Abuso e maltrattamento-Tutela del minore

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Abuso e maltrattamento-Tutela del minore
Avigliana, 13 novembre 2013
Anna Maria Baldelli
Procuratore Capo della Procura della Repubblica per i minorenni di Torino
“Quale tutela è riservata al minorenne vittima nel caso di maltrattamento intrafamiliare”.
1. Cosa significa maltrattamento sui minori? E’ un concetto chiaro?
Ancora oggi ci dobbiamo interrogare sul concetto di maltrattamento, che l’ Organizzazione
Mondiale della Sanità definisce come :
“Tutte le forme di cattivo trattamento fisico e/o affettivo, abuso sessuale, incuria o trattamento
negligente nonché sfruttamento sessuale o di altro genere che provocano un danno reale o
potenziale alla salute, alla sopravvivenza, allo sviluppo o alla dignità del bambino, nell’ambito di
una relazione di responsabilità, di fiducia o potere” , che è patrimonio della “cultura delle
occasioni”, ma che non è ancora entrato nella cultura “ di tutti i giorni”. Per meglio dire, non sono
ancora pienamente entrati nella “cultura di tutti i giorni” i contenuti delle affermazioni di
principio, sulle quali nessuno azzarda dissensi espliciti. E’ proprio su questi contenuti che la
battaglia è ancora aperta, anzi, è guerra senza frontiere.
Proviamo a porci alcune delle possibili domande concrete muovendo dal concetto di
maltrattamento-abuso proposto dall’O.M.S.:
1.1 cosa significa “cattivo trattamento fisico e/o affettivo”?
Se una mamma viene picchiata davanti al suo bambino dal marito è maltrattamento?
Cosa significa violenza assistita?
Esiste un’età che ne limiti la percezione?
Se un neonato non può creare una relazione di attaccamento con la propria madre è
maltrattamento?
Occorre la volontarietà o è sufficiente che accada?
1.2 Quale è il contenuto di “un danno reale o potenziale”?
Quale irreversibilità è richiesta o ammissibile? Ad esempio una proposta di modifica delle
condizioni necessarie per la dichiarazione dello stato di adottabilità richiede la irreversibilità del
danno, ma in un bambino – che è in una fase evolutiva per definizione - la irreversibilità del danno
è inconcepibile, salvo pensare alla morte ?
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1.3 Quando si realizza un danno potenziale alla salute?
Quale è il limite dell’anticipazione della tutela?
Si parla soltanto della salute fisica del bambino?
Quella emotiva come si accerta?
1.4 Quando si realizza una minaccia allo sviluppo di un bambino?
Quale è il limite di anticipazione della tutela?
Quali sono i fattori di minaccia in questo ambito?
1.5 Quando è lesa la dignità di un neonato?
Contrariamente a quanto comunemente si pensa, a queste domande, che sono solo alcune fra le
possibili, non devono rispondere soltanto i servizi di psicologia, perché ogni risposta ad esse
rappresenta un possibile contenuto di tutela.
Fortunatamente sul tema si sono raggiunti buoni livelli di approfondimento scientifico, tuttavia
ancora troppo spesso questi traguardi della conoscenza scientifica non sono così diffusi come
dovrebbero e, in particolare, ancora troppo spesso non costituiscono patrimonio culturale proprio
di chi, nelle istituzioni, viene a contatto con il fenomeno.
Più in generale, la conoscenza dei contenuti della tutela, che sono un complesso di fatti e di
valutazioni “scientifiche”, rappresenta il maggiore scoglio nell’affrontare questa materia, che
proprio perché si presenta apparentemente “semplice” ( sotto il profilo tecnico, contrariamente,
ad esempio, alla materia degli abusi edilizi), perché - in superficie - riguarda un contesto
esperienziale comune a tutti noi ( famiglia, figli, affetto, sofferenza…) , in realtà è notevolmente
complessa e richiede una specifica formazione tutt’altro che banale.
Essere madre ed essere dotata di buon senso, in altri termini, non può essere sufficiente a divenire
“esperta”, anche se qualche volta ( non sempre) essere madre aiuta a comprendere ed avere buon
senso può aiutare a muoversi senza schizofrenie.
Ricoprire un ruolo istituzionalmente deputato alla tutela del minore non infonde
automaticamente la capacità ad assolvere al compito istituzionale.
E’ una continua, e non può che essere così, ricerca e formazione: formazione che ampli i confini
della comprensione e ricerca che offra strumenti sempre nuovi per affrontare le criticità che
esprime.
Il rischio, anche questa materia, che si ritrova spesso nelle materie particolarmente complesse, è
determinato dalla possibile e frequente interferenza del bisogno che la società moderna esprime
di schierarsi “pro” o “contro” qualcosa, in maniera pre-giudiziale.
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Ebbene, in questo settore non sono immaginabili i danni che possono derivare dai pre-concetti: si
può vedere il maltrattamento ad ogni angolo della strada o essere disposti a giurare che non
esiste il fenomeno.
2. Il Silenzio è il principale nemico della tutela
Il silenzio contro cui occorre ancora lottare non è soltanto quello di chi non vuole vedere e sentire,
ma anche di chi, pur avendone l’obbligo, non si attrezza per vedere e sentire.
Così come occorre ancora lottare contro la concezione “privatistica” del disagio familiare, che
induce a ritenersi estranei ai “fatti di famiglia” altrui, anche quando si manifestano con modalità di
rilevanza penale, con auto legittimazione al silenzio.
Il bambino va difeso anche dalla parola o dall’azione, contrapposta al silenzio colpevole, quando
sia inappropriata, invasiva, intempestiva…
Volendo, però, affrontare alla radice il tema della violenza, in generale e quella intrafamiliare, non
può tacersi il fatto che il nostro Legislatore, da un lato, abbia ancora le idee piuttosto confuse in
proposito ed esprima, d’altro lato, incredibili contraddizioni.
A proposito della mancanza di chiarezza sull’efficacia di alcune misure che dovrebbero garantire
soprattutto la protezione della vittima, con conseguente azione di prevenzione rispetto al rischio
di degenerazioni irreversibili, non è retorico citare la inadeguatezza della formulazione di alcune
figure di reato, quali, ad esempio il tanto citato stalking, che richiede la ripetizione di
innumerevoli atti ( “condotte reiterate”) di minaccia e/o violenza “ in modo da cagionare un
perdurante e grave stato d’ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per
l’incolumità… ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita” ( art. 612 bis
c.p.)
E’ evidente che quando per “arrestare” l’autore di un reato così configurato occorre che la vittima
abbia subito “reiterate” condotte di violenza o minaccia al punto da cadere in un grave stato
d’ansia ( accertato da chi? Occorre una perizia, e nel frattempo?) o da aver dovuto modificare le
proprie abitudini di vita, lo spostamento in avanti della tutela consente spazi “non gestiti” nei quali
l’aggressore può agevolmente attuare intenti omicidi avendoli candidamente preannunciati.
Ancora, quando le vittime siano i figli andrebbe prevista come obbligatoria la nomina di un
curatore speciale ( dando per implicito il conflitto di interessi fra il minore ed il genitore non
autore del reato), mentre attualmente il giudice se valuta che sussista il conflitto, su istanza del
P.M., può nominare un curatore speciale al fine della presentazione della querela ( art. 338 c.p.p.).
Infine, la perla delle perle è la previsione della violenza assistita come mera aggravante del
maltrattamento verso l’adulto.
Per quanto attiene alle contraddizioni del nostro sistema normativo deve essere sottolineato il
paradossale sbilanciamento – fatti salvi alcuni casi particolari, come le lesioni gravi in danno di un
pubblico ufficiale ( art. 583 quater c.p. che contempla una pena da 4 a10 anni - della tutela del
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patrimonio rispetto alla tutela della salute; sbilanciamento dimostrato dalla enorme differenza di
previsione di pena nei casi di minaccia al patrimonio mediante violenza e/o minaccia rispetto alla
previsione di pena quando non siano coinvolti beni o denaro.
Ora, come abbiamo sentito dal maggiore Vanni, le Forze dell’Ordine possono allontanare ( art. 281
bis c.p.p.) dall’abitazione familiare chi si renda responsabile di reati di lesioni o di minaccia grave,
anche al di fuori dei limiti di pena previsti per l’applicazione di misure cautelari ( art. 280 c.p.p.),
ma questa misura è attuata in sede di indagini preliminari, quindi, poiché i limiti della pena per le
lesioni sino a 40 giorni di prognosi è da tre mesi a tre anni, la condanna non potrà essere che una
misura assai mite rispetto al danno arrecato. Inoltre, questa condanna non verrà eseguita in
carcere poiché in sede di esecuzione l’ordine di carcerazione, essendo la pena non superiore a tre
anni, dovrà essere sospeso per consentire l’attivazione di modalità alternative alla detenzione.
Ma non soltanto il sistema penale risente di queste contraddizioni, perché anche sotto il profilo
della tutela civilistica la recente riforma delle competenze in materia di diritto di famiglia ( L.
27.11.2012) ha realizzato principi assolutamente condivisibili, ma con modalità tecnico-giuridiche
particolarmente infelici, così infelici da rendere concretamente difficile la tutela futura.
Ogni situazione deve essere approfondita e vanno individuati i contorni sui quali fondare la
strategia di tutela, tuttavia, se lo scenario normativo in cui ci si muove presenta queste
caratteristiche è evidente che le difficoltà “istituzionali” si aggiungono a quelle insite nella
situazione e diventa un’impresa non semplice realizzare anche la cornice di intervento, che
dovrebbe poter essere costruita, al di là del caso singolo, ma con uno spazio nel quale possa
essere ricompreso.
A questo proposito sono necessarie intese fra i diversi operatori, pubblici e privati, che a
qualunque titolo intervengono in queste situazioni, perché possano trovare attuazione buone
prassi operative, sufficientemente strutturate da consentire la costruzione di un progetto di tutela,
ma anche sufficientemente elastiche da permettere alla specificità del caso di non venire
soffocata.
Il Pubblico ministero minorile non ha competenze penali in merito all’avvenuto maltrattamento,
salvo che sia indagato anche un minorenne, o soltanto un minorenne, ma non è di questo che mi
preme trattare qui oggi.
E’, invece, assolutamente fondamentale soffermarsi sugli interventi che la Procura per i minorenni
deve o no attivare in ambito civile. Dimentichiamo, quindi, per un momento l’ipotesi che sia
minorenne l’autore o il coautore del reato e vediamo quale scenario si presenti sotto il profilo
della tutela civile.
Anzitutto occorre verificare “se” sia necessaria una tutela civile - che è cosa diversa dal
risarcimento civile - perché non è assolutamente automatico che ad una denuncia di
maltrattamento debba seguire un intervento del Tribunale per i minorenni, anche se sempre deve
esserci la doppia segnalazione – alla Procura Ordinaria ed alla Procura Minorenni - che consente al
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P.M.M. di coordinarsi con il Pubblico Ministero titolare delle indagini penali, e di verificare,
appunto, “se”, “come” e “quando” attivare anche il giudice minorile con un ricorso appropriato.
La prima domanda alla quale si deve rispondere, quindi, è “se” debba essere attivato un ricorso. La
risposta a questo interrogativo richiede necessariamente un minimo approfondimento della
situazione di quel bambino o bambina e del suo contesto di vita anche “ a prescindere” dal
maltrattamento.
In questa opera di approfondimento oltre a non essere concesso di avere “pre” concetti (
maltrattamento sì/no), come si è già detto, non è pure concesso agire una inversione di ruolo. E’
importante, infatti, che ciascuno abbia molta cura nel non sostituirsi a chi ha un diverso ruolo ( la
tentazione più irresistibile è quella di sostituirsi al giudice, che è esattamente ciò che fa chi non
segnala… perché tanto il bambino dice bugie…!) ed abbia, quindi, molto chiaro quale sia il proprio
ruolo: nella mia veste di magistrato minorile io non mi devo occupare del reato - perché c’è un
altro magistrato che sta indagando per accertarlo nella sua realtà fattuale e nella sua attribuibilità
ad una o più persone – ma mi devo occupare di accertare se – a lato – ci sia o no una situazione di
pregiudizio, magari determinata da incuria e disinteresse, o da grave inadeguatezza genitoriale e
così via.
E’ chiaro che se l’evidenza del reato è tale da determinare l’arresto in flagranza il problema che si
pone, in termini di tutela civile, è quello di verificare, a partire dal reato, quale strumento sia più
idoneo per organizzare intorno al bambino una situazione favorevole ad un suo recupero; ma
spesso la segnalazione delinea una situazione di chiaroscuri, nella quale occorre procedere ad
accertamenti non sempre così risolutivi e nella quasi totalità proprio di questi casi si può accertare
che accanto al sospetto di reato vi è una situazione più globalmente pregiudizievole che, di per sé
sola, giustifica un intervento a tutela.
In questi casi aspettare che Pubblico ministero acquisisca la prova certa della sussistenza del reato
per ipotizzare una tutela in favore del minore vorrebbe dire intervenire in grave ritardo e non
sempre efficacemente. Senza considerare il fatto che a volte può capitare di dover gestire una
situazione nella quale, pur non essendo stata raggiunta una prova “spendibile” in giudizio circa la
sussistenza di un abuso, vi siano tutti i segnali di grave disagio che solitamente lo accompagnano e
se noi fondassimo soltanto sull’accertamento penale la legittimazione del nostro intervento in
questi casi ci troveremmo a non poter intervenire neppure sotto il profilo della protezione civile.
Inoltre, fondare l’intervento civile soltanto sull’indagine vorrebbe dire posporre la tutela
all’accertamento irrevocabile di responsabilità del reo, dopo tre gradi di giudizio, con ovvie criticità
circa l’adeguatezza dell’intervento.
Vediamo quali sono i punti maggiormente rilevanti da considerare nella prospettiva di un
intervento a tutela che, come vi ho detto, muove dalla prima domanda sul “se” attivarlo.
La prima considerazione si rivolge alla famiglia, che può essere una risorsa oppure il principale
ostacolo alla realizzazione della tutela.
1.a la famiglia protettiva.
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In questi casi il maltrattamento proviene da un solo membro della famiglia, che lo isola e si schiera
accanto al minore.
Allora, diventa importante valutarne la solidità, allo scopo di sostenere le inevitabili fragilità,
ovvero individuare le strategie necessarie a stabilire un rapporto di fiducia che consenta il
dispiegarsi in favore del minore di tutte le risorse che la famiglia possiede, anche nella direzione di
un recupero del maltrattante laddove ve ne siano i presupposti.
Se si parla di recupero è perché il desiderio di ogni bambino al quale un familiare abbia fatto del
male non è quello di restituire male, ma di “farlo smettere”.
Sono tanti gli alibi dietro ai quali giustificare il maltrattamento, dalle provocazioni del bambino in
poi….Diventa, quindi, indispensabile il riconoscimento della propria responsabilità, sotto il profilo
morale, per imboccare una strada di ricostruzione e di recupero, che si presenta delicata e
complessa.
Una proposta di aiuto va ben calibrata perché si agisce in un ambito nel quale non è così facile
costruire, nel breve tempo che spesso gli eventi impongono, il necessario rapporto di fiducia.
Anche nei confronti della famiglia vale la necessità di conoscere non soltanto gli aspetti di criticità,
ma soprattutto, da punto di vista della tutela, le risorse personali di ciascun membro, sulle quali
costruire eventualmente un intervento di sostegno.
1.b la famiglia non protettiva.
E’ più difficile accertare se la famiglia non sia protettiva, perché solitamente quando non si
dimostra protettiva verso il minore in realtà lo fa per essere protettiva verso un adulto della
famiglia, ma scoprire l’inganno non sempre è agevole e a questo fine diventa molto importante
analizzare come si sia svelato il reato (inteso come denuncia), quale ruolo, in questa fase, abbiano
avuto i parenti diversi dagli originari indagati.
Quando, però, si abbia il dubbio sulla protettività non c’è alternativa all’attivazione di risorse
esterne alla famiglia, quantomeno nell’immediato.
1.c la famiglia maltrattante.
Rispetto ai figli la percentuale di maltrattamenti da parte delle madri sale rispetto a quello verso il
coniuge/compagno.
Nell’immediato appare intuitivo come di fronte alla famiglia che risulti coinvolta in prima persona
nel maltrattamento si debbano ricercare progetti di sostegno a prescindere da queste persone.
Diventa importante verificare se anche la famiglia allargata sia maltrattante, o se lo sia stata nei
confronti dei genitori maltrattanti, oppure se sia connivente, ma se i suoi membri sono indagati
non spetta al giudice civile approfondire nei loro confronti l’indagine e non vi è alternativa,
nell’immediato, alla ricerca altrove di un sostegno.
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Sul tempo lungo, invece, anche rispetto alla famiglia maltrattante vanno trovati spazi di
intervento, soprattutto se il minore è già grande o se vi sono anche minori grandi.
Il progetto “P.I.P.P.I.” , il progetto “Riunioni di Gruppo Familiare” ed un nuovo progetto di
contrasto alla violenza familiare che a breve sarà sperimentato a Torino sono un esempio di
progettualità che va nella direzione di affiancare alla tutela della vittima un massiccio sostegno
anche all’autore del maltrattamento che accetti di assumersi un impegno di cambiamento.
I primi due progetti, a differenza del terzo, sono nati per affrontare il disagio grave dii minori
all’interno della loro famiglia con modalità alternative al loro allontanamento dal contesto
familiare. In questo ambito, peraltro, si sono trovati ad affrontare situazioni di maltrattamento. Il
primo progetto è caratterizzato da un massiccio sostegno, all’interno della famiglia, per un tempo
definito, rivolto a ciascun membro della stessa. Il secondo si caratterizza per il principio di autogestione, guidata, delle soluzioni al pregiudizio, ed è fortemente orientato ad investire sulla
responsabilità di ciascun membro della famiglia, a partire dai desideri espressi dai minori, che sono
i principali protagonisti dell’intero intervento.
Il terzo progetto, che dovrà partire a metà dicembre, prevede l’immediato affiancamento del
maltrattante allontanato dalle Forze dell’Ordine da parte di un sistema articolato di aiuti, che
vanno dall’abitazione in cui trasferirsi, al sostegno psicologico; al sostegno delle associazioni di
genere e del Gruppo Abele, con interventi articolati sul breve e sul lungo periodo.
C’è, a questo proposito, l’esigenza di coinvolgere anche la scuola per organizzare una diffusione
dell’educazione alla riparazione anche in questo particolare ambito.
2. Il ruolo dei servizi.
La proposta di aiuto che proviene dai servizi non può prescindere dalla centralità del minore.
Può sembrare una ovvietà, ma così non è perché so per esperienza che è molto forte il rischio, da
un lato, di concentrare tutta l’attenzione sul maltrattamento ( come se fosse una cattedrale nel
deserto e non si potesse far altro che ignorare tutto ciò che sta intorno); d’altro lato, c’è il rischio
di divenire auto-referenziali, scivolando verso un inconsapevole maltrattamento istituzionale
proprio nel momento in cui cerchiamo di attivare un intervento a tutela.
Riportiamo, quindi, l’attenzione al centro e il centro non è il maltrattamento, ma è “il bambino”.
Dalla centralità del minore discende che tutti coloro che ruotano intorno a lui avranno
necessariamente una parte nella vicenda che lo coinvolge: potranno essere una minaccia o una
risorsa, più difficilmente potranno rimanere in una posizione neutra.
Così la scuola, il centro giochi, il pediatra o l’ospedale, il servizio sociale, il servizio di n.p.i. , le forze
dell’ordine.
Queste agenzie educative o protettive sembrerebbero rappresentare oggettivamente una risorsa,
ma in realtà lo sono soltanto alla condizione di essere in grado di mostrare attenzione, capacità di
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ascolto, volontà di protezione ed empatia; ma soprattutto debbono rammentare che il bambino
esiste, nelle sue esigenze, nei suoi desideri, nelle sue fragilità, a prescindere da ciò che ha subìto.
Lui non è il reato di cui sia stato eventualmente vittima.
Il rischio più grosso, in questi casi, è di avere davanti agli occhi solo l’abuso, la preoccupazione di
come gestirlo, la paura di esporsi o la fretta di chiedere la punizione dell’autore o l’ansia di attivare
una qualunque protezione del minore, a qualunque costo, dimenticando il bambino, cioè
dimenticando che il bambino ha bisogno di fidarsi per potersi affidare e per vivere ciò che stiamo
facendo per lui come un aiuto e non come una punizione; ha bisogno di ricevere rassicurazioni
coerenti con la realtà e di cominciare a dare un senso a ciò che gli è accaduto; ma ha anche
bisogno di essere bambino: di poter giocare, mangiare, dormire…
3. L’Autorità giudiziaria.
Anche l’autorità giudiziaria non sfugge alla verifica in concreto: si definisce oggettivamente una
risorsa - e se è Autorità giudiziaria minorile si definisce anche competente - ma è davvero risorsa
quando dimostra di essere capace di attenzione, di empatia e di ascolto; quando esprime volontà
di protezione e si pone come obiettivo il rispetto delle esigenze, dei desideri, delle fragilità del
bambino, a prescindere da ciò che ha subìto.
E’ una risorsa quando mostra di sapere che il “cattivo trattamento” istituzionale è dietro l’angolo e
il giudice può esserne l’autore.
E’ una risorsa quando sa riconoscere che il “cattivo trattamento” istituzionale ferisce come o più
del reato di cui il bambino sia vittima.
Abbiamo detto che l’Autorità Giudiziaria deve essere capace di attenzione e dobbiamo precisare
che la prima attenzione deve volgersi a garantire il coordinamento sia con le eventuali altre
Autorità coinvolte, sia con i servizi.
Il mancato o carente coordinamento danneggia sicuramente le indagini, ma soprattutto danneggia
il minore da proteggere, al quale viene restituita una immagine frammentata e distruttiva come o
più dell’abuso.
Il bambino, nella sua integrità, va riconosciuto come tale da chiunque lo avvicini e la sua integrità
non deve essere scalfita dal fatto che per i Carabinieri, per il P.M. e per il giudice sia un testimone,
né dal fatto che per il difensore dei genitori sia una controparte o dal fatto che per i servizi sia un
piccolo utente.
A questa attenzione “orizzontale” si deve aggiungere un’altra attenzione “verticale”, cioè nei
confronti del giudice superiore.
In altri termini, occorre essere pronti ad affrontare le contestazioni da parte della famiglia sia nel
sorso del processo civile di primo grado avanti al Tribunale, sia nel corso del processo civile nella
fase dell’appello avanti alla Corte d’Appello, sapendo che le argomentazioni su cui si è fondato
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l’intervento a tutela debbono reggere anche in secondo grado, di fronte a giudici teoricamente
meno specializzati ( tre togati e due onorari).
E’ immediatamente intuibile quale danno deriverebbe al bambino dall’alternarsi di decisioni
contrastanti sulla sua collocazione e, più in generale, sul suo futuro, quindi diventa di vitale
importanza poter offrire ai giudici, di primo e di secondo grado, il maggior numero di elementi utili
ad una decisione “duratura”.
La “tenuta” di una decisione dipende anche dalla univocità dell’interpretazione delle risultanze
processuali; quindi l’ampiezza degli approfondimenti si deve sempre accompagnare ad un
linguaggio comprensibile anche ai non addetti ai lavori - che, cioè, non possa generare equivoci
interpretativi – e ad una esplicitazione puntuale di tutti i passaggi logici.
Ad es. non si può dare per scontato che tutti sappiano quale danno derivi al bambino da certe
condotte degli adulti e quindi va, di volta in volta, esplicitato.
4. Il progetto.
Quando la famiglia sia maltrattante, ovvero si debba superare il dissenso dei genitori, o di uno di
essi, anche se estranei al maltrattamento, si impone, un provvedimento che garantisca
l’attuazione del sostegno necessario.
A questo proposito va considerato che il maltrattamento molto spesso si inserisce in uno scenario
di grave inadeguatezza, che ancor più aggravano le condizioni di vita del minore e che giustificano,
a volte, interventi maggiormente radicali.
Fissarsi sul maltrattamento espone al rischio di perdere di vista il contesto generale in cui vive il
bambino e di offrire risposte solo parziali ed inadeguate.
Possiamo, inoltre, non accorgerci della sofferenza dei fratellini della vittima di maltrattamento,
che spesso non sono, o non sono “ancora”, loro stessi vittime dirette, ma sono spettatori della
violenza.
La tendenza all’identificazione con l’adulto presenta molteplici insidie. Anche per operatori
preparati, che ben sanno cogliere come la violenza sul genitore in presenza del figlio fosse
“violenza” a tutti gli effetti anche sul figlio, c’è il rischio di non saper cogliere il medesimo
meccanismo verso i piccoli spettatori quando nessun adulto sia oggetto di maltrattamenti.
Così come la violenza diretta ad un bambino appare, a volte, meno grave di quella nei confronti di
un adulto.
Discorrendo con un collega della procura ordinaria su un caso di gravissimo maltrattamento da
parte di un padre, che aveva cagionato lesioni permanenti al figlioletto neonato, avevo appreso
che, nonostante il piccolo avesse corso pericolo di vita, la contestazione era stata di lesioni
aggravate e non di tentato omicidio. Il collega è un ottimo e sensibile magistrato, questo è un dato
certo, ma è anche un dato certo che se quella condotta fosse stata realizzata nei confronti di un
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uomo, magari un appartenente alle forze dell’ordine, la contestazione, quantomeno iniziale,
sarebbe stata di tentato omicidio.
6. Conclusione.
Non è possibile offrire soluzioni, ma si deve continuare a formulare domande. Non si possono
avere certezze. Non si può dare mai nulla per scontato. Ogni caso è a sé. Ogni persona merita di
essere trattata come persona, piccola o grande che sia.
Anna Maria Baldelli
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