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LUIGI MUSSO LUGLIO 1958 Era bello come un divo del cinema, Luigi Musso, classe 1924: come Castellotti, come Bandini. Musso aveva gli occhi chiari, il viso aperto e cordiale, un sorriso da conquistatore. E a trentaquattro anni, quando si uccise su un rettilineo del circuito di Reims, in Francia, durante una gara del Campionato di Formula 1, di mondo ne aveva già conquistato quel tanto che basta per assaporare il gusto del trionfo, e per sentirsi spinto ad osare di più, sempre di più. Visto che, purtroppo, dopo la morte di Alberto Ascari (1955), quella di Castellotti (1957), e il ritiro dalle corse di Taruffi, Farina, Villoresi e Perdisa, era lui “la più grande speranza italiana” del volante, come l’aveva definito un giornale. Ma forse fu proprio l’orgoglio di essere rimasto l’ultimo fuoriclasse italiano a tradirlo. Come si reagisce quando sull’ultimogenito si appuntano tutte le aspettative, magari amaramente, dolorosamente frustrate, di una famiglia che ha perso i suoi primogeniti e guarda con ansia ai risultati dell’ultimo nato? Si rischia di reagire cercando di superare se stessi, i propri limiti, pur di non deludere, di essere all’altezza…E la classe, lo stile superiore, la lucidità, le caratteristiche insomma di chi ha la stoffa del campione, diventano altrettante zavorre, perché suscitano aspettative sempre più grandi, sempre più sfibranti ed impegnative. Musso era un pilota alla Achille Varzi, ossia uno di quelli che “disegnano la curva”, quasi la sua corsa seguisse un suo ritmo interiore: tracciava sulla pista un segno fermo e sicuro, una linea non interrotta da sbandamenti, da sussulti, o da scatti rabbiosi. Era uno stile pulito, lucido, senza tentennamenti, più da circuito veloce che non da tracciati lenti e tortuosi. La sua vittoria più grande l’aveva colta infatti proprio l’anno prima al circuito di Reims, che allora era ritenuto unanimamente uno dei tre che, per le loro caratteristiche di tracciato, hanno il pregio di rivelare i veri campioni. Gli altri due erano, all’epoca, quello di SpaFrancorchamps in Belgio e quello di Monza in Italia. Su questi circuiti la media complessiva, per macchine con a disposizione circa 290 CV, è di 200 chilometri all’ora. Per superare, o per lo meno mantenere questa media, è necessario abbordare in presa diretta, e pressoché a tutto acceleratore, tre curve: il curvone in fondo al rettilineo delle tribune di Monza, la curva di Stavelot a Spa e le virage du Calvaire a Reims. Quell’anno, a Reims, tre uomini, oltre a lui, scesero in pista con la convinzione ciascuno d’essi di essere il migliore e di, non soltanto poter, ma “dover” vincere: Fangio su Maserati, Moss su Vanwall e Hawthorn, anch’egli su Ferrari come Musso. Nelle prove le Ferrari si erano rivelate nettamente superiori alle altre macchine concorrenti. Hawthorn aveva strabiliato girando ad oltre 210 km di media, in 2’21”7, e Musso in 2’22”4. Al terzo posto figurava Schell su B.R.M., poi Collins su Ferrari, Brooks su Vanwall, poi Moss su Vanwall a pari tempo con Trintignant su B.R.M. Fangio su Maserati era ottavo, seguito da Behra (B.R.M.) e Von Trips (Ferrari). Dunque tre Ferrari ai primi quattro posti nella griglia di partenza. E la stessa schiacciante superiorità si vide subito, fin dalle prime battute della gara. Alla partenza, fulmineo avvio di Hawthorn e inizio invece poco felice per Musso, che dopo cento metri era scivolato in quinta posizione.Ma alla fine del primo giro aveva già recuperato il secondo posto dietro l’inglese suo compagno di squadra, a tre secondi, cioè a circa 250 metri. Nei giri seguenti il distacco diminuì, ma troppo lentamente per placare l’ansia di Musso. Al sesto giro era a un centinaio di metri. Un’ansia di vincere che nessuno gli aveva visto addosso prima, che contraddiceva la sua indole razionale, pacata, capace di attendere l’evolversi delle circostanze, anche imponendosi di attendere il momento propizio per venir fuori. Quel giorno in lui tutto urgeva: correre, superare, vincere. Al nono giro, le due Ferrari arrivarono lanciate alla curva di Thillois e raggiunsero due macchine ritardatarie. Mentre Hawthorn riuscì a “saltare” le due vetture sulla frenata, doppiandole prima della curva, Musso se ne trovò invece involontariamente ostacolato. Riuscì a passarli soltanto dopo la curva, ma intanto aveva perso una cinquantina di metri sull’inglese, e con questo ulteriore distacco affrontò il rettilineo finale. Al termine del quale sapeva che si sarebbe trovato di fronte alla curva del “Calvaire”. Qualche giorno prima della corsa fatale, un giornalista ed amico fraterno, Antonio Ghirelli, gli aveva chiesto se aveva paura quando correva. “Egli naturalmente – ci racconta in un articolo comparso su un quotidiano pochi giorni dopo la tragica scomparsa – mi confessò di averne molta, anche prima di correre. Era troppo romano per assumere un atteggiamento convenzionale, da eroe intrepido o da finto timido. Egli mi si aperse, così, senza mezzi termini: mi disse che correva perché era il suo mestiere, che aveva bisogno di guadagnare molto, che gli pareva giusto farlo attraverso un rischio calcolato. Bisogno, bisogno… sentivo che qualcosa di più enigmatico fermentava in Luigi, lo trascinava sulla pista”. L’amico Ghirelli se lo spiega con “il non sapere come riempire diversamente un’esistenza così priva di punti fermi, di sicuri riferimenti, di solidi principi. E’ spirito di avventura…è il Robert Jordan di Hemingway, che va a morire per i repubblicani di Spagna, senza gioia e senza speranza, con la cupa certezza anzi di compiere un gesto tanto coraggioso quanto inutile”. E’ un tentativo di capire che forse non rende giustizia a quell’allegria spavalda che tanti ricordano di Musso, a quell’alone di sicurezza che da lui emanava, a quella sensazione di gioiosa temerarietà che lo spingeva a confrontarsi con se stesso, nell’ansia di far bene “il proprio mestiere”. Quel giorno Musso voleva essere primo, e basta. Sia lui sia Hawthorn, durante le prove, avevano abbordato ripetutamente abbordato “le virage du Calvaire” senza staccare il piede dall’acceleratore. Ma ora, in corsa, le condizioni del fondo erano cambiate: aveva appena avuto luogo una corsa per monoposto di Formula 2, oltre che una dodici ore per vetture da Gran Turismo, e l’aderenza era necessariamente diminuita. Ne conseguiva che per tenere l’auto in strada sia l’uno che l’altro pilota avrebbero dovuto alleggerire il piede. Luigi Musso non lo fece. Scrisse Ferrari, nel suo “Piloti che gente”: “Su quell’incidente con Mike Hawthorn pochissimo si è scritto e abbastanza si è detto, ma i più non conosceranno mai la verità o le verità. Resta un fatto: quando l’ansia della vittoria pervade un pilota generoso, è facile ch’egli affronti rischi non calcolabili, soprattutto quando l’antagonista diretto è animato dalla stessa ostinata volontà di successo. E non sempre questi conflitti agonistici avvengono soltanto fra corridori di case o scuderie diverse. Io ho ripensato a quell’incidente della curva di Muizon. Vi è in esso una fatalità sconcertante…In quella curva velocissima, che segue il rettilineo delle tribune, si trovarono due uomini, compagni di scuderia, al volante di due macchine ugualmente potenti, con una identica ansiosa volontà di vincere. Non credo esistesse vera rivalità personale fra Musso e Hawthorn…Ma in quella curva probabilmente lottarono, fino all’estremo. Hawthorn era un uomo già stanco di correre, dopo nove anni di passione e di rischi. Mi aveva lasciato capire che mirava, con tutte le sue forze, alla conquista del titolo mondiale: dopo, finalmente, si sarebbe ritirato. Quell’anno si trovava in una buona posizione di classifica, dietro Stirling Moss: egli sapeva che se avesse vinto su quel circuito di Rems, il sogno iridato avrebbe potuto realizzarsi. Musso, a Reims, aveva vinto l’anno prima. Il circuito si adattava alle sue doti di stilista e gli dava perciò fiducia. Anche Musso inseguiva il titolo di campione, anche Musso avrebbe forse potuto farlo suo. E per lui, in quel momento, contavano anche altre cose. Alla vigilia della corsa aveva ricevuto un incitamento: “è necessario vincere”, gli dicevano quelle poche parole incollate sulla strisciolina bianca di carta. Il primo premio di Reims era dieci volte più sostanzioso di qualsiasi altro. Musso aveva poi un suo fondato segreto, ch’egli era convinto lo avesse fatto vincere l’anno precedente. Fangio gli aveva detto, infatti, che tenendo il piede schiacciato al curvone di Muizon, dove tutti schiacciavano, si poteva guadagnare mezzo secondo. E Musso, l’anno prima, aveva tenuto schiacciato. L’ anno successivo le Ferrari erano più potenti e Musso si era accorto nelle prove che il rischio era grosso. Così arrivarono insieme alla curva, Hawthorn davanti, Musso ad una ventina di metri. Io sono convinto che la foga della gara gli fece tenere il piede giù a fondo. E’ difficile sapere con esattezza cosa accadde. I pochi testimoni, ufficiali di gara, fecero un racconto in cui lo spavento provato prevalse sulla fedeltà della cronaca. E con Musso finì il bello stile italiano”. “Correre è il mio mestiere…Vi prego, quando scriverete la mia biografia, non invocate l’abolizione delle corse”. Invece fu proprio quello che accadde. Persino “L’Osservatore Romano” scese in campo condannando gli eccessi delle gare automobilistiche, parlando di “suicidio preterintenzionale”, dell’”inopportunità di esasperare la tecnica della velocità dei motori di mezzi rotabili”, facendone una questione “non solo di umanità ma di ragionevolezza e moralità”. Vincenzo Florio, fondatore dell’omonima, famosissima gara, parlò di “fatalità, ogni giorno più favorita da tipi di corse inutili e disumane. Non si può chiedere ad un corridore di superare il limite delle possibilità umane”. Nino Farina, pilota campione del mondo, addirittura accusò l’establishment sportivo di aver trascurato le più elementari norme di prudenza, facendo gareggiare un pilota con soli sette giorni di intervallo in due gare estremamente impegnative come la 500 Miglia di Monza e il Gran Premio di Reims. Le solite frasi, il solito cordoglio, le stesse parole che abbiamo letto e sentito nei quanrant’anni successivi, e che, con toni diversi, sono state spese anche per Villeneuve, per Senna, per tanti altri. Sempre l’amico Ghirelli scrisse: “In questo nostro mondo di oggi è il destino di tutti correre verso una meta ignota; e se qualcosa possiamo invocare è che tutti si riesca a farlo col coraggio, con la dolcezza, con il sorriso dell’asso di Reims”. Luigi Musso nasce a Roma il 27 luglio 1924 e muore a Reims, durante il Grand Prix, il 6 luglio 1958. Aveva iniziato la sua carriera di pilota nel 1950 su vetture sport 750 cmc, ottenendo nel primo triennio qualche buon piazzamento. Il 1953 è l’anno dei primi risultati: vince il Giro dell’Umbria, il Circuito di Avellino e la corsa in salita Vermicino Rocca di Papa. L’anno successivo affronta il mondo della Formula 1, e vince subito, al Gran Premio di Napoli e al Gran Premio di Pescara, con una Maserati; inoltre arriva secondo al Gran Premio di Spagna. Ma le sue doti di pilota completo lo portano ad affrontare la Targa Florio, su Maserati (secondo posto assoluto) e sempre su Maserati la Mille Miglia (terzo posto assoluto). Entrato stabilmente a far parte della squadra Maserati, continua a correre nel 1955 senza risultati eclatanti: molti secondi posti o buoni piazzamenti, ma manca la vittoria trionfale. Nel 1956 cambia squadra ed entra alla Ferrari: ottiene la prima grande affermazione internazionale nel Gran Premio d’Argentina in coppia con Fangio, mentre con Schell si classifica secondo alla 12 Ore di Sebring. L’anno della sua definitiva consacrazione tra i grandi è però il 1957. Arriva primo al Gran Premio di Reims, che gli sarà fatale l’anno successivo, si piazza secondo sui circuiti di Francia, Gran Bretagna e Modena, vince la 1000 km di Buenos Aires insieme a Castellotti e a Gregory, al termine della stagione diventa Campione d’Italia. E’ il 1958: Musso si piazza secondo al Gran Premio di Argentina e al Gran Premio Città di Buenos Aires; ancora secondo con Gendebien alla 12 Ore di Sebring, primo al G.P. di Siracusa e alla Targa Florio. Arriva secondo al G.P. di Monaco. E giunge il momento dell’ultima gara, a Reims, il 6 luglio. Donatella Biffignandi Centro di Documentazione del Museo Nazionale dell’Automobile di Torino