In Egitto un`altra vittima della mutilazione genitale femminile

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In Egitto un`altra vittima della mutilazione genitale femminile
DIRITTI UMANI NEL MONDO
In Egitto un'altra vittima della mutilazione genitale femminile
Una bambina è pura di per sé e non sarà certo il suo corpo ferito e mutilato a renderla una figlia, una moglie o una madre
migliore
Di Valentina Colombo
ROMA, 10 Giugno 2013 (Zenit.org) - Domenica 9 giugno il quotidiano egiziano Egypt Independent ha dato la notizia
dell’ennesima morte a causa della mutilazione genitale femminile. Una bambina di tredici anni ha perso la vita a
Daqahliya, sul delta del Nilo. È morta in una clinica, non in un ambulatorio di un villaggio, non in un’abitazione privata per
mano di un’ostetrica improvvisata.
E pensare che il 20 dicembre 2012, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato una Risoluzione per un bando
universale delle mutilazioni genitali femminili. Ciononostante ci troviamo dinnanzi a un’altra vittima innocente.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, circa 140 milioni di bambine nel mondo hanno subito questa barbara
pratica, e ogni anno almeno tre milioni rischiano di rimanerne vittime. A seconda dei Paesi dove viene eseguita, va dal
taglio della punta del clitoride all’asportazione dell’intero clitoride e delle grandi labbra.
Viene eseguita alle neonate o alle bambine prima dell’adolescenza. Nei ventotto Paesi che la praticano in Africa, in Medio
Oriente e in Asia, chi la difende sostiene che si tratta di una “tradizione” che “protegge” le donne dai rapporti
prematrimoniali e dalla promiscuità sessuale.
La fotografia della bambina egiziana riportata sul giornale ci conduce a un’altra riflessione. Il suo viso sorridente è avvolto
da un velo. Questo significa che la famiglia della piccola è con molta probabilità musulmana praticante. Sorge quindi il
dubbio che la mutilazione genitale sia stata concepita come parte integrante del suo essere o diventare una “buona”
musulmana. A questo punto è lecito domandarsi se l’islam impone davvero questa atroce pratica.
È risaputo che la mutilazione genitale femminile è un’usanza che ha origini preislamiche. Il Corano però non ne fa cenno
alcuno. Ed è forse per questa ragione che tra i religiosi islamici le opinioni sono discordi.
Il dibattito ruota intorno a un detto di Maometto in cui si narra quanto segue: “Una donna era solita praticare la mutilazione
genitale a Medina. Il Profeta le disse: ‘Non tagliare in modo drastico poiché così è meglio per una donna e per un marito’.”
Il detto viene comunque definito come poco attendibile.
Per quanto riguarda la situazione egiziana, nel 1996 il Ministro della Sanità Ismail Sallam emetteva un decreto che
proibiva ogni forma di mutilazione genitale, prevedendo la pena detentiva per chiunque la praticasse e la radiazione
dall’albo dei medici, se ad effettuarla fosse stato un medico. Il decreto purtroppo non venne mai convertito in legge.
Nel 1997 il Tribunale amministrativo del Cairo reintrodusse ufficialmente la pratica in seguito al ricorso dello shaykh alBadri e del ginecologo Mounir Fawzi, in base al quale il divieto andava risolto per via legislativa e non tramite un decreto
ministeriale. Lo shaykh chiese di eliminare dai testi scolastici qualsiasi riferimento agli aspetti negativi delle mutilazioni,
dichiarando che tale pratica era parte dell’islam e non poteva quindi essere eliminata solo perché l’occidente la
considerava barbarica.
Sempre nel 1997 l’allora Gran Mufti d’Egitto e poi Rettore di al-Azhar, Muhammad Sayyid Tantawi, emise una fatwa in
cui, al contrario, dichiarava che non si poteva trarre dal Corano né dagli insegnamenti del Profeta alcuna indicazione al
riguardo e che i racconti di riferimento non erano autentici.
Tantawi dichiarò altresì di non avere mai sottoposto la figlia a queste mutilazioni. Nel marzo 2005, Ahmed Talib, preside
della facoltà di Diritto islamico dell’Università di al-Azhar ha dichiarato che “tutte le pratiche di circoncisione e mutilazione
femminile sono dei reati e non hanno alcun rapporto con l’islam. Sia che si tratti di asportazione della pelle o del taglio
della carne dai genitali femminili, non è un obbligo previsto dall’islam”.
Dello stesso parere è Mahmud Ashur, docente di al-Azhar, secondo il quale “la circoncisione femminile non appartiene
all’islam. Si tratta piuttosto di una tradizione. In nessun caso dovremmo seguire siffatto costume, perché lascia una
profonda ferita negli animi di queste ragazze, con un impatto psicologico, emotivo e sociale sulle loro vite. La
circoncisione femminile provoca molti danni. Quindi è assolutamente vietato praticarla”.
Purtroppo altri docenti della stessa istituzione hanno sostenuto, al pari dello shaykh al-Badri, che si tratta di una pratica
islamica. Ad esempio, Muhammad al-Musayyar, anch’egli docente presso l’università islamica, ha affermato che “tutti i
giuresperiti, dall’avvento dell’islam per più di quattordici secoli, concordano sul fatto che la circoncisione femminile è
consentita dall’islam. In tutta la storia dell’islam, nessuno ha mai sostenuto che praticare la circoncisione femminile sia un
reato”.
È evidente che siffatta confusione dottrinale non sia aiutata dalla mancanza di autorità centrale in seno all’islam, motivo
che fa sì che i musulmani possano seguire l’interpretazione a loro più congeniale e che risponda maggiormente alla loro
tradizione culturale. Come se ciò non bastasse, dopo la cosiddetta primavera araba la situazione è diventata ancora più
preoccupante.
L’ascesa dei movimenti legati all’integralismo islamico ha portato alla diffusione dell’interpretazione che descrive come
islamica la mutilazione genitale femminile anche in zone dove la pratica non è mai stata parte della tradizione locale. Basti
pensare alla reazione delle organizzazioni per la difesa dei diritti dell’uomo in Tunisia quando nel febbraio 2012 il
predicatore islamico Wagdy Ghoneim, grande sostenitore della mutilazione genitale femminile, si recò nel paese.
Concludendo, poco importa comunque stabilire se si tratti di una tradizione secolare o di un’interpretazione errata della
religione. Non è concepibile che negli anni Duemila una bambina di undici anni possa morire per questo.
L’Onu deve assolutamente fare in modo che la propria risoluzione venga applicata e rispettata, favorendo innanzitutto la
diffusione di una cultura che porti al rispetto dell’infanzia. Perché una bambina è pura di per sé e non sarà certo il suo
corpo ferito e mutilato a renderla una figlia, una moglie o una madre migliore.