utilizzo della voce, svilupperà la timbrica che lo consegnerà agli annali, con tutta la sua veemenza e potenza. All’inizio furono Ronnie and the Prophets e gli Electric Elves (poi Elf) e sarebbero servite a rodare un talento inversamente proporzionale alla sua statura fisica; quando però sua eminenza chitarristica, Ritchie Blackmore, lo osservò cantare on stage, capì prima ancora di batter ciglio quale avrebbe dovuto essere il primo mattone per costruire il prosieguo della sua carriera post Purple, magari non prima d’essersi chiesto come un corpo così minuto potesse emettere una voce di tale imponenza. Da quella scintilla sarebbero scaturiti tre meravigliosi scrigni in vinile coronati da un moniker che è storia dell’hard rock: Rainbow. Io cito titoli come Long Live Rock’n’Roll o quel vertice inaccessibile che porta il nome di Rising con la certezza inossidabile di illustrarne a sufficienza spessore e statura. Quando Dio avrebbe lasciato per seguire nuove strade, i Rainbow sarebbero diventati un’altra cosa, non sto dicendo brutta ma certamente un’altra cosa. Riascoltare quei dischi oggi è una esperienza che sortisce lo stesso calcio in culo della prima volta, un biglietto per una corsa fantastica su un veicolo che si alimenta della sua stessa leggenda… ML 71 musicletter.it update n. 71 speciale : ronnie james dio E un’altra Sabbath cosa che, sarebbero orfani del diventati i Black madman Ozzy Osbourne, avrebbero risollevato le sorti di una carriera ormai in discesa libera proprio grazie al sorprendente ingresso in line-up del piccolo grande Ronnie, un innesto che ha risvegliato il verbo seminale del Sabba Nero sviluppandolo in una chiave più squisitamente metal; ogni volta che tiro fuori Heaven and Hell mi vedo seduto al primo banco di fronte a quattro loschi figuri che mi insegnano cosa significhi Heavy Metal (come se poi Mob Rules gli fosse da meno). Mentre il mondo cantava speranzoso le melodie di U.S.A. for Africa e Band Aid, solo una ristretta cerchia urlava a pieni polmoni Stars, l’inno degli Hear’n’Aid, progetto a sfondo benefico portato avanti da eminenti photo by www.ronniejamesdio.com “capelloni drogati metallici” chiamati a raccolta proprio dallo spirito nobile del buon Ronnie che comunque, in quanto a solidarietà e aiuti concreti, non si sarebbe limitato solo a quell’episodio. Un bel giorno deve essersi frantumato i genitali, basta con i litigi con Blackmore prima e poi con Tony Iommi, era tempo di formare un gruppo a sua immagine e somiglianza dove un chitarrista virtuoso suonava alle sue dipendenze e non viceversa; venne così il tempo di Holy Diver e The Last in line, dei tour grandiosi e della consapevolezza che il metallo pesante aveva tra i suoi numi tutelari e ispiratori una tra le figure più fulgide e (purtroppo solo apparentemente) immortali! Anche lui è incappato nei passi incerti di chi si sente fuori dal tempo e cerca di mettersi al passo con risultati francamente opinabili (Strange Highways e Angry Machines) e quasi lo immagino che si chiede cosa cazzo stia combinando prima di rimettere le cose a posto e sfornare un album strepitoso come Magica all’alba del nuovo millennio, tanto per ricordare che chi inventa un gioco è in grado di ricordarne alla perfezione le regole anche se per un po’ di tempo lo ha abbandonato. Per quanto mi riguarda, rispetto sconfinato per l’uomo, deferenza e considerazione per il professionista di cui ogni addetto ai lavori non può non aver riconosciuto meriti e qualità, venerazione e riconoscenza per l’artista… Il resto lo lascio ai biografi, ai critici, agli almanacchi e ai maniaci della minuziosità, io mi tengo stretto quello che mi ha lasciato e trasmesso, tanto basta. L’ho visto in concerto dal vivo la prima volta nel 1987, poco più di undici mesi fa per l’ultima e mentre lo ammiravo sfavillante e in forma strepitosa sul palco con gli Heaven & Hell, a sessantasei primavere suonate, sembrava che i ventidue anni trascorsi tra i due eventi fossero passati solo per me. La morte non cancella la storia, si limita a prendersi il disturbo di tramutarla in leggenda. Grazie di tutto e per sempre eroe, “catch the rainbow” e osserva pure da lassù il vuoto che hai lasciato, un vuoto tale che quasi non ti perdonerei… ML 72 musicletter.it update n. 71 live review ARTIST: BAUSTELLE LOCATION: Roma, Atlantico (ex Palacisalfa) DATE: 17.04.2010 WEBSITE: www.baustelle.it photo by Nicola Pice Che i Baustelle non fossero più un piccolo gruppo di culto ma, al contrario, un fenomeno di massa a me (vecchio) ammiratore della prima ora - legato tenacemente quanto in maniera oramai patetica a un'idea di musica "altra" - era chiaro da tempo (perlomeno dal successo popolare del precedente “Amen”). All’ottimo e immediato riscontro commerciale – tre settimane in top ten - dell’affascinante e obliquo “I mistici dell’occidente” (alla cui recensione dell’ottimo Jori Cherubini vi rimando su questo stesso numero) è seguito, pertanto, un mini-tour di tre date (Roma-Milano-Firenze) per supportarne le vendite e per presentare al meglio con l'ausilio di un'orchestra la complessità sonora di un disco dalle sonorità barocche ancorché decisamente poprockeggianti. La data numero uno all'Atlantico di Roma in una bella serata primaverile, dunque, ha costituito per chi vi scrive non solo l'occasione per rincontrare vecchi amici (altrettanto) appassionati ma anche per saggiare gli innegabili progressi live di una band che in passato ha mostrato qualche incertezza, comunque, giustificabile dalle poche occasioni che erano loro concesse d'esibirsi dal vivo (almeno fino a La Malavita) e migliorare le loro performance. In un palazzetto stipato all'inverosimile - che vedeva la presenza d'un pubblico davvero trasversale - i “baustelli” non hanno deluso le aspettative di quanti erano accorsi per ascoltarli da tutte le parti d'Italia con una esibizione d'altissimo livello. Accompagnati da un quartetto di fiati e d’archi, un quartetto di coristi, un chitarrista aggiunto all wall of sound di Claudio Brasini, un tastierista aggiunto a Rachele (Ettore Bianconi), basso, batteria e percussioni, la band ha privilegiato nella scaletta i brani de I Mistici dell’Occidente con gli highlights di Amen e de La Malavita vista la necessità di fidelizzare quella parte di pubblico che ha imparato ad amarli solo recentemente. Diversamente, però, che dal tour di Amen, in cui il suono era uniformemente rockeggiante nei momenti più trascinanti e intimamente cantautoriale in quelli più introspettivi, in cui, pertanto, i Baustelle apparivano come una rock band fine anni '70 con gli arrangiamenti asciugati dai barocchismi da studio, le possibilità dall'orchestra “mistica” hanno consentito al gruppo di offrire al pubblico un'esibizione variegata dalle molteplici quasi psichedeliche suggestioni sonore. È stato piacevole scoprire la maturità raggiunta dai componenti dei Baustelle. Strabiliante il miracolo vocale del Bianconi, solo qualche sbavatura nell'arrampicarsi sulle impossibili scale armoniche di San Francesco, emozionante su Il sottoscritto e Il corvo Joe, sicuro e spigliato con il pubblico nonostante la proverbiale timidezza. Rachele in tiro con coda di cavallo, ispirata e trascinante in Groupies e La bambolina, sempre più “the maudit side of baustelle” con quella torbida allure decadente e sexy (per inciso l'unica a fermarsi e salutare il pubblico all'uscita). Esuberante Brasini soprattutto nel cavalcare le lunghissime “progressive” code di stampo pinkfloydiano di alcuni brani (come nella Beethoven o Chopin de La Moda del Lento). Ai fan della prima ora dispiace che la produzione pre-Charlie sia stata penalizzata, sembra quasi che il gruppo - o il Bianconi non so - voglia segnare il distacco con il suo passato recente, più plasticoso nei suoni e certamente più nostalgicamenteadolescenziale anche se, la rimasterizzazione de Il Sussidiario Illustrato della Giovinezza, potrebbe essere il preludio alla riscoperta (e speriamo riproposta anche live) di quei capolavori ormai lontani nel tempo ma sempre amatissimi. Ciò che conta, comunque, è la capacità di un gruppo per certi versi innovativo della nostra musica leggera di essere riuscito a diventare anche una grande “live band”. Menzione particolare all'esecuzione della suite morriconiana de Il grande silenzio tratta dall'omonimo capolavoro di Sergio Corbucci (omaggio persino dovuto al grande e neanche troppo nascosto ispiratore del westernariato sonoro de I mistici dell'occidente) e alla divertente e tenera presenza entusiasta di un gruppo di giovanissimi beneventani nelle prime file del palazzetto con lo striscione e annessa caricatura bianconiana recitante: “Francesco, ci pensi ancora alle rane?”. Nota di colore, certo, ma anche simbolo d'un meritato successo popolare. Nicola Pice ML 73 musicletter.it update n. 71 live review ARTIST: WILLIE NILE LOCATION: Trieste, Teatro Miela DATE: 15.04.2010 WEBSITE: www.willienile.com photo by Jeff Fasano È da parecchio che ho riscontrato un’intima e oramai consolidata incapacità di gustare un concerto di qualsivoglia artista. Nessun rammarico in merito, anzi, ma evidentemente “c’è un tempo per ogni cosa”. Ciò nonostante: Willie avrebbe suonato in centro città (nella mia Trieste) il 15 di aprile, alcuni tra i maggiori specialisti del rock a stelle e strisce lo avevano ripetutamente citato ed elogiato nei rispettivi blog, il livello dei nomi che approdano in questa evidentemente remota area geografica è per lo più trascurabile, e infine la figura di “beatiful loser” – titolo honoris causa decretato al rocker di Buffalo, N.Y. per “meriti” conseguiti in trent’anni di carriera esercita sul sottoscritto un richiamo tutto particolare. Di Willie Nile non avevo sentito che qualche “sample” qua e là, troppo poco per capirne qualcosa, ma mi sembrava venisse sopravvalutato (ho sempre avuto la presunzione di capire in poche note se un artista mi piace o meno e mi ostino da anni con questa idiozia anche se l’esperienza m’ha insegnato il contrario, ma tant’è…) oppure, come spesso accade, rappresentasse un salvagente in tempi di magra, come quelli odierni: impressione ovviamente smentita a fine concerto. Anzi, molto prima: certamente dopo la terza canzone ma, in effetti, qualche avvisaglia di rettifica s’era già sentita sui primi accordi del primo pezzo. Figura esile, nervosa (non nevrotica), capigliatura simile a quella di Lyle Lovett, continuamente allontanata dalla fronte assieme a un continuo gesticolare, ammiccare ed alzare gli occhi al cielo, frenetico enfatizzare delle parole cantate. L’inizio è nello standard ma l’atmosfera, difficile comprenderne il motivo, è serena. Nel giro di pochi minuti le ritmate ballate elettriche, metropolitane (è il suo humus, d’altronde), in queste prime fasi debitrici più ai riffs di Keith Richards che alle armonie dylaniane, sono state capaci di creare l’atmosfera giusta in un tempo brevissimo e la sensazione dominante è di trovarsi in un locale del Greenwich Village (dove, in effetti, vive), causa anche il suono del teatro, non propriamente cristallino e le luci, scarne ed essenziali. Il pubblico, circa 200 persone, partecipa da subito e non esita un momento a mettersi sotto il palco, faccia a faccia con Willie. L’artista che in questo frangente ritengo più affine a Willie è l'Elliott Murphy di Murph the Surf: per radici e formazione, esperienza, (s)fortuna, stile, sonorità, e una voce che spesso vira verso il più caldo dei toni disponibili, nel disperato tentativo di non disperdere al vento nessuna delle proprie emozioni. Elliott Murphy è più romantico e bohémien per attitudine laddove Willie Nile potrebbe ricordare una gatto randagio, un Jack Kerouac, un idealista, un sopravvissuto della Beat Generation (sua effettiva ispirazione). Entrambi schiacciati, a inizio carriera, dal peso del peggiore dei paragoni possibile: “nuovo Dylan”. Alla conclusione dei due pezzi introduttivi se ne esce con un “my italiano is not so good but rock and roll is not so bad”: ci sa fare, è evidente, e spiega com’è nata la bellissima ‘Vagabond Moon’ dal primo album. Da songwriter-storyteller purosangue racconta poi come durante gli spostamenti in auto per l’attuale tour, gli sia capitato di sentire alla radio Ray Charles nella sua Hit the road Jack: “La dobbiamo fare!” – dice, rivivendo al presente quel momento di euforia. È il primo pezzo davvero eccellente, trascinante, e il fatto che sia una cover non toglie nulla alla sua performance. “Brother Ray – we love you”, e l’indice ad indicare il Paradiso. ML 74 musicletter.it update n. 71 live review Non è facile confrontarsi con il soul di Uncle Ray, eppure il piccolo newyorkese non ha un attimo di esitazione; impossibile restare fermi o non battere le mani. Grandissimo, e il concerto decolla. Willie è un personaggio che ispira simpatia, trascina: lui è la parte candida del rock and roll, quella nata dal sorriso di Buddy Holly. Introducendo Give me tomorrow si espone politicamente come sostenitore di Obama (“No more George Bush!”). “La mia preghiera”, dice: “ringrazio Gesù Bambino per essere qui tonight’”. Un puro: deo gratias ne esistono ancora. La band – apparentemente giovanissima – lo accompagna più che dignitosamente: la batteria, in particolare, sembra una versione minore di Max Weinberg. Willie è sinceramente contento e soddisfatto. Rappresenta l’essenza di un rock and roll romantico, sconfitte comprese; è una rockstar alla periferia dell’establishment e quindi depurata da tutto quello che, personalmente, faccio fatica a buttar giù quando penso a Dylan e Bruce. Dopo il successo planetario, quest'ultimo ha cambiato spesso direzione, negli anni, cercando prevalentemente ispirazione all'esterno quasi che il naturale ammorbidirsi della propria energia lo avesse preso in contropiede e spaventato all'ipotesi che la sua musa ispiratrice stesse esaurendo il suo compito. Così, molti lavori hanno lasciato perplessi i fan del Boss che, me compreso, a quasi ogni uscita fanno salti mortali per comprenderne la chiave di lettura (ascolto). A Willie Nile questo non succede: lui vede la strada, ogni giorno ed ogni notte; ne annusa gli odori e le esalazioni, ne sopporta l’impossibile temperatura estiva; si trova fianco a fianco con la gente di ogni genere e razza con relativi sogni e paure. Lì nascono le sue emozioni e le sue canzoni; questo si può leggere nella profondità di quello sguardo, quello ritratto nella cover del suo album Beautiful Wreck Of The World. Bruce è un miliardario: nulla da dire in merito, ma per certe emozioni credo si trovi costretto ad andare molto indietro con la memoria. Chiusa parentesi. Seguono She’s so cold, sferzante, dal primo album e Cell Phones Ringin' ecc... “This song is about terrorism and is my pray for human race”: un’altra preghiera (e non sarà l’ultima) strepitosa, vicina al leggendario schitarrare di Joe Strummer, lunghissima senza stancare. Abbandona la chitarra, si siede di fronte alla tastiera, in un angolo buio del palco, illuminato da un unico faro azzurro, fisso, quasi un riflesso lunare, e il gruppo tace, nell’ombra, mentre Willie si piega sopra i primi bellissimi accordi di Streets of New York (“I love it”… e chi ne dubitava?). Appassionata dichiarazione d’amore. Il bassista lo fotografa. Sembra una riunione di famiglia a cui tutti sono invitati. Grande. Willie canta una N.Y. notturna, solitaria, conosciuta passeggiando sui marciapiedi e a fianco della gente, come si diceva, una N.Y. che non si concede ai turisti. Il pezzo sembra una jungleland stroncata all’Intro, forse per una forma di rispetto o forse perché il suo mondo è molto più piccolo di quello del Boss. In un vecchio numero del Mucchio Selvaggio si parlava delle vite di serie B, di perdenti, di Beatiful Losers, perché così hanno scelto e non hanno mai avuto alcuna intenzione di vincere. Willie ha rinunciato a tutto per essere libero. Un baluardo dell’innocenza e della purezza. Uno che ancora oggi sogna Muddy Waters, Dylan, Hendrix, Hooker, ecc. ecc. e ha coraggio di metterlo nero su bianco (House Of A Thousand Guitars). Anticipa un brano dell'ultimo album, in uscita per questa estate, che si chiama The innocent one (“innocent victims around the world, this is my pray”). Bellissima e drammatica. Si va avanti così a forza di riffs in un vortice sonoro che a tratti sembra una Vision of Johanna suonata, anche questa volta, da Joe Strummer. Conclude il concerto con un medley dei Ramones (Blitzkrieg bop-Sheena is a punk rocker). Applausi a scena aperta, un’ovazione. I miei due ragazzi devono alzarsi presto la mattina – devono andare a scuola… - e decido di non aspettare il bis, ma sono soddisfatti pure loro. Buonanotte e in bocca al lupo, Willie, te lo meriti. Stefano Sciortino ML 75 musicletter.it update n. 71 live review ARTIST: A TRIBUTE TO NICO LOCATION: Roma, Auditorium Parco della Musica DATE: 11.04.2010 WEBSITE: http://smironne.free.fr/nico/ photo by Rossella Spadi Quando il 10 maggio dello scorso anno mi ritrovai nel settecentesco Teatro Comunale di Ferrara per assistere al concerto A Life Along The Borderline - A Tribute To Nico (evento realizzato da John Cale nel 2008 per il ventennale dalla scomparsa, avvenuta ad Ibiza in una calda giornata di luglio per una banale caduta di bicicletta, di Nico, al secolo Christa Paffgen, fotomodella, attrice nonché cantante dei Velvet Underground al fianco di Lou Reed e John Cale e musa ispiratrice di Andy Warhol alla Factory Newyorkese), beh, quel giorno, non avrei mai potuto immaginare che l'evento si sarebbe potuto addirittura ripetere l'anno successivo e, per giunta, proprio qui a Roma! Yes, il giorno 11 aprile all'Auditorium, nel contesto dell'evento Meet In Town, si è ripetuta quella stessa magia! John Cale e tutta la sua strepitosa banda di artisti, ancora una volta, nel prestigioso salone Santa Cecilia, quasi tremila spettatori e naturalmente "sold out". Coadiuvato da Dustin Boyer (chitarre), Michael Jerome (percussioni) Josh Schwartz (basso) e con gli effetti elettronici di Nick Franglen, Cale ha riproposto i brani scritti e arrangiati per una donna dalla esagerata bellezza, dalla grande personalità e carisma, sua musa indiscussa, Nico. Un totale di 18 brani, due per ogni artista intervenuto, divisi in due tempi. Si apre con la solenne "Frozen Warnings", brano tratto dal glaciale The Marble Index (1969), con John che, entrato tra l’ovazione del pubblico, si siede schivo al suo pianoforte e ci regala subito tanta emozione. È quasi totale l’assenza di grossi effetti luce, che invece al concerto di Ferrara erano stati usati senza parsimonia (cfr foto), cosa che ha dato al concerto la connotazione che doveva avere, quella di un (purtroppo) mesto e struggente tributo, privo cioè di quella euforia, di quella leggerezza che siamo abituati a respirare in tutti i concerti pop rock (anche il recente evento luttuoso, la prematura scomparsa di Mark Linkous di Sparklehorse, interprete delle sentite Afraid e You Forgot To Answer nella prima edizione, ha probabilmente accentuato questa china). Lo segue Lisa Gerrard (Dead Can Dance), voce importante, coadiuvata anche da effetti ed eco, statuaria nel suo velluto rosso, nella riproposizione di "The Falconer" (Desertshore, 1970). In un secondo tempo interpreterà No One is There (The Marble Index), accompagnata dal solo ensemble di archi, in una versione molto evocativa. Poi è la volta di Laetitia Sadier (Stereolab) nella sua delicata interpretazione di "My Only Child" (da Desertshore), accompagnata per l'occasione dall'istrionico Jonathan Donahue, frontman dei Mercury Rev, alle prese con uno strano strumento, una "sega" suonata con l'archetto per ricreare l’effetto del theremin, dai suoni acuti e vibranti. Il suo secondo pezzo, dopo la pausa, sarà Afraid ( da Desertshore). A differenza dello scorso anno stavolta Cale ha portato sul palco quasi solo voci femminili, eccezione fatta per Donahue e per l’ex Screaming Trees Mark Lanegan, molto amato qui da noi ed accolto anche quest anno molto calorosamente, capace di interpretazioni dense e molto sentite delle bellissime Roses in The Snow (The Marble Index) e poi di You Forgot To Answer (da The End). È il turno delle CocoRosie nella persona di Coco, aka Bianca Casady, che dopo tanta mestizia riesce a darci una vera sferzata di energia con la più "improbabile" delle voci, modulata in varie tonalità e timbri, interpretando Abschied (da Desertshore). ML 76 musicletter.it update n. 71 live review: a tribute to nico Stesso stile e stessa energia che ci trasmetterà, poi, nel secondo tempo, la sorella Rosie, aka Sierra Casady, con Win A Few (da Camera Obscura), che invece l'anno prima era stata interpretata da Lanegan. Le CocoRosie sono due interpreti dalla grande tenuta scenica, vivacissime e così creative nelle loro "mise" molto londinesi [adoro]. Richiamano, sia nel modo di cantare che nel look, le veterane Kate Bush e Cindy Lauper ma anche Nina Hagen e Lene Lovich. Per chi come me non le aveva mai viste live sono state una vera rivelazione. Grandi Cocorosie! Joan As Policewoman, al secolo Joan Wasser, alle prese con Janitor of Lunacy non ripete la performance di Peter Murphy dei Bauhaus (che a Ferrara sorprese tutti spargendo ovunque petali di rose rosse!) ma è tuttavia perfetta nella sua esibizione. Emozionata, indossa un gilet nero su bermuda, con lustrini e paillettes, mentre ai piedi spiccano un paio di tronchetti anni '20, tacco alto, allacciati davanti e laccati total white: bel contrasto! La Donnapoliziotto si ripresenterà, dopo la pausa, da sola al pianoforte, per regalarci una magistrale interpretazione di My Heart is Empty (da Camera Obscura), con una voce carica di emozione che ha strappato a un pubblico, in generale molto contenuto e anche un po’ distratto, uno scrosciante applauso! Indimenticabile Joan! È poi la volta poi dell "extraterrestre" Jonathan Donahue, fondotinta verde/argento sul viso e orecchie da Star Trek, l'anno prima aveva addirittura un cerchietto luminescente in testa, a interpretare Fearfully in Danger (da Camera Obscura), e poi Evening of Light (da The Marble Index), trascinante, nel quale spicca il suono di una chitarra che ha più del mandolino, suonata con l'archetto dall'eccellente Sean Mackowiak. Chiude il primo tempo la brava My Brightest Diamond aka Shara Worden, con una imponente interpretazione di Ari's Song (da The Marble Index). La scopriamo, osservandola di profilo, essere addirittura in avanzato stato di gravidanza! Auguri Shara! In tutto questo alternarsi di personaggi, Cale, naturalmente, ha lasciato la scena alle sue/suoi bravi interpreti accompagnando la maggior parte dei brani all'organo/tastiera, per poi riproporsi di nuovo in voce, nel secondo tempo, in una stupenda Sixty Forty (da The Drama Of Exile) e infine Facing the Wind (da The Marble Index). Molto pathos e menzione particolare per il bravissimo batterista/percussionista Michael Jerome. Così scivolano via due ore di altissima qualità. Penultimo brano per Soap & Skin, al secolo Anja Plaschg, giovanissima pianista austriaca, autrice e cantante dalla voce molto simile a quella di Nico (ed interprete di una pellicola cinematografica sulla vita della Paffgen). Anja è una ragazza di grande modestia, ha avuto il giusto riconoscimento del suo talento poiché, fino a un'ora prima di entrare in scena sul palco del Tributo per interpretare, come l'anno precedente, una perfetta Tananore (da Camera Obscura), in Sala Sinopoli aveva dato vita a uno stupendo concerto al piano ed archi, nel quale ha veramente sfoggiato tutta la sua bravura (sono riuscita ad assistere a una sola mezz'ora del suo bellissimo concerto, perché, in effetti, gli eventi del Meet In Town si sono accavallati gli uni sugli altri: c'erano persone che non avevano acquistato il biglietto omnicomprensivo di tutti gli spettacoli, tanti gli intrattenimenti senza soluzione di continuità, addirittura dj set allestiti nei foyers delle sale, che producevano i più vari generi musicali dal dub alla house, dal funk all'elettronica. Ovunque esplosioni di musica! Per citare i Blackbyrds un vero Walking in Rythm per tutto l'auditorium! Straordinario! Gran finale: tutti sul palco performing All that is my own (da Desertshore), Cale appare soddisfatto e, finalmente, nel finale ci saluta con un sorriso! Inchino generale, tutti contraccambiano l'applauso ed ecco uscire tutti di scena, invano il pubblico chiama per il bis... le luci in sala si accendono; Cale non si concede, come invece aveva fatto l'anno precedente nella bella cornice del teatro di Ferrara, dove il Maestro non poté esimersi dal rientrare in scena per il bis... Dopo cinque minuti almeno di chiamate urlanti del pubblico! ML 77 musicletter.it update n. 71 live review: a tribute to nico Difatti rientrò sul palco addirittura in camicia, semi allacciata e a piedi scalzi, si mise al piano e con vera commozione ci disse: ”Thank you, you are amazing!" e ci regalò una strepitosa versione di Close Watch, che tuttora, a pensarci, mi vengono i brividi! Unforgettable! Invece quest’anno niente, l'atmosfera più contenuta, pubblico un pò troppo distratto... Forse troppi accreditati, troppi fotografi, gente "fluttuante" tra gli eventi. Il concerto invece avrebbe meritato un religioso silenzio. Una cosa è certa: se il prossimo anno ripeteranno il Meet In Town sarà estremamente difficile eguagliare il livello raggiunto da Cale, sia per intensità e qualità dei pezzi, sia per le interpretazioni che per la solennità dell'evento. Nico resterà così, per sempre, viva nel ricordo di tutti finché ci saranno musicisti di questo calibro su di un palco riuniti per lei! John, sei stato grande, non potevi renderle omaggio più degno. Lunga vita a Nico! Rossella Spadi ML 78 musicletter.it update n. 71 live review ARTIST: FATSO JETSON LOCATION: Brescia, Latte Più DATE: 08.04.2010 WEBSITE: www.myspace.com/fatsojetson photo by fatsojetson.com Non so se vi è mai capitato di andare a un concerto da soli. La sensazione è strana: da una parte la possibilità di concentrarsi pienamente sull’esecuzione, dall’altra la tristezza del non poter condividere il momento insieme alla tua ragazza o a qualche amico. Essendo in solitaria la prima cosa sui cui focalizzo ogni mia mira è il banchetto del merchandising. Come spesso succede quello del gruppo spalla è custodito, mentre per il gruppo principale bisognerà aspettare più di un’ora. Dopo un’attesa abbastanza snervante di due ore (una birra non può tenerti compagnia più di tanto) salgono sul palco i piacentini Oak’s Mary. Il loro rock è molto onesto e d’impatto, un misto di stoner, rock Seventies, Jimi Hendrix: i dieci anni passati su palchi italiani e esteri si fanno sentire. Ottima la sezione ritmica, buoni i riff, sicuramente più convincenti rispetto all’ultima volta che li ho visti come opening per Brant Bjork. L’unico appunto negativo che potrei fare è il fatto che cerchino di creare un siparietto goliardico tipico di un certo provincialismo italico che spesso e volentieri è mal digerito dal sottoscritto (tipico di molte realtà musicali italiane del resto). Probabilmente sono troppo esterofilo o troppo vincolato all’idea di una certa professionalità su un palco o non colgo l’ironia. Tolto questo piccolo appunto, sicuramente promossi per un prossimo live. Verso mezzanotte è il turno dei Fatso Jetson. Prima della loro esibizione avevo concesso solo qualche ascolto distratto ai loro dischi etichettandoli (che brutto questo termine!) come stoner sperimentale. Per la serie “Ti aspetti una cosa ed è tutt’altro”. Nulla di più diverso in realtà: il suddetto genere c’è, ma è centrifugato tra divagazioni psichedeliche degne dei migliori Gong e mazzate hard boogie con unvago sentore blues qua e là. All’interno di un suono molto amalgamato e ottimamente suonato risaltano le prestazioni di Mario Lalli, ottimo chitarrista e cantante (Fatso per intenderci…) e il nuovo membro Vince Meghrouni, che si destreggia abilmente tra sassofono e armonica. È proprio quest’ultimo elemento che permette al gruppo di uscire dai canoni di un genere solitamente molto statico per inseguire fughe allucinogene e allucinanti per chi le ascolta. Ottima pure la sua presenza sul palco, un piccolo Jack Nicholson indemoniato che salta e si contorce come se fosse immerso completamente nell’atmosfera improvvisata di questa esibizione. Il ristretto pubblico della serata applaude e sembra assolutamente coinvolto dal quartetto, segno che la sperimentazione sonora può entusiasmare pure se a discapito dell’immediatezza. Mi allontano dal locale solo ma sicuramente soddisfatto per la bella serata regalataci da questi divertenti californiani, e se qualcuno, prossimamente, si trovasse a bazzicare per le vie di Sierra Madrè (California) e si imbattesse in un piccolo ristorante in cui suonano musica jazz e blues, potrebbe avere la possibilità di vedere i Fatso Jetson dal vivo. Ebbene sì, uno di questi locali è di proprietà dei cugini Lalli (di Mario ne abbiamo già parlato precedentemente, Larry è il bassista del gruppo). Chi organizza il prossimo viaggio? Matteo Ghilardi ML 79 musicletter.it update n. 71 live review ARTIST: SIX MINUTE WAR MADNESS LOCATION: Mezzago, Bloom DATE: 05.03.2010 WEBSITE: www.myspace.com/sixminutewarmadness photo by sixminutewarmadness.com Un mese. Ho impiegato tutto questo tempo per cercare di dar forma all’ultima esibizione pubblica dei Six Minute War Madness. Il contesto è la festa per i dieci anni di attività della Wallace Records. La location è il Bloom di Mezzago, da sempre una delle mie mete preferite, uno dei pochi locali in cui mi sento veramente a casa ogni volta che trascorro una serata al suo interno. Apre le danze un gruppo anconetano a me sconosciuto, i Leg Leg: math rock strumentale pregno di richiami al suono doncaballeriano. La proposta è interessante, sicuramente da rivedere per una valutazione più approfondita. Subito dopo è il turno dei R.U.N.I.: hanno dalla loro la capacità di intrattenere e far divertire il pubblico, tra nonsense e ilarità. La musica? Fondamentalmente un synth pop in puro stile anni ’80 che giustifica e aumenta il mio disprezzo per queste sonorità. I Six Minute iniziano il loro set poco prima dell’una rispolverando uno dei loro primissimi pezzi, L’ora giusta (anche se la versione inglese è inferiore a quella ascoltata sul loro primo disco). Il suono iniziale è abbastanza confuso anche se da subito sono in risalto le geniali intuizioni di Xavier Iriondo e l’ottima presenza scenica del cantante Federico Ciappini. La scaletta è improntata sulle canzoni più rappresentative del complesso… E mentre riascolto con immenso piacere pezzi come Test test (una delle mie preferite) e Il tuo nemico in più (Even song, sempre in inglese) rispolvero la prima volta in cui ascoltai questo gruppo milanese. All’epoca ero un assiduo lettore di Rocksound, che non era ancora quella rivista patinata e insulsa che è oggi. In allegato c’era un disco in omaggio (più o meno) con musica selezionata dai redattori e ricordo di essere rimasto folgorato da Dolores, canzone che faceva da trait d’union tra un rumorosissimo alternative rock e una biascicata e sbilenca voce, il tutto in lingua italiana. Poi di colpo li ho abbandonati, vuoi per la difficoltà nel reperire materiale, vuoi per distrazione… Fin quando un mio carissimo amico riuscì a recuperarmi gran parte della loro produzione. Da lì fu un lento e graduale avvicinarsi alle cupe sonorità di questo gruppo milanese, ma sto divagando, probabilmente per l’attuale interesse verso la riscoperta di Lester Bangs (ma di questo n potremo parlare successivamente). Ripassare la scaletta in questo caso non ha senso, l’unico modo per raccontarla è l’essere stati presenti. È ancora con un briciolo di emozione che ricordo la commozione dei componenti della band alla fine della loro esibizione, un dispiacere pensare che questo sia un addio e non un ritorno. Me ne vado con un po’ di magone e la discografia omnia sottomano… “Sì come dice un motto: ‘La fine loda tutto’. E tutto ciò ch’on face, pensa o parla o tace, a tutte guise intende a la fine ch’atende: dunqu’è più graziosa la fine d’ogni cosa che tutto l’altro fatto” (Brunetto Latini, “Il tesoretto”). Matteo Ghilardi ML 80 musicletter.it update n. 71 rubrica PRESI NELLA RETE Belladonna, Addiction Crew, Wipe Away, Betty Poison e Heike Has The Giggles © 2010 di Stefano Bon Come ben si sa, la presenza femminile in campo musicale è sempre stata di contorno, nonostante l’input sessuale sia la vera scintilla alla base della nascita del rock. Con il tempo e grazie al fottuto e abusato “progresso” le donne si sono ritagliate ampi spazi e oltre al classico ruolo di interprete si sono fatte notare come strumentiste, tecnici e produttrici di valore. Ad esempio questi Belladonna (www.myspace.com/wwwbelladonnatv) di ragazze in formazione ne hanno tre e quella che risalta maggiormente è come da copione la vocalist Luana, che mostra un’ottima preparazione e una gran presenza. Si potrebbe paragonare a Cristina Scabbia seppure non ne replichi le arditezze vocali. Belladonna è una band di metal classico che vira verso un AOR piacevole, un genere che da noi è considerato poco; infatti sul loro sito fanno bella mostra collaborazioni con artisti stranieri e fior di tournèe in paesi anglosassoni, dove per questa musica impazziscono. Le belle trame chitarristiche della band romana mettono in evidenza anche un’ispirazione oscura che rende più interessante il loro lavoro. Ottimo pedigree metal anche per gli Addiction Crew (www.myspace.com/addictioncrew) che sono in giro da tanti anni, ma non per questo hanno annacquato il loro sound. Sono passati anche dai lidi della Earache, a cui però mi paiono piuttosto estranei e nel frattempo hanno cambiato la voce che da maschile è passata a Marta Innocenti (che da par suo si diletta in cose più soft www.myspace.com/martainnocenti) Il loro nu metal (cassettone un po’ malandato in cui vengono buttati tutti gli artisti che non si rifanno ai dei classici dell’heavy) ha beneficiato di questi cambi, anche se una maggior convinzione nei propri mezzi ed una ricerca più approfondita verso sonorità diverse li farebbe risaltare nel mucchio. Restando dalle parti della “musica pesante”, ma volando oltre Adriatico arriviamo in Montenegro dove troviamo i Wipe Away (www.myspace.com/wipeaway); qui le armi del critico sono veramente poca cosa perché si entra in un’altra dimensione. Non essendo adepto del genere probabilmente mi sfugge qualcosa, ma non può non incuriosire un tentativo di unire il suono balcanico (già a suo modo crocevia di influenze europee e arabe) anche in questo caso ad appannaggio di una voce femminile e il growl classico del metal estremo. Se ci mettete le inclinazioni gotiche e l’ispirazione biblica, il quadro è completo. Facendo un doppio salto mortale torniamo in patria e cambiano genere con i Betty Poison, (www.myspace.com/bettypoison1) band frusinate dedita a un crudo alternative senza fronzoli e molto efficace; la rabbiosa sensibilità vocale di Lucia Rehab è una delle più belle che ci siano in giro e poi non si può non amare un gruppo che ha in repertorio una canzone intitolata Paris Hilton up your ass. ML 81 musicletter.it update n. 71 rubrica: presi nella rete Recentemente hanno aperto per le Hole di Courtney Love e, senza temere di sfiorare il ridicolo, ammetto di preferire i Betty Poison. Per chiudere una band di cui si è fatto giustamente un gran parlare: gli Heike Has The Giggles, terzetto che vede alla chitarra e voce Emanuela Drei e sulla cui pagina www.myspace.com/heikehasthegiggles trovate alcune canzoni che loro definiscono heavy pop. Dal mio punto di vista sono più pop che heavy, ma questo non è certo un demerito, anzi, e la loro freschezza indie può essere messa sullo stesso piano di più blasonate band italiane ed estere. Il fatto che siano giovanissimi e che arrivino dallo stesso paese della Pausini può essere divertente, ma non getta ombre sul loro percorso artistico (semmai è la Pausini l’Alien in una scena creativa…) che li ha fatti approdare a un primo album (Sh! – Kitano Rec.) e a una crescita continua dal vivo. ML 82 musicletter.it update n. 71 altri percorsi: libri SIMON WINCHESTER Krakatoa Longanesi & C., 2004 di Ilario La Rosa Le eruzioni vulcaniche e la presenza stessa dei vulcani rappresentano uno dei migliori esempi di convivenza forzata tra la specie umana e le forze più devastanti della natura. In Italia a riguardo abbiamo due esempi tra i più significativi a livello mondiale, ovvero il Vesuvio e l’Etna. Entrambi gli edifici vulcanici sono collocati, infatti, nelle immediate vicinanze di due grossi centri urbani, Napoli e Catania e, specialmente nel primo caso, costituiscono una minaccia costante per gli stessi abitanti che ne abitano le pendici. Non si tratta di un caso; molto spesso i terreni circostanti gli edifici vulcanici sono tra i più fertili in assoluto, in virtù della elevata alterabilità delle lave e dei prodotti di ricaduta delle eruzioni, che vengono immediatamente invasi dalla vegetazione, perlomeno fino alla successiva eruzione e sono stati, per tale motivo, rapidamente colonizzati in passato dai nostri predecessori. Il libro di Simon Winchester, geologo, reporter del National Geographic, contempla perfettamente tutti questi aspetti. Infatti, il Krakatoa è un vulcano molto attivo, situato al centro dello stretto della Sonda, il braccio di mare che divide l’isola di Sumatra da quella di Giava, in Indonesia. Si tratta, com’è noto, di luoghi molto popolati (oggi tale stato conta 220 milioni di abitanti e rappresenta il paese a maggioranza mussulmana più popoloso del mondo), in cui gli abitanti convivono da sempre con la presenza ingombrante di numerosi vulcani molto attivi. Negli ultimi giorni di Agosto del 1883, l’edificio vulcanico del Krakatoa, un’isoletta al centro dello stretto, esplose quasi totalmente in una immane eruzione vulcanica, producendo il suono più forte mai udito da orecchio umano, avvertito distintamente fino in India, a 4000 km di distanza. Le conseguenze per i luoghi abitati immediatamente adiacenti al vulcano, ma non solo quelli, furono ovviamente devastanti; un onda di maremoto alta fino a 40 m travolse ogni cosa nelle coste dello stretto, una nube alta fino a 80 km (!!!) si levò dalla sommità del vulcano e le ceneri di ricaduta si depositarono a centinaia di km di distanza, nell’isola di Giava e Sumatra. Le ceneri giunte alle quote più alte finirono nella stratosfera e entrarono nella circolazione atmosferica globale, facendo il giro del mondo e fornendo utili indicazioni agli scienziati dell’atmosfera riguardo la dinamica delle correnti in quota. In tutta l’Europa occidentale per molti mesi i tramonti ebbero una colorazione rossastra particolarmente accesa, a causa delle polveri immesse nell’atmosfera, che fu immortalata in molti dipinti dell’epoca, come era già accaduto alcuni anni prima nelle più famose opere del pittore inglese William Turner, in seguito alle conseguenze dell’eruzione vulcanica del Tambora nel 1815, avvenuta sempre in Indonesia. ML 83 musicletter.it update n. 71 altri percorsi: simon winchester Simon Winchester descrive benissimo tutta la vicenda, non solo dal punto di vista tecnico e documentale, ma inquadra l’evento nel contesto storico e socio-antropologico dell’epoca; vengono descritti i traffici della Compagnia delle Indie, tra l’Europa e l’Indonesia, con tutte le navi che passavano vicino allo stretto dirette nella madrepatria. Tutta l’eruzione è narrata attraverso le fonti storiche dell’epoca, tramite i bollettini delle stesse navi e le testimonianze degli abitanti del luogo. Le fasi che precedono l’eruzione vengono descritte in un crescendo parossistico, con la minaccia che incombe, i boati sempre più frequenti, le prime eruzioni di minore entità, preludio alla catastrofe del 28 Agosto, giorno dell’eruzione principale. In realtà, i giorni 26-27-28 Agosto furono tutti caratterizzati da esplosioni violentissime, che sconvolsero la vita degli abitanti fino alla capitale Giakarta, situata a 300 km di distanza, in cui il cielo si era completamente oscurato durante le fasi più acute dell’eruzione e l’aria era diventata irrespirabile. La vita di milioni di persone fu quindi completamente stravolta da un evento naturale, forse il primo seriamente documentato con questi dettagli nella storia umana, in un periodo ormai caratterizzato da conoscenze scientifiche più approfondite e dall’avvento della rivoluzione industriale e tecnologica della seconda metà dell’ottocento, che già consentiva una comunicazione più rapida tra i continenti ed un afflusso più massiccio di notizie dall’oriente al’occidente. La storia del Krakatoa è narrata in tutta la sua completezza nel libro, che dedica gli ultimi capitoli ad Anak Krakatoa (il figlio di Krakatoa), il nuovo vulcano emerso dall’acqua dopo la distruzione del cono principale. Questo piccolo edificio vulcanico è già cresciuto ed è attivo come il suo predecessore; le caratteristiche tettoniche e petrografiche dell’area in cui è situato lo condurranno inevitabilmente ad accumulare energia negli anni (decenni, forse secoli) futuri, riproponendo le condizioni scatenanti che avevano innescato l’eruzione del 1883, come già successo in passato e come succederà in futuro, in attesa della prossima colossale eruzione del nuovo figlio di Krakatoa. ML 84 musicletter.it update n. 71 frammenti di cinema rimosso: undicesima parte LETTERA APERTA A UN GIORNALE DELLA SERA Un film di Francesco Maselli Regia di Francesco Maselli Franco Cristaldi per Vides Cinematografica-Italnoleggio Cin.Co 1970 (Italia) di Nicola Pice Dopo aver esplorato (con scarso successo commerciale) non senza asciutto acume e buona dose di ironia gli ambiti della commedia di costume con “Fai in fretta ad uccidermi... ho freddo” del 1967 e “Ruba al prossimo tuo” del 1969, Francesco “Citto” Maselli decide che è arrivato il momento di rivolgere lo sguardo all'ambiente dell'intellighenzia di sinistra – che è anche il suo mondo - per metterne in evidenza abitudini e manie, limiti e velletarismi. “Lettera aperta a un giornale della sera”, film in cui il regista recita ed è anche autore del soggetto e della sceneggiatura, da un punto di vista strettamente filologico, apparterrebbe, pertanto, al fertile filone della commedia all'italiana configurando il tentativo di realizzare in maniera più o meno esplicita un certo tipo di amarognola satira sociale e politica dall'impianto fintamente realistico e molto attento agli umori e agli accadimenti contemporanei. Stilisticamente, invece, Maselli – al fine della determinazione d'un effetto di ambiguo straniamento - adotta gli insegnamenti del frammentario cinèma-vèritè godardiano: gira interamente il film in 16mm utilizzando con grande frequenza la macchina a mano e lo zoom (in controtendenza alle proprie abitudini che prevedono ariose carrellate) e doppiando “fuori sincrono” i personaggi-interpretidi-sé-stessi. La lettera a cui fa riferimento il titolo è quella che un gruppo di intellettuali comunisti scrive a un giornale, dichiarandosi “disponibile” a combattere volontariamente in Vietnam, e che sarà pubblicata, diventando un piccolo caso internazionale, sull'Espresso anziché sul foglio di partito a cui era stata indirizzata nella certezza di non vederla uscire. Le adesioni (anche prestigiose come quella di Sartre) si moltiplicano rendendo più che possibile l'ipotesi d'una partenza che in realtà nessuno dei firmatari vorrebbe e si aspetterebbe. La descrizione quasi cronachistica del lento scorrere delle vuote giornate del gruppo nell’attesa per qualcosa che (non) sarà risulta, pertanto, impietosa. Maselli opta, infatti, per un'esemplare - sincera quanto algida - rappresentazione delle ipocrisie che costituiscono il sostrato alle esitazioni dei personaggi (esistenziali ancor prima che decisionali). Lunghe, autoreferenziali ed infruttuose discussioni avvolgono, come il fumo delle loro sigarette, i fatui e narcisi protagonisti, seduti su scomodi e bassi divani moderni o distesi su letti ancor più bassi con le loro donne che, pur passando con indifferenza dall'uno all'altro, sono molto critiche nei confronti dei compagni. Nei desiderata dell'autore l'inerzia del gruppo appare, quindi, evidente metafora dell'impotenza della sinistra (italiana?) incapace (al di là di sterili elaborazioni teoriche) di fornire con concretezza nella magmatica e cruciale fase storica post-sessantottina stili di vita progettualmente alternativi ai clichè della borghesia capitalistica. Il “dispiacere” con cui alla fine dell'opera accolgono la notizia che la partenza non ci sarà è paradossalmente sincero perchè inconscia consapevolezza della propria inettitudine. La fiacca rassegnazione con cui si allontanano senza parlare improvvisando una partita di calcio con un barattolo (situazione, nell’immaginario, tipicamente italiana) prefigura simbolicamente l'incerto futuro “conformista” d'una sinistra purtroppo non in grado di modificare il corso impetuoso della storia e che, al contrario, diventerà essa stessa “èlite” molto lontana dai bisogni di quelle masse che pretenderebbe di rappresentare. ML 85 musicletter.it update n. 71 frammenti di cinema rimosso: undicesima parte VITA PRIVATA DI SHERLOCK HOLMES Un film di Billy Wilder Regia di Billy Wilder Phalanx Mirisch | United Artists 1970 (Gran Bretagna – U.S.A.) di Nicola Pice Dopo aver segnato le origini del noir con “La fiamma del peccato” (1944) e aver svelato nel biennio 1950-1951 prima con il sublime e, al contempo, doloroso flashback de “Il viale del tramonto” l’anima oscura di Hollywood e, poi, i retroscena del mondo del giornalismo con “L’asso nella manica”, Billy Wilder aveva seguito le orme del suo maestro Lubitsch votandosi prevalentemente alla commedia leggera. Vedranno la luce in questo decennio (e in quello successivo) opere brillanti come “Sabrina”, “Quando la moglie è in vacanza”, “A qualcuno piace caldo” e, soprattutto, lo straordinario “L’appartamento”, film destinati a occupare un posto di assoluto rilievo nella storia del cinema. Quattro anni dopo il fortunato e divertente “Non per soldi…ma per denaro”, il regista d’origine austriaca intraprende una singolare, quanto coraggiosa, riscrittura dell’affascinante personaggio creato dalla penna di Conan Doyle: “La vita privata di Sherlock Holmes”. L’attrazione fatale per il detective – da cui scaturisce la decisione di rappresentarlo come mai prima d’ora – è determinata con ogni probabilità dai (casuali ma numerosi) punti di contatto tra le caratteristiche psicologiche di Holmes, lucidamente analitico ed in apparenza sempre composto ed equilibrato, e l’ars cinematografica di Wilder, costruita con l’ausilio - anch’esso equilibratissimo - di dialoghi rigorosi e di sceneggiature estremamente fluide. All’autore, però, non interessano le regole del mystery movie e la (possibile) congruità del suo gioco ad incastro. Di certo, da un punto di vista strettamente formale l’opera ci appare come un’elegante spystory (confezionata con scenografie e costumi sofisticati e resa ancor più accattivante dai raffinati movimenti di macchina e da un montaggio che riesce ad evidenziare i momenti narrativi più importanti) ma per Wilder assume maggior rilievo la rappresentazione delle debolezze (e, dunque, l’umanità) del personaggio. L’incontro di Holmes con la donna misteriosa (spia internazionale dai molti nomi) che gli commissionerà l’incarico di ritrovare il marito in una girandola di intrighi segna anche il personale “sunset boulevard” del detective, il momento in cui la corazza di razionalità indossata per difendersi dall’insensatezza del vivere si sgretolerà a contatto con l’astuzia istintuale – animalesca verrebbe da dire – della donna, simbolo genuino delle forze della natura. Siamo di fronte, dunque, a un profondo capovolgimento narrativo: nel palcoscenico della vita il vero sconfitto è quello che vince tacitando le pulsioni dell’es(sere) nella presunzione – novello demiurgo fallito – di comprendere, svelare e ragionare. L’Holmes di Wilder, infatti, ha perso il carisma di investigatore infallibile ed ha smarrito il senso stesso delle sue azioni, si mostra stanco e confuso suscitando nello spettatore tenerezza in luogo dell’ammirazione che spetterebbe all’eroe. La stessa compassione riservatagli dal fido sodale dottor Watson, che nel film non è più il testimone delle imprese del suo amico (pubblica su un giornale il resoconto dei casi risolti dal detective) ma un assistente spirituale pronto a confortarlo nel momento più basso della sua miseria morale fornendogli l’oblio della droga. “La vita privata di Sherlock Holmes” assume, dunque, il significato della decostruzione di un mito letterario con i segni, però, dello stile malinconicamente struggente del suo autore che lo rendono un’elegia crepuscolare sulla solitudine e sull’imperfezione umana, un apologo decadente sull’impossibilità di piegare l’esistenza ai propri voleri. ML 86 musicletter.it update n. 71 frammenti di cinema rimosso: undicesima parte ZABRIESKIE POINT Un film di Michelangelo Antonioni Regia di Michelangelo Antonioni Carlo Ponti per MGM 1970 (Italia) di Nicola Pice Con “Blow-up” Michelangelo Antonioni era entrato in un filone cinematografico radicalmente autoriflessivo al servizio della “messa a nudo” della reificazione della cultura di massa. Quattro anni più tardi “Zabriskie Point” rimescola violentemente le carte in tavola per disorientare critica e pubblico. Solo in apparenza dedicato alla contestazione studentesca (e, per questo motivo assimilato erroneamente al coevo “Fragole e Sangue” di Hagmann, apprezzabile ma diversissimo) racchiude una serie impressionante di provocazioni che rendono pressoché impossibile distinguere gli innegabili riflessi esistenziali del suo autore dagli elementi di analisi politica e di critica sociale. Sullo sfondo dei cambiamenti sociali sessantottini viene rappresentata una storia d’amore (e morte), l'incontro di due solitudini, di due anime quanto più lontane possibili si possa immaginare, la fuga da un mondo impossibile e l’avventura verso un mondo improbabile alla ricerca di una felicità probabilmente impossibile. È solo un caso che il teatro di questi avvenimenti sia l’America (la California, il deserto del Mojave, il campus universitario di Los Angeles), la frontiera di un (possibile) nuovo mondo (migliore?!) già contaminato dai vizi di quello che abbiamo conosciuto? Oppure che la messa in scena si svolga sugli scontri universitari (filmati con freddezza quasi documentaristica), che prosegua con l’odissea nel deserto e abbia termine con la morte di Mark e l’allucinazione (!?) della sua ragazza Daria… Non sarà (più probabilmente) lo strumento di cui Antonioni si serva per precostituire un inquietante e lontano ambiente “alieno” in cui avvolgere due esseri umani confusi e smarriti nel deserto della contemporaneità? L’autore non vuole chiarire (semmai spargere incertezze), porre – forse – le fondamenta di un’opera aperta, di una maniera differente di rappresentare la realtà in cui fluidamente gli oggetti e, dunque, gli stessi esseri umani acquistano nuovi significati in un rinnovato ordine di senso. Agli spettatori attoniti, al contempo affascinati e infastiditi, rimangono, alla fine, i segni di un anomalo straniamento, di un film “comunque” delirante, rivoluzionario, debordante, speranzosamente utopico ma drammaticamente cinico, angoscioso ma liberatorio, hippy seppur anarchicamente iconoclasta. Resta la forza assoluta di immagini tra le più devastanti della storia del cinema: lo scontro fra i contestatori e la polizia a Los Angeles, l'incontro fatale nel deserto del Mojave fra Mark e Daria, l’idilliaca, estatica ed estetizzante scena d'amore a Zabriskie Point al suono della chitarra di Jerry Garcia, l’apocalittica esplosione finale (girata con 17 macchine da presa su musica dei Pink Floyd con isteriche urla in pura cacofonia di Roger Waters) sul cui significato sono stati versati fiumi d’inchiostro (allegorica cacciata dal Paradiso terrestre o autodistruzione della società consumistica?). Nella perfezione del connubio tra immagini e musica (il lascito stilistico maggiore di quest’opera) ci viene affidata una parabola sulla libertà che deve esser vissuta come fosse un’esperienza psichedelica. Disse Alberto Moravia: “… è esplosa l’arte di Antonioni”. 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