I LE ORIGINI DEL CARNEVALE Le antiche origini di un inquietante

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I LE ORIGINI DEL CARNEVALE Le antiche origini di un inquietante
LE ORIGINI DEL CARNEVALE
Le antiche origini di un inquietante rito
solo apparentemente gioioso
(Parte Prima)
In tutto il mondo occidentale non esiste una festa che più del Carnevale ricordi un rito
gioioso e pieno di sfrenata allegria. Il Carnevale di Rio de Janeiro è forse quello che oggi più
di altri può rappresentare una festa dove la corporalità, intesa come mostra della sensualità,
esprima meglio questo concetto.
I balli, i canti, i lazzi, gli scherzi (spesso volgari e pesanti) sono, a prima vista, l’elemento
più caratterizzante della festa, ma sono solamente l’estrema propaggine di una lunga catena
di fenomeni che originano il Carnevale e che, come vedremo, sono molto lontani dalla
gioiosità, nascendo piuttosto dalla paura, quella fisica, per il dolore, e quella più profonda di
essere trascinati nel mondo dei morti.
Freud aveva già fatto notare che le barzellette, gli scherzi, i moti di spirito, sono un
modo di esprimere in maniera inconscia quei contenuti (aggressività, sesso, mangiare e bere
in maniera smodata, defecazione, humor escrementizio o legato agli organi genitali) che non
potrebbero mai essere espressi in maniera conscia, contenuti considerati trasgressivi dalla
morale comune e, in occasione del Carnevale, rappresentati in maniera grottesca.
Ma è soprattutto Bachtin, nella sua opera su Rabelais1, o di George Minois, che ci mostra
come sia innato nella cultura popolare lo stile grottesco, ed assieme a questo proprio
riportare nella ritualità di tutti i giorni quei contenuti ricordati da Freud.
Rabelais, nella sua opera, si rifaceva al folklore ed alla cultura popolare che aveva creato
un “mondo alla rovescia” in cui i valori usuali erano completamente invertiti.
1
MICHAIL BACHTIN - L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, Carnevale e feste nella tradizione medievale e
rinascimentale - Einaudi, Torino, 1979
I
Se da una parte esisteva una “cultura alta”, che anche nelle sue celebrazioni ludiche era
rispettosa dell’autorità e dei valori cosiddetti normali, esisteva anche una “cultura bassa”: è
proprio la forma di allegria festiva della cultura bassa che porta alla mancanza di confine tra
il mondo serio e quello grottesco, che porta all’identificazione di quegli obiettivi, all’interno
delle feste e dei divertimenti, che Bachtin chiama “il basso corporeo”: la crapuloneria, le
gozzoviglie, gli escrementi, gli scherzi feroci, il continuo riferimento agli organi genitali.
Gargantua come immaginato da
Rabelais nell’esagerazione del
soddisfacimento dell’insaziabile
fame.
E’ una forma di festa alla quale non si assiste ma che deve essere vissuta: la tipica
medievale “Festa degli Stolti”, diretta discendente dei Saturnalia latini, dove il buffone è il re,
almeno per un giorno, ideatore e autore di scherzi feroci che non risparmiano nessuno, tanto
meno la normalità; festa che avrà come figli ideali i vari “Paesi di Cuccagna”, e come figlio
effettivo il nostro Carnevale.
E’ il mondo dove i riti festivi si vivono nella più grande libertà e mancanza di
menzogna, che invitano i desideri inconsci a manifestarsi in maniera evidente, giustificando
così Freud quando ci dice come questa umana pulsione, nel momento in cui viene repressa
da un comportamento “civile” indotto dalla cultura, non può che manifestarsi ormai che
solo con le facezie, i motti di spirito e gli scherzi.
Il termine compare in forma scritta
verso il 1400 in alcune novelle di
Giovanni Serbianchi e, si dice, in antichi
testi di giullari.
L'ipotesi
più
accreditata
circa
l’etimologia rimanda al latino carnem
levare, ossia alla proibizione del
consumo di carne durante tutto il
periodo del Carnevale, questa è
un’interpretazione certamente giusta,
che fa però riferimento ad una
prescrizione arrivata tardi rispetto alle
della
festa,
e
quindi
origini
Il Carnevale come festa della pazzia.
probabilmente valida solo dopo che la
chiesa impose un concetto “di penitenza” a questo periodo calendariale.
II
Precedentemente la festa aveva un altro nome o, probabilmente, più nomi, dato che
ogni popolo aveva la sua specifica ritualità nel festeggiare la fine di un periodo di
imposizioni.
Generalmente il rito più accreditato come “antenato” del Carnevale è quello dei
Saturnalia latini; la festa durava più giorni, durante i quali i romani celebravano
l'anniversario della costruzione del Tempio dedicato al dio Saturno, e ciò avveniva con canti
e feste in onore del dio, considerato padre di tutti gli altri dei.
L’accreditamento è, a nostro avviso, eccessivo in quanto i Saturnalia è forse il rito più
noto grazie alla nostra buona conoscenza del mondo romano, ma certamente esistevano
feste altrettanto importanti presso altri popoli dei quali il ricordo è minore, il che non toglie
che anche questi altri riti debbano considerarsi antenati, a tutti gli effetti, del Carnevale.
Ad esempio è possibile rintracciare ritualità con gli stessi contenuti nelle antesterie
greche, nei latini Lupercalia, nella festa romana, ma di origine egiziana, detta Navigium
Isidis (la nave di Iside) che vedeva la presenza di gruppi mascherati, come descritto anche da
Lucio Apuleio nelle Metamorfosi. In questo rito si facevano sfilare dei carri in forma di navi
(carrus navalis), altro termine da cui potrebbe discendere il nome Carnevale.
Vedremo come la presenza di navi, non presenti fisicamente ma nelle rappresentazioni
pittoriche, ritorneranno anche in anni più tardi.
Il nome potrebbe discendere anche da quel fenomeno
sociale, molto studiato dagli antropologi, e che avremo
modo di approfondire, detto charivari.
Ad ogni modo, sia nei Saturnalia che nelle feste presenti
in culture diverse, le caratteristiche principali del rito
erano identiche, e vanno identificate nella gioia per il
termine dell’inverno e del conseguente periodo di
scarsità di alimenti (origine appunto della festa), nel
concetto etico di seguire gli insegnamenti degli
antenati riguardo le regole civili (concetto che veniva
ritualizzato dal “corteo dei morti”), e dal
comportamento “fuori dalle regole comuni” che era
lecito tenere in questa occasione.
Cercheremo di analizzare ed approfondire questi tre
punti.
Che la fine dell’inverno fosse un momento da
festeggiare è un fatto che non necessita di particolari
spiegazioni. Si può solo far notare quanto le stagioni
fredde fossero particolarmente pesanti per le società
antiche che, molto più di quanto succeda oggi, erano strettamente dipendenti dalla buona
stagione per la sopravvivenza. Nelle società primitive, prive dei sistemi di conservazione e
protezione del cibo arrivate in anni più tardi, senza abitazioni riscaldate, vestite solo di pelli,
in competizione con gli animali che dovevano superare anch’essi gli stessi problemi,
l’inverno era senza dubbio un momento in cui buona parte della popolazione era soggetta a
perire.
La nave come carro carnevalizio
ritorna spesso nelle opere artistiche. In
questo caso in un’incisione di Brandt.
III
Soprattutto gli anziani, i bambini e i malati non erano in grado di superare la stagione
fredda e sicuramente i gruppi sociali subivano, durante l’inverno, un pesante
ridimensionamento. Tra i decessi dovevano esserci anche quelli degli uomini adulti che
avevano subito ferite, che nella stagione calda avrebbero avuto maggiori probabilità di
sopravvivere; per questo motivo l’inverno non era una semplice decurtazione di scorte
alimentari, ma anche l’eliminazione di una forza-lavoro che avrebbe reso più difficile, con la
buona stagione, riportare la popolazione ad un relativo stato di benessere.
C’erano quindi molti motivi per festeggiare la primavera.
Per quanto riguarda il fatto che la festa possedeva anche una ritualità orientata al
rispetto delle norme sociali, si è già accennato in altri lavori2 quanto il “corteo dei morti”,
intesi come gli antenati usciti dalle tombe, rappresentassero quella sorta di corpo di polizia
ante litteram che erano chiamati ad adempiere il rispetto di queste norme.
Qui però possiamo approfondire meglio il concetto della paura verso i morti, e di
quanto, nei loro confronti, fosse vivo quel particolare sentimento a cui gli antropologi hanno
dato il nome di “ambivalenza”.
I morti che uscivano dalle loro tombe erano un gruppo composito: c’erano tra loro
quelli legati ad una particolare famiglia (i padri, il nonno, i progenitori in genere) verso i
quali si nutriva un particolare affetto, ma anche gli antenati di altri gruppi famigliari, magari
non sconosciuti, data l’esiguità numerica delle società di quel periodo, ma che comunque
non erano così vicini agli affetti di un particolare gruppo di persone; se i morti della famiglia
potevano avere un rispetto particolare verso i propri membri, lo stesso non si poteva dire
degli altri.
Le sepolture “costringenti”, attuate con chiodi, funi e altri metodi costrittivi
dovevano impedire ai morti di ritornare sulla terra.
Inoltre i morti, famigliari o meno, rappresentavano comunque delle entità relegate in un
mondo di buio, di solitudine, un mondo privo di tutte quelle attrattive che erano desiderate
dai vivi. Si riteneva che anelassero ardentemente di ritornare alla vita alla luce del sole, e che
nell’impossibilità di farlo, odiassero tutti coloro che erano ancora vivi e tentassero di
condurre anche questi nel loro mondo.
2
Si veda, ad esempio, il lavoro Quadristoria (Parte Prima e Parte Seconda) nella pagina “Testi” di questo stesso sito.
IV
Chi era vivo doveva perciò guardarsi da questo odio nei loro confronti, per quanto
mitigato se si trattava di famigliari, e tentare in tutti i modi di non amplificare questa
ostilità. Inoltre i morti erano vicini alle divinità ctonie della terra, quelle dalle quali
dipendeva la buona riuscita dei raccolti, e questo era un ulteriore motivo per non irritarli.
Ecco quindi che l’ambivalenza nei confronti dei morti si manifestava in una ritualità ben
precisa, che nelle sue manifestazioni fondamentali, appare molto simile in tutti i popoli
dell’antichità.
All’atto della morte di un uomo si eseguivano celebrazioni nei suoi confronti, si
piangeva la sua morte invocandone il nome ad alta voce e tessendone le lodi3 (si riteneva
che il morto fosse in grado di percepirle), si chiamava alla partecipazione del funerale tutta
la comunità: tutto doveva contribuire a manifestare il dolore dei famigliari e della società
intera.
Gli eccessi alimentari, i
balli sguaiati nella tipica
rappresentazione del
periodo medioevale, qui in
particolari di dipinti di
Bruegel.
D’altro canto si faceva in modo che il
morto accettasse la sua condizione e non
desiderasse ritornare nel mondo dei vivi: la
tomba era arredata con gli oggetti personali
del defunto, con gli strumenti di lavoro, con
le armi (a volte, nel caso dei guerrieri, si
seppelliva anche il cavallo del morto) perché
non sentisse il bisogno di ritornare per
averli.
Sono state trovate tombe in cui il morto
era inchiodato sul terreno con pali o lunghi
chiodi, o era strettamente legato per impedirgli di muoversi e, soprattutto, camminare (c’è
da pensare che l’uso delle pietre tombali sia nato più per questo motivo che dal desiderio di
proteggere le spoglie).
In alcune culture si lasciavano i cadaveri all’aperto, fino alla loro quasi totale
dissoluzione, prima di tumularlo completamente; in questo modo si era sicuri della
mancanza fisica del corpo impedisse il ritorno4.
3
Un ricordo di questa ritualità, in particolare quella delle lamentazioni a voce alta, è rimasta nel tempo, dalle antiche
prefiche greche fino alle “lamentatrici” dell’Italia del Sud. Si rimanda ai lavori di Ernesto de Martino ed Alfonso M. Di
Nola.
4
In realtà c’erano anche altri motivi per questi atti, che non indagheremo in questo lavoro, ma che si può accennare
servissero a dare il tempo allo spirito del morto di trasmigrare in un altro corpo.
V
A tale scopo servivano anche i riti di accompagnamento del defunto alla sua ultima
dimora: spesso si eseguivano lunghi e complicati percorsi tali da confondere il defunto, ed
impedirgli così di ritrovare la strada di casa. Tracce di questi rituali erano ancora presenti
nelle popolazioni romagnole del diciannovesimo secolo, ad esempio quello di far passare il
funerale da crocicchi, dove il morto finiva per perdere la strada5.
Insomma il messaggio fondamentale che ne scaturiva era quello dell’amore verso il
defunto ma la speranza che rimanesse nel suo mondo.
L’idea dei morti che escono dalla tomba in un particolare momento dell’anno (il
cosiddetto “dodecameron”, che va dal 25 di dicembre al 6 di gennaio, almeno nelle culture
europee) si è poi ritualizzato nei miti dei “cortei dei morti”, che minacciavano di portare
sottoterra chi non seguiva le norme sociali.
E’ quel fenomeno che abbiamo anticipato, definito dagli antropologi con il termine
francese di charivari6.
Lo “charivari”, corteo chiassoso e tribunale morale, in un’incisione inglese di William Hogart.
Oggi questo fenomeno, che è ancora molto diffuso (basti pensare alla “festa dei becchi”
di Santarcangelo di Romagna7) ha perso il ricordo della sua funzione di “stimolo morale”,
ed ha mantenuto solo l’aspetto di chiassata, di irrisione contro individui responsabili di atti
ritenuti offensivi verso l’etica ritenuta socialmente accettabile, come il matrimonio tra
coniugi di età molto diversa, o contro le donne infedeli.
(fine Parte Prima)
5
Probabilmente è da questo fatto che nasce la tradizione che vede gli spiriti dei morti, quelli demoniaci e delle streghe,
radunarsi in particolari momenti dell’anno proprio nei crocicchi.
6
Per quanto gli antropologi di tutto il mondo utilizzino ormai quasi esclusivamente il termine francese charivari (salvo
i nord americani che preferiscono shivaree ), il fenomeno è indicato anche con altri nomi: in francese si usa anche tohubohu, général, hullabaloo; in italiano scampanata, scampanacciata, scornata, ciambelleria, batterella, capramarito,
ciaravügliu, ciabre, zabre, tenebre, tamburate; in tedesco katzenmusik, stimmengewir; in inglese skimmington,
shivaree, rough music, hubbub; in spagnolo encerrada, algarabía, alboroto, barullo, jaleo; in olandese herrie, drukte,
gebrek aan orde, heksenketel; in portoghese música desafinada, confusão, bagunça; in turco gürültü, patırtı, curcuna,
ahenksiz sesler; in russo breloki, eralasch, koschachij concert, schum, gam.
7
Si ricorda che in Romagna, e non solo, il termine “becco” (bech) è il nome dialettale del maschio della capra, ma
anche il marito tradito dalla moglie.
VI