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Truffa e peculato: il confine del possesso
Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 31 marzo 2015, n. 13800, Pres. Citterio, Rel.
Paternò Raddusa
E’ configurabile il peculato quando il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio pone in
essere la condotta fraudolenta al solo fine di occultare l'illecito commesso, avendo egli già il
possesso o comunque la disponibilità del bene oggetto di appropriazione, per ragione del suo
ufficio o servizio; se, invece, la medesima condotta fraudolenta è finalizzata all'impossessamento
del denaro o di altra utilità, di cui egli non ha la libera disponibilità, risulta integrato il delitto di
truffa, aggravato ai sensi dell'art. 61 n. 9 cod. pen. Nel delitto di peculato il possesso e la
disponibilità del denaro per determinati fini istituzionali è un antecedente della condotta
incriminata; per contro, nella truffa l'impossessamento della cosa è l'effetto della condotta illecita.
Ed è al rapporto tra possesso, da una parte, ed artifizi e raggiri, dall'altra, che deve aversi
riguardo, nel senso che, qualora questi ultimi siano finalizzati a mascherare l'illecita
appropriazione da parte dell'agente del denaro o della res di cui già aveva legittimamente la
disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio, ricorrerà lo schema del peculato; qualora,
invece, la condotta fraudolenta sia posta in essere proprio per conseguire il possesso del denaro o
della cosa mobile altrui, sarà integrato il paradigma della truffa aggravata. A differenziare le due
figure criminose, conclusivamente, non rileva tanto la precedenza cronologica o la contestualità
della frode rispetto alla condotta appropriativa, bensì il modo col quale il funzionario infedele
acquista il possesso del denaro o del bene costituente l'oggetto materiale del reato: il momento
consumativo della truffa coincide con il conseguimento del possesso a cagione dell'inganno e quale
diretta conseguenza di esso, il che significa appropriazione immediata e definitiva del denaro o
della res a vantaggio personale dell'agente; il peculato presuppone il legittimo possesso
(disponibilità materiale o giuridica), per ragione dell'ufficio o del servizio, del denaro o della res,
che l'agente successivamente fa propri, condotta quest'ultima che, anche se eventualmente
caratterizzata da aspetti di fraudolenza, non esclude la configurabilità del delitto di cui all'art.
314 c.p., fatte salve le ulteriori ipotesi di reato eventualmente concorrenti.
Ritenuto in fatto
1. R.G. , tramite il fiduciario, impugna per cassazione la sentenza della Corte di Appello di Milano
con la quale è stata data conferma alla sentenza del Tribunale di Milano di condanna del
ricorrente alla pena di giustizia, alla confisca ex art. 322 ter cod.pen. ed al risarcimento del
danno in favore della parte civile Eredità Giacente P. . Tanto per più ipotesi di peculato unificate
dal vincolo della continuazione commesse a far data dal marzo del 2009.
2. In particolare il ricorrente, nella sua qualità di curatore di due diverse eredità giacenti, una
volta ricevuti due autonomi mandati di pagamento, regolarmente emessi su autorizzazione del
giudice delegato alle due procedure perché inerenti somme dovute al ricorrente per compensi
e altri incombenti, ha provveduto ad incassare, presso la banca sulla quale risultavano accesi i
conti correnti intestati alle procedure stesse, più volte l'importo recato dai citati mandati, in più
occasioni presentati all'incasso, così appropriandosi di una somma complessivamente di poco
inferiore
ai
54.000
Euro.
3. Con il ricorso, ferma la ricostruzione della vicenda in fatto siccome cristallizzata nelle due
sentenze di merito, si contesta la qualificazione del fatto, ricondotto all'ipotesi del peculato
quando, per contro, si trattava di truffa resa in danno della banca, effettiva proprietaria dei
fondi accesi sul conto intestato alle procedure e tratta in inganno dalla plurima indebita
presentazione dei due mandati, con conseguente improcedibilità dell'azione per la mancanza
della querela, o comunque di truffa posta in danno delle due procedure, con conseguenti effetti
in
punto
di
rideterminazione
della
pena;
la determinazione della pena, ampiamente superiore al minimo edittale, sproporzionata
considerando la occasionalità del fatto e la assenza di pericolosità del convenuto il mancato
riconoscimento delle generiche, giustificate dalla resipiscenza dell'imputato, dall'intenzione di
risarcire il danno, dalla incensuratezza del ricorrente, tutti dati pretermessi nella valutazione
della
Corte;
il denegato riconoscimento dell'attenuante di cui al nr 6 dell'art. 62 cod.pen., considerata la
offerta formale di cessione dei beni rivolta ai creditori, pretestuosamente rifiutata dalle due
originarie parti civili e ingiustificatamente denegata dalla Corte sul presupposto della tardività
e della incapienza della offerta stessa.
Considerato in diritto
1. È fondato il motivo di ricorso inerente la qualificazione giuridica ascritta dai Giudici del
merito ai fatti in giudizio, aderendo la Corte alla diversa prospettazione offerta dalla difesa per
la quale, nella specie, le condotte ascritte al ricorrente vanno riportate all'egida della truffa,
aggravata dalla qualifica soggettiva del R. , e non del ritenuto peculato.
2. Sia la difesa come, del resto, la stessa sentenza impugnata muovono da una considerazione
condivisa quanto ai tratti differenzianti l'ipotesi del peculato da quella della truffa laddove,
come nel caso, l'appropriazione del denaro (le disponibilità liquide presenti sui conti correnti
accesi in favore della due procedure di eredità giacente) resa dal pubblico ufficiale (il curatore
delle due eredità) finisca per intersecarsi, sul piano della condotta materiale riscontrata, con i
tratti costitutivi tipici della truffa (l'esecuzione di artifizi o raggiri funzionalizzati
all'acquisizione del profitto illecito, qui la ripetuta utilizzazione del medesimo mandato di
pagamento).
2.1. In linea con il costante orientamento espresso in materia da questa Corte, le valutazioni,
contrastanti nel risultato, inerenti la corretta qualificazione delle condotte in processo, si
ancorano alla considerazione, che questo Collegio condivide, in forza alla quale è configurabile
il peculato quando il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio pone in essere la
condotta fraudolenta al solo fine di occultare l'illecito commesso, avendo egli già il possesso o
comunque la disponibilità del bene oggetto di appropriazione, per ragione del suo ufficio o
servizio; se, invece, la medesima condotta fraudolenta è finalizzata all'impossessamento del
denaro o di altra utilità, di cui egli non ha la libera disponibilità, risulta integrato il delitto di
truffa, aggravato ai sensi dell'art. 61 n. 9 cod. pen. ( in termini da ultimo Sez. 6, n. 15795 del
06/02/2014 Campanile, Rv. 260154; cfr. ancora gli ulteriori arresti conformi: N. 32863 del
2011 Rv. 250901, N. 5494 del 2013 Rv. 259070, N. 39010 del 2013 Rv. 256595, N. 41093 del
2013 Rv. 256681, N. 41599 del 2013 Rv. 256867, N. 5087 del 2014 Rv. 258051). Nel delitto di
peculato il possesso e la disponibilità del denaro per determinati fini istituzionali è un
antecedente della condotta incriminata; per contro, nella truffa l'impossessamento della cosa è
l'effetto della condotta illecita. Ed è al rapporto tra possesso, da una parte, ed artifizi e raggiri,
dall'altra, che deve aversi riguardo, nel senso che, qualora questi ultimi siano finalizzati a
mascherare l'illecita appropriazione da parte dell'agente del denaro o della res di cui già aveva
legittimamente la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio, ricorrerà lo schema del
peculato; qualora, invece, la condotta fraudolenta sia posta in essere proprio per conseguire il
possesso del denaro o della cosa mobile altrui, sarà integrato il paradigma della truffa
aggravata. A differenziare le due figure criminose, conclusivamente, non rileva tanto la
precedenza cronologica o la contestualità della frode rispetto alla condotta appropriativa, bensì
il modo col quale il funzionario infedele acquista il possesso del denaro o del bene costituente
l'oggetto materiale del reato: il momento consumativo della truffa coincide con il
conseguimento del possesso a cagione dell'inganno e quale diretta conseguenza di esso, il che
significa appropriazione immediata e definitiva del denaro o della res a vantaggio personale
dell'agente; il peculato presuppone il legittimo possesso (disponibilità materiale o giuridica),
per ragione dell'ufficio o del servizio, del denaro o della res, che l'agente successivamente fa
propri, condotta quest'ultima che, anche se eventualmente caratterizzata da aspetti di
fraudolenza, non esclude la configurabilità del delitto di cui all'art. 314 c.p., fatte salve le
ulteriori ipotesi di reato eventualmente concorrenti (in termini, pedissequamente riportati,
avuto riguardo all'ipotesi, analoga nei tratti, dell'appropriazione posta in essere dal curatore
fallimentare, cfr Sez. 6, n. 5447 del 04/11/2009 - dep. 11/02/2010, Donti e altri, Rv. 246070).
2.2. Si è detto che i giudici del merito e la difesa muovono da tale, comune, assunto di principio.
La dove la valutazione offerta dalla difesa finisce per disallinearsi rispetto alle considerazioni
esposte sul tema, da ultimo, dalla Corte distrettuale è in punto alla affermata disponibilità, in
capo all'odierno ricorrente, delle somme in questione; disponibilità che la corte distrettuale
definisce "civilistica e giuridica" e che viene ascritta al R. sul presupposto in forza al quale lo
stesso poteva operare sui conti accesi in favore delle due procedure pur dovendo ottenere al
fine la preventiva autorizzazione in tal senso resa dal Giudice all'uopo delegato.
2.3. Questo ultimo riferimento in fatto, pacifico nella ricostruzione della vicenda in processo,
inficia radicalmente la valutazione resa sul punto nella sentenza impugnata perché da luogo ad
una contraddizione logica insanabile ed a conclusioni giuridiche distoniche rispetto alla linea
interpretativa, tracciata da questa Corte, cui i giudici di merito hanno inteso, solo teoricamente,
aderire.
2.3.1. La circostanza che sul conto poteva operare il Curatore quale interfaccia esclusivo della
procedura con la banca presso la quale si trovava allocata - con la forma negoziale del deposito
o del conto corrente bancario (la distinzione non fa gioco per quel che qui interessa) - la
liquidità di pertinenza dell'eredità giacente è un dato ininfluente rispetto alla disponibilità,
materiale e giuridica, delle somme stesse. Una volta che si dia per scontato il fatto in forza al
quale, per accedere alle disponibilità del conto, altrimenti vincolato, occorreva attenersi alla
sequela procedurale che vedeva il suo presupposto indefettibile nel mandato ad operare sul
rapporto bancario, elaborato, in esito alla autorizzazione alla spesa resa dal Giudice, dalla
Cancelleria di volta in volta e per causali determinate, è poi di tutta evidenza che non vi era
alcuna disponibilità, sia essa materiale o giuridica, dei fondi della procedura, non potendo il
Curatore maneggiare il denaro legato alle due eredità giacenti senza il preventivo svincolo
disposto
dall'autorità
giudiziaria.
In questo quadro di riferimento, il raggiro rappresentato dall'uso, ripetuto, del medesimo
mandato di pagamento per appropriarsi, più volte, indebitamente, dello stesso importo portato
dal titolo, ha costituito, dunque, per il Curatore, la chiave di accesso alla disponibilità immediata
dei fondi delle due procedure, altrimenti preclusagli dal vincolo di operatività apposto ai due
conti
correnti
di
riferimento.
Ne viene, alla luce di quanto sopra evidenziato, che l'imputato si è reso responsabile, in
relazione ai corrispondenti episodi, di truffa aggravata ai sensi dell'art. 61 c.p., nn 9 e non di
peculato, non essendo stato riscontrato il preventivo possesso legittimo (o disponibilità) delle
somme di denaro, il cui impossessamento truffaldino, invece, ha coinciso con l'appropriazione
per profitto personale. E in tali termini, in linea con le sollecitazioni in tal senso rese dalla difesa
sin dall'appello, vanno riqualificate le condotte in giudizio, avvinte dalla continuazione,
imponendosi, per l'effetto, l'annullamento della sentenza con rinvio ad altra sezione della Corte
distrettuale competente perché, ferma la responsabilità definitivamente acclarata, si proceda
alla rideterminazione della pena in ragione della diversa configurazione giuridica ascritta ai
fatti.
3. La diversa qualificazione delle condotte porta con sé tutta una serie di corollari destinati ad
incidere sulla presente vicenda processuale nell'ulteriore corso della stessa siccome imposto
dall'annullamento
con
rinvio.
3.1. In primo luogo, la riqualificazione dei fatti in termini di truffa aggravata ai sensi del nr 9
dell'art. 61 cod.pen. depriva radicalmente di consistenza il tema della improcedibilità
dell'azione per mancanza di querela, sollevato in ricorso sul presupposto che la persona offesa
della truffa andrebbe individuata nella banca che svolgeva il compito di tesoriera in forza dei
conti correnti bancari e non nelle due procedure di eredità giacente; argomento, questo, che, a
prescindere da quanto si dirà da qui a poco sulla puntuale individuazione della persona offesa,
è travolto dalla procedibilità d'ufficio del reato così configurato giusta il comma III dell'art. 640
cod.pen..
3.2. Giova inoltre evidenziare che con la condanna, sul presupposto dei ritenuti peculati, venne
disposta anche la confisca ai sensi del comma I dell'art. 322 ter cod.pen..
In esito alla diversa configurazione delle condotte in processo, il giudice del rinvio, al momento
della rideterminazione della pena, sarà dunque anche tenuto a rivalutare l'attualità della
confisca alla luce del disposto di cui all'art. 640 quater cod.pen. che letteralmente non richiama,
ai fini della applicabilità dell'art. 322 ter per l'ipotesi della truffa, il comma III dell'art. 640
cod.pen..
3.3. La diversa qualificazione della condotta in termini di peculato è destinata a rifluire anche
in
punto
alle
statuizioni
civili.
3.3.1. Con la sentenza di primo grado il ricorrente è stato condannato anche al risarcimento del
danno in favore della costituita parte civile, Eredità Giacente P. (la pretesa dell'altra procedura,
pure costituita, non venne presa in considerazione per la implicita rinunzia desunta dal
mancato deposito delle conclusioni scritte). Tanto in coincidenza con gli importi indebitamente
prelevati dal conto di riferimento, maggiorati da interessi e rivalutazione.
3.3.2. Secondo l'impostazione sottesa al ricorso, la persona offesa dal reato non sarebbe la
curatela della eredità giacente bensì la banca chiamata al servizio di cassa in favore della stessa
in forza al rapporto di conto. Ciò in ragione del fatto che, acceso il conto, le disponibilità
riversate sullo stesso dal correntista entrano nella titolarità esclusiva della banca, chiamata solo
ad adempiere, in coincidenza con il quantum portato dalla provvista di riferimento,
all'obbligazione sottesa alla stipula del contratto bancario, quale mandataria laddove l'imput di
adempimento, nelle forme assentite dal relativo regolamento negoziale, sia rivolto dal
correntista in favore di un terzo estraneo al contratto di conto corrente.
Secondo questa ricostruzione, persona offesa dal reato ma anche danneggiata dall'illecito
sarebbe sempre, solo e comunque la banca rispetto alla quale, esclusivamente, finiscono per
riverberarsi
gli
effetti
nocivi
della
truffa.
3.3.3. L'assunto, corretto nei suoi presupposti di partenza, non è condivisibile nelle
conseguenze
in
diritto
che
se
ne
traggono.
Vero è che, acceso il rapporto di conto corrente e versate nello stesso le relative disponibilità
liquide, il correntista perde l'immediata titolarità delle stesse ed acquisisce, in ragione dei
rapporti di cassa e di mandato sottesi al conto corrente bancario, il diritto a che la banca, nei
limiti delle disponibilità presenti sul conto, proceda ai pagamenti nei confronti, oltre che dello
stesso correntista, anche di terzi secondo le forme previste dal contratto. Tanto, tuttavia, non
rende, come ritenuto dalla difesa, la banca persona offesa dalla truffa posta in essere dal terzo
con condotte immediatamente incidenti sui fondi corrispondenti alle disponibilità presenti sul
conto giacché una siffatta conclusione muove da una confusione di ruoli tra il titolare
dell'interesse protetto dalla norma violata, che, a fronte di una condotta siffatta, resta sempre e
comunque il correntista, portatore sostanziale della situazione finanziaria destinatala della
condotta illecita, con quello dell'eventuale danneggiato dal reato, id est del soggetto in ultima
battuta economicamente pregiudicato dal reato e, che, con riferimento alla fattispecie in
disamina, potrebbe anche essere la banca tesoriera in virtù del rapporto di conto.
La truffa che sia realizzata da un soggetto terzo al rapporto di conto corrente ma che abbia quale
oggetto mirato le disponibilità sottese al conto, è immediatamente rivolta alla posizione del
correntista e solo eventualmente può produrre effetti pregiudizievoli per la banca.
Quest'ultima, infatti, nel rapporto con il terzo interloquisce quale mero mandatario del
correntista; e si interfaccia con il terzo solo in ragione della presenza del conto e del mandato
ad esso correlato, giacché, diversamente, le due posizioni, quella del terzo e della banca, non
avrebbero modo di intersecarsi. L'interesse protetto resta dunque quello del correntista
mandante mentre la posizione del mandatario potrebbe assumere rilievo solo sul piano del
nocumento patrimoniale correlato alla condotta truffaldina quale corollario della diversa
imputazione del costo del reato in conseguenza di una non puntuale attuazione degli obblighi
di
esecuzione
del
mandato.
Ferma, dunque, la posizione di persona offesa dalla truffa, sempre riferibile al correntista, con
tutte le derivazioni che ne conseguono, prima tra tutte la legittimazione alla querela giusta l'art.
120 cod.pen., nulla esclude che, nelle dinamiche interne correlate alla gestione del rapporto di
conto, il nocumento patrimoniale conseguenziale alla riscontrata condotta illecita possa
ricadere esclusivamente sulla banca. Tanto accade in particolare quando, seppur tratta in
inganno dalla truffa, la banca abbia comunque dato esecuzione con negligenza al mandato
finendo per patire, in ultima battuta, il costo dell'altrui azione illecita, procedendo al pagamento
in favore del creditore apparente : in siffatti casi nulla esclude che la banca non abbia addebitato
al correntista il quantum della provvista intaccato dal pagamento effettuato indebitamente,
finendo per assumersi le conseguenze nocive dell'adempimento sfalsato dalla condotta
truffaldina
del
terzo.
3.4. Riportando il discorso all'interno dei binari propri della fattispecie in disamina, osserva la
Corte come, alla luce delle superiori considerazioni: in linea di principio, la diversa
configurazione delle condotte da peculato in truffa, non incide nella specie sulla individuazione
della persona offesa dal reato; potrebbe, piuttosto, influire sulla individuazione del titolare
effettivo della pretesa risarcitoria da far valere tramite la costituzione di parte civile, laddove
emergano elementi in fatto che possano portare a ritenere che il danno eziologicamente
correlato alla condotta di truffa non sia ricaduto nella sfera patrimoniale della persona offesa
bensì esclusivamente in quella della banca mandataria. E nel corso del giudizio di rinvio il
giudice del merito, con valutazione in fatto di sua esclusiva pertinenza, sarà chiamato a
rivisitare la pretesa risarcitoria articolata dalla parte civile costituita filtrando la relativa
richiesta di risarcimento del danno, quanto alla effettiva titolarità del nocumento patito,
attraverso
i
principi
in
diritto
sopra
enunziati.
4. Soluzione opposta meritano i temi afferenti la denegata applicazione delle attenuanti ex artt.
62 bis e 62 nr 6 cod.pen., sollevati con gli ultimi due motivi di ricorso.
4.1. La diversa qualificazione delle condotte impone, infatti, una rivisitazione delle valutazioni
rese nel denegare le generiche, dovendosi riconoscere al giudice del merito in sede di rinvio, a
fronte del diverso titolo di reato riscontrato, di procedere ad una nuova considerazione degli
elementi a sua disposizione da filtrare, oggi, attraverso il portato del diverso reato
definitivamente
ascritto
al
ricorrente.
La doglianza sulla mancata applicazione delle generiche resta, dunque, assorbita dalla diversa
configurazione delle condotte ed il relativo tema, in uno a quello afferente la rideterminazione
della
pena,
costituirà
oggetto
di
nuovo
esame
in
sede
di
rinvio.
4.2. Per contro, le questioni afferenti la corretta qualificazione della condotta ed alla coerente
individuazione del titolare sostanziale della pretesa risarcitoria correlata all'illecito riscontrato
sono indifferenti alle ragioni ostative all'applicazione, nella specie, della attenuante di cui
all'art.
62
nr
6
cod.pen..
Ciò non tanto e solo per la inadeguatezza formale dell'offerta rivota al soggetto ritenuto titolare
della pretesa risarcitoria (che, per quanto sostenuto da questa Corte, avrebbe dovuto rivestire
le forme imposte dall'art. 1209 cc: cfr Sez. 2, sentenza n. 36037 del 06/07/2011, Ruvolo, Rv.
251073); quanto, ancor più decisamente, per la inadeguatezza sostanziale della offerta stessa,
risultando subordinato il risultato della integrale soddisfazione del danno alla dismissione di
un cespite e dunque ad una mera eventualità, resa peraltro ancor più incerta, nel fine, dalla
presenza di un peso ipotecario acceso sul bene da vendere. Tanto impone la conferma della
sentenza impugnata in parte qua.
P.Q.M.
Riqualificati i fatti come truffa continuata aggravata dalla circostanza di cui all'art. 61 nr 9
cod.pen., annulla la sentenza impugnata limitatamente alla determinazione della pena, alla
confisca ed alle statuizioni civili e rinvia per nuovo giudizio su tali punti ad altra sezione della
Corte di appello di Milano. Rigetta il ricorso nel resto.