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Qui - bookly, maybe.
AMAZING READERS & BOOKLY, MAYBE
Il veleno
Concorso a tema di
Amazing Readers e Bookly, Maybe
Alessia e Daniela
03/12/2014
Concorso a tema “Il veleno”
Organizzato da Amazing Readers e Bookly, Maybe
Gentilmente sponsorizzato da Las Vegas Edizioni
E finalmente ci siamo!
Ecco a voi l’ebook – provvisorio – che contiene tutti i racconti pervenuti entro la mezzanotte del 30
novembre 2014 per il primo concorso a tema organizzato da Amazing Readers e Bookly, Maybe,
e gentilmente sponsorizzato da Las Vegas Edizioni.
I racconti sono stati inseriti esattamente come sono arrivati per il concorso. L’unica modifica è stata
effettuata sulla formattazione, per uniformare tutti i testi.
Ora sta a voi leggere i racconti pervenuti e votare il vostro preferito!
Ebbene sì, avrete tempo fino al 20 dicembre 2014 per votare nel sondaggio aperto appositamente il
racconto che avete preferito. Il racconto più votato riceverà un bonus di 1 punto che potrà
determinare dei cambiamenti nella classifica.
A giudicare i lavori saranno Alessia e Daniela, le amministratrici rispettivamente di Amazing
Readers e Bookly, Maybe, che assegneranno a ciascun elaborato un voto da 1 a 5 valutando
secondo parametri quali il lessico, l’originalità dei contenuti e la pertinenza al tema del concorso.
Il voto del pubblico, una volta chiuso il sondaggio, assegnerà un punto bonus al racconto che
risulterà il preferito. In questo modo potrebbe addirittura determinare la vittoria del concorso!
In caso il voto del pubblico determinasse un pari merito, sarà preponderante il giudizio di Alessia e
Daniela.
Il sondaggio sarà controllato, per evitare voti fasulli, e sarà gestito tramite la piattaforma
Polldaddy. Per permettere ai lettori di scegliere il proprio preferito senza “pregiudizi”, i racconti
saranno qui pubblicati in forma anonima. Per questo motivo, troverete i racconti in ordine alfabetico
in base al titolo, mentre il sondaggio vi presenterà i titoli in ordine casuale.
In seguito alla chiusura del sondaggio, questo ebook verrà aggiornato e ad ogni racconto sarà
correttamente associato il suo autore.
Alessia e Daniela colgono l’occasione per ringraziare Las Vegas Edizioni, che ha gentilmente
sponsorizzato il concorso e che donerà al primo classificato una copia in ebook de “I cattivi
pensieri”; tutti i partecipanti al concorso, che di fatti ci permettono di creare questo ebook, oggi; e
tutti coloro che scaricheranno, leggeranno e voteranno.
Siete grandi!
Sommario
Dopo ................................................................................................. 4
Il fastidio della patina sui denti .......................................................... 8
Incuora ............................................................................................ 11
L’Eden di rose viola ........................................................................ 14
Lei, lui, loro ..................................................................................... 17
Ludwig 2.0 ...................................................................................... 21
Omnia venenum sunt...................................................................... 24
Passione e follia.............................................................................. 27
Per sempre insieme ........................................................................ 30
Dopo
M
i fermo.
Lo sento sempre, quando si addormenta. E dire che non respira diversamente, no.
Neppure inizia a russare. Ettore non ha mai russato. È qualcosa che manca
nell’aria, un profumo lieve che svanisce.
Alzo gli occhi dallo scialle che sto sferruzzando. Ettore è lì, la testa storta sul cuscino chiazzato
di bava. Lo lascio dormire, cambierò la federa quando si risveglia. Appoggio ferri e scialle sul
comodino, vicino al cucchiaio e al flacone delle gocce. Prendo il campanellino e glielo lego
all’indice della mano sinistra. Fermo il cronometro.
2:11:40.
Quando prima gli ho cambiato il pannolone ho fatto un brutto movimento, e adesso mi fa male la
schiena. Mi stanno anche venendo, e ho la nausea. La menopausa di Lisa è più semplice della mia.
Ma lei non ha un compagno inchiodato a letto da un ictus. Non è da sola in casa, senza figli. Non è
stata coccolata per vent’anni da un Ettore come il mio. Regali. Jet set. Romanzi presentati sul lago
di Como. Vernissage. La Prima della Scala.
Avrò tempo per pensare alla mia menopausa, dopo.
Controllo il flacone: è ancora a tre quarti.
«Finirà prima lui delle gocce», mi aveva rassicurato il dottore.
«Se ne accorgerà?», avevo chiesto.
Aveva accartocciato le labbra in un sorriso storto. «Tutte le medicine, in fondo, sono veleni.»
«Ma è sicuro?»
«Lo consiglio a tutti. Bastano quattro, cinque settimane.»
«Dieci gocce al giorno», avevo ripetuto.
Aveva annuito. «E dormirà sempre più a lungo. Quando non riesce a star sveglio neanche un’ora,
passi a venti gocce ed è fatta.»
«E se l’assicurazione se ne accorge? Dico quando lui… insomma…»
«Mai successo.»
«Lei, come dottore… le sembra giusto?»
Ancora quel ghigno divertito. «Le assicurazioni, in fondo, sono come le banche: associazioni a
delinquere.»
Me l’hanno rimandato a casa dall’ospedale, dicendo che dovevo tenermelo così. La vista è
andata, come le gambe e il braccio destro. Ogni tanto apre mezza bocca e sospira due mezze parole.
Mai capito cosa dice. Forse fa solo per prendere aria. Dopo, smetterà.
Se l’avessi messo in una struttura avrei speso una follia.
Le sue cose di valore le ho già vendute anni fa, quando calarono i diritti d’autore. Quando le sue
comparsate culturali non furono più ricercate. Per fortuna che c’ero io a gestire i suoi soldi, i suoi
titoli.
Le sue assicurazioni.
Un uomo non sa badare alle cose di casa.
Piazzai per primi i suoi libri rari. Poi le sue cravatte Fiorio. Avevo appena iniziato con i
francobolli, quando gli è venuto l’ictus.
Se l’avessi messo in una struttura sarebbe potuto campare ancora anni e anni.
Venti giorni fa stava sveglio anche quattro ore. Sei ore, una volta. Ma dura sempre meno.
Se l’avessi messo in una struttura, avrei dovuto vendere anche i miei Swarovski e le mie Hermés.
Stringendo la cinghia, sono ancora qui.
Devo avere ancora un po’ di pazienza.
Avrò tutto il tempo del mondo, dopo.
Il campanellino tintinna e mi sveglia. Sbatto via la coperta e mi alzo dal divano scolorito. Ho già
trovato un favoloso Epoque con cui sostituirlo, dopo. Torno da lui e faccio partire il cronometro.
Pizzico dieci gocce nel cucchiaio, lo imbocco. Cambio la federa. Gli slego il campanellino. Lui
guarda il niente con quegli occhi impastati dal sonno e apre la bocca, due volte.
Dedico tutta la mia attenzione allo scialle. Incrocio i ferri e ricomincio.
«Sei proprio brava!», aveva esclamato Lisa, dieci giorni fa, rimirando quel paio di babbucce. Il
mio primo lavoro a maglia dopo ventiquattro anni. Sono ancora brava.
«Era il mio mestiere, da ragazza», avevo risposto.
Aveva taciuto un po’. Come se non fossi mai stata ragazza. Come se avessi sempre vissuto da
signora. Lei che ne sa di anni di miseria e brutti vestiti, in attesa del colpo della vita? Ha sposato un
muratore. Ed è così stupida da esserne felice.
«Serve un sacco di tempo», aveva detto Lisa, alla fine.
«Ho un sacco di tempo, mentre sto con lui.»
«Perché non prendi una badante?»
«Ettore è mio. Ci voglio pensare io.»
Non è perché una badante costa.
Non solo.
Potrebbe sbagliare il dosaggio.
Farsi domande.
Testimoniare per l’assicurazione.
Ricattarmi.
Ettore crolla quando il cronometro segna 1:57:55. Infilo il naso sotto le coperte e annuso il
pannolone: ancora a posto. Termino lo scialle e lo alzo alla luce del lampadario. È perfetto. Chissà
quanti lavori riuscirò ancora a fare, mentre sto qui con lui. Pochi, mi sa.
Che sono mai poche settimane?
Devo avere ancora un po’ di pazienza.
Avrò tutto il tempo del mondo, dopo.
Il solito tintinnio. Vado da lui. Cronometro, gocce, campanellino: il piacere della routine.
Mi sono fatta portare da Lisa una matassa di filo nuova, un bel blu cobalto. Ci verrebbe fuori un
maglione incantevole, per quelle domeniche in cui non c’è niente di importante, in giro, e tanto vale
riposarsi nella pace della propria casa.
Ma di maglioni ne ho già tanti.
Potrei farlo per Lisa.
Non le ho mai fatto un regalo.
Ma cos’ha lei da offrirmi?
No, mi servono nuovi amici. Per dopo.
Una zaffata inequivocabile mi artiglia il naso. Faccio una smorfia, mi alzo e prendo un paio
nuovo di guanti in lattice dall’armadio. Ettore è lì. Ha gli occhi chiusi ma non dorme: lo sento
sempre, quando si addormenta.
Abbasso le coperte, a scoprire i suoi muscoli consumati. Non sono mai stati un granché, ma non
mi è mai interessato.
Avvicino le mani al pannolone e succede.
Il campanellino tintinna.
Mi afferra il mignolo.
La stretta impalpabile di un neonato.
Il cuore mi manca un battito, forse due.
Ora Ettore ha gli occhi spalancati, e apre la bocca come fa sempre. Mi chino su di lui e ascolto.
Due sussurri che sembrano una sola parola.
Appoggio l’orecchio sulle sue labbra.
«Grazie.»
Non sono sicura che lo dica.
«Grazie.»
Ma sono sicura di sentirlo.
«Grazie.»
Un tepore mi nasce dietro gli occhi. Caldo. Ancora più caldo. Mi accascio su di lui, lo abbraccio
come non facevo da anni, il mio viso sul suo.
Quando mi rialzo le nostre guance sono bagnate. Non so di chi siano le lacrime.
Devo pulirlo.
E voglio pulire anche la camera. E il comodino. Campanello, cronometro, gocce. Quante cose da
sbattere via.
Non gli ho mai fatto un regalo.
Potrei farlo per lui, il maglione.
Ho tutto il tempo del mondo, adesso.
Il fastidio della patina sui denti
H
o bisogno di lavarmi i denti, la pizza mi lascia sempre una patina fastidiosa.
Non avevo i soldi precisi, colei che chiamano Svetlana sosteneva di non avere il
resto. Ovviamente non si chiama davvero Svetlana e dubito che non avesse cinquanta
centesimi. Ho mangiato lì, come sempre. "Mangi qui o mangi per strada?" ti chiede lei. Tra noi
universitari è ormai più famosa dell'ultima icona pop. All'inizio mi ha detto: "Non hai soldi, prendi
acqua." Ma io una bottiglietta d'acqua ce l'ho già, gonfia il tascone inferiore del mio logoro Eastpak
nero. Ho selezionato uno sgabello malfermo da cui però potevo guardare la TV, dapprima
gongolante poiché davano il TG3. Assorbito dalla bieca cronaca di questi nostri tempi oscuri, l'ho
presa come un'offesa personale quando Svetlana ha cambiato canale allungando il braccio verso lo
schermo con gesto casuale: un programma americano di ricettatori tatuati che vendevano
motociclette. Ero profondamente indignato, ma ho continuato a guardare perché l'uomo è un
animale curioso. È anche il più depravato per lunga tradizione. Mi ero fatto leggermente più
malinconico del solito, indi per cui mi sono tuffato nella pizza con le zucchine, il che farebbe
esclamare mia madre "Tu che non mangi mai niente ti vai a comprare la pizza con le zucchine."
Questa è la prova incontrovertibile che si è in continuo mutamento e non si sa mai cosa ci riserva il
futuro, se tutti noi stiamo correndo proprio ora verso un cupo finale di piaghe e lacrime in paesaggi
gremiti di tristi presagi di cui non ci accorgiamo o se invece sali sali sali arriviamo sulla vetta
dell'Everest e poi per tornare giù c'è l'ascensore. Ovviamente dentro l'ascensore c'è Salma de Nora
che mangia pizza con le zucchine.
Sulla parete di fronte a me c'era il solito Colosseo mitologizzato su una verde pianura e un
laghetto piacente assai. C'è stato chi ha avuto lo spietato vigore intellettuale di criticare la
prospettiva di codesta lieta immagine, ché gli archi retrostanti non si possono vedere, di su e di giù.
Io non capisco come certe persone possano guardare a questa moderna pittura parietale con tanta
pignoleria, senza abbandonarsi all'emozione. Appare evidente che essi non abbiano un cuore. La
gente che non ha un cuore, per esempio, lascia il proprio ragazzo alla fermata del 90 tre giorni dopo
che si è fatta chiavare pure l'anima e gli ha detto "Sei tutta la mia vita". Ma queste sono cose di poco
conto.
Molto più importante il TG3 infatti, se me l'avessero lasciato vedere. Anche se ancora meglio del
TG3 è Presa Diretta o Report che mi permettono di disgustarmi della nostra Bella Italia. Così mi ha
detto una volta un istraeliano installatosi ad Aprilia, provincia di Latina, per Dio solo sa quale
motivo. In quel tempo forzavo groppi di volantini nelle cassette della posta. Costui mi si rivolse in
un inglese piano (quadro comune riferimento europeo A0) blaterando sulla naturale commozione
che porta il confronto con una città seducente e multiforme come Londra. Infatti disse "I cry"
mentre il suo indice scorreva sul Big Ben del volantino. Il fatto che fosse una persona laconica non
tolse nulla al suo messaggio. Tuttavia io stupii et mi maravigliai forte che un istraeliano vivesse in
quel di Aprilia (molti mi prendono in giro perché dico "ApriGLia", io replico che si tratta di pura
calunnia), allorché chiesi delucidazioni in un inglese medio (quadro comune riferimento europeo
B1). Lui parve emozionarsi, allargò le braccia come ad abbracciare tutti noi italiani che viviamo
nella bellezza e nel fango pure ma nel fango di più e con voce rotta dall'emozione, disse "Bella
Italia!"
Io questa immagine non me la toglierò mai dalla mente, è come quando capisci che hai
abbastanza punti per poter ordinare qualcosa dal catalogo di EnelPremia, ora EnelPremia2 perché si
perpetua come l'ebola. Un momento speciale, insomma. Come quando i tuoi litigano poiché si
odiano a morte. No, questo succede tutti i giorni.
Sia quel che sia del doman non c'è certezza nuvole a pecorelle pioggia a catinelle eccetera a un
certo punto mi è venuta una leggera fitta, ho pensato fossero le zucchine, sicuramente non era colpa
di Salma de Nora, che pure di qualcosa nella sua vita dedita alla jouissance sarà colpevole, di algo
si rammaricherà e così via. Perché, Umberto Eco di qualcosa non si rammarica? (In effetti, a
vederlo vergare Il nome della rosa mi sa di calcolato genio, uno così non lascia niente al caso.)
Volgendomi all'oblungo tavolino centrale, ho inoltre notato delle persone che conoscevo. Per
così dire, poiché non si conosce mai nessuno fino in fondo. Proprio per questo bisogna vivere come
se tutti celassero serramanici nel cuore e da un momento all'altro potessi perdere tutto ciò che hai,
anche perché è puntualmente quello che succede malgrado Coso si sia immolato per i peccati miei e
tuoi. Spaventoso come l'educazione cattolica si innesti nella tua mente fin dalla più tenera età per
continuare a prosperare a livello inconscio anche quando hai abbandonato riti e credenze. Ne
parlavo proprio una sera di queste motivando la mia necessità psicologica di mantenermi
monogamo. Non ricordo bene con chi. Questo mi fa pensare a quella mattina in cui un brivido
freddo mi percorse allorché mi trovai faccia a faccia con una persona che sapevo di conoscere, ma
di cui non ricordavo praticamente nulla.
Una fitta leggermente più forte dell'altra mi ha sorpreso mentre accartocciavo il tovagliolo. Ho
pensato fosse il dispiacere di non poter vedere il Tg3 o di non avere accanto a me Tutte le poesie di
Jolanda Insana a mo' di portafortuna.
Mi sono posizionato lateralmente rispetto al bancone in attesa di poter reclamare il mio geld,
poiché la pizzeria era presa d'assalto. Indubbiamente la mia sola terribile presenza deve aver ispirato
terrore nella Svetlana che di lì a poco mi ha porto moneta, dicendo "Ecco tuo resto."
Mi sono fatto strada nella calca con soddisfazione. Mentre riempivo la bottiglietta alla fontanella
lì davanti (e io avrei dovuto spendere cinquanta centesimi per una bottiglia d'acqua?: domanda
retorica) mi è venuta però un'altra fitta, più forte della precedente e di quella prima ancora e la
bottiglia mi è scivolata di mano.
Mentre crollo come al ralenty sul marciapiede (com'è sporca Roma oggigiorno) mi torna in
mente che poco prima ho preso un veleno mortale perché mi ero stufato di vivere.
Ho bisogno di lavarmi i denti, la pizza mi lascia sempre una patina fastidiosa.
Incuora
I
l mio nome era una condanna, un peso sulla mia identità. Quel nome, che avrebbe dovuto
caratterizzarmi, per me era una catena. Mia madre mi aveva chiamata Allegra, io che
allegra non ero. Su di me quel nome non aveva senso, era sgradevole e doloroso come sale
sparso su ferite aperte.
E quando mi chiamavano, mi sentivo beffata.
Ogni giorno a scuola, durante l’intervallo, noi bambini infiocchettati nei grembiulini blu,
correvamo per le scale dell’edificio e ci riversavamo nel cortile, in quel girotondo di alberi alti, che
poi così alti non erano, e seduti ascoltavamo il racconto del canto ammaliatore delle sirene di Ulisse
e dei ranocchi che si trasformavano in principi. Mi sarebbe piaciuto crederci ma non mi stupivo
quando la realtà incombeva. Non ero una sirena e se cantavo, gracidavo. Ero piuttosto una
ranocchia, piccola e minuta. Ero bassina, ero goffa, e la palla con cui giocavo con i miei compagni
nel cortile della scuola non raggiungeva mai le mie mani. Colpiva la mia testa, quella sì, sempre.
Colpiva la mia schiena. I miei compagni giocavano a palla avvelenata. Ma avvelenavano me
anziché quella sfera. Così non mi lasciai più colpire da quella palla, la schivai, decisi di non giocare
più con loro, escludendomi da sola. Ero legata nei movimenti, ma non tanto da non potermi
inginocchiare per terra, e durante la ricreazione disegnavo con il dito sul pavimento del cortile i
dolci che la nonna impastava e infornava. I miei preferiti erano le nevole a forma di cuore. Le
decorava a mano e le esponeva al pubblico su un grande vassoio.
La nonna era la proprietaria di un’elegante pasticceria ereditata dai suoi bisnonni e da quando
avevo imparato a camminare, la pasticceria era la mia casa. Trascorrevo, parcheggiata lì, le mie
giornate, sola con mia nonna e i suoi dolci. Un’infanzia amara in un laboratorio profumato di
zucchero. I miei genitori lavoravano in giro per il mondo e quando tornavano, la mia richiesta era
sempre la stessa: «Mi regalate un fratellino?». Loro rispondevano sempre con la stessa promessa:
avrebbero colmato quella mancanza che tanto mi rattristava. Così nell’attesa passavo il mio tempo
ad anagrammare le parole. Provai ad anagrammare il mio nome, Allegra, e poi anagrammai nevole:
Legarla, veleno. Legarla al veleno. Era il rebus della mia vita che dovevo completare per poi
risolverlo e riscattare il mio nome.
Quando fui certa che il mio fratellino non sarebbe mai arrivato, iniziai a cercarlo ovunque fosse
possibile nel mio microscopico mondo: tra i banchi di scuola o tra i piccoli clienti della pasticceria.
Cercavo un fratello tra possibili fratelli come antidoto alla solitudine che vivevo nei lunghi
pomeriggi passati ad anagrammare parole e ad impastare nevole.
Un giorno entrò nella pasticceria della nonna un bel bambino biondo. A colpo d’occhio mi
sembrò il fratello giusto. Chiese l’intero vassoio di nevole ed io, veramente allegra, glielo
impacchettai. Scoprii ben presto che era ucraino, che abitava poco distante dalla pasticceria, che
frequentava la mia stessa scuola e che anche lui odiava giocare con quell’affare rotolante che
colpendo avvelena ed esclude chi non è lesto, facendolo piombare nella solitudine.
Legarla al veleno, della solitudine, avevo sempre pensato.
Non era possibile, non potevo essere più sola con il fratello ucraino che mi somigliava: non era
campione di palla avvelenata e i suoi dolci preferiti erano le nevole. Mi stavo convincendo che il
rebus sul quale il mio cervello lavorava, utilizzando i due anagrammi che caratterizzavano la mia
vita, si stesse completando con l’arrivo del fratello ucraino che avevo deciso di adottare.
Un giorno anagrammai ucraino e sobbalzai: cianuro!
Legarla al veleno con il cianuro! Mi sentii soffocare.
Il bambino ucraino, l’antidoto alla mia solitudine, diventava pericolosamente asfissiante come gli
effetti che procura il cianuro… era un paradosso o una salvezza?
Avrei voluto credere che fosse solo una coincidenza, ma dal momento in cui anagrammai quella
parola, il mio fratellino scomparve. Lo cercai a scuola, tra i tavolini della pasticceria. Lo cercai tra i
rintocchi del tempo che passava troppo lento senza la sua compagnia. Lo cercai ma non lo trovai.
Passò il tempo e mio fratello non tornò.
Ero sola. Ero di nuovo sola. Mi rinchiusi nel laboratorio della nonna e impastai un’infinita
quantità di nevole. Creavo i suoi dolci preferiti e la rabbia dell’abbandono mi divorava. In quelle
nevole, mentre manipolavo la pasta, ci mettevo la mia essenza: il sentirmi sbagliata e amareggiata.
Vendevo le nevole con la nonna. La gente le comprava e le mangiava. Vendevo il mio veleno alla
gente. Vendevo le mie nevole con dentro il mio dolore.
Pur di non morire di solitudine avrei preferito soffocare legandomi al cianuro.
Non ebbi mai bisogno della cura contro il veleno. Ne cercai una contro la solitudine, ma non la
trovai.
Un pomeriggio, poche settimane più tardi, io e la nonna aprimmo come sempre il laboratorio.
Quando mi voltai per richiudere la porta di vetro alle mie spalle, vidi mio fratello in piedi, sul
marciapiede di fronte, fermo. Mi guardava e sorrideva. Mi fece ciao con la mano e iniziò a saltare.
Senza avvisare la nonna, mi precipitai in strada e la attraversai correndo. Quando me lo trovai di
fronte, non gli rivolsi la parola. Preferii non farlo, non dissi niente. Temevo che una mia sola parola
potesse essergli letale, per quanto veleno sentissi di avere dentro di me.
«Sono tornato. Sono stato in Ucraina per passare qualche settimana con la mia nonna. Per
salutarla l’ultima volta». Una lacrima gli attraversò il viso. Ci abbracciammo forte, forte.
Ritornammo insieme nel laboratorio e gli insegnai a creare i suoi dolci preferiti.
Un pomeriggio mentre affondavo le mani nella pasta delle nevole, mi ritornò in mente la parola
“ucraino” e la anagrammai nuovamente. Scoprii che nascondeva un altro significato: incuora.
Incoraggia. Scoprii che lui non era veleno, ma era coraggio.
Mi feci coraggio e decisi di anagrammare una seconda volta il mio nome: “gallare”, galleggiare.
Non ero legata, ma galleggiavo. Non ero affogata, avevo resistito. Avevo galleggiato in attesa che il
coraggio ritornasse in me.
Le nevole da quel giorno ebbero un sapore diverso.
Iniziai con mio fratello, ad impastare le mie storie migliori. In quelle storie, in quelle nevole, ci
misi coraggio, speranza e tanta forza per contrastare la resa.
Il nostro veleno si trasformò in cura.
L’Eden di rose viola
L
a falce di luna tardava a scomparire alle spalle dei Colli Ventosi, l’alba s’avvicinava
inesorabile, e la compagine rimaneva unita, nascosta nell’ombra. Si trattava di quasi un
centinaio di uomini, appartenenti a due gilde da sempre rivali, ma che avevano deciso
di unire le proprie forze contro un nemico comune che da tempo deteneva il predominio nella zona
sud-est del paese, i Royal Rose.
La gilda degli Specter, che aveva sede nella città di Wingstone, e la gilda dei Red Cobra,
originari invece delle Terre di Yamas-Ul, da tempo elaboravano un piano atto ad indebolire i Royal
Rose. Da un paio di decenni oramai quest’ultimi avevano accresciuto il proprio potere tanto da
rendere difficoltoso alle altre gilde lo svolgimento dei propri affari all’interno di quei confini.
Ma adesso l’occasione sembrava propizia: Difatti un membro dei Royal era stato catturato da un
manipolo di Specter, e condotto nelle sale della vecchia cattedrale abbandonata di Wingstone, e
interrogato dal Gran Maestro della gilda: Jian “Torturatore di Menti”.
Mediante la sua arte, basata sull’utilizzo della fiala nera, il veleno che gli Specter raffinavano nei
propri laboratori alchemici, era riuscito ad entrare nella mente del malcapitato e a scoprire cosi
l’esatta ubicazione del giardino segreto dei Royal Rose, fonte stessa del potere della gilda. Difatti in
quel labirinto di piante e fiori rari, crescevano e sbocciavano le Violet Rose, rose dal sinistro e
affascinante colore viola, che racchiudevano in sé un veleno estremamente letale, cosi potente da
uccidere all’istante chiunque ne entrasse in contatto.
Una volta entrato in possesso di tali informazioni, Jian chiese l’aiuto di Noah “Il Piromane”,
capo-gilda dei Red Cobra. Sarebbe servito il loro contributo e la loro abilità in combattimento per
poter portare a termine la missione con successo. I Red Cobra erano combattenti formidabili,
soprattutto in mischia, il potere del veleno che secernevano in sé e nelle proprie armi aveva le
proprietà di corrodere e bruciare qualunque cosa, organica o inorganica, per questo era denominato
“il fuoco vivo liquido dei Cobra”, ma non tutti sapevano maneggiarlo con destrezza, tanto che molti
di essi avevano arti e visi sfigurati dal maldestro utilizzo della propria arma.
A guidare la brigata vi erano due luogotenenti nonché campioni delle rispettive gilde: Misty,
detto “Black Dream”, per gli Specter, e Oliver “Il Sanguinario”, per i Cobra. Il primo era poco più
di un ragazzo, ma era secondo solo al proprio maestro nel padroneggiare l’arte della gilda, la sua
forma esile e l’abbigliamento poco fastoso nascondevano alla vista la sua vera natura. Oliver invece
era un uomo corpulento, portava con se un’enorme martello che utilizzava per sbaragliare i nemici,
per quello e per il suo atteggiamento sempre iroso s’era guadagnato l’appellativo con cui era
conosciuto in gran parte della Nazione.
L’attacco cominciò alle prime luci dell’alba, come previsto. Poco più di metà della compagnia
assaltò i cancelli principali del giardino segreto. Le vittime iniziali dei difensori furono ingenti dato
che l’accatto arrivò come un fulmine a ciel sereno. Approfittando della confusione creatasi il
secondo gruppo con in testa i due luogotenenti si spinse fin dentro al labirinto dirigendosi verso il
centro di esso. Le informazioni memorizzate da Misty permettevano alla compagnia di non perdersi
in mezzo a tutto quel fogliame, inoltre gli unici ostacoli che avevano incontrato fino a quel
momento erano stati dei piccoli manipoli di Royal che erano stati prontamente sbaragliati e lasciati
a terra agonizzanti.
Di li a poco si trovarono di fronte al loro obiettivo: la collina delle Violet Rose. Si trattava di una
collinetta posta al centro dello stesso labirinto, dalla base fino in cima era ricoperta che da quelle
rose viola tanto agognate e temute. Uno spettacolo paradisiaco, tanto potere e terrore in qualcosa di
cosi bello.
L’obiettivo della compagnia era di incendiare l’intero giardino, ma non prima di aver prelevato
quanti più germogli possibili, in modo tale da poterli studiare e replicare in laboratorio.
Ricevuto l’ordine, gli uomini destatasi da quella visione meravigliosa si diressero verso la base
della collina per prelevare i campioni che sarebbero serviti, ma non riuscirono ad avvicinarsi a dieci
passi da essa che caddero a terra, tramortiti da qualcosa che li aveva colpiti dall’alto. Cosi, coloro
che erano rimasti in piedi, compresi Misty e Oliver, alzarono lo sguardo al cielo e videro una figura
in cima alla collina. <Chi sei? Scendi> intimò Oliver con voce possente, l’uomo scese d’un balzo
dalla cima della collina; non si vedeva il volto, era completamente avvolto in una tunica bianca e
logora, <Mostraci il tuo volto, uomo.> esclamò Misty con voce calma <non penserai mica di
sbarrarci il cammino tutto da solo> aggiunse, soffocando una risata. <Non sono da solo> rispose
l’uomo tirando il cappuccio dietro la testa e mostrando cosi il volto, <Comunque si, vi riuscirei
anche.> concluse.
Gli sguardi dei presenti rimasero sbalorditi, l’avevano riconosciuto dalle cicatrici inconfondibili
che portava sul viso, era Rozav, “L’eremita delle rose”: si pensava fosse scomparso da tempo nelle
Terre dei Titani, invece no, era li di fronte a loro, e si contrapponeva all’obiettivo.
Oliver partì all’attacco e i suoi gli furono da supporto, si scagliarono insieme contro il nemico,
quest’ultimo con destrezza estrasse la spada e nel farlo petali viola svolazzarono in aria
bersagliandosi, come se guidati, sui volti e sugli arti scoperti degli aggressori, che caddero a terra,
inermi. Solo Oliver, creando brezze di fuoco nel roteare il proprio martello era riuscito a non farsi
cogliere impreparato da quell’attacco, e colmo di furia fu di nuovo sul nemico, ma anch’egli sapeva
ben difendersi, e tra una schivata e una parata riuscì a uscire indenne ad ogni colpo del campione.
Gli Specter ancora in piedi si diedero alla fuga terrorizzati voltando le spalle sia all’eremita che
alla collina loro obiettivo, persino Misty si rese conto che stavano fronteggiando un nemico troppo
potente per loro, e proprio quando si voltò per fuggire anch’egli, udì l’urlo di dolore di Oliver che
periva sotto la spada di Rozov. Ma non ebbe nemmeno il tempo di voltarsi che vide una figura
fulminea strisciargli incontro, e quando si erse dinanzi a lui capì cosa intendeva dire l’eremita
quando aveva detto di non essere da solo.
Un enorme basilisco viola gli sbarrava la strada con fare minaccioso, ebbe appena il tempo di
sentire il sibilo della creatura e di vedere il sangue dei propri compagni lungo la scia lasciata da
essa, che il suo collo fu spezzato con un colpo di coda, tanto lesto da sferzare l’aria.
Il basilisco gettò il corpo ancora in preda agli spasmi una ventina di metri più in la, e si diresse
verso l’eremita, che gli accarezzo la testa squamata con fare amorevole dicendogli: <Bravo amico
mio. Abbiamo protetto bene la nostra casa.>.
Lei, lui, loro
L’amore è veleno. L’amore è antidoto.
L
ei
Francesca aveva ventinove anni, sapeva di essere bella, ma non mostrava mai di
sentirsi tale. Era riservata e timida, ma con un’enorme sensibilità. Il suo cuore si era
spezzato da poco: aveva convissuto per cinque anni con Giulio, un ragazzo che aveva conosciuto
all’università, un ragazzo con il quale sembrava possibile condividere tutto, interessi, amore, vita.
Lui l’aveva lasciata due settimane fa, tirando fuori la solita scusa, che era troppo presto, che
avevano sbagliato a fare tutto così rapidamente,… in realtà lei lo sapeva, Giulio aveva un’altra, da
mesi ormai… Francesca era sempre stata zitta, perché la paura di perdere le certezze l’aveva sempre
terrorizzata, lei non sapeva prendere decisioni, non le aveva mai prese.
La casa che avevano affittato l’aveva scelta Giulio, ai mobili ci aveva pensato la suocera…
Ora, senza Giulio, si sentiva smarrita, persa nelle sue incertezze!
Dopo l’abbandono Francesca aveva passato una settimana ad abbrutirsi, trascinando il suo corpo
dal letto al divano, mangiando solo gelato e svuotando pacchi interi di kleenex. Giulio rivoleva la
casa, quindi le aveva concesso una settimana per raccogliere tutte le sue cose e andarsene,…lei non
aveva amici e, raccattate le poche cose che aveva, tornò nell’unico posto che conosceva, casa dei
suoi. Nella cameretta si era immersa nei suoi ricordi, nei suoi rimpianti, nelle sue lacrime. La madre
la costrinse ad uscire, trovando la scusa di una fiera che distava solo qualche chilometro…attirata da
una bancarella, il suo sguardo si poggiò subito su un paio di meravigliosi orecchini turchesi.
L
ui
Marco era sempre stato un tipo sveglio, fin da bambino! Il ragazzino intraprendente era
cresciuto, ed era diventato un uomo molto sicuro di sé.
Lui lavorava in uno studio legale.. Era un avvocato, ed era pure bravo nel suo lavoro. Laddove
non riusciva ad arrivare con le parole, ci riusciva con il suo sorriso, un meraviglioso sorriso che
faceva cadere ai suoi piedi qualsiasi donna.
Aveva scelto Giurisprudenza perché gli era sempre piaciuto difendere gli altri, riusciva a mentire
spudoratamente e aveva le scuse sempre pronte, sintomo di una mente brillante ed eccezionale.
Marco aveva un divorzio alle spalle: Gloria lo aveva lasciato due anni fa, dopo dieci anni di
matrimonio: lei era sempre stata una giovane arrivista… finalmente aveva trovato un altro pollo da
spennare, il dirigente di un’azienda di consulenza fiscale. Marco sapeva che con lei non sarebbe mai
stato un matrimonio con il “Per sempre” alla fine, ma l’aveva amata e il sesso tra loro era sempre
stato fantastico. Quando Gloria lo aveva informato della separazione, lui si era versato un bicchiere
di whisky e le aveva detto semplicemente addio, chiedendole di andarsene il prima possibile.
Per farlo svagare i suoi amici decisero di andare a cena tutti insieme al Vecchio Marinaio, una
trattoria in cui la cuoca Maria preparava un fritto di pesce buonissimo. A Marco sembrò una buona
idea e accettò l’invito.
Finito la cena, un collega propose di andare tutti a bere una birra nel suo paesino, c’era una fiera,
noiosa come tutte le fiere, sempre uguale a se stessa, ma lo stand delle birre artigianali era sempre
stato un buon luogo di ristoro, e inoltre conosceva il proprietario… si sarebbero di sicuro fatti
qualche giro gratis.
All’entrata del capannone c’era una meravigliosa ragazza!I suoi capelli scuri e quell’abitino
color fiordaliso risplendevano tra tutti i gioielli della bancarella…
L
oro
Francesca guardava un paio di orecchini turchesi, Marco era fermo, attonito, come se i
suoi piedi fossero stati ancorati al pavimento. Non riuscì a trattenersi e la raggiunse…
ma poi che dirle? Magari lei nemmeno lo aveva notato, anzi probabilmente era stato un colpo di
fulmine a senso unico!
Cosa fare? Come provare a conoscerla? Marco optò per il solito metodo del “ti offro qualcosa”,
le si avvicinò dopo aver fatto un bel respiro e
- Ciao, io sono Marco… volevo chiederti se ti andava di bere una birra con me, senza impegno si
intende…Francesca era sconcertata da questo invito improvviso, ma poi pensò che forse era arrivato il
momento di godersela questa vita… e allora
- Ciao, io sono Francesca, beh una birra la accetto volentieri!La serata passò velocemente, tra le chiacchiere e le risate… forse lei non aveva fatto così male
ad uscirci.
La mamma di Francesca la richiamò all’ordine: voleva tornare a casa, era troppo stanca. I due si
scambiarono i numeri, con la promessa di sentirsi l’indomani.
Un abbraccio, un po’ goffo e imbarazzante, mise fine alla serata.
Marco non ci riusciva proprio ad aspettare fino al giorno dopo… e decise di scriverle
un messaggio
EHILÀ, MAGARI STAI GIÀ DORMENDO DA UN PEZZO! LA TUA COMPAGNIA È STATA
MOLTO PIACEVOLE STASERA. SE TI VA POTREMMO REPLICARE DOMANI SERA.
TI AUGURO DI PASSARE UNA DOLCE NOTTE E UN OTTIMO RISVEGLIO.
MARCO
Francesca era sveglia, lesse il messaggio di Marco tre o quattro volte prima di decidere cosa fare:
sì, voleva rivederlo!
CIAO MARCO, È STATA DAVVERO UNA BELLA SERATA, HAI RAGIONE! BEH, PER
QUANTO RIGUARDA LA CENA, MAGARI POTREMMO PARLARNE DOMANI MATTINA DAVANTI
AD UN BUON CAFFÈ… BUONANOTTE…
FRANCESCA
Francesca fu la prima ad arrivare al bar. Prese un tavolino in un angolo e aspettò l’arrivo di
Marco. Dieci minuti dopo arrivò lui, bello, bellissimo nel suo completo Armani… il sorriso
reciproco fu l’inizio di una lunga conversazione…
Esito del caffè: positivo. Cenetta alle ore 20.
Quella fu solo la prima di una lunga serie di cene e pranzi e colazioni insieme!
Sei anni dopo, Marco e Francesca erano sempre al tavolino all’angolo, nel solito bar…
Lui si chinò sotto il tavolo, come se avesse perso qualcosa,… e invece, inginocchiato davanti a
quella bellissima figura, le disse
- Amore caro… ho sempre ringraziato quel giorno…di sei anni fa…ti ho vista per la prima volta
e già ero perso di te! Io vorrei continuare a perdermi in te per sempre… Vuoi sposarmi?E tirò fuori una scatolina: dentro non c’era un anello, ma un bellissimo paio di orecchini, quegli
orecchini turchesi che Francesca stava guardando alla fiera, prima di essere interrotta dall’arrivo di
Marco…
Un anno dopo tutto era pronto…il 26 giugno, in un giardino di una meravigliosa villa
settecentesca c’erano petali di rose blu ovunque… Marco in un look total black, Francesca in metri
di tull e pizzo color crema… con un cappellino con veletta e gli orecchini turchesi.
Il «Sì» di entrambi sarebbe stato superfluo… i loro sguardi sarebbero bastati da soli!!!
Ludwig 2.0
L
i osservi, ma ancora non riesci a capirli. Li studi, conosci la loro struttura muscolare, il
nome e la forma di ognuna delle loro ossa, il numero dei neuroni, ciò che avviene
durante ogni sinapsi. Conosci il numero dei movimenti dei muscoli facciali che
occorrono per generare ogni espressione, sia felice che triste, sia gioiosa che arrabbiata; conosci il
processo di creazione delle lacrime.
Sai tutto, sì, ma ancora non riesci a capirli.
Gli uomini.
La famiglia a cui sei stato affidato è composta da cinque persone, due uomini adulti, maschio e
femmina, e due umani più piccoli, due femmine e un maschio. La più grande di questi ultimi, a
sentire quanto la madre continua a dire, è in quel periodo della sua vita in cui in cui vuole stare da
sola e risponde male per ogni piccola sciocchezza. Anche a te.
“Lo passano tutti.” ti ha detto la padrona di casa “E’ irritante, ma più che sopportare non
possiamo fare, le passerà.”
Tu l’hai guardata e hai piegato la testa da un lato, rimanendo in silenzio.
Perché non capisci.
Sai che gli umani crescono, persino il modo di ragionare migliora – o, almeno, questo dovrebbe
avvenire la maggior parte delle volte – ci sono ghiandole che si sviluppano… Hai ben chiara la
situazione. Ma perché una ragazza, da un giorno all’altro, dovrebbe cambiare atteggiamento, questo
non riesci proprio a capirlo. Non ancora, almeno.
D’altronde sei solo un robot domestico.
La spiegazione più razionale è che gli umani siano sì tutti diversi tra loro, sì chi più chi meno
intelligenti, ma che siano anche prevalentemente pazzi: cambiano umore, modo di vivere, di
pensare. E più si va avanti con l’età e più, a volte, tali sintomi sembrano svilupparsi
esponenzialmente. Forse c’è qualcosa in quello che mangiano che, con il passare degli anni, li rende
così strani. Cos’è che assumono con frequenza? Di cosa non riescono a fare a meno mai?
L’hai presa in considerazione quando hai visto il capofamiglia bere con soddisfazione, come se
stesse vivendo una vera e propria crisi d’astinenza: l’acqua.
E se in realtà l’acqua fosse il veleno degli uomini?
Sai benissimo che il novanta percento di un corpo umano è composto di acqua, ma è veramente
la stessa di quella dei fiumi? Forse quella dei loro corpi ha una composizione chimica leggermente
diversa. Forse in realtà l’acqua del mondo li sta avvelenando senza farglielo capire.
Non sarebbe la prima volta, a quanto hai sentito dire e da ciò che hai letto, che la natura si
ribellerebbe agli uomini.
Del resto l’acqua non l’hai mai vista di buon occhio. Per te è un veleno vero e proprio, tanto
mortale quanto potrebbe esserlo per un uomo un colpo di proiettile. Lo sapevi già, ma quando,
accidentalmente, un secchio d’acqua ti è caduto sulla gamba e dall’anca ti è cominciato a uscire del
fumo… l’hai capito davvero.
Forse è questo che ti occorre: provare. Sperimentare. Forse per capire gli esseri umani dovresti
essere uno di loro. Non potendo – lo vedi da te – la soluzione è comportarsi nella loro medesima
maniera, vestirsi come loro, parlare come loro. Anche se a volte quel che dicono ti sembra così
stupido.
Probabilmente se cambiassero modo di apportare acqua al proprio corpo cambierebbero anche
modo d’agire.
E anche l’acqua dovresti provare, a quel punto, sebbene a te faccia peggio di qualunque altra
cosa. Dovresti riempire un bicchiere fino all’orlo e poi mandare tutto giù. Oh, in realtà non ci tieni
proprio un granché, hai voglia di imparare, non di morire dolorosamente.
Gli uomini non sono pazzi.
Hanno i loro sbalzi fisici ed emozionali, ma ciò che la loro mente riesce a produrre è…
affascinante, sia nel bene che nel male.
Non sei stato programmato per questo, come robot, ma l’hai fatto lo stesso. Quando la famiglia è
uscita, lasciandoti in casa, non ti sei messo in carica al tuo angolo come tuo solito, ad occhi chiusi,
momentaneamente in standby e in attesa. No. Hai vagato per la casa, hai scrutato gli scaffali pieni di
libri e di oggetti e stavolta non solamente per spolverarli.
Li hai soppesati tra le tue mani, rigirandoteli tra le dita, e hai desiderato possedere il senso del
tatto, per un istante.
Poi i libri li hai aperti, li hai letti. Non solo per imparare, perché non ti sei concentrato sui saggi,
ma sui romanzi. Cosa dovresti imparare da essi, dato che non contengono nozioni scientifiche?
Narrano storie irreali e fondamentalmente inutili, senza conseguenze sul mondo attuale, che parlano
di persone che non esistono, di creature e di piante che neanche è possibile trovare in natura. Ti sei
chiesto perché uomini e donne perdano il loro tempo inventando un qualcosa di così intangibile.
E se non l’hai capito leggendo i romanzi, i tuoi occhi si sono sgranati nell’ascoltare attentamente
e con concentrazione una vecchia sinfonia. Potevi distinguere ogni singola nota, il numero degli
strumenti, avresti potuto riscrivere il pentagramma esattamente così come era stato concepito.
Ma non hai fatto questo, ti sei limitato ad ascoltare l’insieme degli strumenti, non a scinderli
l’uno dall’altro, e hai immaginato come una grossa nube di musica informe, non composta da
persone e oggetti, hai visto davanti a te una creatura a sé, viva.
Anche la musica è intangibile, così come le storie.
Quando hai ascoltato la quinta sinfonia di Beethoven hai vissuto un momento di blackout, come
se i tuoi circuiti stessero minacciando di andare in corto circuito. È stato strano.
Beethoven era sordo, questo lo sai, ma non hai mai considerato la stranezza di questo evento,
essendo lui un compositore di ciò che è possibile solamente udire, non guardare. Beethoven era
sordo ma musicista.
Tu puoi essere un robot ma al contempo umano?
Poco prima che la tua famiglia tornasse a casa ti sei ritrovato nel bagno, di fronte allo specchio.
Ti sei guardato e hai mosso il viso – la tua mimica facciale è sorprendente, non possedendo tu un
qualche tipo di pelle – cercando di riprodurre le espressioni di coloro che hai sempre intorno: hai
strizzato gli occhi, hai aperto la bocca, hai spalancato le palpebre, hai corrucciato la fronte.
Qualcosa hai riprodotto, questo è vero, ma non era la stessa cosa.
Non hai rughe intorno agli occhi e alla bocca, la tua pelle non si piega, la luce che hai nello
sguardo è puro led, quella degli uomini… è qualcos’altro. Da dove venga saresti curioso di
scoprirlo. Immagini una sfera di luce che uscendo dalla bocca di un umano fluttua di fronte a te.
Deve essere una luce bellissima, come un piccolo sole.
Oh. Allora è questa, la pura immaginazione.
Ti rendi conto che essere umano anche solo per un giorno potrebbe essere di quanto più
spaventoso ci sia. Ma almeno proveresti la paura, sì.
Dovresti anche bere dell’acqua, è vero, dovresti cospargertela ovunque, ti causerebbe danni
irreparabili proprio come farebbe il più corrosivo dei veleni.
Ma proveresti il dolore, non vedresti solo fumo.
Forse diventeresti anche pazzo.
Ma mentre le ultime note della quinta sinfonia scompaiono, ti rendi conto che allo stesso tempo
un tale giorno sarebbe meravigliosamente indescrivibile.
Omnia venenum sunt
R
oberta tremava.
Aveva commesso una leggerezza a passare per quel tratto di strada poco illuminato,
una scorciatoia che sin da ragazzina aveva imboccato decine di volte.
Non avrebbe dovuto farlo. Non con un pazzo omicida nel borgo.
Il Dottore.
Lo chiamano così perché sembra avere precise conoscenze anatomiche. La prima vittima fu trovata
con uno spillone infilato, passando per l’occhio, in modo millimetrico nel cervello. Il medico
dell’autopsia aveva parlato di un intervento che, se non avesse toccato il cervello, avrebbe avuto
dello straordinario, in quanto non avrebbe danneggiato la vista.
Lontano dagli occhi, lontano dal cuore.
Ma è il cervello che non riposa mai.
Gli investigatori trovarono un foglietto con queste parole sul corpo di Cristina. Una ragazza tutta
casa e chiesa, anche corista nella cappella di campagna.
Una ragazza con una vita ben diversa da quella immaginata, a vedere ciò che avevano trovato
scavando nella sua vita, ossia dando una sbirciatina al Pc e alle attività social. Roberta ricordava
bene che i genitori di Cristina si trovarono d’un tratto a dover convivere forzatamente non solo con
l’improvvisa e tragica scomparsa della figlia, ma anche con le dicerie, le insinuazioni e i sorrisini
che in un piccolo paesino sanno far più male di pugnalate.
L’orrore era però di là a venire.
E giunse con la seconda morte.
Con il gioielliere Sandro trovato, nel bosco e in una posa grottesca, dai vigili. Sandro era adagiato a
un tronco. A testa in giù. Ma la cosa che fece vomitare Luigi, il primo vigile a vederlo, fu il
complesso sistema di tubicini e cateteri che arredava il corpo. L’uomo che aveva ammazzato il
gioielliere aveva ideato e costruito sul commerciante un sistema di trasfusione, riciclo e drenaggio
del sangue che, sia pure artigianale, avrebbe potuto anche tenere.
Ma non era quello l’obiettivo.
Il medico chiamato come perito dal magistrato aveva evidenziato un piccolo foro nella sacca di
raccolta. Secondo il perito, l’agghiacciante scopo dell’omicida era indurre un lento stillicidio di
sangue nella vittima.
Operazione perfettamente riuscita.
Sandro aveva poco sangue in corpo e un biglietto sul petto.
Hai succhiato il sangue come un vampiro
Adesso prova a succhiare qualche goccia del tuo
E in paese arrivarono i giornalisti seri e gli sciacalli, quelli di un articolo al giorno, costi quel che
costi, e al diavolo la verità.
Sotto un fuoco di fila del genere, la comunità non riuscì a lungo a celare la doppia natura di Sandro:
gioielliere e usuraio.
Doppiezza che diede un senso immediato al messaggio sul corpo.
Omicidio che fu salutato, e non da pochi, con una salva di giubilo, con gente che offriva da bere
parlando di fantomatiche vincite o ricorrenze, ma che in realtà festeggiava la libertà dal giogo
finanziario e psicologico dell’usura.
Due omicidi in un mese ebbero l’effetto deflagrante di un’atomica nella realtà paesana, andando a
incrinare l’atmosfera di solidarietà silenziosa e diffusa che la permeava.
Non c’era mai stato bisogno di telecamere, perché c’erano gli occhi dei vecchietti a vigilare sulle
passeggiate e sui giochi dei bimbi. Una cosa possibile solo nelle piccole comunità, dove tutti
conoscono tutti. E tutti sono un po’ parenti tra loro.
Non c’era mai stato bisogno di una stazione di polizia, perché le teste calde del paese si limitavano
a scorrazzare con lo stereo alto per il corso. Salvo poi abbassare volume e testa al solo scorgere un
lampeggiante.
Eppure, una simile, idilliaca realtà, sporcata dall’unico neo di una persona scomparsa in circostanze
sospette decenni prima, aveva partorito un mostro: il Dottore.
Mezzobusti e criminologi da salotto, di quelli con una percentuale di lettura del pensiero pari a zero
o quasi, non si capacitavano di come fosse possibile nascondersi in una realtà così ristretta. E così,
d’emblée e per via di una battuta televisiva, la piccola realtà divenne anche omertosa, una sorta di
Twin Peaks ciociara.
Tremava di paura, Laura, incatenata a un macchinario che non conosceva nell’ex fabbrica di
chiodi del paese, dove anche il padre aveva lavorato.
Non poteva urlare, Laura, per via del bavaglio, reso salato dalle calde lacrime che le solcavano il bel
volto.
Roberta era la modella del paese, ma adesso avrebbe dato tutto pur di…
« La bellezza è una dannazione. » Una voce echeggiò alle sue spalle. La ragazza si contorse per
cercare di individuarne l’origine. Ottenne solo del dolore ai polsi.
« Non ricordo dove ho sentito o chi ha detto una frase del genere, ma non posso che essere
d’accordo. La bellezza è una dannazione tanto per chi ce l’ha, quanto per chi è stato meno fortunato.
I primi la vedono svanire e sfiorire, mentre per i secondi essa sarà anelito e dolore. » La voce adesso
era alle spalle di Roberta, che tremava più forte, ben conscia di essere alla mercé del mostro,
dell’uomo che aveva ucciso la povera Cristina e quel bastardo di Sandro.
Roberta sentì il respiro dietro di lei, poi… La modella del paese, quella invidiata da tutte e
desiderata da tutti, spalancò gli occhi quando il Dottore le si parò davanti.
In mano aveva un grosso barattolo.
Roberta riconobbe quella faccia e quella figura tozza: Emilia.
« Ti ricordi di me, bellina? », la donna le sollevò a forza la testa.
« Ci siamo conosciute nel bar di Marcello, eri con Noemi, la figlia di mia cugina. Ti ricordi, sì? »
La voce era monotona, didascalica e annoiata, priva di calore ed emozione. Roberta fece cenno di sì
quasi senza accorgersene.
« Ricordi cosa dicesti? Che ti potevi rimpinzare di schifezze che tanto non saresti ingrassata. Era
una questione di geni », sibilò Emilia. Roberta non ricordava, ma aveva ancora più paura adesso.
Emilia le liberò la bocca e le cacciò a forza un cucchiaio di nutella in bocca.
Roberta ricordò. Emilia anni prima era stata fidanzata con Sandro, le aveva detto Noemi, lui l’aveva
lasciata e lei era diventata per un po’ anche bulimica.
I carabinieri cercano un uomo e un dottore, Emilia è un ingegnere. Non la beccheranno mai.
« Vediamo quanto può resistere una persona all’attacco degli zuccheri. Vediamo dopo quanto una
cosa buona diventa veleno », ghignò Emilia, infilando un altro cucchiaio.
« Ecco il biglietto per te, ma non temere, sarà una cosa lunga. » Con le lacrime agli occhi, Roberta
lesse
Omnia venenum sunt: nec sine veneno quicquam existit.
Dosis sola facit, ut venenum non fit
Se solo avesse studiato un po’ di più il latino.
Un cucchiaio.
E un altro.
E un altro.
Passione e follia
L
’inaugurazione della stagione teatrale della Scala era un evento alla quale Daniel non
mancava mai. Aveva cominciato da piccolo con la sua famiglia e adesso che era un
uomo maturo amava portare avanti questa tradizione. Quest’anno alla Scala avrebbero
messo in scena La Valchiria di Wagner. E questa sarebbe stata particolare per un motivo in più: il
regista di sempre Giorgio Steiner non avrebbe diretto la prima. L’ultima risalì a un anno fa e si
rivelò un fiasco totale. Steiner mostrò arroganza nel negare d’aver commesso degli errori. D’estate
arrivò l’annuncio che la prima sarebbe stata diretta da un altro regista. E lui si tolse la vita. I giornali
parlarono di suicidio per avvelenamento, in seguito al crollo vertiginoso della sua fama dopo il
fiasco. Daniel, che aveva assistito a quello spettacolo, disse che era stata la scelta di far debuttare la
sua giovane compagna Vanessa Stani a essergli costato caro. Come molti applaudì il ritorno del
soprano Nina Ortens, presenza fissa della Scala nonché ex moglie del regista. La fatale sostituzione
aveva spezzato la magia creata da Steiner e da Nina Ortens, insieme avevano reso ogni opera un
incanto per gli occhi e per le orecchie.
Finita la messa in scena della Vachiria, gli spettatori erano entrati al Caffè del teatro. Al riparo
dal freddo di dicembre per commentare ciò che avevano appena visto. Seduti a uno dei tavolini
c’era Daniel con la moglie Tiziana. Lei sottolineò la sostanziale differenza tra le due donne. «Certo
che la Stani ha avuto una gran bella faccia tosta. Affermare d’avere un’estensione vocale tale da
poter cantare sia come mezzo soprano che come soprano è stata pura follia. Per questo la Carmen è
stata un fiasco. Solo la sua relazione con Steiner gli ha permesso di ottenere quel ruolo. A proposito,
che fine ha fatto?»
Daniel mandò giù un sorso di caffè prima di rispondere. «Ho sentito dire che è in scena con la
Cenerentola di Rossini.»
«Quello sì che è un ruolo adatto a lei. Se ci pensi è stata proprio una Cenerentola. E aggiungici
arrivista.»
Su questa affermazione di Tiziana, Daniel fece un mezzo sorriso. «Ricordo ancora le
dichiarazioni fatte da Steiner sui giornali. Diceva che la messa in scena sarebbe stata un successo.
Aveva sottolineato come il cambio di Nina Ortens con Vanessa Stani avrebbe apportato
miglioramenti notevoli a tutta l’opera.»
«E ti ricordi dopo? Quando sono fioccate critiche su critiche? Si dice che avevano offerto a
Steiner la possibilità di far tornare Nina Ortens.»
«Forse sarebbe stato meglio. Ma sai quante spiegazioni avrebbe dovuto dare se cambiava la
cantante all’ultimo momento? Prima manda via la ex moglie, poi la fa tornare. Non credo che Nina
Ortens avrebbe accettato, allora aveva già trovato un ingaggio in Spagna.»
Per Daniel l’errore più banale del regista era stato non rimanere in buoni rapporto con l’ex
moglie. Forse si era fatto prendere troppo la mano. Ricordava bene come erano andate le cose. La
notizia del fidanzamento con la giovane Vanessa Stani aveva sorpreso tutti. Anche perché era
ancora sposato con Nina Ortens. Tiziana ricordò che Steiner aveva rilasciato un comunicato stampa
successivo, dove affermava che già da tempo si erano separati. E quando i giornalisti avevano
cercato proprio Nina Ortens, lei era sparita nel nulla. C’era chi diceva che era talmente fuori di sé
per la rabbia da non volersi mostrare in pubblico. Ricollegandosi a ciò che aveva detto poco prima il
marito, forse Nina Ortens aveva colto l’occasione di andare in Spagna per sottrarsi all’umiliazione.
Ancora più sorpresa aveva suscitato il suo ritorno a Milano per il funerale di Steiner.
Maliziosamente Tiziana sottolineò come sia la Stani che la Ortens si tennero a debita distanza l’una
dall’altra.
Ripercorrendo la storia di Steiner, Daniel si era ricordato come la Stani poco tempo dopo il
funerale di Steiner aveva gridato al complotto. «Diceva che il regista non era morto suicida, ma che
l’avevano ucciso.»
«Forse voleva solo i riflettori puntati su di lei. Se ci pensi, anche la sua carriera era colata a
picco. L’ingaggio come Cenerentola sicuramente sarà con una produzione molto più piccola di
questa della Scala.»
«Può darsi. Allora aveva accusato l’ex moglie di averlo avvelenato, per vendetta.»
«Troppo facile dare la colpa a lei. Se ricordi bene, le accuse sono partite quando Nina Ortens ha
accettato di ritornare a cantare alla Scala. La Valchiria con lei è stata uno spettacolo questa sera! Di
sicuro la Stani ha agito per invidia. E lo deve aver compreso anche la Ortens. Infatti non si è
abbassata nemmeno a rispondere a queste false accuse.»
«Sarà. Sì dice che la vendetta sia un piatto che va servito freddo. Dubito che la Ortens sia rimasta
in disparte a guardare. Forse mentre si esibiva in Spagna avrà meditato vendetta.»
La loro conversazione era stata interrotta da un uomo che era entrato di corsa nel caffè. A alta
voce diede la notizia che era arrivata la polizia e stava arrestando Nina Ortens. Parte delle persone
raccolte nel Caffè uscirono immediatamente fuori. Daniel li aveva seguiti incuriosito, lasciando la
moglie ancora seduta al tavolino. Era riuscito a arrivare in tempo per vedere Nina Ortens passare
dall’uscita secondaria scortata dalla polizia. Il suo sguardo fiero non mostrava alcun cedimento.
Il mattino seguente la notizia era finita sui giornali. Daniel poté così leggere del piano elaborato
dalla donna. Nina Ortens aveva confessato di non aver mai lasciato l’Italia, si era rifugiata nella sua
casa a Roma. Affermò di non aver mai ottenuto un ingaggio in Spagna. In realtà in ballo c’era solo
un accordo, ma non era mai stato raggiunto. Il teatro spagnolo avrebbe accettato d’ingaggiare Nina
Ortens a patto che con lei ci fosse stato anche Steiner.
I maggiori successi ottenuti da entrambi, avevano condizionato la loro vita. Una volta infranto il
legame, la rovina era cominciata per entrambi. Nina Ortens era tornata a Milano per pregarlo di
lavorare insieme, ma inutilmente. Sapeva che nessuno dei due aveva più un lavoro, la Spagna
sarebbe stato il loro nuovo inizio. Nina Ortens aveva accettato la fine del loro matrimonio, ma pregò
il regista di riprendere la loro collaborazione artistica. Per tutta risposta Steiner affermò che poteva
farcela anche da solo. Questo aveva fatto infuriare Nina Ortens che lo avvelenò. Sapeva che senza
di lui, forse, avrebbe avuto la possibilità di tornare a calcare il paco della Scala. E ci riuscì. Seppur
per una sera soltanto.
Per sempre insieme
-N
o Vera è inutile in questo modo non possiamo andare avanti. – disse Jànos
poggiando il bicchiere di Palinka alla mela. Con quel gesto voleva far capire
all’amante che la loro storia era finita come quel liquore.
Vera capendo la metafora, era sempre pronta con la bottiglia in mano a riempire il calice appena
svuotato - Jànos dopo tutto quello che c’è stato tra di noi, non ti ricordi i progetti che avevamo
insieme? le promesse fatte? –
- Non farti avanti con queste scuse – disse l’uomo rifiutando con un gesto il calice colmo del
dolce liquore, per poi cedere e riportarlo alle labbra, alla ricerca di un fidato amico per riuscire a
vincere la tensione che gli attanagliava lo stomaco – Vera - il tono si fece più tenero e intimo – lo
sai benissimo qual è la situazione, mia moglie oramai sospetta di noi, mi fa pedinare quando non mi
segue lei, non è più possibile vedersi, è pericoloso venire qua da te e per questo motivo ti devo dire
addio, non possiamo più vederci e portare ancora avanti questa storia. –
- No Jànos, non mi puoi lasciare così, non farmi questo dopo l’amore che ti ho dato, non mi
merito questo da te, non me lo merito – singhiozzò Vera lasciando scivolare anche lei in gola poche
gocce di quel distillato alla mela – pensavo che tu fossi diverso Jànos, ero certa che tu mi avresti
compreso e corrisposto il mio amore, pensavo che tu fossi un uomo diverso e invece sei proprio
come tutti quanti gli altri, prometti chissà che per prendere quello che vuoi e poi accampi scuse per
potertela defilare ma non è così, hai capito? – esclamò la donna sempre più infervorata.
- Calmati Vera - disse l’uomo cercando di tenere la situazione sotto controllo vedendo la donna
visibilmente alterata – non sto dicendo che non ci vedremo più, non sto dicendo questo. Solo che
chiaramente non potremo più vederci come prima, con la stessa frequenza di prima, dovremo
chiaramente rivedere il nostro rapporto, essere un po’ più presenti a noi stessi, essere maggiormente
con i piedi per terra, se vogliamo continuare a vederci dobbiamo essere consapevoli della
clandestinità della nostra relazione e capire che non potrà mai nient’altro che questo. Anzi
dovremmo difendere il nostro rapporto, dissimulando e facendo finta di niente per poter ancora
alimentarlo e tenerlo vivo.
La donna sembrò un attimo assente, come se quelle parole non fossero ascoltate dalle sue
orecchie ma direttamente dalla sua anima. L’uomo rimase un attimo in silenzio, secondi che
durarono un’eternità ai suoi occhi, nell’attesa di riuscire a capire se le sue melense parole fossero
riuscite a far breccia nell’innamorato cuore della sua amante.
Un sorriso tradì le labbra della donna lasciando per un attimo scintillare i suoi bianchi denti alla
fioca luce della candela – Scusami Jànos, scusami amore ma non riuscirei mai a vivere senza di te,
non riesco più a essere ragionevole al pensiero di non averti più per me e in questi frangenti il cuore
prende sempre il sopravvento. Lo di non essere tua moglie e che non potrei mai avere il suo posto,
ma a me basta averti, anche per poco. Preferisco questo piuttosto che non averti. Vedrai che sarò in
grado di far tacere il mio amore se la situazione lo dovesse richiedere pur di aspirare alla
ricompensa di quei pochi attimi insieme a te. Vieni amore mio, finisci questo liquore e liberati dalle
tue ansie, ho preparato di sotto un giaciglio d’amore.
L’uomo afferrò il calice appena riempito nuovamente da Vera e il liquido che trangugiò si fece
strada dentro le sue viscere contorte dalla tensione, sciogliendo i nodi dell’ansia e regalandogli un
piacevole calore che aumentava dal ventre fino a risalirgli alla testa, oramai brillo e preda delle
promesse d’amore che la donna aveva pronunciato.
Certo di avercela fatta, certo di aver nuovamente vinto le ultime barricate dell’amante, convinto
di poter continuare in tutta tranquillità la sua rassicurante vita familiare potendo al contempo avere
quella creatura che gli regalava tanto piacere, prese Vera per un braccio per imporre la sua volontà
di consumare direttamente lì sul tavolo il loro impeto d’amore.
La donna si ritrasse senza ritirarsi, continuando a promettere il suo piacere ma adducendo
sorniona che non era il tipo di donna da concedersi su di un tavolino, lei era una signora da camera.
Dicendo questo si alzò facendo sapientemente oscillare la gonna che sembrava come un pendolo
per quell’uomo oramai ipnotizzato e con la bava alla bocca.
La donna gli diede le spalle certa di essere al centro dell’attenzione dell’uomo e si avviò verso la
porta aperta in fondo alla sala, poi si voltò un attimo con un sorriso complice e si avviò giù le scale.
L’uomo preso dalle voglie si versò un ultimo bicchiere, lo scolò di colpo tanto che la bocca non
contenne buona parte del liquido che scolò sulla barba e lungo la camicia che nel frattempo aveva
slacciato.
Con un braccio spostò il tavolino rischiando di far cadere tutto quello che vi stava sopra e a
grandi falcate attraversò la stanza.
Ai primi passi decisi seguirono gli ultimi, dove le gambe iniziarono a manifestarsi come poco
affidabili.
Pensò di aver bevuto troppo ma subito dopo pensò che nemmeno questo sarebbe bastato a
fermarlo, così seguendo con una mano il muro discese le scale verso la cantina.
Ad ogni passo sentiva rimescolare quel liquido nel suo ventre e più di una volta lo sentì risalire,
mentre il calore a vampate gli risaliva spasmodico in testa annebbiando la vista, mentre le estremità
erano sempre più fredde.
Ultimo gradino, non gli ressero le ginocchia e rovinosamente cadde in mezzo alla cantina, faccia
a terra, la vista sfuocata permetteva solamente di vedere una donna seduta su un divano poco più
avanti di lui attorniata da bare di zinco accatastate agli angoli della stanza.
- Jànos, ma che fai lì a terra – la donna ridacchiando in tono canzonatorio mentre l’uomo
cianotico a terra rilasciava bava come una lumaca – allora non hai più la foga di prima? Come mai
Jànos ti vedo a corto di numeri, un uomo grande e grosso come te non regge l’arsenico? non era
forse questo che volevi? Una donna al tuo servizio? Bene sono qui che aspetti? Sei come tutti quanti
gli altri non mi sbagliavo, solo che io non sono la ruota di scorta di nessuno, io sono una prima
donna. Lo dico a te come l’ho detto alle persone che qui ti faranno compagnia per sempre, gli altri
amanti, due mariti e persino un figlio che aveva voglia d’indipendenza.
Rimarremo per sempre insieme, tu non mi lascerai mai. -