Il terzo avventore
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Il terzo avventore
Cascina Macondo Centro Nazionale per la Promozione della Lettura Creativa ad Alta Voce e Poetica Haiku Borgata Madonna della Rovere, 4 - 10020 Riva Presso Chieri - Torino - Italy [email protected] - www.cascinamacondo.com IL TERZO AVVENTORE di Pietro Tartamella Cascina Macondo - Scritturalia, domenica 19 aprile 2009 Negli anni ’70 molti erano gli studenti che andavano ai Mercati Generali di Via Giordano Bruno a scaricare frutta e verdura per racimolare qualche lira. Un gennaio freddissimo e pieno di nebbia, alle due del mattino di un lunedì freddissimo e pieno di nebbia, ci eravamo presentati all’ingresso, Bruno ed io, chiedendo di un meridionale tarchiato, certo Sig. Bragante, con cui avevamo preso accordi la settimana prima. Altri studenti chiedevano di altri nomi, facendo la spola sul marciapiede. Riconoscemmo in quell’uomo basso maglione dolcevita e giubbotto di pelle che usciva dal bar il sig. Bragante. Attraversava la strada con un’aureola di caffè intorno ai baffi neri. Lo salutammo con un filo di voce ghiacciata strofinando l’un l’altro i nostri guanti di lana consunta. Sbrigativamente Bragante ci mostrò con due sole parole il camion di arance siciliane, qualità Tarocco, rotonde, polpa striata di rosso, senza semi, adatte alla tavola e alla spremitura, che dovevamo scaricare. Un altro studente spuntò in quel momento al nostro fianco. Anche lui incappucciato nell’eskimo e nei guanti di lana. Intorno era un via vai di camion e di cassette sulle spalle che decine di uomini e ragazzi portavano all’interno dei Mercati. Non c’era nient’altro da dire: visto il camion, visto lo stand dove portare le cassette, non restava che scaricarle in un continuo andirivieni. C’erano ragazzi piegati in due dal peso dei sacchi di patate che provenivano da chissà quale continente. Gli uomini tarchiati riuscivano a trasportarli sulle spalle apparentemente senza fatica tenendo perfino la sigaretta accesa tra le labbra, che illuminava debolmente grossi nasi rossi di vino. Molte le donne con le labbra screpolate e le orecchie rosse gonfie di gelo. Le cassette di arance erano più leggere. Ma dovetti adeguarmi. Provai a portarne quattro come facevano gli uomini. Troppo pesanti per le mie forze, non avrei retto più di mezz’ora. La quantità giusta sarebbe stata due cassette. Ma non potevo portare solo due cassette. Non c’era nessuno che portava due cassette. Avrei dato l’impressione di smidollato. Decisi di portarne tre, che già erano una gran fatica. Bragante mi diede un’occhiata di commiserazione. Io e Bruno ci guardammo mentre sulle spalle ci mettevano tre cassette di arance siciliane. Negli occhi di Bruno, dopo lo sguardo commiserevole di Bragante, lessi una sorta di disappunto. Mi sembrava che avesse voluto dire che lui l’indomani non sarebbe tornato a scaricare frutta e verdura ai Mercati Generali. Anche lo studente 1 sconosciuto che si era unito a noi, lungo e mingherlino, sembrava avesse lo stesso pensiero. Io pensavo che quando avremmo finito di scaricare ci aspettava un caffè caldo in quel bar oltre la strada da cui era uscito Bragante. Il mingherlino poteva venire con noi se voleva. Forse avremmo portato a casa anche una cassetta di arance a buon mercato. Non c’era più tempo ora, né fiato, per parlare e fare commenti. Sotto il peso delle arance c’èra spazio solo per i pensieri. Uno spazio di almeno quattro ore. Dopo la prima ora di andirivieni con cassette sulle spalle avevo la sensazione che stavamo scaricando non un camion, ma la Sicilia intera. Il profumo delle arance aveva già impregnato l’eskimo e i guanti mescolandosi al profumo di caffè che avremmo bevuto. Poggiai la sciarpa arrotolata sulla spalla per attutire il taglio delle cassette di legno. Forse era anche una scusa per prendere fiato due secondi. In quel movimento, nell’atto di arrotolare la sciarpa, vidi mio padre tra i rombi colorati della lana. Avevo otto anni quando mi capitò di vederlo per la prima volta preparare un’insalata di arance. Mi aveva portato con sé nel cantiere dove lavorava come muratore. La spiaggia sassosa di Vallecrosia era proprio lì, a due passi dai pilastri che avevano appena finito di armare. Seduto su un sasso, vicino al mare azzurro di quegli anni, aveva sbucciato due grosse arance “Moro”, ovoidali, polpa rossa, dolci, succose. Le aveva tagliate a pezzettini in una ciotola di alluminio, le aveva spremute un poco con la forchetta, aveva aggiunto olio extravergine di oliva, aceto e sale, e poi dell’acqua fresca. Le mangiava col pane. Non avevo mai visto nessuno mangiare un’insalata di arance. Mi sembrava strano il gusto dolce dell’arancia mescolato al sale e all’aceto e all’olio d’oliva. Me la fece assaggiare. Sì, avrei portato a casa una di quelle cassette di arance che stavo scaricando, e mi sarei fatto una buona insalata di arance rosso-tarocco. Bruno non l’aveva mai mangiata, gliela avrei fatta conoscere. L’altra cosa che ricordavo di mio padre era il modo in cui aveva sbucciato le arance. Aveva preso il coltello a serramanico che portava sempre in tasca e cominciando dalla calotta aveva proseguito con molta lentezza tutt’intorno, a spirale, col coltello leggero, quasi una circumnavigazione, producendo un’unica lunga striscia arrotolata di buccia arancione. Anche gli altri muratori sbucciavano l’arancia allo stesso modo. Arancia e mela erano i due frutti che mio padre mangiava sempre e regolarmente con particolare piacere. Qualche volta una fetta di anguria. Lo studente spilungone cominciava a barcollare. Non ce la faceva più. Erano trascorse solo due ore quando lo vedemmo andare via in silenzio, con Bragante che gli bestemmiava dietro. Aveva rinunciato! Non chiese nemmeno i soldi per quelle due ore di lavoro. Forse si vergognava per essersi arreso così presto. Accidenti, il camion doveva comunque essere scaricato entro una certa ora! Significava che io e Bruno, ora, dovevamo trasportare quattro cassette alla volta! Bragante ringhiò così tanto che non potemmo esimerci dall’accettare sulle nostre esili spalle quattro cassette di arance alla volta! Non mi restava che rifugiarmi nel pensiero di mia madre. Di quando quella volta ricoverata in ospedale a San Remo andavo ogni giorno a trovarla uscendo da scuola. Era l’ora del pranzo. Lei sapeva delle mie visite e faceva in modo di farmi trovare metà della sua porzione di minestra e metà arancia d’ospedale. Lei la sbucciava in un altro modo l’arancia. Col coltello partiva dalla calotta superiore e veniva diritta sino alla calotta inferiore togliendo una striscia di 2 buccia. A ogni taglio ruotava la tonda arancia Sanguinello che teneva in mano, polpa rossa, poco zuccherina, ricca di acido citrico. A volte erano arance bionde, con pericarpo ed endocarpo di colore giallo, qualità Belladonna, Valencia, Ovale. Le sbucciava così le arance mia madre, ripetendo quei gesti più volte. Ogni giorno, mentre mi arrampicavo a piedi lungo scalinata, scorciatoia che portava all’ospedale, pensavo alla mezza arancia fresca che mi aspettava ricca di vitamina C, importantissima per il potenziamento delle difese immunitarie contro i virus, i batteri, gli agenti chimici; indispensabile per i marinai di Cristoforo Colombo contro lo scorbuto che ulcerava le gengive e gli organi interni e rendeva irascibili gli animi e i corpi magrissimi. Pensavo agli Arabi, ai Crociati, a Ercole. Agli Arabi che giunti in Sicilia nel IX secolo d.C. portarono le arance. Il termine "arancio," divenne subito popolare. Le arance introdotte dagli Arabi non erano però quelle dolci, ma quelle amare, il Citrus aurantium. Le arance dolci, il Citrus sinensis, furono introdotte dai portoghesi che le portarono dalla Cina, dall’India, dal Vietnam e, per non confonderle con le altre, le chiamavano "arance del portogallo", termine ancora oggi in uso nel dialetto meridionale. Le prime notizie nel mondo greco-latino che parlano di arance portate dall’Oriente risalgono a Teofràsto di Èreso nel IV secolo a. C. Gli Arabi scoprirono che con la neve dell'Etna, lo zucchero di canna, il succo degli agrumi, si potevano fare profumatissimi sorbetti dissetanti. Ai tempi delle Crociate i cavalieri nel giorno delle nozze regalavano alla propria sposa fiori d’arancio, perché li usasse per abbellire l’abito nuziale, secondo le tradizioni saracene che attribuivano ai fiori d’arancio un potere di fecondità. La mitologia racconta che le arance erano custodite nel meraviglioso giardino delle Esperidi, nella parte occidentale del mondo allora conosciuto, e furono portate via da Ercole che con l’uccisione del drago messo da Giunone a guardia dei pomi dorati compiva la sua undicesima fatica. Il camion era ancora metà pieno di cassette di arance. Era difficile guardarlo con l’occhio dell’ottimista che avrebbe detto “è metà vuoto”. Guardavamo con angoscia solo quella metà ancora piena. Bruno cominciava anche lui a barcollare, ma non mi avrebbe abbandonato. Non ci saremmo abbandonati noi due. O mollavamo entrambi, o resistevamo entrambi sino alla fine. La nebbia si era un poco diradata. La luce del mattino cominciava a far capolino. Malgrado il freddo, eravamo sudatissimi, con le spalle dolenti e i guanti di lana che si erano sfilacciati su qualche chiodino o punto metallico sporgenti dalle cassette. Per farci coraggio ci dicevamo che oltre al caffè avremmo preso al bar anche la brioche. Anzi, se resistevamo sino alla fine potevamo premiarci con un cappuccino! E così stringemmo i denti e ci immergemmo nei nostri carichi di arance. Ricordavo che ci fu un giorno, potevo avere 18 anni, che vidi mio padre sbucciare le arance in un altro modo. Non so dove lo avesse imparato. Col coltello tagliava la calotta superiore dell’arancia, poi tagliava la calotta inferiore, un po’ come si fa con i fichidindia, e col coltello incideva tanti tagli come meridiani, quindi con le dita toglieva le strisce di buccia. Era un modo pratico e veloce. Gli chiesi da quando tagliava le arance a quel modo. Mi disse che aveva sempre fatto così. Provai a contraddirlo dicendo che una volta le tagliava in un altro modo, facendo una lunga spirale. Ribadì che la spirale lui non l’aveva mai fatta: “Tuo zio Totò sbuccia le arance con la spirale, io ho sempre fatto così”. E non ci fu verso. O aveva completamente dimenticato, o avevo fatto io un po’di confusione. Da quel giorno imparai a sbucciare per sempre le arance a quel modo con i tagli meridiani da calotta a calotta. Il Sig. Bragante alla luce del mattino sembrava più minaccioso e burbero. Dava ordini perentori a una squadra di uomini e ragazzi che si spicciassero a 3 scaricare quel camion di cardi. Alcuni compratori giunti dai mercati rionali sparsi nella città erano già pronti agli acquisti e già affollavano le soglie degli ingressi. I vigili passeggiavano dando un’occhiata agli orari, agli spazi, ai camion. Bragante venne al nostro camion e si mise a scaricare cassette di arance. Un gesto per dirci in modo chiaro che eravamo indietro coi tempi e, tanto per gradire un po’ di esempio, fece alcuni viaggi con sette cassette sulle spalle! L'arancia è ricca di potassio, di vitamina A, di calcio, di fosforo. Ha spiccata funzione digestiva e dissetante. E’ un frutto ricco di acido fòlico e tiamina. I flavonòidi presenti nelle arance hanno potere terapeutico contro le allergie e altre malattie infiammatorie. La tangeritina previene l'invasione dei tessuti da parte delle cellule cancerogene. La pectina è la più preziosa componente della fibra alimentare delle arance; è quella che crea una sensazione di sazietà utile a chi pratica diete dimagranti o a chi vuole mantenere la linea dopo le scorpacciate delle Feste di Natale. La pectina riesce a catturare gli acidi biliari intestinali, contribuendo a tenere al giusto livello il tasso di colesterolo nel sangue. Insomma, tutti i componenti delle arance hanno un'azione benefica per l'organismo umano. Pur con tutte queste qualità ricordo di aver letto da qualche parte che gli inglesi hanno cominciato a snobbare le arance. Sbucciarle richiede infatti troppo tempo. A lanciare l’allarme, e una riflessione sui ritmi sempre più frenetici della vita moderna, sembra sia stato il quotidiano britannico The Independent. Le arance perdono sempre più terreno a favore di clementine e mandarini, meno grossi, meno appiccicosi, ma soprattutto più facili da pelare. Togliere la buccia è sempre più considerato un fastidio o una perdita di tempo. Mancano ancora poche cassette da scaricare, gli ultimi viaggi e il camion sarà vuoto! Anche lo stomaco è vuoto. Ora la voglia di una brioche e un cappuccino premono con forza sulla gola. Siamo rimasti gli ultimi. Tutti i camion hanno abbandonato gli spazi di fronte ai Mercati. I vigili hanno fischiato. I compratori hanno dato l’assalto alle mura. Il sole avanzando all’orizzonte sfalda la nebbia man mano. Anna, la mia fidanzata, taglia a metà l’arancia nel senso dell’equatore. Ne succhia il frutto sino all’ultima goccia e getta via gli avanzi della buccia assottigliata e rosicchiata. Io, che ho la barba, solo in qualche occasione mangio l’arancia a quel modo, sbrodolandomi con piacere in modo molto privato. A volte taglio l’arancia a spicchi, ne metto in bocca uno e lo succhio giocando a far scomparire i denti coperti dalla luna di buccia che mi fa assomigliare a una maschera africana di legno. Ecco, ora il Sig. Bragante ci consegna nelle mani le poche lire che ci spettano. Ritiro tutto il danaro. Solo dopo averlo ritirato tutto, dico che vogliamo acquistare una cassetta di arance. Il fatto di aver messo nella mia mano il danaro e doverne riprendere subito una parte per pagarsi una cassetta di arance, forse avrebbe messo Bragante un po’ in imbarazzo, forse lo avrebbe spinto a dire: “va bene così…”. Ma senza nessun imbarazzo Bragante prese con la sua mano tozza l’equivalente del costo della cassetta e se lo mise in tasca. Ebbi l’impressione di averla pagata più cara. Ci salutammo in mezzo al vocìo senza molto entusiasmo. Con la cassetta di arance sulle spalle, Bruno alla mia sinistra col viso arrossato dal gelo, due spanne più alto di me, attraversammo la strada sino al bar. Davanti a noi, sul tavolino rotondo del bar, due cappuccini fumanti, due brioche calde con la marmellata ancora fumante. Tolti i guanti di lana sfilacciati, tolti gli eskimo appoggiati sulle sedie. 4 Al mio fianco, come un terzo avventore, seduta su una sedia, la muta cassetta di legno piena di belle arance rosse. La compagnia di una sigaretta. Le spalle dolenti. I nasi gocciolanti. Lo studente mingherlino e spilungone sparito oltre le nebbie della città. A lungo guardai le belle bucce rossodorate delle arance sedute al nostro tavolo. Gli ultimi ricordi furono pezzetti di bucce d’arancia strizzati sulle candele accese d’inverno, o gettate nel fuoco della stufa a legna, spìfferi di fiammelle e aromi d’arancia in cucina. Ormai, chiacchierando, si erano fatte le nove del mattino. Di andare all’università a seguire le lezioni nemmeno a parlarne. Ci saremmo appisolati sui banchi. Assaporando l’ultimo goccio di cappuccino tiepido, nel tepore e nel riposo del bar, tacitamente io e Bruno dicevamo addio per sempre alle cassette di frutta e verdura dei Mercati Generali. Cascina Macondo Centro Nazionale per la Promozione della Lettura Creativa ad Alta Voce e Poetica Haiku Borgata Madonna della Rovere, 4 - 10020 Riva Presso Chieri - Torino – Italy [email protected] - www.cascinamacondo.com 5