Le avventure di una Kitty Addicted

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Le avventure di una Kitty Addicted
Eliselle
Le avventure di una Kitty Addicted
AAAW001051| Value RM| © Edward Holub/CORBIS
Woman Carrying Hello Kitty Bag
Image:
© Edward Holub/CORBIS
Collection: Surf
Value RM
1
Al mio papà: il giorno del
suo compleanno ho concluso
la stesura di questo romanzo
Alla “sia” Fede e alla Patty,
per i fiori, le foto, le kitte, le
risate, le tisane e tutto il resto
2
Settembre
Mezzogiorno e mezzo di fuoco
“Tanti auguri a te, tanti auguri a te, tanti auguri cara Violaaa, tanti auguri a
teee!”
La scena si apre davanti ai miei occhi così, all’improvviso.
Vengo accolta da un applauso scrosciante, accompagnato da facce
incartapecorite, risate sguaiate e dentiere brillanti. Mi serve qualche istante per
riprendermi dalla sorpresa, infine realizzo che nel quadretto è presente persino
una torta che a una prima occhiata sembra un catamarano di panna e
cioccolato.
Mi sembra o ci sono ventinove piccole fiammelle accese che ondeggiano su
altrettanti cilindretti di cera rosa?
Guardo meglio. Impreco tra me e me.
La prima impressione era quella giusta.
Lo sguardo fiero e orgoglioso di mia madre che mi porge il catamarano tutta
pimpante e soddisfatta non è rassicurante. Sul serio, quella sua aria così
orgogliosa non è per nulla rassicurante.
Fate mente locale e prendete nota: ecco tutto ciò che non si desidera il giorno
del proprio compleanno.
Forse non mi trovo veramente qui. Ditemi che sto sognando.
Ditemi che in realtà sono ancora sotto le coperte, nella piccola stanzetta
dell’appartamento in cui vivo al riparo dalle follie della mia famiglia, e sto
vivendo un incubo da cui prima o poi mi risveglierò e ogni cosa tornerà al suo
posto. Forse non è zia Betty la megera che mi fissa con sguardo feroce da
dietro la spalla sinistra di mamma.
Ditemi che mi risveglierò... adesso!
“Ti stavamo aspettando, festeggiata!”
“Benvenuta!”
“Finalmente!”
“Auguri!”
Mi pizzico la faccia. Un’altra volta. Di nuovo.
Niente da fare.
Come un Buster Keaton in gonnella, senza spiccicare parola, con la borsa che
mi scivola dal braccio e il piede alzato a mezz’aria, realizzo che no, non è un
incubo: è proprio tutto vero. Mi guardo attorno allibita, conto veloce le
persone che affollano il salone, scruto le facce che mi scrutano a loro volta e
mi accorgo con terrore che dei presenti non conosco praticamente nessuno. O
forse no, probabilmente qualcuno che conosco c’è, ma l’ultima volta che l’ho
visto ero così piccola che non mi ricordo nemmeno chi sia.
3
È la cugina di nonna quella con le palpebre a mezz’asta che sonnecchia seduta
sulla poltrona?
E quello che si infila le dita nelle orecchie e poi nel naso laggiù in fondo
pulendosele sulla giacca, è per caso lo zio di mamma? Quello che non si è mai
sposato, e ora più che mai sono in grado di intuire perché?
È difficile ripescare nella memoria la fisionomia di gente che rivedi dopo anni,
soprattutto se provvista di optional da non sottovalutare quali pelle cadente,
parrucchino o permanente stuccata sulla testa. Ho come la sensazione di essere
stata catapultata nel reparto di geriatria senza un valido motivo.
“Ma mamma, ma io, tu... non dovevi” è l’unica frase impacciata che riesco a
balbettare.
Una tragedia.
Il rito del compleanno si sta compiendo, puntuale, anche quest’anno. E anche
quest’anno si è presentato “a sorpresa” come da prevedibile copione. Gli indizi
si sono susseguiti per l’intera settimana e ora mi tornano alla mente come tanti
piccoli vividi flash. Come ho potuto essere così ingenua?
È
iniziata
lunedì
scorso
con
un
invito
materno,
quel
daivieniapranzodanoidomenicaètantochenonvieni che puzzava di bruciato lontano un
miglio. Ma io chissà a cosa pensavo, e non ci ho dato alcun peso.
È continuata martedì e mercoledì con due telefonate sospette di mia sorella per
chiedermi lelsasagnevannobeneopreferisciglispaghetti e avere conferma che
nonèchecidaibucaperchémammafaquellochetipiace, proprio lei che non mi chiama mai
se non quando ha bisogno. Ma c’era l’evento letterario a cui presenziare a metà
settimana, e avevo altro per la testa.
È proseguita giovedì con la chiamata di papà per sapere se per caso avevo
avuto notizie di impegni straordinari il week end perché
poituamadresipreoccupachelavoritroppo, col piglio di chi non crede minimamente a
quello che sta dicendo. Ma ero rimasta da sola in ufficio con tre ditte di
catering ancora da contattare, ed ero troppo distratta per farci caso.
Venerdì nulla.
Sabato, un’ultima telefonata veloce di mia madre per sapere se ci fossero stati
imprevisti o contrattempi, chiusa col classico citengotantochetucisiadomani, come se
fosse questione di vita o di morte.
Come diavolo ho fatto a non capire?!
Dovevo proprio essere in un’altra dimensione mentale per dimenticarmi del
giorno in cui sono nata e per non annusare la trappola dietro a tutta questa
macchinazione diabolica.
Non è certamente così che immaginavo la mia domenica: incastrata in mezzo a
una festa che pare più il raduno dei centenari che un modo carino per
“celebrare” la sottoscritta. Come se affrontare mia madre non fosse già
abbastanza dura. Età media della sala, a occhio e croce, settant’anni.
4
Che allegria. Vorrei uccidermi.
“Ma vieni, che fai lì impalata sulla porta?! Entra!”
Mia sorella si fionda sulla mia borsa e me la strappa di mano fingendosi gentile.
Non sa ancora che dentro non ci troverà niente.
Ho accuratamente fatto sparire soldi, palmari, agenda, rubrica telefonica e
inviti esclusivi per i prossimi eventi. Soro rimasti solo fazzoletti di carta e
documenti. Cose innocue. Ormai conosco troppo bene l’esuberante curiosità
dei suoi diciassette anni: Alice è una ficcanaso rompipalle e non le permetto
più di approfittare del mio lavoro per fare la ganza con le amichette e vantarsi
dei pochi privilegi che offre l’occuparsi di pubbliche relazioni. Fine della
compassione da brava sorella maggiore, la sorgente si è estinta.
Mio padre mi prende sotto braccio dolcemente e mi fa avanzare di un passo,
schiodandomi dalla mia posizione, poi chiude la porta e mi toglie la giacca per
scomparire come un fulmine in camera da letto. Lo so che lo fa per schivarsi il
rito dei baci e degli abbracci, lo odia con tutto se stesso. Come immagino
benissimo che avrebbe preferito un pranzo tradizionale tra noi, in famiglia, e
non la baraonda che ha organizzato mia madre. Quei due sono come il giorno
e la notte.
“Ma come sei cresciuta!”
“Come hai fatto a diventare così alta?!”
“Che belle guanciotte!”
“Ce l’hai il ragazzo?”
“Allora, quando ti sposi?”
Le solite frasi, le solite domande.
Possibile che siano le stesse che mi facevano quindici anni fa?
Possibile che non sia cambiato proprio niente?
E poi... guanciotte a chi?!
Le vecchie abitudini sono dure a morire: stanno tutti lì fila con le protesi
dentarie in primo piano per palparmi la faccia, per mettermi sotto pressione
con la loro morbosa invadenza, senza un minimo di tatto e nemmeno la
decenza di farsi riconoscere. Con quale diritto?!
Sento l’insana urgenza di picchiare mia madre.
“Era una così bella occasione per riunire e rivedere la nostra grande famiglia,
che non ho saputo resistere alla proposta di zia Betty” si giustifica mamma,
rintanata dietro al tavolo della cucina, stranamente ansiosa davanti al mio
sguardo assassino.
Certo, come no.
Zia Betty.
L’unica donna in grado di farmi sentire come uno yogurt che da un giorno
all’altro sta per scadere e che nessuno sembra aver fretta di mangiare.
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Nemmeno il suo consumatore abituale, nel caso specifico Alan, il mio ragazzo
ormai da sei anni.
“Mater, che combini? Io di quella gente di là in salotto non so praticamente
nulla.”
“Ma che c’è da sapere, tu sorridi e basta, no?”
Trasformarmi in una hostess il giorno del mio compleanno. Ottima soluzione,
come ho fatto a non pensarci?
“Si presume che il compleanno lo si debba trascorrere con persone che ti
vogliono bene...”
“Ma noi ti vogliamo bene, cara.”
“...o che almeno si ricordano come ti chiami!”
“Ti prego, non usare il tuo solito sarcasmo.”
“E tu non atteggiarti a Mater Dolorosa. Come cavolo ti è venuto in mente di...”
“Ecco la nostra dolcissima Viola! Ma che fai, ti nascondi? Fatti vedere dalla
zia!”
Zia Betty irrompe in cucina e si affretta a prendermi per i fianchi e a girarmi
per guardarmi da capo a piedi, senza togliersi il suo ghigno malefico dalla
faccia. Non capisco perché debba parlarmi con quell’odiosa intonazione, come
se indossassi ancora il pannolino. È da un po’ che sono passata agli assorbenti
interni, non se n’è accorta?
“Oh oh, ti vedo un po’ sciupata, mia cara. Lo sai che stressarsi non fa bene alla
pelle, alla tua età devi averne più cura.”
“Alla mia età?” replico io, confusa.
“Ma sì, lo sai che a un passo dai trent’anni i segni sul viso diventano indelebili.
Si chiamano rughe, amore!” e si lascia andare a una risatina divertita.
Grazie per la lezione illuminante sul decadimento fisico. Ne farò tesoro.
“Ti ricordi Stella, la figlia di quella che abitava qui sotto? Quella con cui giocavi
da piccola e che si è trasferita vicino casa mia qualche anno fa?”
La guardo senza capire il nesso con le rughe di cui parlava un attimo fa, ma
cerco di ripescare il nome da qualche parte nella memoria. Proprio non mi
viene in mente ma decido di dire sì lo stesso, per farla contenta.
“Lo sai? Si è sposata il mese scorso! E con che bel ragazzo, poi! Davvero un
buon partito, lavora in banca, ha due appartamenti in città e una casetta al
mare, sai suo padre è un notaio...”
“Aaahhhh” faccio io, poco convinta. “Sono contenta per lei.”
“E tua cugina di terzo grado? Hai saputo che matrimonio da favola ha
organizzato, vero?!”
Quello che mi sono schivata grazie al tour di presentazioni che ho dovuto
coordinare per lo scrittore americano?
Mi sono comprata tutti i suoi libri per ringraziarlo del favore che mi aveva
fatto a sua insaputa.
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“Sì sì” annuisco liberandomi dalla sua stretta. “Peccato che me lo sono perso.”
Per tutto il tempo la zia non fa che ciacolare dei matrimoni delle figlie delle sue
amiche, rigorosamente iscritte al club “fidanzate perfette & spose gaudiose”,
tutte eccitate all’idea di infilarsi un anello al dito, meglio se di platino e con un
bel solitario incastonato sopra. Le conosce solo lei, queste ninfomani delle
nozze, o magari chissà, esistono solo nelle sue fantasie malate. Non voglio
certo indagare. Spero solo che non inizi con i suoi tentativi di convincimento.
Sono cinque anni che va avanti con questa storia.
“Ma parliamo di te. Allora, quand’è che ti sposi?”
Te pareva.
“Non lo so, zia, tutto a suo tempo.”
“Come sarebbe tutto a suo tempo? Che aspetti? Il tempo vola! Lavori troppo,
amore mio, dovresti rallentare e pensare di più al tuo futuro.”
Ci siamo.
Eccoci giunti al momento cruciale. Il Prima che sia troppo tardi Show.
So perfettamente dove vuole andare a parare, quindi vediamo di rimediare e
cambiare subito canale.
“Non ti preoccupare per la mia salute, zia, me la cavo abbastanza bene.”
“È proprio quell’abbastanza che mi preoccupa, tesoro! Un bravo marito
potrebbe prendersi cura di te, ed è proprio quello che ti ci vorrebbe.”
Chissà perché me lo aspettavo.
Benvenuti all’angolo de “Il lavaggio del cervello di zia Betty”.
Non ho intenzione di sorbirmi l’ennesima paternale sulla sua visione illuminata
della vita, sull’impossibile binomio famiglia-carriera, sul ruolo femminile nella
società e sulla riscoperta dei costumi ottocenteschi: capisco che la zia sia una
all’antica e le donne per lei abbiano un unico ruolo, quello delle brave
casalinghe devote, sposate con un milionario e desiderose di tanti figli attorno
alla sottana, però questa storia ha decisamente rotto le palle. Non è proprio
giornata.
Lancio un’occhiata a mia madre che sta a significare toglimela di torno, ma lei si
gira imbarazzata e si mette a scartare un nuovo cabaret di pasticcini. Ma che fa
la codarda? Abbassa le orecchie, infila la coda tra le gambe e mi lascia con la
patata bollente tra le mani?! Che razza di genitrice mi ritrovo? Dovrò
improvvisare qualcosa per chiudere velocemente l’argomento e andarmene di
qui.
“In questo periodo va alla grande anche senza marito, zia, non mi posso
lamentare, grazie. Mater dai un cabaret anche a me che lo porto di là?”
“La carriera non è adatta a quelle come te, dovresti pensare a una soluzione
alternativa” fa lei, cambiando inaspettatamente tono. La giovialità ha lasciato il
posto all’acidità. Dunque, la sua vera natura è finalmente uscita allo scoperto.
Credevo ci avrebbe messo di più.
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“Quelle come me?” mi volto a guardarla con aria di sfida. “Esattamente, zia,
cosa intendi per quelle come me?”
Impettita, mi restituisce lo sguardo e sfodera un sorriso di ceramica, finto e
tirato, cercando di mostrarsi di nuovo accomodante.
“Ma è ovvio, mia cara, sei una ragazza che proviene da una famiglia unita e
dunque sei più portata a mandare avanti i sani principi tradizionali, quelli veri,
di una volta. Quando le cose funzionavano ancora.”
Ah davvero? Funzionavano?
Pensa un po’.
Sono nata nell’epoca sbagliata, allora. Che sfiga.
Cerco di riorganizzare le idee per chiudere il discorso senza mandarla per forza
a cagare. Non sarebbe carino, ma devo ammettere che è piuttosto dura non
cedere alla tentazione.
“Ti ricordo, zia, che quelle come me hanno un cervello che funziona, una laurea,
un master e un paio di stage alle spalle, e si sono conquistate il diritto ad avere
delle aspirazioni. Quelle come me hanno il dovere di scegliersi una carriera
decidendo per se stesse, senza che nessuno debba farlo per loro, e di sposarsi
se e quando ne avranno voglia, senza che nessuno debba per forza giudicarle
strane. E ora, se mi vuoi scusare, porto di là questa roba.”
Non le lascio il tempo di replicare e la lascio lì a bocca aperta, notando con
disappunto che mia madre evita accuratamente di guardarmi mentre mi passa il
cabaret pieno zeppo di cannoli alla panna.
Sono davvero una figlia così degenere da non avere nemmeno l’appoggio di
chi mi ha messo al mondo?
Roba da matti.
Il salotto è stato adibito a grande buffet, distribuito su tre tavoli da cui pescare
a piene mani senza la possibilità di schivare commenti fuori luogo e domande
inopportune. Faccio lo slalom tra sconosciuti che mi sorridono cercando un
buco libero dove piazzare il cabaret mentre mi chiedo se non sia il caso di
riportarlo in cucina e scongiurare un omicidio di massa: in questa stanza la
glicemia alta galoppa, mi sa.
Papà, il grande assente dalle conversazioni, se ne sta rintanato in un angolo, in
allerta. Mi ricorda una volpe circondata da una muta di cani da caccia. Ogni
tanto si perde nei suoi tre cellulari, a cui a volte risponde contemporaneamente
per non mancare chissà quale affare. Se si parla di transazioni economiche, non
si dà tregua nemmeno di domenica. Non stacca mai. In questo aspetto ho
preso decisamente da lui.
“Tesoro mio, possibile che ogni qualvolta il tema si fa serio, tu sparisci e te ne
vai?”
La voce di zia Betty mi rincorre. Di nuovo.
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Oggi ha deciso proprio di non darmi tregua.
Tutti si girano a guardarla, me compresa: due titani che si fronteggiano al
centro della stanza, io col cabaret ancora tra le mani, lei col suo piglio da
nazidirettrice di un qualsiasi istituto di igiene mentale. Mi domando gli altri
cosa stiano pensando adesso.
“Ci sono ospiti zia, è una festa, rimanderemo a un altro momento i temi seri.”
Chissà se coglierà l’ironia.
“Ma non sono cose che puoi rimandare, queste!” insiste lei arrancando verso di
me.
Possibile che non molli mai?
Possibile che debba sempre tormentarmi?
Mi prende un improvviso attacco di panico e cerco di non darlo a vedere. Se
mi mostro debole, questa mi azzanna alla gola e per me è finita.
“Il tempo passa e non torna più indietro, non lo sai forse?” incalza la zia.
Domanda retorica, la sua, visto il contesto in cui viene pronunciata. L’età
media qui dentro rimane pur sempre altina e l’impatto di questa grande verità
sulle coscienze dei presenti è piuttosto forte. Infatti, all’unisono, tutti
abbandonano le proprie chiacchiere e il brusio si spegne, lasciando spazio a un
silenzio di tomba che fa accapponare la pelle.
Io mi sento molto poco Hulk e tanto Bruce Banner, adesso. E vorrei
scomparire.
“Certe cose bisogna farle quand’è il momento giusto!” se ne esce lei con tono
dittatoriale.
E poi:
“A un certo punto bisogna tirare i remi in barca e prendere delle decisioni!”
E ancora:
“Vuoi perdere la tua occasione? Aspettare che sia troppo tardi?”
E insiste:
“Vuoi attendere che i trenta bussino alla porta e ti sorprendano col loro carico
di cellulite, ovaie pigre e solitudine?”
Ogni affermazione è una bastonata sulle ginocchia. Ogni domanda una
martellata sulla testa.
E io divento sempre più piccola, fino a quando non mi sembra di strisciare a
livello pavimento e vedere chiaramente le punte delle scarpe di zia Betty
ondeggiare davanti al mio naso. Sono annichilita.
“Dopotutto manca solo un anno al traguardo, mia cara, devi affrettarti!”
conclude lei trionfante.
Traguardo?
Affrettarmi?
C’è un countdown?
Sono time-limited?
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Ho la data di scadenza tatuata sulla fronte con inchiostro simpatico?
Mi avvisano prima o i numeri saltano fuori quando meno me l’aspetto e
vaffanculo?
È a questo punto, temo, che perdo il controllo del mio cervello.
L’altra metà di me non si trattiene più ed esplode.
Bruce Banner ha deciso di abbandonare il campo e lasciare il posto al suo
enorme compagno di merende di colore verde. È in questo preciso momento
che Banner scompare e Hulk prende il sopravvento. Non c’è via d’uscita. Non
esiste altra soluzione. Devo lasciarlo fare.
Senza rendermene conto, quasi come fossi in trance, tutto quanto scompare
dal mio campo visivo. Rimane solo zia Betty, tronfia, superba e convinta della
sua superiorità. Il salotto si è trasformato in una strada impolverata e
abbandonata, attorno a noi il deserto e un rotolo di fieno trascinato via dal
vento del profondo West. Gli altri si sono eclissati, al riparo dalle pallottole
vaganti. L’ora è arrivata, il duello inevitabile. Siamo io e lei, nel nostro
personale mezzogiorno e mezzo di fuoco.
Fissando zia Betty negli occhi, afferro un cannolo dal cabaret e lo stringo nella
mano destra, sfidandola.
Sotto la morsa delle dita, la panna che lo farcisce cede al centro e si gonfia ai
lati, fuoriuscendo con una lentezza disarmante. Posso percepire il suo
sfregamento sulle pareti di pasta frolla.
Un lampo dubbioso attraversa lo sguardo della zia. So che non crede che io
possa farlo davvero.
E invece sì, zia Betty, puoi scommetterci. Sto per farlo.
Anzi, lo faccio, e con grande soddisfazione.
Con un gesto deciso e un colpo secco, le lancio il cannolo dritto in faccia,
mirando al naso.
Posso vedere la scena al rallenty e pregustarne la potenza catartica.
Il cannolo che fende l’aria.
Il cannolo che raggiunge l’obiettivo.
Il cannolo che finisce dritto nella bocca di zia Betty.
Il cannolo della vendetta, che la soffoca e la ammutolisce per sempre.
Mentre me la immagino già senza fiato, riversa a terra e agonizzante, qualcosa
va storto.
Con uno scatto che mi lascia di stucco zia Betty si scansa ed evita per un pelo il
mio cannolo. Questo, però, non accenna a fermarsi: continuando il suo volo
surreale e compiendo una lieve parabola va a spiattellarsi sul mento di un
nonno che si è trovato al posto sbagliato nel momento sbagliato, poi scivola e
cade sul pavimento nello sbigottimento generale con un ploch poco
convincente.
Non ci posso credere.
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L’ha schivato.
Ringhio, delusa, ma ho altri proiettili a portata di lancio. E non ho alcuna
intenzione di fermarmi.
“Viola! Che... che fai?! Sei impazzita?!” balbetta lei stupita, dopo aver realizzato
quello che è appena successo.
Per tutta risposta, prendo un altro cannolo: stavolta non posso sbagliare.
Scarto di lato, faccio una finta, lancio il cannolo mirando al petto della zia ma
lei mi sorprende di nuovo e muove un passo veloce alla sua destra, evitando il
proiettile di panna che va a schiantarsi sulla malcapitata che sonnecchia sulla
poltrona. Questa spalanca subito gli occhi e inizia a battere le mani ridendo
tutta eccitata, mentre il cannolo le rotola in grembo lasciandole una lunga
traccia di unto sul vestito. Spero solo non le venga una sincope.
La zia inizia ad arretrare terrorizzata e io la fisso, spietata e implacabile.
“Dove stai andando zietta? Se non l’hai capito, ho appena iniziato.”
Ha un anno in meno di mia madre, una taglia che definire forte è un
eufemismo, eppure è sfuggita per due volte a quei dannati cannoli: qual è il suo
segreto? Faccio un passo in avanti, lei cerca il bordo del tavolo e tutto intorno
a noi la massa si muove lentamente assecondando i nostri movimenti, come
gelatina su una torta.
“Non minacciarmi!” starnazza lei.
“Oh zia, la mia non è solo una minaccia.”
“Non ti permetto di parlarmi così!”
“Non scapperai proprio ora che il tema si fa serio!” e così dicendo le lancio
addosso un altro cannolo.
Fulminea, zia Betty afferra la prima cosa che le capita a tiro e risponde al
fuoco.
Il tavolo è pieno zeppo di roba dolce e salata, bottiglie, fiori, piattini, posate,
bicchieri, tortine.
Proprio mentre il mio colpo va a segno e il proiettile ripieno arriva sulla
camicetta di seta della zia e vorrei esultare come allo stadio, ho giusto il tempo
di capire che quello che mi sta volando addosso è un bignè al cioccolato e per
evitarlo mi butto istintivamente alla mia destra. Finendo addosso a mia madre,
che sta sopraggiungendo dalla cucina portando l’altro cabaret di tartine al
caviale.
L’onda d’urto è devastante.
Mamma viene travolta e inondata dai cannoli rimasti, urla e perde l’equilibrio.
Il cabaret che ha in mano vola all’indietro senza controllo. Il contenuto finisce
sulla testa di uno degli invitati ultrasettantenni, cospargendo il suo toupé e le
sue spalle di una miriade di minuscole uova nere e maionese gialla e densa. Il
vassoio ormai vuoto finisce diretto sul tavolo, dove colpisce un paio di
bottiglie di vino. Una bottiglia ondeggia furiosamente ma rimane in piedi,
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l’altra invece non regge al colpo e cade sulla pila di bicchieri a fianco, tutti
ordinati uno sopra l’altro a formare una piramide. Con un rovinoso effetto
domino e un fracasso mondiale, la pila di bicchieri crolla, si rompe, devasta il
vassoio di pizzette e colpisce il vaso di fiori che ha vicino. Il vaso finisce sulla
pila di piatti che a sua volta si spacca a metà. Addio servizio della festa.
Il mio cuore si è fermato.
La folla terrorizzata trattiene il fiato.
Ma il peggio deve ancora venire.
Il vino si rovescia sul tavolo macchiando di rosso la tovaglia e cola sul
pavimento fin sotto ai piedi della zia che tutta presa a strofinare la macchia
sulla camicetta non si accorge dell’insidia, mette un piede in fallo e scivola.
Dietro di lei c’è il catamarano di panna e cioccolato, quello che dovrebbe
celebrare i miei ventinove anni. Il suo didietro ci finisce sopra con precisione
millimetrica, decorando di crema bigusto la parte posteriore della gonna e
affumicando quel che rimane della camicetta di seta con le candeline accese.
Cadendo a braccia aperte nel disperato tentativo di evitare l’inevitabile, si
trascina dietro anche le posate d’acciaio con un frastuono metallico che
riempie la casa, e finisce per terra con una culata talmente forte che si
squassano le pareti.
Poi, più niente. Solo il silenzio.
L’esplosione a catena è terminata.
Giusto in tempo perché mia sorella arrivi in salotto e urli un “machecazzo!”
che scandalizza la metà delle persone presenti in sala, quelle a cui l’apparecchio
acustico funziona ancora.
Mio padre sbigottito col cellulare ancora appoggiato all’orecchio.
Gli invitati a bocca aperta.
Zia Betty al tappeto.
Perfetto.
Questo sì che è un compleanno da ricordare.
Copyright © 2009 Eliselle - Tutti i diritti sono riservati.
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