Le porte girevoli della Casa Bianca

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Le porte girevoli della Casa Bianca
Le porte girevoli della Casa Bianca
Giovedì 20 Gennaio 2011 00:00
di Michele Paris
Nel corso delle festività appena trascorse, Barack Obama ha provveduto a rimpiazzare alcuni
esponenti di spicco della sua amministrazione che hanno lasciato la Casa Bianca dopo i primi
due logoranti anni del mandato presidenziale. Come già si era intravisto nelle ultime settimane
del 2010, anche nell’assegnazione dei nuovi incarichi Obama ha confermato il pericoloso
spostamento a destra che prenderà la sua azione politica nei mesi a venire. Una svolta
annunciata che prefigura ulteriori benefici per i grandi interessi economico-finanziari americani,
mentre nuovi sacrifici attendono i ceti più disagiati, poco o per nulla sollevati dalle difficoltà di
una crisi tuttora in corso.
La posizione più importante da coprire era senza dubbio quella del capo di gabinetto (“chief of
staff”), resa vacante dall’addio dell’ex leader di maggioranza alla Camera, Rahm Emanuel,
dimessosi lo scorso ottobre per correre alla carica di sindaco di Chicago. In un intreccio tra i
prodotti della macchina politica democratica della metropoli dell’Illinois, Emanuel sarà sostituito
da William Daley, fratello del sindaco uscente della stessa Chicago dopo ben sei mandati. Negli
ultimi tre mesi, le mansioni di Emanuel erano state svolte da un capo di gabinetto ad interim,
Pete Rouse, uno dei più stretti collaboratori di Obama.
Milionario e uomo d’affari, Daley personifica alla perfezione la simbiosi esistente tra l’America
dei poteri forti e gli ambienti politici di Washington. Negli anni Novanta, come molti altri veterani
democratici riciclati da Obama, Daley ha lavorato per l’amministrazione Clinton con l’incarico di
consigliere speciale del presidente. In tale veste ha contribuito in maniera decisiva alle
negoziazioni e all’approvazione del famigerato trattato di libero scambio nordamericano
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(NAFTA) tra Stati Uniti, Canada e Messico, per essere poi promosso segretario al Commercio.
Con il cambio della guardia alla Casa Bianca a inizio secolo, “Bill” Daley ha seguito poi le orme
di una schiera di politici democratici e repubblicani che hanno sfruttato l’esperienza e i contatti
ad alto livello stabiliti nella capitale per intraprendere una ben più redditizia carriera nel settore
privato. Nel mondo degli affari, il neo “chief of staff” di Obama ha debuttato nel settore delle
telecomunicazioni per approdare poco più tardi ad una delle più grandi banche d’investimento
americane, JPMorgan. Per il colosso finanziario di Wall Street, fino al 2007 Daley ha gestito le
operazioni nel Midwest, prima di passare al cosiddetto Ufficio per la Responsabilità Sociale
d’Impresa, in realtà nient’altro che la sezione incaricata di gestire le attività di lobby a
Washington.
Proprio in questa veste, il prossimo braccio destro del presidente si è adoperato per ostacolare
la riforma finanziaria approvata lo scorso anno dal Congresso, opponendosi strenuamente
anche alla creazione di una commissione per la protezione degli investitori. Le sue connessioni
a Washington gli hanno permesso di mantenere rapporti continui non solo con i legislatori, ma
anche con quello che sarebbe diventato il suo predecessore, Rahm Emanuel, e con una delle
più influenti voci all’interno dell’amministrazione Obama, la consigliera Valerie Jarrett. Per i suoi
servizi a JPMorgan, nonostante la mancanza di cifre ufficiali, pare sia stato pagato tra i 3 e i 5
milioni di dollari l’anno, mentre ora dovrà accontentarsi dei 170 mila dollari previsti per la carica
di capo di gabinetto.
Il primo evidente conflitto d’interessi che riguarda l’imminente nuova pagina della carriera di
William Daley avrà dunque a che fare con il suo ruolo nella stesura delle regolamentazioni
definitive all’interno della riforma del sistema finanziario. La sua presenza nel consiglio di
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amministrazione di almeno altre due corporation con in gioco interessi miliardari a Washington Boeing e il gigante farmaceutico Abbott Laboratories - rendono poi ancora più discutibile la
scelta di Obama.
Difficile ad esempio pensare che l’opinione tutt’altro che disinteressata di Daley possa risultare
ininfluente sull’assegnazione di un colossale appalto di fornitura di aerocisterne all’aviazione
USA, per il quale sono in corsa Boeing e l’europea EADS. Oppure, sull’eventuale applicazione
di una tassa a carico dei produttori di equipaggiamenti medici prevista dalla riforma sanitaria e
che potrebbe costare ad Abbott Laboratories qualcosa come venti miliardi di dollari nel
prossimo decennio.
La nomina di William Daley è stata accolta ovviamente con grande piacere dalle associazioni
imprenditoriali statunitensi. L’ennesimo segnale di sottomissione al business a stelle e strisce
lanciato da Obama ha fatto seguito ad altre iniziative dettate dalla sconfitta democratica nelle
elezioni di medio termine, come il prolungamento dei tagli alle tasse volute un decennio fa da
George W. Bush per i redditi più alti e il solenne incontro del presidente con i venti principali
leader delle corporation americane a Washington lo scorso mese di dicembre.
Il presunto disgelo con i poteri forti di un’amministrazione che nei primi due anni non ha in realtà
fatto altro che perseguire una politica pressoché esclusivamente “business-friendly”, sarebbe
così il rimedio necessario ad un atteggiamento troppo “liberal” da parte della Casa Bianca e
della maggioranza democratica al Congresso. Come aveva dichiarato alla stampa lo stesso
Daley dopo il tracollo elettorale dell’autunno scorso, i democratici sono stati puniti perché hanno
erroneamente visto uno spostamento a sinistra dell’elettorato americano. Nel 2008, a suo dire, il
voto per il cambiamento avrebbe indicato piuttosto un movimento verso il “centro-sinistra” dopo
otto anni di presidenza Bush.
Queste posizioni di esponenti democratici definiti generalmente “liberal” dalla stampa
istituzionale indicano a sufficienza lo spostamento a destra del quadro politico d’oltreoceano
negli ultimi anni. La propagandata necessità di politiche moderate e l’approvazione
incondizionata di soluzioni legislative bipartisan da parte dell’intellighenzia pseudo-progressista
e degli stessi politici ritenuti di “sinistra” nasconde a malapena un sostegno diffuso, se non un
aperto incoraggiamento, per nuove iniziative pro-business. Il tutto, immancabilmente,
accompagnato da tagli alla spesa pubblica per contenere il deficit e da un’ulteriore
compressione dei diritti del lavoro per aumentare la competitività delle aziende.
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