i volti dell`affetto in Grecia

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i volti dell`affetto in Grecia
Philìa: i volti dell'affetto in Grecia
Fausto Montana
Nessuno sceglierebbe di vivere senza amici, neppure se avesse tutti gli altri beni messi insieme.
Il desiderio di amicizia è rapido a nascere, l'amicizia no.
L'amico è un altro se stesso.
(Aristotele, Etica a Nicomaco 8, 1155a 5-6; 1156b 31-32;1166a 31)
Sono affermazioni di Aristotele, tratte dal libro VIII dell'Etica Nicomachea, una delle tre grandi
summae della speculazione aristotelica sul problema dell'ethos, il comportamento, la morale.
La complessità del metodo speculativo di Aristotele non escludeva il ricorso ai toni incisivi
dell'aforisma, nitida cesellatura che scaturisce dall'unione di pregnanza concettuale e brevità espressiva.
Così capita a volte, leggendo Aristotele, di essere guidati per sentieri irti di concatenazioni logiche
lunghe e complesse, che poi d'improvviso, a una svolta, si aprono in radure limpide e piane, cristalline
epifanie del pensiero.
1. Il lessico greco dell'amicizia.
Fi/lov e fili/a sono le parole greche impiegate da Aristotele, nei passi citati sopra, per intendere
«amico» e «amicizia». Il significato delle due coppie di termini, quella greca e quella italiana, nel caso
degli aforismi aristotelici collima perfettamente. Tuttavia, il parallelismo non funziona altrettanto bene
in molti altri casi, perché il ventaglio semantico della famiglia lessicale greca coniata sulla stessa radice
di fi/lov è più articolato e complesso di quanto non accada in italiano per le parole amico e affini.
Il Dictionnaire étymologique de la langue grecque di Pierre Chantraine (vol. IV, Paris 1980, pp.
1204-1206), alla voce fi/lov, rubrica étymologie, ci informa che “Non c'è niente di paragonabile a[lla
radice] fil- (o filo-) nelle altre lingue indoeuropee”. L'etimologia del vocabolo è dunque “Ignota”.
Questa esclusività della radice greca fil- nell'ambito delle lingue indoeuropee spiega la sua diversa
configurazione semantica rispetto al latino amicus e all'italiano amico. Seguiamo ancora Chantraine
nella definizione del significato più antico, diciamo originario, di fi/lov. Come sostantivo, il termine
“esprime propriamente non una relazione sentimentale, ma l'appartenenza a un gruppo sociale”. Il
linguista prosegue riferendo la tesi sostenuta da un suo illustre collega, Émile Benveniste, nel
Vocabulaire des institutions indo-européennes (Paris 1969): “la parola si applica indifferentemente
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all'una o all'altra di due persone impegnate in vincoli di ospitalità: l'ospite che riceve è il fi/lov dello
straniero accolto, e viceversa”. L'accezione arcaica del termine si colloca dunque nel contesto di una
dinamica sociale specifica e ben definita: l'iniziativa di formalizzazione contrattuale delle relazioni
interpersonali da parte di individui appartenenti a comunità diverse, dunque stranieri fra loro, in
un'epoca nella quale il diritto internazionale era alquanto lacunoso e precario, se non del tutto
inesistente.
Chantraine articola poi in due distinte accezioni fondamentali il significato di fi/ l ov quando è
impiegato come aggettivo. La prima accezione, di senso passivo, è «amato, diletto, caro», detto di
persone o cose fin dal miceneo. La seconda accezione, di senso attivo, “meno frequente e
prevalentemente poetica”, è «amante, benevolo», detto di persone o di cose almeno a partire da Omero.
A questo punto il linguista recupera e sviluppa la tesi dell'originario significato sociale del termine: “il
valore affettivo della parola è secondario, benché molto antico (cfr. mic. piropatara) [NB: secondario
in senso linguistico e dunque temporale, non quantitativo]; quando l'uso di fi/ l ov fu esteso ai
congiunti che vivono presso il focolare del capofamiglia (sposa, figli, genitori), da quel momento il
termine comportò l'idea di affetto e di amicizia, da cui fi/lov [nel significato di] «amato, caro» e
«benevolo». Questi significati, detti «passivo» e «attivo», si spiegano bene con l'ambivalenza originaria
di questa parola”. Dunque, l'argomento che persuade Chantraine della bontà della tesi di Benveniste
sull'originario uso di fi/lov nell'ambito dei rapporti arcaici di ospitalità, è il significato speculare della
parola (avere qualcuno come amico / essere amico di qualcuno), perfettamente idoneo a esprimere
una relazione interpersonale volontariamente e consensualmente fondata sulla garanzia della
reciprocità.
Chantraine conclude l'esame delle accezioni aggettivali ricordando l'uso omerico di fi/lov a esprimere
il possesso inalienabile di persone o cose in espressioni come fi/lon h]tor, «il proprio cuore», path\r
fi/ l ov, «il proprio padre», fi/la ei3mata, «le proprie vesti»: un uso che si concilia bene con il
significato passivo del termine e con la dinamica dei rapporti di ospitalità individuata da Benveniste.
Il carattere semantico di cui la radice fil- è veicolo si dirama ulteriormente nei numerosi derivati di
fi/lov. Vediamone i principali. Anzitutto filo/thv, «amicizia», o meglio «affetto», «tenerezza» che
Chantraine descrive come “fondata sui legami dell'ospitalità, del sangue o del cameratismo” e tale che
“presuppone spesso una comunità concreta”; dopo Omero, il sostantivo vale anche «unione
sessuale». Quindi troviamo fili/a, «amicizia, inclinazione, amore», ma anche «passione amorosa,
innamoramento» in senso erotico. Il verbo denominativo file/w restituisce dilatata l'intera gamma delle
gradazioni semantiche contenute nella radice: «prediligere, amare»; poi «baciare, abbracciare» e dunque
«unirsi carnalmente, avere rapporti erotici»; e infine «amar (fare)», «avere l'abitudine (di fare)». Dal
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verbo si genera una cospicua serie di derivati, di significato prevalentemente erotico: filhto/v,
filh/twr, filhth/v e così via, sino a fi/lhma, il «bacio», sia quello affettuoso scambiato fra parenti o
amici, sia quello – tenero o appassionato – degli innamorati. Ricorderei ancora un'autentica curiosità
lessicale: il sostantivo fi/ltron, il cui significato di «filtro magico, pozione», giunto sino alle lingue
moderne e all'italiano, si origina da quello di «mezzo o espediente per farsi amare».
Non si può non ricordare infine che la radice di fi/lov funge nel greco antico, come del resto in quello
moderno, da comodo elemento combinatorio nella generazione di un'infinità di composti, come primo
o come secondo elemento della parola, a indicare il rapporto preferenziale nei confronti di una persona
o un oggetto, in una pittoresca galleria di vizi e virtù improntati a propensione, affetto, predilezione,
attrazione, amore, attaccamento morboso, fissazione maniacale. Rende bene l'idea dell'entità di questo
fenomeno linguistico osservare che nel Vocabolario della lingua greca di Franco Montanari i
composti inizianti per filo- occupano da soli una quindicina di pagine. Si va dal miceneo piropatara,
cioè filopa/tra, «colui che ha caro suo padre», all'omerico filo/ceinov, «che ha caro lo straniero»;
da fi/lagrov, «amante della campagna», a filo/sofov, «che ama la sapienza»; da fila/rgurov,
«avido di denaro», a file/tairov, «affezionato ai compagni»; da filoki/ndunov, «amante dei pericoli»,
a filo/ d hmov, «amico o fautore del popolo»; da filo/ d ikov, «che ha la mania dei processi», a
filo/timov, «che aspira agli onori» e quindi «ambizioso»; da paidofilh/v, «che s'innamora di
ragazzini», e paido/filov, «che ama i propri figli», a qeofilh/v, «amato dagli dèi», ma anche «che ama
gli dèi».
2. Esempi di philìa nella letteratura greca.
Quali riflessi ha nella letteratura greca il ventaglio di significati della radice fil-? Tentiamo di
rispondere all'interrogativo scegliendo qualche esempio, tra gli infiniti possibili, da alcuni generi
rilevanti della letteratura greca delle età arcaica e classica: l'epos, la poesia elegiaca e il teatro tragico.
Iniziamo con due passi dell'Iliade. L'amicizia più densa di implicazioni e di conseguenze nell'intreccio
del poema è indubbiamente quella che unisce Achille e Patroclo. La morte in battaglia di Patroclo per
mano di Ettore rappresenterà il fattore decisivo per il ritorno di Achille sul campo. Omero definisce a
più riprese il loro rapporto come quello fra e(tai=roi, «compagni», cioè propriamente il legame che si
instaura fra pari, all'interno di una élite sociale di marca aristocratica: un legame fondato sulla
condivisione di valori e interessi comuni, che poi si formalizza in codice di comportamento improntato
a leale e solidale assistenza reciproca e può tradursi in attaccamento cameratesco, in sentimento di
affettuosa affinità e persino, talvolta, in intima attrazione, a livello spirituale e non solo. Si tratta delle
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situazioni tipiche dell'eteria politica (si pensi alla poesia di Alceo e di Teognide) e del tìaso femminile
(a tutti verrà in mente Saffo).
Ora, i passi dell'Iliade nei quali compaiono simultaneamente Achille e Patroclo sono molto interessanti
per una valutazione dell'uso arcaico dell'aggettivo fi/lov: osserviamo infatti una compresenza di
accezioni diverse, che vanno dal significato possessivo, tipicamente omerico, a quello di «amico» in
quanto «ospite», a quello di «amico» in quanto «caro», oggetto dell'affetto personale e delle attenzioni
più intime e riposte, fino alla tenerezza e all'attrazione di tipo omoerotico. Vediamo due esempi.
Il primo è tratto dal IX libro dell'Iliade, che ha per argomento l'ambasceria ad Achille. L'eroe greco,
infuriato con Agamennone, si trattiene presso la sua tenda e consola il proprio animo esacerbato
cantando e accompagnandosi con la lira. Patroclo gli sta seduto davanti e ascolta in silenzio. A un tratto
sopraggiungono tre eroi greci, Odisseo, Aiace e Fenice, inviati dall'assemblea dei capi per trattare il
ritorno in battaglia di Achille. L'eroe li accoglie con queste parole (IX 197-198):
Salve: ecco guerrieri amici (fi/loi a!ndrev) che giungono, c'è n'è davvero bisogno;
costoro, benché io sia adirato, mi sono carissimi tra gli Achei ( )Axaiw=n fi/ltatoi)
dopodiché li accoglie ospitalmente all'interno della tenda offrendone loro ogni comfort e ordina a
Patroclo di predisporre il necessario per un improvvisato simposio (202-204):
Poni nel mezzo un cratere più grande, figlio di Menezio,
mesci vino più puro, da' la sua coppa a ciascuno:
qui sotto il mio tetto ci sono gli uomini più cari che io abbia (fi/ltatoi a!ndrev).
È rimarchevole l'insistenza sulla caratterizzazione congiunta, per così dire circolare, di questi ospiti
come fi/loi, e come fi/loi degni della massima cura ospitale. Ed è altrettanto degno di nota che la voce
narrante prosegua subito dopo osservando (205):
Disse così, Patroclo obbediva al caro amico (fi/lw|... e(tai/rw|).
In tal modo la più antica idea di fili/a, quella connessa con l'accoglienza ospitale, si sposa, nello spazio
di pochi versi, all'accezione che potremmo definire socio-politica, quella connessa cioè con
l'appartenenza alla medesima e(tairi/a; e al tempo stesso, considerata la ‘storia’ personale a tutti nota
di Achille e di Patroclo, è inevitabile che l'aggettivo fi/lov si colori di una terza accezione, e cioè in
senso affettivo, assumendo un connotato molto prossimo alla nostra idea di amicizia, tenerezza,
intimità sentimentale.
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Il secondo esempio iliadico integra il precedente. All'inizio del XVIII libro dell'Iliade Achille riceve la
notizia della morte di Patroclo per mano di Ettore. L'eroe è invaso da una disperazione devastante; si
cosparge il capo e il corpo di cenere, «e poi» dice il poeta (26-27)
nella polvere, grande, per tutta la sua statura,
giacque, e sfigurava i capelli, strappandoli con le proprie mani (fi/ l hsi... xersi/ : valore
possessivo di fi/lov).
Teti, la madre divina dell'eroe, raggiunta dalle grida del figlio fino negli abissi marini, congedandosi
allarmata dalle compagne le informa che andrà a vedere la sua creatura (fi/lon te/kov). Nel toccante
colloquio della madre col figlio, questi si sfoga (79-82):
Madre mia, tutto questo di certo me l'ha fatto Zeus;
che piacere può esservi ormai per me, ora che è morto il mio amico (fi/lov... e(tai=rov),
Patroclo, quello che onoravo al di sopra tutti i compagni,
anzi alla pari di me?
Più avanti Achille chiamerà la propria patria fi/lhn... patri/da (101) e qumo\n... fi/lon il proprio
cuore (113) e di nuovo, nel verso subito successivo, si riferirà a Patroclo con la metonimia
familiarmente affettuosa fi/lh kefalh/, «il caro capo». Ancora una volta, osserviamo la compresenza in
pochi versi di una varietà di accezioni di fi/lov, a dimostrazione non soltanto della stratificazione
linguistica caratteristica della poesia omerica, ma anche del complesso e variegato profilo semantico del
termine.
Altri esempi sono offerti dalla cosiddetta silloge teognidea, cioè la raccolta di componimenti elegiaci
trasmessa in alcuni manoscritti medievali sotto il nome del poeta Teognide di Megara, vissuto nel VI
secolo a.C. Si tratta di componimenti destinati ad allietare, con accompagnamento musicale, i momenti
simposiali dell'eteria aristocratica – in greco heteria – cui Teognide stesso aveva accesso. Pertanto vi
troviamo rispecchiati i valori civili, morali e militari coltivati dall'élite sociale e, fra questi, una certa idea
di amicizia, analoga a quella che già abbiamo osservato nell'Iliade fra Achille e il fi/lov e(tai=rov
Patroclo. Come dicevamo, per i membri dell'eteria la fili/a rappresenta il legame di reciproca lealtà fra
pari, individua la relazione privilegiata a livello sociale (più che sul piano personale), è insomma un
modo di esprimere la coesione del gruppo come valore assolutamente vincolante e inviolabile. La
tenuta della lealtà dei fi/loi è garanzia che l'area del privilegio che essi condividono non ceda a
“contaminazioni” o “corruzioni” provenienti dall'esterno. Questa concezione esclusiva ed elitaria
emerge chiaramente fin dai primi componimenti della silloge attribuita a Teognide. In uno di questi, il
poeta si rivolge al giovane Cirno per eleggerlo a destinatario dei propri insegnamenti sull'etica del
gruppo (27-38):
Poiché provo affetto per te, ti insegnerò quelle cose che anch'io,
Cirno, dagli uomini buoni imparai fin da bambino.
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Seguono alcuni precetti relativi alla necessità di buone frequentazioni sociali, suggellati da questa
clausola:
Impara queste cose e frequenta i buoni: un giorno dirai
che io consiglio bene gli amici (toi=si fi/loisin).
In un'altra elegia, Teognide lamenta con Cirno la promiscuità dei ceti sociali che impera nella città,
impedendo ormai di riconoscere i nobili dalla plebaglia (61-68):
Non farti amico nessuno di questi cittadini...
a parole mostrati amico (fi/lov) di tutti,
ma in realtà non mescolarti ad alcuno di essi...
perché altrimenti avrai modo di conoscere l'animo di questi miserabili,
come non esista lealtà alcuna nelle loro azioni,
ma amino (e)fi/lhsan) intrecciare inganni e raggiri (cioè sono fi/loi dell'inganno) ...
Dal corpus teognideo potremmo ricavare un vero fiore di raccomandazioni aforistiche sull'amicizia,
perlopiù basate sul precetto di non fidarsi di ognuno ma scegliere i propri amici con sapiente prudenza,
anzi con cautela diffidente e circospetta. Ecco una scelta di massime:
vv. 91-92:
Uno che parla in un modo, ma ha un pensiero doppio, costui è un cattivo
compagno: sarebbe meglio averlo nemico, piuttosto che amico.
vv. 101-102:
Nessuno ti persuada a divenire amico di un plebeo,
Cirno: che vantaggio c'è ad avere come amico una persona spregevole?
vv. 640-643:
Non puoi riconoscere la persona benevola e quella nemica,
finché non incappi in una seria difficoltà.
Accanto al cratere, son molti a diventare fi/loi e(tai=roi;
nelle difficoltà ne restano pochi.
Talora emerge un altro precetto ricorrente nell'etica arcaica di matrice aristocratica, cioè l'invito ad
augurare il massimo bene agli amici e il male peggiore ai nemici (337-340):
Zeus mi conceda di ripagare gli amici che mi vogliono bene (tw=n... fi/lwn... oi3 me fileu=sin),
Cirno, e di avere la meglio sui miei nemici.
Avrei l'impressione di essere un dio in mezzo agli uomini,
se la morte mi cogliesse con i conti in regola.
Un'attenzione particolare merita la rielaborazione teognidea di un altro motivo tradizionale, espresso
nella forma del paradosso: l'uomo è in grado di saggiare l'autenticità dell'oro, ma non quella dei suoi
simili. In altri termini, viene pessimisticamente negata la possibilità di smascherare la slealtà,
specialmente quando essa si camuffi sotto i lineamenti dell'amicizia (119-128):
Il flagello dell'oro o dell'argento falso è tollerabile,
Cirno, ed è facile smascherarlo per chi ne è esperto.
Ma se un uomo amico nasconde nel petto una mente
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bugiarda e ha dentro un cuore ingannevole,
ebbene questo il dio lo ha reso particolarmente insondabile ai mortali,
ed è la cosa più difficile da riconoscere.
Infatti non si può conoscere la mente dell'uomo e della donna,
prima di averne fatto prova come si fa con le bestie da soma,
né si può congetturare †come andranno le cose†:
spesso le apparenze portano a ingannarsi.
Il motivo è recuperato da autori diversi, fra i quali il tragediografo Euripide nel secondo episodio della
Medea, laddove la protagonista conclude la sua tagliente requisitoria contro il marito Giasone, che l'ha
da poco ripudiata, con questa riflessione (502-521):
Coraggio, converserò con te come se fossi una persona cara (fi/lw|)
(...)
Ora, dove andrò? A casa di mio padre?
Ma l'ho tradita, insieme alla mia patria, per te.
Allora presso le disgraziate figlie di Pelia? Mi darebbero certo
una bella accoglienza, in casa di coloro cui uccisi il padre!
505
Le cose stanno proprio così: ai cari di casa mia (toi=v... oi!koqen fi/loiv)
sono divenuta avversa, coloro cui non dovevo
fare del male me li sono resi nemici per fare piacere a te.
Proprio in cambio di questi benefici
mi hai resto beata agli occhi di molte donne greche; e certo ho in te
510
uno sposo mirabile e fedele, povera me,
se me ne andrò in esilio da questa terra, cacciata via,
priva di cari (fi/lwn), io sola con i figli soli:
no, davvero una bella onta per lo sposo novello,
che vaghiamo mendicando i tuoi figli ed io, che sono stata la tua salvezza.
515
O Zeu s, p erch é p er l'o ro h a i fo rn ito a g li esseri u ma n i
in d izi certi d i q u a le sia a d u ltera to ,
e p er g li u o min i n o n v'è a lcu n co n tra sseg n o n a tu ra le su l co rp o
g ra zie a l q u a le si p o ssa rico n o scere il ma lva g io ?
E il coro commenta:
Terribile è l'ira e difficile da curare,
520
quando i cari vengono a contesa con i cari (o3tan fi/loi fi/loisi sumba/lws ) e!rin).
Euripide innesta sul tema della fili/a il motivo dell'insondabilità dell'animo umano. Per acquistare la
fili/a di Giasone, di cui si era sinceramente innamorata, Medea ha rinunciato al rapporto di fili/a con
i propri congiunti tradendone gravemente la fiducia (ha assecondato Giasone a danno del padre e, per
favorire la fuga dell'eroe, ha fatto morire il fratello): ora, inaspettatamente, Giasone l'ha ripudiata,
rivelandosi ingrato e insieme incurante del fatto che lei a questo punto resti priva di qualsiasi fi/lov,
sola al mondo. Benché Euripide utilizzi un linguaggio affine a quello teognideo – ad esempio nella
ripresa del motivo topico dell'oro adulterato – la riflessione sulla fili/a s'inserisce in un quadro
concettuale più ampio e di respiro universale rispetto a quello chiuso e ristretto dell'eteria aristocratica.
In questo quadro dilatato, il termine fa valere tutta la propria complessità semantica. Medea parla di
fili/a intendendo il naturale rapporto di affetto con il padre e i fratelli; riferendosi all'amore concepito
per Giasone; alludendo alla perduta ospitalità a Iolco, in Tessaglia, dove ha fatto morire
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proditoriamente il re Pelia; infine, lamentando la privazione totale di fi/loi, la donna implica un'idea di
amicizia come disponibilità solidale al soccorso, ospitalità nel senso arcaico. Al termine dell'episodio, il
coro stigmatizza il tradimento della fili/a con un giudizio estremamente severo (655-662):
non la città, non uno degli amici
ti compiangerà mentre subisci
la più spaventosa delle sciagure.
Muoia miseramente colui che ammette
di non onorare i propri cari dopo averne dischiuso
il puro serrame del cuore: a me
mai sarà caro.
660
Non per niente, la fili/a è il tema centrale dell'episodio immediatamente successivo, dove a Medea si
offre l'occasione fortuita di garantirsi una via di scampo ad Atene, ospite del re Egeo. In una strofe del
terzo stasimo, il coro – assumendo un punto di vista capovolto rispetto a quello dello stasimo
precedente – commenta il patto di ospitalità stipulato dall'ignaro Egeo con la futura infanticida con
queste parole (846-855):
Come la città
dei sacri fiumi, la terra
che dà protezione agli amici
ospiterà l'assassina dei figli,
l'empia, insieme con gli altri?
850
3. Aristotele: «Philìa è amare, più che essere amati».
In conclusione, ritorniamo brevemente all'VIII libro dell'Etica Nicomachea di Aristotele, da cui
abbiamo tratto alcuni aforismi L'opera fa parte degli scritti riconducibili, per via diretta o indiretta, al
maestro del Peripato e consiste in una raccolta di lezioni che Aristotele tenne probabilmente ad Atene,
durante il suo secondo soggiorno nella città, fra il 335 e il 323 a.C.: è il periodo aureo del suo impegno
teoretico e didattico, che s'interromperà soltanto alla morte di Alessandro Magno, quando ad Atene si
scatena una violenta reazione antimacedone: allora i legami di vecchia data del filosofo con la dinastia
regale della Macedonia lo inducono ad allontanarsi dalla città e a ritirarsi nei possedimenti della madre
a Calcide, nell'isola Eubea. Vi morirà di malattia l'anno seguente, il 322, a 62 anni di età.
La riflessione aristotelica sull'amicizia è posteriore di un secolo alla prima rappresentazione della
Medea di Euripide, ma si può affermare che l'universo concettuale che per Euripide ruotava attorno
all'idea di fili/a in Aristotele conosca sostanzialmente i medesimi punti di riferimento. Il filosofo
costruisce un articolato impianto teorico inteso a sussumerne la pluralità di significati. Egli distingue
tre cause di fili/a: l'utile, il piacere e il bene; ne individua il fine nella realizzazione di un equilibrio
(i)so/thv) fra due individui, ammettendo espressamente l'amicizia fra diseguali, accanto a quella –
ritenuta più stabile e sincera – fra uguali. Estende il concetto dal rapporto fra individui a quello fra
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membri della stessa famiglia (sovrapponendolo così al legame di sangue) e alla relazione fra membri di
una stessa comunità e, dunque, della polis. Fili/a è i l vi n c o l o f o n d a t o s u l l a f i d u c i a
l e a l e e s i n c e r a , presupposto condiviso delle amicizie personali, dei legami affettivi familiari (sia
naturali sia acquisiti), della coesione interna alla comunità sociale e allo Stato.
Questa potenza della fili/a, che abbraccia le relazioni dell'individuo a partire dalla sua dimensione
privata fino a quella pubblica e collettiva, è riconosciuta dal filosofo nel carattere attivo e transitivo
dell'amare: la fili/a, sostiene, (1159a 26-27)
pare consistere più nell'amare (filei=n) che nell'essere amati (filei=sqai).
Il rigore dell'argomentare filosofico richiede che l'affermazione sia suffragata da una prova logica. E
colpisce come all'esigente e severo raziocinio del filosofo basti, una volta tanto, l'evidenza irrefutabile di
un'argomentazione puramente empirica, e cioè l'esempio toccante fornito dal gratuito amore materno
(1159a 27-33, trad. Carlo Natali):
segno [della natura attiva del filei= n ] è il fatto che le madri provano piacere nell'amare: infatti
alcune danno i loro figli ad allevare e continuano ad amarli, sapendo di loro, senza cercare di
essere amate in contraccambio, se entrambe le cose non sono possibili; ma sembra che a loro
basti sapere che stanno bene e li amano, anche se quelli, per ignoranza, non ricambiano affatto
con l'amore che si deve a una madre.
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