AI SOCI E AGLI AMICI DELLA SOCIETA` TARQUINIENSE D`ARTE E

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AI SOCI E AGLI AMICI DELLA SOCIETA` TARQUINIENSE D`ARTE E
AI SOCI E AGLI AMICI DELLA SOCIETA’ TARQUINIENSE D’ARTE E STORIA
Al compiersi del quarto anno di attività della Società Tarquiniense d’Arte e Storia
siamo lieti di poter presentare ai Soci ed agli Amici il nostro BOLLETTINO annuale.
Le manifestazioni svolte nell’anno 1975 sono state molte, e con piacere abbiamo
notato un crescente interesse verso di esse.
Personalità ben note per la loro dottrina e per il loro prestigio ci hanno onorato con
la loro attiva partecipazione, intrattenendoci con dotte Conferenze e simpatiche
Conversazioni che ci hanno fatto meglio conoscere la storia e capire i Monumenti e la vita
della nostra Città attraverso i secoli.
A tutti desideriamo porgere i nostri vivi ringraziamenti, con l’augurio di poterli
ascoltare ancora in altre occasioni.
Il P. e Enrico Zoffoli, Passionista, profondo studioso della vita di S. Paolo della Croce
e della Storia dei Passionisti, ci ha parlato del primo Monastero delle Monache Passioniste,
fondato nella nostra Città da Paolo della Croce. Da questo, che può ben dirsi la Culla delle
Congregazioni delle Passioniste, sono partite le Religiose che hanno portato il nome di
Corneto nelle nuove Fondazioni in Italia, in Europa e nelle Americhe.
Il Prof. Romolo Staccioli, nella Conferenza “Incontri e scontri tra Tarquinia e
Roma”, ci ha parlato dei rapporti e delle vicissitudini non sempre pacifiche occorse tra le
due Città negli ultimi cinque secoli prima dell’Era Volgare.
Non è mancato alle nostre manifestazioni il contributo del concittadino arch. Renzo
Pardi, Soprintendente ai Monumenti della Lombardia. La sua illustrazione del grande
Tempio di Santa Maria in Castello ha fatto rivivere dinanzi a noi la vicenda della
monumentale Costruzione con rilievi e dettagli che ci hanno fatto comprendere
l’architettura originaria dell’Edificio, non sempre intuibile a causa delle manomissioni
verificatesi durante la sua storia millenaria.
Ancora, per quanto riguarda Tarquinia, l’arch. Leonardo Proli, anch’esso nostro
cittadino, in una sua lucida Conferenza ci ha parlato del nostro Palazzo Comunale e delle
sue trasformazioni.
Questa Conferenza ha aumentato in noi il desiderio che possa finalmente essere
portato a termine il restauro di questo Edificio, unico nel suo genere, che costituirà, con il
Palazzo Vitelleschi, un altro Monumento di grande interesse nella nostra Città. Ci
auguriamo che la Soprintendenza ai Monumenti del Lazio possa continuare nell’opera
iniziata, e per questo facciamo appello all’illustre Soprintendente prof. Giovanni Di Geso.
1
Il Prof. Guglielmo De Angelis d’Ossat ci ha presentato una “Tarquinia Città
esemplare nel Medio Evo”, descrivendo le evoluzioni sociali, urbanistiche ed
architettoniche di Corneto. La sua Conferenza, però, insieme a quella del prof. Mario
Moretti, potremo pubblicarle solo nel Bollettino del 1976.
Anche il Prof. Moretti infatti è stato tra noi per parlarci, con la sua competenza, sulle
più recenti scoperte etrusche di Cerveteri, Feronia, Ferento etc. avvincendo il numeroso
uditorio con la sua facondia e con la freschezza delle immagini. Siamo grati al Prof. Moretti
anche per aver accettato di guidarci nella visita alla Necropoli di Cerveteri, che è stata meta
di una nostra gita culturale che ci ha condotti fino a Bracciano al Castello degli Odescalchi.
Abbiamo infine voluto procurare ai nostri Soci ed Amici un momento di godimento
spirituale di eccezione, promovendo l’esecuzione di un concerto vocale nella Chiesa di S.
Francesco.
Il “Coro dei Maestri Cantori Romani”, diretto dal Maestro Laureto Bucci, ha
eseguito con rara perizia musiche polifoniche riscuotendo il più ampio consenso dal
numeroso pubblico intervenuto. Desideriamo ringraziare il caro Maestro Bucci ed i suoi
validi collaboratori e speriamo che questo incontro possa ripetersi.
La nostra Società ha anche collaborato ad iniziative e manifestazioni di altri sodalizi
mettendo a disposizione l’Auditorium di S. Pancrazio, nel quale si sono anche svolte
mostre del Club Filatelico-Numismatico e dei pittori Gin Torres, Anna Maria Balucani
Moretti, Miralli, Balduini, Alfieri ed altri, per i quali tutti formuliamo i migliori auguri.
Abbiamo dato anche la possibilità ai nostri Soci e alle loro famiglie di conoscere le
bellezze naturali ed artistiche di alcune parti d’Italia. In questo anno infatti abbiamo
organizzato anche una gita in Abruzzo ed un’altra in Puglia, ciascuna della durata di 5
giorni.
L’anno 1975 è stato anche anno del Giubileo, che ha visto confluire a Roma
moltitudini da tutti i continenti. Anche un gruppo di nostri soci ha voluto compiere il suo
pellegrinaggio nella Città Eterna. Dopo aver adempiuto alle pratiche religiose nella Basilica
di S. Pietro, hanno potuto visitare e ammirare le bellezze dei Giardini Vaticani.
Le iniziative e le manifestazioni non sono state dunque poche, e desideriamo
esprimere il nostro ringraziamento e il nostro plauso ai Soci ed agli amici che hanno voluto
parteciparvi, perché la loro presenza non solo è stato motivo di soddisfazione per noi, ma
anche di incoraggiamento e di stimolo a intensificare sempre di più la nostra azione.
Di un’altra importante iniziativa del nostro Consiglio Direttivo vogliamo ora
informarvi, la pubblicazione a stampa delle “Cronache Cornetane” del Canonico Muzio
Polidori.
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Abbiamo potuto mettere insieme i tre volumi delle “Cronache Cornetane”, di cui
tanto si è parlato e che sono state notoriamente la fonte di informazione di tutti gli studiosi
che si sono occupati della storia di Corneto. Sarà un lavoro non facile e che richiederà del
tempo, perché si tratta di trascrivere tre grossi volumi manoscritti sulle cui pagine l’usura
del tempo ha purtroppo lasciato i suoi segni.
Il lavoro di trascrizione è già a buon punto e ci auguriamo di poter completare la
redazione del testo definitivo entro il 1976. Le spese per la trascrizione e per l’edizione
tipografica saranno notevoli, ma non disperiamo di trovare mecenati che vorranno far
questo dono alla Città di Tarquinia.
Altra iniziativa, che chiameremo di Storia minore, riguarda le ricerche che qualche
Socio sta compiendo su vecchie carte, raccogliendo documenti, memorie e dati che
serviranno a farci conoscere tante notizie circa la vita dei Cornetani nei secoli passati.
Un primo saggio è già contenuto in questo bollettino.
Con la necessaria discrezione e prudenza abbiamo infine incominciato a ricercare,
fotografare e catalogare quegli oggetti, conservati in vari luoghi di Tarquinia, che hanno un
valore storico e artistico notevoli. Potrebbe essere un primo passo per la eventuale
creazione di un Museo medioevale cittadino.
E’ un nostro desiderio, e se sono rose fioriranno!
Abbiamo finito; qualche amico potrà dire che forse la S.T.A.S. vuol fare troppo.
Certamente questo non è il nostro intendimento, anzi vogliamo lavorare modestamente ma
con perseveranza, essendo convinti che i problemi da risolvere nel nostro campo sono
molti. Noi ci sentiamo stimolati a muoverci e ad operare nella speranza che altri, compresi
della bontà della nostra azione e della validità delle nostre iniziative si uniscano con spirito
di collaborazione per realizzare quel che è possibile di buono, di utile e di decoroso per la
nostra Città. Quanto tempo libero dei nostri giovani potrebbe essere così impiegato e
utilizzato! E’ una semplice esortazione e una richiesta che rivolgiamo ai giovani stessi
nell’interesse di tutti i cittadini.
Da ultimo inviamo a tutti i Soci e a tutti i nostri Amici un cordiale e grato saluto.
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La Chiesa di S. Maria in Castello a Tarquinia, dalla fondazione alla
consacrazione
L’articolo di Guglielmo De Angelis d’Ossat sulla distrutta “cupola di Castello” a
Tarquinia (1) mi ha offerto lo spunto per una rilettura della letteratura riguardante la S.
Maria in Castello, non che per una ulteriore riflessione su alcune anomalie dell’organismo
della monumentale chiesa (2) .
Quando, or sono circa vent’anni, eseguii il rilievo dell’edificio, mi accorsi che la
cupola suaccennata, con i suoi pennacchi sferoidici
(3)
, gli archi a sesto acuto e le quattro
colonnine diagonali di sostegno all’intera struttura, erano frutto di aggiunte effettuate
all’ultimo momento: infatti le citate colonnine diagonali presentano un diametro di cm. 26,
a differenza delle altre il cui minimo diametro è di cm. 34; inoltre esse sono sormontate da
capitelli di stile gotico e non romanico.
Il De Angelis d’Ossat nel sopra richiamato articolo ha stabilito che la calotta di
Tarquinia appartiene alla stessa famiglia di quelle toscane, peraltro coeve, del duomo e
della chiesa di S. Paolo a Ripa d’Arno in Pisa
(4)
, non che della cattedrale di Siena: anzi,
egli restringe l’inserimento e addirittura “l’ideazione” della calotta stessa tra il 1174 - data
di un trattato d’alleanza tra Tarquinia e Pisa (5) - ed il 1207, data della consacrazione della
chiesa di S. Maria in Castello.
Deve essere conseguentemente escluso che la cupola sia stata progettata sin
dall’inizio dei lavori: al contrario, si deve ritenere che - prima del 1174 - al posto della
cupola in questione dovesse essere eretta una volta a crociera provvista di costoloni, uguale
in tutto alle altre insistenti sulle restanti quattro campate dell’edificio.
(1)
DE ANGELIS D’OSSAT GUGLIELMO: La distrutta “cupola di Castello” a Tarquinia; Palladio I-IV, 1969, ppgg..
15-32.
(2)
Nel presente articolo sintetizzo uno studio più ampio che mi propongo di portare a termine entro il 1976; detto studio
dovrebbe investire anche parecchie chiese milanesi e pavesi.
(3)
Nel mio commento al rilievo della chiesa di S. Maria in Castello, pubblicato in Palladio 1959, ppgg. 79, 83, definii
imperfettamente i pennacchi come sferici; supposi, invero, che un eventuale tiburio dalle consuete forme romanicolombarde avrebbe potuto svilupparsi su pennacchi conici (cfr. DE ANGELIS, op. cit., pg. 28, nota 24).
(4)
DE ANGELIS, op. cit. pg. 15).
(5)
DE ANGELIS, op. cit., pg. 21.
4
Sembra opportuno, a tal punto, richiamare per sommi capi le conclusioni degli
studiosi più qualificati, circa l’ideazione e l’innalzamento delle volte a crociera di tipo
lombardo (6) .
I primi esempi di consimili coperture si ritrovano nei seguenti organismi:
a) S. Pietro di Casalvolone (Novara), chiesa consacrata nel 1118 o 1119.
b) S. Giulio di Dolzago (Novara), chiesa consacrata fra il 1118 e il 1148.
c) chiesa di Sannazaro Sesia, circa del 1125.
d) duomo di Novara, consacrato nel 1132.
e) circa al 1125 è ascritto dalla più gran parte della letteratura artistica
l’innalzamento delle grandi volte di S. Ambrogio in Milano.
Identico processo storico-costruttivo si verifica negli altri paesi d’Europa: infatti le
volte a costoloni di Morienval sono del 1125.
Ciò premesso, è opportuno confrontare con le sopra elencate date quella di
fondazione del tempio tarquiniense: il 1121.
Sulla base di siffatta comparazione credo esser difficilmente sostenibile che, fin dal
tracciamento dell’impianto, si sia inteso esemplare la S. Maria in Castello secondo lo
schema attuale, consistente in un organismo di architettura romanico-lombarda, offrente
volte sostenute da costoloni ricadenti su pilastri cruciformi e polilobati. Infatti, a mio
avviso, è necessario lasciare un congruo lasso di tempo fra l’epoca di innalzamento delle
coperture delle volte di Tarquinia: invero, la presenza di organismi così spiccatamente
lombardi nell’Alto Lazio costituisce un fatto del tutto eccezionale, che ha condotto
addirittura a definire il complesso dell’architettura romanica tarquiniense come “enclave
lombarda”.
Si deve quindi dedurre che siffatta eccezionalità condiziona il momento di
costruzione della S. Maria in Castello - che è la prima basilica romanico-lombarda dell’Alto
Lazio - rispetto all’epoca di realizzazione dei principali monumenti milanesi e pavesi del
dodicesimo secolo.
Anche Richard Krautheimer (7) ritiene che le volte della suddetta S. Maria siano
posteriori almeno al 1143, anno in cui fu finito il portale principale e nel quale,
conseguentemente i lavori dovevano riguardare l’ulteriore innalzamento della facciata; ad
(6)
Notizie ed argomentazioni riprese dall’articolo di PAOLO VERZONE: L’origine della volta lombarda a nervature;
è in: Atti IV Convegno di storia dell’architettura, pg. 53.
(7)
Vedasi in generale l’articolo di RICHARD KRAUTHEIMER: Lombardische Hallenkirchen im XII Jahrundert; è in:
Galls Jahrbuch der Kunstwissenschaft 1928; articolo che appresso verrà citato nei singoli punti investenti il tema della
nostra trattazione.
5
essa - internamente - sono appoggiate le colonnine di sostegno delle volte e le volte stesse,
insieme ai relativi costoloni a sezione quadrata.
In conclusione, sembra ragionevole e verosimile distanziare le coperture di
Tarquinia di una ventina d’anni rispetto a quelle di S. Ambrogio in Milano.
La chiesa di S. Maria, però, possiede anche volte sorrette da costoloni a sezione
rotonda: siffatto tipo di costolone, detto anche “ogiva a toro” compare in Italia verso il 1136
- 1142 alla chiesa cistercense di S. Benedetto di Vallalta (8) ; le prime ogive a toro francesi
sembrano essere quelle appartenenti alla seconda costruzione della chiesa cistercense di
Pontigny, fra il 1150 e il 1170.
Quelle di Tarquinia, secondo la Fraccaro ed il Porter (9) , apparterrebbero ad una
ricostruzione del 1190, dovuta alla necessità di procedere ad estese riparazioni dell’edificio.
***
Credo che qui appresso opportuno richiamare l’attenzione del lettore sul risultato
del rilievo cui dinanzi accennai: le colonnine diagonali dei pilastri appartenenti alla terza
campata vennero elevate simultaneamente agli archi di sostegno della cupola, non che alla
cupola medesima.
Anteriormente, i pilastri suddetti non possedevano colonnine diagonali e - da quel
che si può osservare attraverso l’abbastanza ampia fessura tra attuali colonnine e facce dei
pilastri cruciformi - essi non hanno mai posseduto consimili elementi costruttivi.
Ma anche in tutti gli altri pilastri della chiesa, le colonnine diagonali sono state
installate senza malta mediante il semplice taglio delle murature: esse, cioè, sono soltanto
“infilate” dentro gli angoli interni dei pilastri stessi.
Sembra, pertanto, di dover dedurre che le colonnine in discussione vennero
installate soltanto quando si trattò di provvedere la chiesa di volte a crociera costolonata in
un momento che dal Krautheimer è stato indicato come ruotante verso il 1143.
Ma allora è necessario formulare la domanda: se l’espressione attuale del
monumento è dovuta a sostanziali trasformazioni operate circa verso la metà del
dodicesimo secolo, qual’era la forma del tempio progettato fra il 1121 (epoca della
fondazione) ed il 1143 (epoca delle trasformazioni)?
(8)
Notizie ed argomentazioni riprese dall’articolo di LELIA FRACCARO DE LONGHI: Note sul monastero di S.
Benedetto di Vallalta sopra Bergamo e sul problema delle prime ogive a toro introdotte dai Cistercensi in Italia; è in
Palladio, 1953 (II-III), pg. 118 e ssgg.
(9)
L. FRACCARO DE LONGHI: L’architettura delle chiese cistercensi italiane; Milano 1958, pg. 239, nota 3.
ARTHUR KINGSLEY PORTER: Lombard Architecture; New Haven, 1916, vol. II, pg. 362.
6
***
Ritengo indispensabile - a questo punto - rammentare succintamente le tesi esposte
da Richard Krautheimer a proposito di un ristretto gruppo di chiese romaniche ruotanti
intorno agli inizi del dodicesimo secolo: tali edifici sarebbero stati interessati da diversi
progetti elaborati in rapidissima sequenza dalla fine circa dell’undicesimo al primo
trentennio del secolo successivo. Quando tali organismi furono iniziati si intese conferir
loro un assetto a sala con campate di navata centrale coperte da volte a crociera a spigolo
vivo, insistenti su una pianta oblunga, cioè rettangolare nel senso della larghezza.
L’Arslan (10) , al riguardo, indica un esempio precoce - appartenente a circa il 1090 nella chiesa milanese di S. Eustorgio; la stessa icnografia offre l’alto tempio milanese di S.
Babila non che l’organismo pavese di S. Pietro in Ciel d’Oro: da quest’ultimo, anzi,
proverrebbe l’impianto della chiesa tedesca di Maria Laach e di varie altre realizzazioni
architettoniche della Lombardia centromeridionale.
La stessa disposizione è presentata dalla chiesa di Anzyle-Duc, datata al 1110-25,
non che dal duomo di Sovana (iniziato da Gregorio VII; 1073-1085) ove le volte oblunghe
sono ipotizzabili come progettate nei primi decenni del secolo dodicesimo, secondo il
Salmi (11) il quale per il periodo precedente individua un organismo basilicale.
Le campate oblunghe di tutti i monumenti sopra elencati sarebbero state ben presto
sostituite con un impianto di basilica divisa da pilastri cruciformi arricchiti da supporti
angolari atti a raccogliere lo spigolo delle volte a crociera; terzo progetto sarebbe stato
quello di trasformare l’impianto basilicale in un assetto a sala con navata centrale coperta
da volta a botte e navate laterali recanti volte a crociera con spigoli vivi; sarebbe seguito,
infine, l’adozione di uno schema basilicale coperto da volte a crociera, ottenuto mediante la
sopraelevazione dei muri insistenti sulle arcate di valico fra le navate.
La chiesa tarquiniense, presentate una delle basi appartenenti ai pilastri diagonali
disposta in senso frontale e non obliquo (come sarebbe invece logico attendersi) sarebbe
stata originariamente ideata, almeno nelle parti più antiche che sono indubitamente quelle
verso le absidi, come provvista di una volta a botte ricoprente la navata centrale (12) : si
spiegherebbe, così, anche la ragione della presenza della semicolonna appartenente al
(10)
ARSLAN EDOARDO: Storia di Milano, Vol. III, Milano 1954, ppgg. 449-453.
SALMI MARIO: L’architettura romanica in Toscana; Milano s.d., pg. 52, nota 53.
(12)
KRAUTHEIMER R., op.cit. p. 185 “An einer einzigen Stelle steht die Basis noch frontal: am dritten Pfeiler der
Nordreihe (von Osten) am östlichen Dienst, sie ist vom Fussboden halb verdeckt, liegt also noch an ihrem alten Platz”.
Sarà - dico io - ma la base mi sembra piuttosto irregolare per assumerla in decisa posizione frontale.
(11)
7
pilastro intermedio, o debole, la quale è coronata da un capitello largo e frontale. Essa,
sempre secondo il Krautheimer, avrebbe ricevuto un grande sottarco rafforzante
interiormente la volta a botte di copertura alla navata centrale. Tale assetto, preparato ma
non compiuto, apparterrebbe al terzo decennio del secolo dodicesimo e sarebbe derivato
dall’architettura del Poitou.
Tuttavia - si osserva - il terzo decennio del XII secolo va dal 1120 al 1130: onde secondo il Krautheimer - detto assetto andrebbe ascritto all’epoca di fondazione della
chiesa.
Ad ogni modo l’illustre autore qui chiamato in causa conclude che la navata centrale
della S. Maria venne iniziata ad esser voltata, con i necessari costoloni, a partire dal 1143,
anno in cui fu finito il portale principale e nel quale - conseguentemente - i lavori dovevano
concernere l’ulteriore innalzamento della facciata (13) : infatti le basi delle colonnine
applicate ai pilastri poggianti contro il retrofacciata sono disposte in senso diagonale, cioè
in senso esattamente orientato per quel che concerne la continuità strutturale e stilistica
fra struttura portante e struttura portata (14) .
In conclusione, dal 1121 al 1143 la chiesa sarebbe stata progettata per essere coperta
da una grande volta a botte; dal 1143 al 1174 l’organismo fu trasformato in senso
stilisticamente lombardo, con le attuali volte a crociera costolonata. Verso il 1190 si
sarebbero rifatte due volte crollate; infine, poco prima della consacrazione del 1207,
sarebbe stata installata la cupola.
Renate Wagner - Rieger fa notare come l’inutilità della semicolonna inserita nel
pilastro debole sia sottolineata dalla monofora situata (presso la campata adiacente
all’abside) immediatamente al di sopra della semicolonna stessa: situazioni consimili si
ritrovano tanto documentate dai disegni di Ottavio Mascherino illustranti l’antico duomo
di Bologna, quanto tuttora esistenti nelle chiese cistercensi di Chiaravalle della Colomba, di
Fiastra e di Fontevivo, non che nella cattedrale di Piacenza (15) .
***
(13)
KRAUTHEIMER R., op.cit. pg. 188: “1143 arbeitete man an der Westfassade... und damals hatte man sich schon
entschlossen, das Mittelschiff auf Rippen einzuwölben, die Basen an der Westwand unmittelbar neben dem Portal
stehan diagonal”. Aderisco alla tesi del Krautheimer, il cui ragionamento - almeno in questo punto - mi sembra molto
logico. Circa l’organismo dell’epoca di fondazione l’illustre autore tedesco si esprime testualmente come segue: “1121,
als man den Bau in Angriff nahm, plante man noch das system der Ostjoche von Rivolta und S. Celso zu verwenden,
nachzüglerisch jedenfalls”.
(14)
v. preced, nota 12.
8
Ciò premesso, esaminiamo più da vicino l’organismo descritto dal Krautheimer,
corrispondente alla prima edizione della S. Maria in Castello e derivato dall’architettura
poitevina; al riguardo, è necessario preliminarmente produrre tutta una serie di
osservazioni che, mutuamente collegate, conducono infine all’esclusione delle tesi
sostenute dall’illustre autore qui citato: tanto per cominciare, non si saprebbe dove
individuare la struttura resistente atta ad assorbire la fortissima spinta esercitata sui muri
laterali da una volta a botte di copertura della navata centrale.
Ma, anzitutto, occupiamoci della posizione dei tetti sopra le navate laterali: ciascuna
falda taglia al presente le finestre appartenenti ai muri della navata centrale, non che - in
corrispondenza della parete sinistra - la parte inferiore del rosone campeggiante sopra la
terza campata. Poiché le suddette finestre sono assegnate dal Porter al secolo XVII (16) , mi
sembra di poter assumere come pacifico che l’attuale falda è posteriore all’epoca di
costruzione delle finestre stesse; onde, qualora si volesse riportare in piena luce rosone e
finestre, la falda del tetto dovrebbe essere abbassata ad una pendenza massima del 14%. Il
Porter, invero, pensa che le navate laterali dovessero essere in origine coperte quasi in
piano (17) : ma una pendenza tanto modesta non avrebbe sicuramente assicurato il buon
deflusso dell’acqua piovana.
Tuttavia, all’esterno, circa a metà altezza dei due muri delimitanti la navata centrale,
corrono visibilmente tracce di una serie di fori, disposti fittamente su una linea orizzontale,
praticati evidentemente non per sostenere una palcatura - chè sarebbero mutuamente più
distanti ed anche più grandi - bensì la piccola orditura di un tetto, attualmente non più
esistente.
Si potrebbe pertanto ritenere che i citati fori rappresentino il margine superiore
dell’antico tetto che ricopriva le navate laterali: ma se proviamo a ricostruirne
l’inclinazione, partendo dalla linea di gronda - che deve per forza costituire un punto
fermo, essendo ornata di cornice e di fregio ad arcatelle lombarde - otteniamo una
pendenza di circa il 46%, risultato che rappresenta, stavolta per eccesso, un dato del tutto
inaccettabile quale caratteristica di un tetto appartenente ad un edificio ubicato in zona dal
clima piuttosto mite e scarsamente piovoso.
Non resta quindi che ritenere che le tracce di cui si discorre debbano essere riferite
ad un terzo tetto, a suo tempo imposto al di sopra della piatta, o quasi piatta, copertura
delle navate laterali: se proviamo a disegnarne la falda, con pendenza parallela a quella
(15)
RENATE WAGNER-RIEGER: Die italienische Baukunst zu beginn der Gotik; Graz. 1957, vol. I, ppgg. 50-56 e
vol. II ppgg. 33-37.
(16)
PORTER A. K. op.cit. pg. 360.
9
delle attuali coperture, otteniamo una sezione offrente, al di sopra delle navate laterali, due
ambienti di altezza interna minima pari a circa m.1,70, altezza del tutto normale per
l’agibilità degli ambienti stessi.
Sembra abbastanza trasparente, a questo punto, che la prima serie di osservazioni
ricavate dalla lettura diretta del monumento orienta verso la configurazione della esistenza
di due matronei, o gallerie, al di sopra delle navate laterali.
Ma ulteriori elementi possono essere chiamati in causa a favore di siffatta
raffigurazione. Anzitutto, si può produrre la scaletta esistente nel muro - circa a metà della
navata laterale destra - tuttora adducente al livello delle coperture: essa per i paramenti
murari si rivela essere coeva al monumento medioevale e va conseguentemente escluso che
possa trattarsi di un inserimento seriore. Essa, inoltre, essendo stata ricavata nel muro cui
si appoggiano pilastri, colonnine parietali e volte, deve essere stata costruita o prima o
insieme al muro stesso e non dopo l’innalzamento delle volte a crociera pertinenti alle
navate laterali.
In quest’ultimo caso, infatti, sarebbe stato necessario abbattere le volte delle ultime
quattro campatelle di destra, ricostruire muro, pilastri, colonnine diagonali e rifare - infine
- le volte precedentemente rimosse: sembra difficile immaginare che si sia proceduto alla
demolizione di mezza navata laterale destra allo scopo di disporre di una misera scaletta
larga una sessantina di centimetri ed atta al passaggio di una persona per volta. Nè credo
che la scaletta in parola sia stata installata allo scopo di trasferire più agevolmente il
materiale da costruzione sui tetti delle navate laterali e sulla cupola: invero i tetti succitati
sono tuttora facilmente accessibili non comuni scale a pioli, essendo la loro gronda situata
a circa otto metri e mezzo da terra.
In conclusione, a mio avviso la scaletta fu installata prima del 1143, cioè prima
dell’innalzamento delle volte e, per tale ragione, essa non può essere stata costruita che per
assolvere alla funzione di addurre i fedeli dalle navate al superiore matroneo.
Tuttavia, la presenza di una sola scaletta induce a domandarsi come si potesse
raggiungere la galleria di sinistra (18) : ma esaminando all’esterno la zona absidale si vede
che la possibilità di un passaggio fra l’una e l’altra navata a livello di un probabile matroneo
non solo esiste, ma forse si è tentato anche di darle concreta realizzazione. Infatti la parete
di testata della navata centrale è spostata, rispetto alle corrispondenti pareti di testata delle
(17)
PORTER A.K.,op.cit., pg. 359: “.... this roof must have been almost flat”.
Si potrebbe a questo punto chiamare in causa il duomo di Modena che possedette matronei ad impalcato ligneo di
cui non sono state mai trovate le scale per salirvi.
(18)
10
navate laterali si elevano due muri, con pendenza obliqua, i quali devono essere i resti della
facciata absidale della chiesa (19) .
E’ da escludere - in ogni caso - che detti muri siano due contrafforti sia perchè non
sono collegabili - in quanto arretrati - alle pareti di perimetro della navata centrale, sia
perchè sono anche staccati dalle pareti di perimetro stesse mediante un taglio regolare che
sembra indicare la posizione di alcune finestre probabilmente disposte in serie.
Dalla somma di siffatte osservazioni si ricavano le seguenti conclusioni:
a) i due muri a pendenza obliqua non sono due contrafforti, bensì i resti della
facciata posteriore del monumento;
b) i due muri stessi fissano le quote originarie delle falde di copertura (beninteso
qualora siano immaginati come completati con la grossa orditura in legname e con il
manto di tegole e coppi);
c) i tagli regolari che li staccano dalle pareti di navata centrale individuano le
finestre illuminanti il percorso collegante la navata laterale sinistra quella destra;
d) il suddetto percorso doveva svolgersi nello stretto spazio, pari a circa sessanta
centimetri, situato tra la facciata posteriore e la parete di testata della navata centrale; il
percorso in questione scavalcava il semicatino absidale attraverso due rampe, lievemente
inclinate secondo l’estradosso del semicatino stesso.
Non deve recar meraviglia il fatto che il passaggio sopra definito fosse largo appena
una sessantina di centimetri poichè, ad esempio, le scomodissime scalette adducenti ai
matronei della chiesa di S. Eufemio in Spoleto (fine XII secolo) sono larghe - appunto - sui
sessanta centimetri e permettono il passaggio di una sola persona alla volta.
***
Le osservazioni e le argomentazioni sopra svolte possono essere corroborate da
ulteriori prove e deduzioni.
Sui paramenti murari della navata centrale si può cogliere, circa a metà altezza della
chiesa, un lieve arretramento delle pareti (19bis), denunciante chiarissimamente che la
costruzione ha subìto un arresto nel momento in cui si giunse al livello sopra indicato.
Siffatta sospensione dei lavori non può che esser connessa con un cambiamento di
progetto che va relazionato al momento in cui ci si orientò verso la trasformazione
dell’organismo in senso romanico - lombardo, con l’innalzamento delle volte a crociera
(19)
Tale retrofacciata venne notato anche dal PORTER, op.cit. pg. 360: “The horizontal cornice ought to have been
11
fornite di costoloni quadrati o rotondi. Come ha ben messo in evidenza il Peroni nel suo
monumentale volume sul tempio di S. Michele in Pavia (20) , la volta a crociera abbisogna di
una forma di pianta piuttosto regolare: questa necessità si profila soprattutto nel
tracciamento di volte a crociera dalle grandi dimensioni, onde permettere il regolare
congiungimento in chiave dei costoloni diagonali tracciati a semicerchio. Nelle piccole
volte, invece, il relazionamento degli elementi costruttivi è più arrangiabili. Diventa
evidente, allora, che, quando in Tarquinia vennero abbracciate le forme romanicolombarde, fu necessario correggere il difettoso allineamento dei pilastri della S. Maria in
Castello, al fine di rendere la pianta delle grandi campate di navata centrale la più vicina
possibile al quadrato: ma siffatte correzioni costituiscono un’ulteriore prova per asserire
che la versione romanico-lombarda fu cominciata ad essere attuata soltanto quando era
stata già innalzata la metà inferiore dell’ossatura del monumento.
Altri particolari degni di nota sono offerti dalla strana posizione dei capitelli
appartenenti ai pilastri della zona absidale. Essi - come a suo tempo osservato dal Porter (21)
- sono anzitutto di puro stile lombardo e secondariamente non sono come di consueto
situati in sommità del piedritto, bensì sono incastrati nel suo corpo che prosegue verso
l’alto e si arresta ad un livello superiore a quello dei capitelli in parola: mi sembra
abbastanza chiaro che consimile anomalia indichi in primo luogo che la forma degli archi
dividenti le navate non doveva, in origine, essere del tipo attuale a due ghiere sovrapposte,
bensì ad una sola ghiera, ed in secondo luogo che l’applicazione di tali capitelli fu effettuata
in un momento posteriore a quello in cui vennero costruiti i suddetti archi divisori.
Abbiamo, quindi, un’altra prova per ascrivere l’edizione romanico-lombarda del
monumento ad epoca alquanto posteriore a quella degli anni immediatamente seguenti la
data di fondazione.
Occorre, inoltre e finalmente, esaminare l’elemento architettonico che rappresenta
un po' il clou dei numerosi problemi presentati dalla S. Maria in Castello: la semicolonna
apposta frontalmente al pilastro intermedio o debole. Il Krautheimer esclude che essa
servisse a concorrere alla portanza di una volta a sei costoloni, mentre non sembra
convincere l’ipotesi del Porter che essa svolgesse funzioni di controspinta nei confronti
delle volte insistenti sulle navate laterali (22) .
surmonted by a wall following the inclination of the roofs, as may still be seen in the north wall of the church”.
(20)
PERONI ADRIANO: S. Michele di Pavia; Milano 1967, pg. 66.
(21)
PORTER A.K. op.cit. pg. 360: soprattutto i capitelli della zona absidale in corrispondenza delle ultime due campate.
(22)
Per quel che concerne l’argomento delle volte a sei costoloni vedasi: A.M. ROMANINI: Les Premières voutes
sexparties en Italie; si rinvia, in particolare alla pg. 174, nota 2 richiamante il KRAUTHEIMER, op. cit. pg. 186,
supponendo che la volta a sei costoloni di S. Pancrazio in Tarquinia sia comprensibile solo con un’influenza dalla Ile de
France, collocabile verso la 2ª metà del XII secolo. Circa il paragone fatto dal PORTER, op.cit. pg. 358 tra le
12
D’altro canto, chiamando in causa, per eventuali raffronti, monumenti coevi a quello
tarquiniense si può stabilire quanto segue.
Il tempio di S. Michele in Pavia presenta, in corrispondenza dei pilastri intermedi,
semicolonne le quali - seppure più ridotte, nel quadro generale della struttura, rispetto a
quelle di Tarquinia - sono state proseguite verso l’alto da lesene a sezione quadrata
quando, verso la fine del 1400, si dovettero rimuovere le volte pericolanti della navata
centrale. Ma poiché dette volte erano soltanto due, le lesene dei pilastri intermedi non
potevano espletare altra funzione che quella decorativa di sostenere archi incornicianti le
aperture di affaccio del matroneo verso la navata maggiore. Anzi, il De Dartein nei suoi
finissimi disegni arresta addirittura la semicolonna al livello della cornice a mensole
marcante il piano del matroneo e, in tal modo, la semicolonna stessa è ridotta a pura
decorazione parietale (23) . Nella chiesa di S. Celso in Milano e nella Parrocchiale di Rivolta
d’Adda essa, invece è sfruttata quale sostegno di un sottarco irrobustente una volta a botte
contraddistinguente lo spazio presbiteriale: ma, nel primo dei due casi, la suddetta volta è
posteriore al 1818 e non sembra da escludere che, antecedentemente il presbiterio fosse
coperto da un tetto in vista poggiante su un arcone trasversale.
Nel tempio di S. Ambrogio di Milano il pilastro intermedio è arricchito da una
timida lesena che va ad interrompersi contro una cornice ad arcatelle individuante, come
nel S. Michele di Pavia, il piano del matroneo.
Non mi sembra il caso di tirare in ballo l’abbazia di Nonantola il cui corpo di navata
è diviso da pilastri offrenti semicolonne tonde non proseguite verso l’alto, dal momento
che dall’organismo è assente l’alternanza tra pilastri forti e deboli, che deve invero
costituire la base per eventuali raffronti. Il Porter, anzi, fa notare che nel coro - dove i
sostegni sono del secolo XIV - la semicolonna del pilastro, in corrispondenza del lato
guardante verso la navata, è stata omessa perché il coro stesso doveva essere coperto con
volta a botte: si arriverebbe pertanto alla conclusione che, in alcuni monumenti
medioevali, in corrispondenza degli spazi dove era prevista l’installazione di una volta a
botte, le semicolonne dei pilastri, lungi dall’essere installate, venivano addirittura
soppresse.
Neanche credo di richiamare il S. Savino di Piacenza ove il pilastro debole, recante
la solita semicolonna, sopporta gli archi di valico fra le navate: la semicolonna in
semicolonne della S. Maria in Castello e quelle della distrutta chiesa di Laffaux (Aisne) occorre far presente che tale
comparazione è respinta dalla FRACCARO: L’architettura delle chiese cistercensi ecc. ppgg. 169-170, la quale osserva
che negli esempi addotti dal PORTER le semicolonne erano messe per controspinta all’esterno delle costruzioni, e non
all’interno.
(23)
DE DARTEIN F.: Etude sur l’architecture lombarde; Paris 1865, 1882, (Atlante).
13
questione, nel caso piacentino, non è chiamata a svolgere ruoli portanti con riferimento a
possibili strutture inseribili nelle pareti superiori e presso le volte del monumento.
Si possono invece proporre gli esempi del duomo di Spira, dove le semicolonne dei
pilastri deboli sono svolte in alto secondo due arcate parietali inquadranti aperture di
finestre; della chiesa di Notre Dame in St. Dié, dove la robustissima lesena semitonda si
arresta contro una cornice con mensole, secondo una soluzione molto prossima a quella
ipotizzabile per la prima edizione del S. Michele di Pavia; della chiesa di St. Pierre ad
Issoire nella quale, in corrispondenza della navata centrale, una semicolonna si arresta a
livello delle altre lesene di egual sezione introducenti alla crociera sulla quale svetta la
torre: tale semicolonna non può essere stata inserita per raccogliere un sottarco di
sostegno alla volta a botte insistente sulla navata centrale poichè essa - con il proprio
capitello - resta troppo bassa rispetto tanto allo spiccato della volta stessa, quanto alle altre
lesene situate più verso la facciata alle quali - invero - è stato affidato il ruolo di raccogliere
la ricaduta dei sottarchi della volta in questione. Quindi, proprio in un edificio presentante
la volta a botte munita di sottarchi - come il St. Pierre di Issoire - abbiamo la prova che
l’inserimento
di
semicolonne
non
doveva
necessariamente
essere
subordinato
all’attribuzione di una funzione portante alle semicolonne stesse: come a St. Dié, come a
Spira, come ad Issoire, esse possono svolgere anche una semplice funzione decorativa, di
arricchimento stilistico della espressione architettonica degli interni.
Tutto ciò premesso, mi sembrerebbe di dover intanto osservare che, se nella prima
fase di costruzione della S. Maria in Castello si previde di realizzare un matroneo in
corrispondenza delle navate laterali - come sopra ho reputato di assumere - sarebbe stato
di conseguenza impossibile installare una volta a botte, munita di sottarchi, al di sopra
della navata centrale, dal momento che siffatta copertura avrebbe completamente otturato
le aperture, verso la navata, del matroneo stesso.
Si potrebbe tuttavia ipotizzare che la supposta volta a botte fosse disposta al di sopra
del matroneo: ma, in tal caso, occorrerebbe automaticamente prolungare verso l’alto le
semicolonne sorreggente i sottarchi della volta suddetta, onde raggiungere la più elevata
quota d’imposta dei sottarchi in questione; in Tarquinia manca la minima prova per
soltanto immaginare consimile soluzione.
Il matroneo, pertanto e nel caso del tempio tarquiniense, è incompatibile con la
volta a botte non che con i sottarchi sostenenti la volta stessa: si conclude
conseguentemente che, in presenza di due gallerie sulle navate laterali, le semicolonne dei
pilastri intermedi o deboli non potevano assolvere che funzioni decorative.
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Esse, ad esempio, avrebbero potuto accogliere la ricaduta di arcate parietali
inquadranti le aperture dei matronei, secondo una soluzione compatibile tanto in un
organismo architettonico sprovvisto di volte a crociera - come la S. Maria in Castello fra il
1121 ed il 1143 - quanto in una ossatura come quella attuale offrente volte a crociera
costolonata.
Aggiungo, poi, di ritenere che le semicolonne di cui si discute siano frutto di
un’addizione effettuata dopo il 1143, non solo perchè esse recano uno sviluppato capitello
di stile romanico-lombardo - ed abbiamo visto innanzi che sussiste tutta una serie di
elementi per reputare che gli inserimenti di scuola lombarda, capitelli compresi, debbano
essere posteriori all’anzidetta data - ma anche perchè le soluzioni architettoniche proposte
dalla loro presenza sono troppo legate all’espressione offerta dai più insigni monumenti
milanesi e pavesi.
***
Sulla base degli elementi esaminati e degli argomenti svolti mi sembra di poter
finalmente rispondere alla domanda dianzi formulata: quale era la forma del tempio
progettato fra il 1121 ed il 1143?
Occorre, anzitutto, espungere dalla fabbrica tutti gli elementi stilisticamente
romanico-lombardi e, invece, aggiungere sulle navate laterali i due matronei: si ottiene una
chiesa divisa alternatamente da pilastri forti e deboli, i primi a sezione cruciforme e
sviluppati superiormente in archi attraversanti la navata maggiore e sostenenti il tetto, i
secondi invece con sezione a T. in corrispondenza delle navate laterali figurerebbe un
matroneo a solaio ligneo, sostenuto dalla fitta rete di archi trasversali insistenti sulle navati
laterali medesime.
Tra il 1143 ed il 1174 vennero aggiunte colonnine diagonali per ricevere la ricaduta
dei costoloni delle volte a crociera non che le volte a crociera stesse; ai pilastri deboli
furono applicate le semicolonne, da sviluppare superiormente in arcate di inquadratura
delle aperture del matroneo verso la navata centrale (24) .
(24)
L’APOLLONJ (-GHETTI BRUNO M.) nel suo volume: Architettura della Tuscia, Roma 1960, ppgg. 170-171,
adombra l’ipotesi di due possibili matronei sulle navate laterali della S. Maria in Castello e ne dà, anzi, una restituzione
grafica che può essere molto vicina alla soluzione qui indicata per la nostra chiesa fra gli anni 1143-1174. Poichè il
volume citato - peraltro utilissimo - presenta esercitazioni scolastiche eseguite presso la Facoltà d’Architettura di Roma,
l’APOLLONJ accompagna i disegni con un breve, semplice commento, senza (o con ridottissima) discussione dei
monumenti trattati.
15
Verso il 1190 si ricostruirono due volte crollate e si abolì, contemporaneamente il
matroneo sulle navate laterali, probabilmente perchè si reputò di irrobustire le pareti di
perimetro attraverso il tamponamento con pietra da taglio delle aperture, verso la navata
centrale, del citato matroneo.
Inoltre si provvide a costruire una serie di forti speroni esterni, riconosciuti dal
Porter come di aggiunta seriore, speroni che in parte restano ed in parte hanno lasciato
visibilissime tracce della loro avvenuta installazione, in corrispondenza della pareti della
navata centrale.
Infine, tra il 1190 ed il 1207, fu innalzata la cupola, poggiante coi pennacchi su
quattro snelle colonnine, apposte presso gli angoli interni dei pilastri nel momento in cui ci
si orientò verso la costruzione della cupola suddetta.
***
Non resta, ora, che esaminare gli organismi sopra raffigurati, rapportandoli alla
contemporanea architettura, fase per fase: incominciamo dalla prima, caratterizzata dalle
gallerie sulle navate laterali.
Chiese altomedioevali italiane provviste di matronei sono quelle romane di S.
Lorenzo al Verano (sotto Papa Pelagio II, 579-590) e di S. Agnese (sotto Papa Onorio I,
625-638) (25) . Vanno citati inoltre in Amalfi la chiesa del Crocefisso (VIII-IX secolo) ed il
duomo (iniziato nel 987 e proseguito fino alla fine del secolo) presentanti entrambi gallerie
con pavimento ad impalcato ligneo (26) .
La chiesa di S. Donato in Genova, circa dell’anno 1060, possedeva falsi matronei (27) ;
nel duomo di Pisa, invece, sembra che fin dall’origine (fondazione nel 1063) venissero
installati matronei sopra le navate collaterali (28) .
Si può infine chiamare in causa il tempio di S. Nicola di Bari, iniziato prima del 1089
ed influenzato da correnti stilistiche normanne a partire dal principio del XII secolo: gli
stimoli nordfrancesi si configurano nella presenza delle due torri in facciata e nella
successione colonna-colonna-pilastro, successione derivante da quella dell’abbazia di
(25)
MATTHIAE GUGLIELMO: Le chiese di Roma dal IV al X secolo; Rocca S. Casciano 1962, ppgg. 159-164.
VENDITTI ARNALDO: Architettura bizantina nell’Italia meridionale; Napoli 1967, Vol. II, ppgg. 630-644.
(27)
CESCHI CARLO: Architettura romanica genovese, Milano 1954, ppgg. 126-134.
(28)
THUMMLER HANS: Die Baukunst des 11 Jahrhunderts in Italien; è in: Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte,
III, 1939 ppgg. 183-190.
(26)
16
Jumièges; le navate laterali del S. Nicola hanno matronei; il complesso dell’organismo può
esser raffrontabile alle due chiese di S. Stefano e di S. Nicola di Caen (29)
Verso la fine dell’XI secolo le gallerie vengono recepite anche nell’architettura
religiosa dell’entroterra: possono citarsi le chiese di S. Ambrogio a Milano, di S. Michele e
di S. Giovanni in Borgo a Pavia, di S. Maria Maggiore a Bergamo, del duomo di Cremona,
del duomo di Modena, del duomo di Parma, di S. Giulio ad Isola S. Giulio, chiesa
quest’ultima esemplata sulla seconda edizione dell’abbaziale di Cluny.
L’abbondanza degli esempi elencati evidenzia che l’installazione di due gallerie al di
sopra delle navate laterali della chiesa di S. Maria in Castello non avrebbe costituito un
fatto eccezionale, dal momento che siffatto partito architettonico poteva essere facilmente
mutuato tanto da Roma quanto da Pisa.
Ma l’organismo originario dell’edificio tarquiniense era caratterizzato anche dalla
presenza dell’arco trasversale sostenente il tetto, ricoprente tanto la navata centrale quanto
le laterali.
Siffatta struttura è presente alla S. Maria di Lomello, assegnata dal Thümmler alla
prima metà dell’XI secolo (30) , ed al S. Miniato di Firenze (sempre dell’XI); tuttavia l’arco
trasversale portante il tetto è presente in Toscana, già nell’XI secolo, al S. Michele di
Pescia (31) . Archi trasversali ebbe in tal secolo anche la S. Prassede in Roma: anzi, ottenne
anche pilastri e gallerie.
Importantissimo, per eventuali riferimenti con la S. Maria in Castello, è il duomo di
Sovana ove dovevano essere installati archi a tutto sesto insistenti sulla navata centrale,
con tetto in vista (32) ; esso, poi, fu coperto con volte (33) , ma è evidente - data la vicinanza
geografica tra Sovana e Tarquinia - che i due monumenti in questione dovettero esser
soggetti a fasi costruttive strettamente affini, risultato questo che sanziona in misura
piuttosto sensibile tutto il complesso di argomenti innanzi svolti a favore delle soluzioni
proposte (34) .
(29)
THUMMLER H.: op.cit.. ppgg. 219-221.
THUMMERL H: op.cit. ppgg. 157 e 161.
(31)
SALMI M: o. cit. pg. 37, nota 21; egli anzitutto specifica che altri edifici “.... ripetono lo stesso ordinamento specie
nel senese...” e secondariamente rinvia alla pg. 53, nota 52, concernente il duomo di Sovana; onde, dalla correlazione
fra le due note, si deve concludere che il citato duomo aveva originariamente la navata coperta con archi trasversali a
tutto sesto, sostenenti l’oditura lignea del tetto.
(32)
vedi precedente nota 31.
(33)
L’ARSLAN, op.cit., pg. 449, nota 2, precisa che le volte oblunghe furono previste ai primi decenni del XII secolo.
(34)
Nel breve commento illustrante il mio rilievo sostenni la tripartizione della S. Maria in Castello in successive fasi
costruttive, per spiegare le differenze stilistiche e fabbricative individuabili nell’insigne monumento. Tali differenze,
però, non possono invariabilmente essere ascritte a crolli seguiti da ricostruzioni, bensì - più convincentemente - al
cambiamento di maestranze susseguitosi nello spazio di 86 anni, fra il 1121 ed il 1207. Questi motivi mi inducono, oggi
a cambiare radicalmente parere, secondo le tesi esposte nell’attuale pubblicazione: debbo però osservare, a mia
(30)
17
***
Vediamo ora - se possibile - di inquadrare le varie edizioni della S. Maria in Castello
nel contesto dell’architettura romanica dell’Alto Lazio (35) . Premesso che tale regione è
singolarmente povera di monumenti prima dell’XI secolo, i primi edifici significativi del
secolo stesso sono le chiese di S. Salvatore e di S. Maria in Vasanello; il primo edificio è
datato da una lapide al 1038 e pertanto deve essere stato costruito nei primi decenni del
secolo, mentre il secondo ripete lo schema basilicale e si accosta per le caratteristiche ad
alcune chiese umbre dell’XI secolo situate nella vicina zona di Narni (36) .
Entro il 1050 ed il 1093, anno della consacrazione, è collocata dal Thümmler (37) la
parte più arcaica del celeberrimo tempio di S. Pietro in Tuscania, costituito da un corpo
longitudinale desinente in un transetto non sporgente che l’illustre studioso tedesco
riallaccia - proprio per tale motivo - alla tradizione proveniente da Montecassino: siamo
quindi in presenza di un organismo ripetente la consueta basilica paleocristiana; è incerto
se detto transetto appartenga all’XI secolo, o piuttosto al XII, e se sia stato costruito
insieme con la cripta che viene, invece, posta in stretta relazione con quella del tempio di S.
Miniato in Firenze.
Più vicine alla fine dell’XI secolo sono le chiese viterbesi di S. Maria nova, offrente il
consueto organismo di basilica latina ed il duomo di Viterbo che però deve appartenere al
primo quarto del XII secolo, attesa la parentela fra l’impianto a tre navate desinenti in un
transetto e la tradizione costruttiva cassinate che in esso è presente in maniera molto più
decisa e sicura che nel S. Pietro di Tuscania (38) ; il monumento viterbese è pertanto
largamente posteriore a quello tuscanese e deve aver espletato una funzione di mediazione
fra Montecassino e la zona dell’Alto Viterbese non che dell’Umbria meridionale: ivi, infatti,
esistono molte cattedrali ripetenti l’icnografia del duomo di Viterbo (39) .
consolazione, che quel rilievo - fatto da studente - non fu inutile perchè, anzi, mi stimolò a prender nota di tutte le
numerose anomalie del monumento.
(35)
Per l’acquisizione di più ampi elementi sulle espressioni artistiche di tal regione si rinvia al volume di JOSELITA
RASPI SERRA: Tuscia Romana; la stessa ha svolto nel 1973 una conferenza sui diversi aspetti dell’architettura
tarquiniense presso la locale Società di Arte e Storia. Ma vedasi anche APOLLONI-GHETTI B. M. op.cit.
(36)
APOLLONI-GHETTI B. M. op.cit. ppgg 194-195. Ulteriori notizie sono nel volumetto MARIANI SALVATORE:
Il Cavaliere di Cristo S. Lando M. protettore di Bassanello; Civita Castellana 1957.
(37)
THUMMLER H.: Die Kirche S. Pietro in Tuscania; è in Kunstgeschichtliche Jahrbuch der Bibliotheka Hertziana,
II, 1938.
(38)
WAGNER-RIEGER R. op. cit. vol. II da pg. 213 a pg. 216 ove viene trattata l’architettura del Lazio del Nord nello
scorcio del XII secolo.
(39)
BATTISTI EUGENIO: Monumenti romanici del Viterbese: le cripte a sud dei Cimini, ppgg. 67-80; Palladio 1953,
n. 1.
18
Al termine dell’XI secolo viene ascritto dal Thümmler il S. Anastasio di Castel S. Elia
presso Nepi offrente anch’esso lo schema cassinate (40) ; ad esso si rifanno nell’impianto le
chiese di S. Francesco di Sutri (41) e di S. Francesco in Vetralla assegnate dall’Apollonj all’XI
secolo. Allo scorcio di tal secolo dovrebbero esser collocate il S. Silvestro di Orte, ad unuca
navata absidata e la S. Cristina di Bolsena, a tre navate con impianto basilicale e partizione
interna a rozze colonne.
Un caso a sè stante è rappresentato dal S. Flaviano in Montefiascone, la cui
pianta (43) riproduce quella che avrebbe dovuto possedere il duomo di Arezzo (44) il quale, a
sua volta, non avrebbe rappresentato che una libera ripetizione del tempio a pianta
centrale di S. Vitale a Ravenna: infatti l’aretino Maginardo si recò in Romagna apposta per
copiare lo splendido edificio bizantino. La data del 1032 leggibile sulla famosa lapide di
facciata va conseguentemente riferita all’impianto del S. Flaviano, mentre le volte a
crociera con costoloni a sezione quadrata, per le stesse ragioni addotte a proposito di
quelle di Tarquinia (45) , andrebbero collocate verso il 1140.
A verso la metà del XII secolo viene fatto risalire il S. Giacomo di Tarquinia: la
chiesa, infatti, presenta le solite volte con costoloni quadrati e l’Apollonj (46) ha dimostrato
con argomenti molto circostanziati, che tali particolari strutture sono senz’altro posteriori
a quelle analoghe installate nella vicina S. Maria in Castello. Inoltre, per il tracciato a croce
“patibulata” con tre absidi, l’organismo deve essere posteriore a quello della chiesa di S.
Giovanni degli Eremiti in Palermo, datata circa al 1132.
Ma la Wagner-Rieger ha dimostrato che tutta una folla di edifici - soprattutto
toscani - esemplati sullo schema di pianta suaccennato, con cupoletta sul transetto,
vengono realizzati verso lo scorcio del XII secolo (47) : onde io credo che si debba prestar
fede alla citata studiosa e spostare conseguentemente il S. Giacomo a dopo il 1150.
Forse al 1140 appartiene la chiesa del Carmine in Civitacastellana ripetente il
consueto impianto benedettino - cassinate; il S. Biagio di Nepi è ad unica navata e deve
appartenere alla seconda metà del XII secolo. A dopo il 1150 sono assegnate le chiese
(40)
THUMMLER H., Die Kirche S. Pietro ecc.pg. 280 e 285.
APOLLONI-GHETTI B.M. op.cit. ppgg. 192 e 193.
(43)
SALMI M.: Atti del I Congresso internazionale di studi longobardi, Spoleto 1951, ppgg. 54-55.
(44)
SALMI M.: L’architettura romanica in Toscana, fig. 42 a pg. 23.
(45)
v. a precedente nota 6. Anche il THUMMLER (Die Baukunst ecc. pg. 168) propende per una collocazione di tale
tipo di volte entro il XII secolo: “Nach den ersten Versuchen an Kleineren Bauten, von denen Keiner mehr mit
Sicherheit ins 11 lahrhundert zu datieren ist, stellt S. Ambrogio auch den ersten grossen Gewölbebau dar”. Il
KRAUTHEIMER, per il S. Ambrogio, pensa che le volte costolonate della navata possano essere state progettate verso
il 1128, mentre quelle del nartece sarebbero anteriori di alcuni anni. In definitiva, solo l’ARSLAN colloca le volte del
S. Ambrogio verso il 1080.
(46)
APOLLONI-GHETTI B.M.: La chiesa di S. Giacomo in Tarquinia; Palladio 1988, pg. 171 e ssgg.
(47)
WAGNER RIEGER R. op. cit. vol. I pg. 104 e ssgg.;
(41)
19
tarquiniensi dell’Annunziata, di S. Francesco e di S. Pancrazio (48) ; aggiungo che, a mio
avviso, anche la chiesa di S. Martino va ascritta a tale epoca, per la presenza dei semicatini
absidali estradossati, uguali a quelli dell’Annunziata. Al XIII secolo inoltrato dovrebbero,
infine, esser attribuite le due chiese tarquiniensi di S. Giovanni e di S. Antonio.
Credo di dover arrestare a tal punto la rassegna di chiese medioevali dell’Alto Lazio,
dal momento che qui interessa soprattutto tentare eventuali paralleli tra la S. Maria in
Castello e la contemporanea architettura della Tuscia.
Ma dalla descrizione pur sommaria degli organismi sopra elencati emerge che la
prima veste architettonica del tempio tarquiniense non trova alcun riscontro in edifici
appartenenti alla suddetta area geografica (49) e che la possibilità di utili raffronti è data
soprattutto dai monumenti della vicina Toscana non che, più debolmente, della lontana
Lombardia: si possono produrre, come sopra abbiamo visto, il duomo di Sovana, il S.
Miniato in Firenze, la S. Maria di Lomello, ed infine, il duomo di Pisa, per i matronei e per
la cupola. Gli elementi architettonici di aggiunta posteriore al 1143, provenienti dall’area
milanese e pavese, costituiranno nelle epoche successive riferimento pressochè costante
per l’ulteriore sviluppo della più qualificata e rappresentativa edilizia medioevale di
Tarquinia.
arch. dott. RENZO PARDI
Soprintendente ai Monumenti
della Lombardia
(48)
PORTER K.A. op. cit. Vol. II da pg. 338 a pg. 365. Ma penso che debbano essere spostate verso la fine del XII
secolo per la presenza in esse di molti elementi ormai marcatamente gotici. Al riguardo si tenga conto del fatto che la
prima chiesa italiana, in stile gotico, è la S. Maria di Fossanova, nel Lazio meridionale, fondata da Federico I nel 1187 e
consacrata nel 1208.
(49)
La chiesa di Maria in Castello ha riferimenti con la chiesa di S. Maria di Falleri (Civita Castellana), ma per ragioni
diverse da quelle qui indagate, da relazionare piuttosto all’architettura cistercense ed ai motivi stilistico-costruttivi delle
fabbriche appartenenti al XIII secolo.
20
I RAPPORTI FRA TARQUINIA E ROMA NELL’ANTICHITA’
Una serie di testimonianze storico-letterarie, benchè in parte soffuse di leggenda o,
quanto meno, non sempre del tutto attendibili e talvolta confuse, e un certo numero di
testimonianze archeologiche, soprattutto di carattere epigrafico, anche se frammentarie e
incomplete, ci consentono di mettere insieme un discorso che, nell’ambito dei più generali,
profondi, lunghi “incontri” tra il mondo etrusco e quello romano, tocca da vicino i rapporti
diretti fra Tarquinia e Roma. O, meglio, ci consentono di individuare e circoscrivere alcuni
“momenti” durante i quali la storia delle due città, nate più o meno contemporaneamente e
pressochè nel medesimo modo, a non molta distanza tra loro, venne momentaneamente a
coincidere. A partire dal VII-VI secolo a.C. quando, forse proprio grazie a un rapporto sia
pure indiretto con Tarquinia, Roma assurse per la prima volta a un ruolo di protagonista
della più antica storia d’Italia. E ciò, lasciando da parte la “preistoria” leggendaria e il
racconto del poeta greco Lykoprhon, seguito poi in parte da Virgilio, secondo il quale Enea,
mitico progenitore di Roma, avrebbe stretto alleanza con Tarconte (e con il fratello di
questi Tirreno), mitico fondatore ed eponimo di Tarquinia.
E’ infatti da Tarquinia, secondo le fonti greche e latine, che, sul finire del secolo VII,
nell’anno 616 a.C., giunge a Roma quel Lucio (o Luchie, o Lucumo), figlio del greco
Demarato e di una tarquiniese e sposo della tarquiniese Tanaquilla, il quale, impadronitosi
del potere vi diverrà il quinto re della serie tradizionale con il nome di Lucio Tarquinio
Prisco. Il suo regno e quello dei suoi successori della “dinastia etrusca” di Roma, Servio
Tullio e Tarquinio il superbo, corrisponde a un periodo di vera e propria supremazia di
Tarquinia sulle altre città dell’Etruria, in specie meridionale e costiera, e di sicura presenza
etrusca, e quindi tarquiniese, nel Lazio che proprio nel controllo di Roma e del suo guado
del Tevere doveva avere uno dei suoi più importanti punti di forza.
Sulla storicità della monarchia etrusca a Roma, nel corso del secolo VI a.C. dopo le
incontrovertibili conferme venute dall’archeologia, oggi non ci sono più dubbi e, visto che
la tradizione riferisce a questo “momento” un periodo di splendore per Roma, che
l’archeologia ancora una volta conferma, non è difficile far risalire a Tarquinia, o quanto
21
meno al suo tramite più o meno diretto, quegli apporti determinanti che fecero di Roma,
per la prima volta, una città vera e propria, a tal punto imbevuta della cultura e improntata
nel suo aspetto esteriore alla tradizioni, anche “monumentali”, provenienti dall’Etruria da
farla apparire agli occhi dei Greci come una “città etrusca”.
Alla fine del secolo VI, con la cacciata da Roma di Tarquinio il Superbo (che, almeno
secondo una versione, cercherà aiuto per recuperare il trono proprio a Tarquinia donde,
come dice lo storico greco Dionigi d’Alicarnasso, era originaria la sua stirpe) i rapporti
fecondi tra la grande città etrusca e Roma si interrompono. Per un lungo periodo, durante
il quale entrambe le città furono variamente e, Roma soprattutto, pericolosamente in crisi.
Il contatto riprende all’inizio del secolo IV ma si tratta di un contatto violento, di un
vero e proprio scontro.
Caduta Veio in mano dei Romani, l’anno 394, ed entrata Cerveteri nell’orbita di
Roma,
Tarquinia
viene
a
trovarsi
improvvisamente sotto la diretta minaccia
dell’espansionismo romano e il possesso della piazzaforte di Sutri da parte di Roma
costituisce una vera spina al fianco del territorio tarquiniese. La situazione, gravida di
pericoli soprattutto per Tarquinia, non poteva che dar luogo a una guerra.
Le fonti storiche - tutte di parte romana - riferiscono di una prima guerra scoppiata
subito dopo il “sacco” di Roma ad opera dei Galli, intorno al 390, con un assedio posto dai
Tarquiniesi a Sutri, combattimenti nel territorio di Tarquinia che portarono i Romani a
conquistare le due città, ancora non identificate, di Cortuosa e Contenebra, di una
conclusione delle operazioni belliche senza vinti nè vincitori (anche se fu Tarquinia a fallire
il suo scopo, costretta a riconoscere la nuova realtà dello stato romano che aveva esteso i
suoi confini ben oltre la linea del Tevere e a prendere atto di una situazione di equilibrio
che, a lungo andare, non poteva che risolversi a favore di Roma). Ma gli storici moderni
hanno posto in dubbio la storicità di questa prima guerra o, almeno, considerato molti dei
suoi episodi come duplicazione, retrodatata, di quanto in realtà successe in seguito. La vera
guerra fra Tarquinia e Roma dovette essere così quella che gli antichi ci hanno tramandato
come seconda: quella scoppiata nel 358 e durata fino al 351.
L’occasione ne fu, secondo Livio, una scorreria dei Tarquiniesi sul confine romano
(quasi certamente dalle parti di Sutri) conclusosi con una sconfitta dei Romani atterriti,
sempre secondo Livio, da una turba di sacerdoti urlanti che precedevano i soldati
tarquiniesi agitando nelle mani serpenti e fiaccole accese. A questo episodio seguì il
massacro di 307 prigionieri romani nel “Foro” di Tarquinia dopo di che, l’anno 356 si ebbe
la prima vera operazione militare, condotta da Tarquinia che, con una ardita mossa
strategica, spinse il suo esercito, attraverso il territorio costiero di Cerveteri, fino alla foce
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del Tevere. L’incursione dovette avere un iniziale successo, non foss’altro per la sorpresa e
l’audacia se sono vere le notizie che riferiscono della conquista tarquiniese di numerosi
centri del territorio romano, ma fu alla fine bloccata e stroncata dai Romani nella regione
delle Saline tiberine. E a sottolineare l’insuccesso di Tarquinia c’è la notizia della vendetta
dei Roma che nel loro Foro uccisero, a loro volta, l’anno 354, trecento cinquantotto
prigionieri tarquiniesi.
Dopo lo scontro frontale alle Saline, la guerra si trascinò avanti piuttosto
stancamente con piccoli scontri e alterne vicende e fu conclusa nel 351 con una tregua di
quarant’anni che, di fatto, sanciva tra le due città rivali il reciproco riconoscimento dello
“status quo” ma, al tempo stesso, consolidava sul piano “internazionale” la presenza
“nuova” della realtà romana.
Probabilmente non ci furono ulteriori guerra fra Roma e Tarquinia, anche perchè
altre città etrusche, come Vulci, Volsini, Chiusi, approfittando dell’indebolimento della loro
consorella, ne presero il posto nella lotta antiromana. Tanto è vero che nella guerra
combattuta fra quelle città e Roma, dal 311 al 308, Tarquinia non è menzionata nelle fonti
storiche, anche se in qualche modo dovette anch’essa restarne coinvolta (interessante è,
tuttavia, una notizia di Livio secondo la quale nel 308 Tarquinia rifornì Roma di grano e in
grazia di questo aiuto ottenne il rinnovo della tregua quarantennale che era appena
scaduta). E la rivalità comunque perdurante dovette venir meno all’inizio del secolo III a C.
quando, definitivamente vittoriosa Roma su Vulci e Volsini, Tarquinia fu costretta a
instaurare con la città del Tevere un nuovo tipo di rapporto sancito da un trattato di
alleanza che, date le condizioni (tra le quali, forse, la confisca da parte di Roma della fascia
costiera del territorio tarquiniese dove poi venne fondata la colonia romana di Graviscae)
equivaleva per Tarquinia a un vero e proprio atto di sottomissione.
Il nuovo rapporto - divenuto sempre più, col passare del tempo, una sorta di pura
“finzione giuridica” chè, di fatto, Tarquinia pur mantenendo una larvata sua sovranità
“interna”, venne a far parte integrante dello stato romano con precisi obblighi di aiuto a
Roma (come quando, nel 205, fornì alla spedizione di Scipione contro Cartagine le tele di
lino per le vele delle navi in allestimento a Lilibeo, in Sicilia) - durò fino all’inizio del I
secolo a.C. E il cambiamento fu in conseguenza della concessione della cittadinanza
romana a tutte le città italiche “alleate” di Roma in virtù della quale anche Tarquinia
divenne un “municipio” della nuova Italia romana.
A questo punto non sarebbe più possibile enucleare particolari rapporti fra Roma e
Tarquinia, diversi da quelli che intercorsero tra la capitale e ogni altra città della penisola,
se non ci venissero in soccorso alcune singolari e importanti testimonianze epigrafiche e i
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risultati dell’acuta analisi e interpretazione che di esse ha dato recentissimamente Mario
Torelli (e per le quali v. in questo Bollettino, anno 1974, pagg. 7-15). Si tratta dei noti
frammenti di iscrizioni, in latino, rinvenuti a più riprese nell’area del tempio detto Ara
della Regina sulla Civita di Tarquinia, dai quali, oltre a preziose notizie di storia
tarquiniese, si possono trarre importanti deduzioni relative proprio a quelli che possiamo
definire, ancora, rapporti diretti fra Roma e Tarquinia.
Un gruppo di frammenti ci ha restituito il profilo, sia pure molto lacunoso, di
quattro aruspici tarquiniesi (di uno solo dei quali è conservato per intero il nome: Publius
Celius Etruscus) membri di quel Collegio “sexaginta haruspicum” cui fu affidato dallo stato
romano il compito di conservare integra la tradizione dell’aruspicina tedesca e che, alla
fine del I secolo a.C. e all’inizio dell’età imperiale, oltre che a Roma ebbe una sua sede
ufficiale a Tarquinia.
La testimonianza epigrafica è importante perchè ci consente di sottolineare il ruolo
che nella trasmissione a Roma dell’aruspicina etrusca dovette svolgere Tarquinia
concordemente ritenuta culla dell’aruspicina stessa essendone considerato il primo
depositario quel Tarconte, fondatore della città, che era stato istruito dalle rivelazioni del
divino fanciullo Tagete.
Un nuovo tipo di rapporto è quindi possibile definire tra le due città che si traduce quasi come ai tempi dei re Tarquinia - in una nuova “ondata di etruschizzazione” che
muove da Tarquinia verso Roma, che caratterizza il I secolo a.C. e che con l’aruspicina, e
più in generale con le varie norme della religione etrusca, riversa su Roma un consistente
filone di cultura etrusca dal quale prende l’impronta gran parte della cosiddetta
“antiquaria” romana del tempo.
Purtroppo non c’è, almeno per il momento, alcuna possibilità di confermare l’ipotesi
dell’origine tarquiniese (anche se questa resta estremamente verosimile) del più grande
aruspice di questo periodo, Tarquinio Prisco, che per trent’anni insegnò a Roma la sua arte
(seguito poi dal figlio) e tradusse in latino tutti i testi della religione etrusca; ma ha un
nome tipicamente e nobilmente tarquiniese lo Spurinna che fu l’Augure di Cesare e che al
dittatore predisse le “idi di marzo” e Tarquinia rimane comunque la “matrice” riconosciuta
dell’aruspicina romana come dimostra la sede in essa del massimo Collegio degli Aruspici.
Anche l’altra serie di frammenti epigrafici provenienti dall’Ara della Regina, quelli
contenenti gli “elogia” dei personaggi della famiglia Spurinna, una delle più celebri e
antiche di Tarquinia, è suscettibile di fornirci alcuni aspetti particolari di rapporti - che
sono ormai di intima fusione - fra Roma e Tarquinia, nello spirito stesso che quelle
iscrizioni informò e nella tradizione in cui esse si inquadrano. Di questi potremo leggere
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tra poco nel volume in corso di stampa che il Torelli ha dedicato, per l’appunto, agli “Elogia
tarquiniensia”.
Possiamo intanto concludere il nostro rapido e provvisorio discorso ricordando che
un tarquiniese della nobile famiglia dei Cesenni, Lucius Caesennius Paetus, è uno dei due
consoli dell’anno 61 d.C., durante il regno di Nerone (e sarà poi lo sfortunato successore
del generale Domizio Corbulone nella condotta della guerra in Asia) e che, finalmente,
l’anno 127, sotto l’impero di Adriano, tutti e due i consoli, Publius Tullius Varro e Iunius
Paetus, sono Tarquiniesi di nascita o, quanto meno, d’origine.
Romolo A. Staccioli
TARQUINIA E IL MONASTERO DELLE PASSIONISTE
A Tarquinia tutti conoscono le Monache Passioniste; molti le ammirano; ma pochi
sono informati della loro storia; e penso che pochissimi siano in grado di giustificare il loro
singolare genere di vita.
Il Monastero fu eretto canonicamente il 3 maggio 1771, quattro anni prima che
morisse il suo Fondatore; e anche per questo ritengo che una delle forme più degne di
celebrare il II centenario della morte di Paolo della Croce sia appunto quella di parlarvi
delle sue figlie, più fedele riflesso della sua eccezionale personalità di Mistico.
Effettivamente il Monastero scaturì dalle più gelose profondità della sua anima, o per essere più esatti - dal mistero delle sue immersioni nell’amore di Dio attraverso la
Passione del Cristo: chi non si cala in quell’ “Abisso” non può neppure intravvedere la vera
origine dei Monasteri sparsi in Europa, nelle Americhe, in Asia, con circa 600 religiose,
tutte - possiamo dire - almeno indirettamente sciamate dal vostro di Tarquinia.
***
L’idea di un nuovo Istituto femminile credo dovesse balenare nel Santo fin dai primi
rapporti avuti coi monasteri del Settecento. A Castellazzo - presso Alessandria - fu colpito
dagli abusi notati nella comunità delle Agostiniane, tra cui una sua stessa zia paterna, suor
Rosa Maria. Più illuminanti furono le penose esperienze fatte presso le Clarisse di
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Piombino; e - pochi anni dopo - quelle cui diedero occasione i ripetuti incontri con le
Benedettine di S. Lucia di Tarquinia. Ma, al riguardo, non ritengo necessario moltiplicare
casi tutt’altro che edificanti, ampiamente documentati in tutte le storie della spiritualità del
secolo XVIII in Italia.
Assai più numerosi dovettero essere “i lumi” intorno al futuro Monastero derivati sia pure remotamente - dai contatti personali con donne della tempra di Giovanna Battista
Solimani di Genova, Lilia del Crocifisso di Viterbo, Geltrude Salandri di Roma: tutte
fondatrici e riformatrici... Enorme dovette essere anche l’influsso subito dalle
esemplarissime Cappucine di S. Fiora, come dalle Carmelitane di Vetralla...; e, non ultime,
dalle religiose del monastero del Divino Amore di Montefiascone, associate alla memoria
del venerando card. Barbarigo da una parte, e a quella della beata Rosa Venerini e santa
Lucia Filippini dall’altra, entrambe madri di quelle Maestre Pie che Paolo della Croce
incontrava quasi ovunque, non cessando poi di esaltarne lo zelo e additarne l’esempio.
Basti ricordare che, secondo lui, il monastero era “veramente (...) santissimo, di vita
perfetta comune...”; e che alle sue Regole egli attinse largamente per comporre quelle
delle sue figlie di Tarquinia.
***
Il primo timido accenno alla fondazione del loro istituto risale al 10 settembre 1734
in una lettera del Santo ad Agnese Grazi, allusiva a due giovani sorelle, desiderose di
“servire Dio alla grande”. Eloquenti, a proposito, altre espressioni dell’epistolario comprese
tra il 35 e il 36, che oltre tutto rivelano altre grandi figure quali suor M. Cherubina
Bresciani, clarissa di Piombino e Francesca Lucci, maestra pia di Pitigliano. In sostanza,
l’idea embrionale del Monastero delle Passioniste potrebbe già riconoscersi nella
confidenza fatta a quest’ultima: “Vorrei che si facesse un ritiro di fanciulle che si
guadagnassero il pane con le loro mani...”.
Seguirono anni altamente drammatici per il Santo, alle prese con difficoltà
umanamente insormontabili incontrate per avviare la fondazione del ramo maschile
dell’Istituto: esse, come spiega all’amico Tommaso Fossi dell’Isola d’Elba, non gli
consentono di pensare ad altro: “In quanto al fondare per donne - scrive nel ‘48 - non v’è la
minima via aperta per ora..”. Il medesimo continua confidare ad altri, convinto che per
arrivare a qualcosa di positivo occorrerebbero “miracoli”. Ecco perchè “l’opera (...) deve
essere parto di orazioni”.
Nel ‘50 comincia ad accennare ad una certa “anima, sepolta agli occhi di tutti, in un
mare di afflizioni, da tutti abbandonata, ma costante nel bene...”.
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Non è certo chi fosse, e solo in base a congettare più o meno probabili si potrebbe
pensare alla serva di Dio Luca Burlini di Piansano. Sappiamo soltanto che questa, prima
dell’estate del ‘51 aveva avuto alcune ispirazioni. Alla giovane Mistica era sembrato di
trovarsi sul Calvario e di aver visto ai piedi del Crocifisso “una moltitudine di anime”,
le quali “come vedove tortorelle piangevano il loro morto Sposo”. La visione
conteneva gli elementi più tipici della fisionomia spirituale delle future religiose della
Passione.
***
Ovviamente si era ancora molto lontani dall’approdo; e lo si era assai più quando nel
1734-5 - al tempo della guerra dei Presidi Toscani - le Benedettine di S. Lucia ospitarono le
Clarisse di Orbetello, da cui furono informate di Paolo e dell’opera che andava svolgendo
all’Argentario. Non ci volle altro perché egli fosse invitato a Tarquinia per un corso di
esercizi al monastero; e fu appunto allora che Paolo poté conoscere la famiglia dei
Costantini, poi fondatori della prima casa delle Passioniste.
Un passo indietro.
Il Santo in quella circostanza (e nelle successive in cui poté recarsi in città per corsi
di predicazione e per affari del suo Istituto) strinse particolari rapporti di amicizia col
sacerdote don Nicola Costantini e specialmente col fratello Domenico e la consorte di
questi, Lucia Casciola. Appunto i protagonisti dell’opera, della quale la benedettina donna
M. Crocifissa Costantini ne sarà l’anima.
Di tutta la complessa e interminabile vicenda di cui parlano le fonti si è detto
l’essenziale quando si è riferito che i coniugi Costantini disponevano di notevoli possibilità
finanziarie, erano profondamente pii, e - non avendo avuto prole - decisero di associare la
loro memoria ad un’iniziativa degna della tradizionale fede di famiglia.
Si comprende che i loro sforzi non avrebbero approdato a nulla, se Paolo della Croce
si fosse disinteressato dell’opera: egli ne fu il segreto ispiratore e la guida più sapiente. E,
con la sua azione, fu determinante anche quella del ven. p. Giambattista di S. Michele
Arcangelo, fratello del Santo e in ottimi rapporti con donna Lucia Casciola.
Sembrò che il progetto dovesse fallire in seguito alla fondazione di un monastero,
ideato - a Roma - da un certo don Giuseppe Nicola Carbone: M. Crocifissa ne sarebbe stata
la prima superiora; i lavori erano terminati e Benedetto XIV aveva concesso l’approvazione
di tutto, quando - imprevedibilmente - non se ne fece più nulla, appunto come Paolo aveva
predetto.
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Poco dopo, nel ‘54, all’attuazione del “nido” di Tarquinia diede il via la tragica morte
del giovane Arcangelo, penultimo dei fratelli Costantini, ormai seriamente disposti
all’impresa anche perché animati da un sogno dei genitori defunti. Ma presto
complicazioni di natura giuridica ritardano il ritmo dei preparativi, e ci volle tutto il buon
senso e la lealtà di Paolo per sostenere i coniugi Costantini, esposti ai giudizi di un
pubblico tutt’altro che favorevole all’iniziativa.
Egli, nel frattempo, si apre con gl’intimi, si rivolge all’architetto Clementi Orlandi e
al capomastro Luca Alessi, e soprattutto si preoccupa di incoraggiare i promotori
dell’opera: “Lei - scrive a Domenico Costantini - si armi sempre più di gran confidenza in
Dio; non lo spaventino le difficoltà, Iddio le farà veder prodigi...”; si accinga alla grande
impresa con cuore umiliato, con purissima intenzione per la pura gloria di Dio e per fare
un nido per le pure colombe del Crocifisso.. Oh che grand’opera!....”. Ciò nonostante,
raccomanda che in città non trapeli nulla e nessuno sappia che egli s’interessa del progetto,
temendo ingerenze e complicazioni che avrebbero bloccato irrimediabilmente ogni cosa.
** *
Il 29 gennaio del ‘59 iniziano i lavori di demolizione di alcune casupole che
occupavano l’area destinata alla nuova fabbrica; il 9 febbraio si procede alla posa della
prima pietra, e nel marzo del ‘60 l’edificio è già coperto. Ma, proseguendo i lavori,
aumentano le spese interamente a carico dei Costantini, a loro volta condizionati dal
raccolto delle campagne che in quegli anni è straordinariamente scarso. “Quel monastero
di Corneto - scrive Paolo nell’ottobre del ‘64 ad una postulante - vuole andare in lungo
assai perché non ha forze il benefattore di terminarlo presto e non si lavora più. Chi sa se io
lo vedrò finito!...”
Seguirono anni anche più tremendi, perché quei signori, sul più bello,
contro quanto avevano condiviso, respinsero l’idea di un monastero quale il Santo aveva
ideato, ossia con clausura severa, perpetua astinenza dalle carni, levata notturna... Mancò
poco che tutto naufragasse: non si finirà mai di ammirare la ferma e saggia diplomazia di
Paolo.
Le Regole, già quasi ultimate nell’estate del ‘66 con la collaborazione di alcuni tra i
più illuminati religiosi della Congregazione, in seguito all’esaltazione di Clemente XIV
presto sarebbero state approvate.
Ma il Santo trepidava ancora e volle attendere
prima di agire e sostenere apertamente la causa del Monastero presso la S. Sede. Infatti,
non prima del 19 marzo del ‘70, durante un’udienza particolarmente cordiale col Pontefice
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- già suo grande amico - osò, sfidargli il piano dell’opera ed ebbe le promesse più
incoraggianti.
Il testo delle Costituzioni fu esaminato dal p. Francesco Angelo Pastrovich e il 3
settembre dello stesso anno fu approvato con rescritto. Il Santo esultò, e i Costantini felicissimi dell’esito delle trattative - s’impegnarono a condurre a termine i lavori.
Restava da concludere quella delicata opera di selezione delle postulanti che da
molti anni aveva assorbito le migliori energie di Paolo quale impareggiabile maestro di
spirito. Con
M. Crocifissa salirono a undici le sue “colombe”, che alla vigilia della
fondazione ritroviamo raccolte nell’ospitale casa dei Costantini. Sono le coriste: Maria
Teresa Palozzi di Ronciglione, Anna Maria Casamayor di Palermo, ma giunta da Orbetello;
Clementina Pirelli, romana; le sorelle Clementina e Caterina Segneri di Arpino
(Frosinone); Tullia Rosa Carboni di Vetralla. Seguono le converse: Teresa Recchia di
Riano (Roma); Teresa Besozzi di Ronciglione; Teresa Franceschi di Pieve S. Matteo
(Pistoia), e Geltrude Calzelli di Paliano (Frosinone). Tutte finalmente in porto dopo anni di
speranze, di timori, di attesa; la quale però, contro ogni previsione, si protrasse per altre
interminabili settimane quante ne fece scorrere la duchessa romana Anna Maria ColonnaBarberini, vedova del duca Filippo Sforza-Cesarini, scelta come “fondatrice e prima
superiora” del Monastero.
A Roma la nobildonna aveva avvicinato il Santo, a cui doveva aver fatto un’ottima
impressione, anche prescindendo dal prestigio del nome e dalle cospicue possibilità
finanziarie, particolarmente provvidenziali per coronare gli sforzi dei Costantini. Paolo la
ritiene “anima di santa vita”, “gran serva di Dio”; e a sua volta Clemente XIV arriva
a indirizzarle un Breve in cui la ricolma di elogi, conferendole tutte le facoltà relative
all’ardua missione di responsabile dell’opera. La Barberini il 22 marzo del ‘71 avrebbe
dovuto raggiungere Tarquinia, ma la solenne erezione canonica del Monastero dovette
rimandarsi al 3 maggio senza la sua partecipazione. Ne fu impedita da inesatte
informazioni sul conto del Monastero, da suggerimenti non saggi né forse del tutto
disinteressati, ma soprattutto dalla volubilità del carattere già da tempo scosso da infelici
vicende familiari. Quando la sera del 18 maggio raggiunse Tarquinia, la vita della giovane
Comunità aveva preso il suo ritmo, così intenso da invogliare anche la duchessa. Ma il suo
ripensamento fu passeggero, perché poco dopo brigò tanto da ottenere dal Papa la facoltà
di tornare sui suoi passi: il 6 giugno partì, visse anni tristissimi e finalmente poté essere
accolta tra le Clarisse di Narni.
29
Al rito della vestizione delle religiose celebrato il 3 maggio del ‘71 l’anno dopo - il 20
maggio - seguì l’altro anche più solenne della professione, ultimo dei fatti più essenziali
della storia delle Passioniste di Tarquinia.
***
Agli studiosi di memorie patrie potranno interessare particolarmente alcuni dati che
inquadrano il nostro Monastero nel contesto delle burrascose vicende dei secoli XVIII e
XIX.
Nel febbraio del ‘98, la prigionia di Pio VI e la creazione della Repubblica Romana
ebbero tremende ripercussioni ovunque, specialmente nello Stato Pontificio che in
Tarquinia aveva uno dei maggiori centri più vicini alla Capitale. Le religiose, per vivere,
furono obbligate a lavorare anche più duramente del solito. E seguirono momenti anche
più tristi quando nel 1807 Bonaparte occupò Roma, due anni dopo Pio VII fu condotto in
esilio e il 3 giugno 1810 comparve l’editto di soppressione degli Ordini religiosi. Il 15 entrò
in vigore obbligando alla dispersione anche le nostre “colombe”: 12 restarono a Tarquinia,
accolte in gruppi di quattro in case private, mentre le altre tornarono alle rispettive
famiglie.
Pio VII - caduto Napoleone - il 24 Maggio 1814 torna a Roma; il 27 giugno ripristina
la Congregazione dei Passionisti e nel novembre autorizza la riapertura del Monastero, già
trasformato in orfanotrofio, scuola, ospedale. Le monache poterono rientrarvi il 3
dicembre, e il 23 ebbero la gioia di indossare nuovamente l’abito religioso.
Esse
saranno
sempre
grate
alla
memoria
dei
signori
Bruschi-Falgari,
esemplarmente liberali con la comunità; e con non minore riconoscenza ricordano i
cardinali protettori Lorenzo Litta e Giuseppe Fesch, zio materno di Napoleone: la sorella
Letizia, madre dell’imperatore, riposò nella chiesina del monastero fino al 5 luglio 1851,
quando le sue spoglie furono trasportate in Corsica.
Memoranda, il 25 maggio 1835, la visita di Gregorio XVI. Merita un cenno il fatto
che si attribuì alle preghiere delle nostre religiose se Tarquinia, nel 1837, fu risparmiata
dalla peste che menò strage in tutta Italia. A loro volta, per un vero miracolo esse non
subirono i soprusi del governo giacobino durante i torbidi che caratterizzarono
l’instaurazione della seconda Repubblica Romana, mentre Pio IX si tratteneva in esilio a
Gaeta.
Nel ‘70, con l’invasione dello Stato Pontificio e la presa di Roma la nostra cittadina
attraversò un nuovo periodo di crisi, vissuto specialmente dal Monastero: le Passionisti
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furono spogliate di tutto perché i loro beni stabili passarono al Demanio... Provvidenziale,
in quei frangenti, la mediazione del sindaco, il conte Francesco Bruschi-Falgari.
***
Molto più interessanti - fin dalle origini - le irradiazioni del Monastero nel mondo
delle anime: qua e là, in Italia, non tardò a propagarsi la fama delle umili claustrali di
Tarquinia, associate al nome prestigioso del Fondatore dei Passionisti.
Tra le prime, attratte dal fascino della loro singolare vita di nascondimento e di
preghiera, fu Rosa Calabresi, già discepola spirituale del Santo e privilegiata testimone
delle sue ultime grazie mistiche straordinarie. Chiese di essere accolta, ma forse per le sue
condizioni fisiche non le fu possibile associarsi alle nostre “colombe”.
Più tardi, la marchesa Maria Maddalena Frescobaldi, madre di Gino Capponi, il 10
novembre 1825, col permesso di Leone XII, ottenne di restare per qualche tempo nel
monastero “per osservare e apprendere le costumanze dell’Istituto”. A Firenze la
nobildonna aveva già fondato nel 1815 il “Ritiro delle Ancille della Passione” “sotto il
titolo di S. Maria Maddalena Penitente”; e nelle sue Regole, pubblicate nel 1830, ho avuto
la soddisfazione di leggere il più geniale sviluppo dell’idea ispiratrice di Paolo della Croce.
Il “Ritiro” fiorentino, pertanto, risultò quasi come la prima “succursale femminile” del
nostro Monastero, il suo più tangibile atto di presenza nel mondo, inteso a tradurvi e
rivelare l’infinità virtù redentrice della Passione.
Le due ultime religiose superstiti, suor Crocifissa Tognoni e suor Pia Frosali, nel
1866, ritiratesi a Signa e sostenute dal santo parroco, don Giuseppe Fiammetti, diedero
inizio all’attuale Istituto delle Suore Passioniste d’Italia.
Altra esimia figura di consacrata che ha onorato la Comunità di Tarquinia è madre
Vittoria di Gesù Crocifisso, della nobile famiglia Bruschi-Falgari. La sua memoria è legata a
quella di santa Gemma Galgani, che sospirava di ritirarsi tra le Passioniste, e madre
Giuseppa Armellini sua amica, che pochi anni dopo fondò a Lucca il Monastero che
custodisce le spoglie mortali della grande Mistica.
Il 26 novembre 1770 Paolo, scrivendo ad una sua figlia spirituale, poteva
annunziarle imminente la fondazione del Monastero: “Spero - aggiunge - sarà di
grande splendore ed edificazione a tutto il mondo, e quando ne saprete le
circostanze, resterete stupita e benedirete e magnificherete le misericordie di
Dio, che solo sa fare cose meravigliose..”.
31
Per molti, oggi, non è facile intuire il senso e dimostrare la fondatezza delle parole
del Santo: mai forse la cultura laica ha respinto più sdegnosamente la vita contemplativa
come ridicola alienazione della coscienza umana. La “svolta antropologica” di certa
presunta teologia e il conseguente processo di secolarizzazione che ha indotto al rifiuto del
“sacro”, ormai ha reso inconcepibile la vita dello spirito, l’incontro personale con Dio, il
messaggio evangelico di una giustizia che trascende l’orizzonte storico di tutti i valori
profani, di ogni rivendicazione sociale. E assai più folle (almeno secondo la concezione
immanentistica e materialistica dell’esistenza) appare un tipo di vita vissuta all’insegna del
“sacrificio”, come appunto quella delle “Colombe del Crocifisso”.
Noi, invece di gridare all’assurdo, accettiamo il “mistero” di una redenzione dal male
e di un ricupero di bene che nella Passione espiatrice concentra la luce più abbagliante che
possa guidare il cammino della storia verso le più desiderabili affermazioni della civiltà
umana. Appunto ciò fonda la nobilità della vocazione contemplativa e riparatrice quale più
eroica espressione di solidarietà soprannaturale, riflesso del sublime martirio della Croce.
Ecco perché, come affermava Giovanni XXIII, “alle suore di clausura (...) spetta il primato
del servizio di Dio, che è preghiera incessante, distacco assoluto da tutto e da tutti, amore
al sacrificio, espiazione per i peccati del mondo”. Perché, come già Pio XI aveva dichiarato,
esse “giovano molto più al progresso della Chiesa e alla salvezza del genere umano” di tutti
gli altri “operai evangelici”...; perché il loro è l”apostolato più universale e più fecondo”.
Esse, sentenzia Paolo VI, “costituiscono il cuore” della Chiesa...
Non altre le intime convinzioni di Paolo della Croce, certissimo - nell’erezione del
Monastero - di affidare a Tarquinia il più geloso tesoro della sua anima di contemplativo e
di apostolo.
Prof. ENRICO ZOFFOLI
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PER IL RESTAURO DEL PALAZZO COMUNALE DI TARQUINIA
Nel momento che la città dell’alto medioevo erano tutte in fermento di attività
artigianali e commerciali, ci si trovò di fronte alla necessità di dare una sede al
raggiungimento di quella complessa organizzazione quale era la società di allora; sorsero
quindi i “palazzi comunali”, edifici che erano l’espressione di una organizzazione e di una
struttura politica, sociale, amministrativa.
Il libero comune medioevale era dotato di autoamministrazione e di autonomia,
intesa questa in uno dei più larghi significati che possano applicarsi ad un ente come il
Comune, soggetto alla sovranità dello Stato; aveva funzioni decentrate in grado assai
elevato ed era sottratto quasi totalmente ai concetti di statalismo e statalizzazione.
In questo clima politico e culturale si innesta, dopo la prima metà del XIII secolo,
l’edificazione del Palazzo Comunale di “Corneto”, che nell’insieme decorativo presenta
delle spiccate analogie con la chiesa di S. Pancrazio, diventata il fulcro dell’attività civica a
partire dagli inizi del XIII secolo.
Indubbiamente, tra la costruzione dei due edifici, intercorre un lasso di tempo (60
anni circa) troppo vasto per poter giustificare tali similitudini, senza far riferimento a due
ordini di fattori; il primo, inerente al fatto che la forma dei due palazzi comunali, ideata in
Lombardia, là dove c’era maggior fervore di vita associativa, mantenne nell’Italia superiore
e centrale, anche nei primordi gotici, la semplicità franca da cui ebbe grandezza; il
secondo, riguardante le maestranze che, come è noto, erano solite, in questo periodo,
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suddividersi i compiti in maniera specifica, il qual fatto è ampiamente testimoniato nelle
strutture e nelle decorazioni dell’edificio.
Per quanto riguarda il primo punto, bisogna aggiungere che in effetti il Palazzo ha
risentito degli influssi della nuova arte gotica che nel Lazio attecchisce solo nel 1200,
ampiamente mediata dalla tradizione locale: questo fatto lo si può riscontrare nell’arco
rampante della loggia, negli archi ogivali di Via Antica e in taluni altri particolari di
secondo piano.
Tutto sommato però l’edificio, nell’insieme strutturale della presunta parte
originaria, fornisce significanti aspetti di quella cultura Lombarda di cui parlavamo
poc’anzi e riscontrabili nella distribuzione e dimensione degli ambienti, nelle coperture e
nella pavimentazione in legno, sostituita in epoca successiva con volte a botte.
Discorso a parte meritano le facciate, dalle quali, più che in ogni altra parte della
costruzione, traspare la partecipazione popolare, sia a livello culturale che operativo.
Infatti, la matrice culturale della decorazione tardo-antica a bugne stellari dell’arco
della loggia e della cornice marcapiano, più che all’esterno, va ricercata nella stessa
Corneto che, tramite S. Giovanni, S. Pancrazio, lo stesso attuale S. Francesco, le aveva
riprese dall’architettura normanna, insieme ad altri episodi artistici.
Ad esempio, punte di diamante a bugne a stella compaiono nella cattedrale di
Palermo della seconda metà del XII secolo.
La stessa cosa circa le influenze, si può dire delle decorazioni policrome degli
archetti a tutto sesto delle finestre, leggermente aggettanti dalla muratura (oggi inglobate
totalmente in essa in seguito alla sovrapposizione delle finestre cinquecentesche) e dei
capitelli, la cui rudimentale fattura testimonia la purezza e la semplicità espressiva
dell’artefice, e ricorda lontani esempi lombardi.
Altra prova di quanto detto circa l’opera svolta nel Palazzo del Comune dalle
maestranze locali, la si può trovare nel portale di accesso alle scale che conducono alla
parte aggiunta con l’ampliamento del 1478; detto portale nello stile e nelle decorazioni è
molto simile a quello situato nella torre del Palazzo, detto dei Priori.
Il portale del Palazzo Comunale però si distingue dall’altro, in quanto presenta in
più delle decorazioni a punta di diamante a base quadrata, simili a loro volta a quelle
dell’arco rampante della loggia di periodo certamente precedente.
Probabilmente, invece, il motivo delle lesene, legate in alto da archi ciechi a tutto
sesto, è da ricollegarsi alla architettura pisana e più precisamente al duomo che a sua volta
lo riprende dalla cattedrale di Ani in Armenia e da altre chiese del X secolo.
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Per la verità, il motivo delle arcate cieche era già noto all’architettura romana e da
questa, tramite quella paleo-cristiana, la bizantina e quella ottoniana, era pervenuto ad
esempio al duomo di Modena, ma il fatto che Corneto, nel periodo dell’erezione del
Palazzo, avesse stretti contatti con Pisa e facesse parte della Marca Toscana, escluderebbe
ogni altra influenza che non fosse quella della città marinara.
INSERIMENTO NELLA STRUTTURA URBANA
Come è stato detto in precedenza, il Palazzo Comunale risale alla seconda metà del
XIII secolo; il suo inserimento nella struttura urbana è abbastanza interessante e coincide
con una operazione di spostamento generale degli interessi della città.
Tuttavia, prima di entrare più profondamente in questo discorso, è necessario
tracciare un quadro sintetico sulla formazione e la crescita di Corneto sin dall’inizio.
Non è facile stabilire la consistenza urbana di Corneto nel VI secolo, ma si può
senz’altro identificare il principale nucleo civile e militare nella rocca di S. Maria in
Castello. L’accrescimento del borgo in riferimento al “Castello” (fig. 2) si può definire
(secondo il Munford) del tipo organico ossia nella più completa semplicità e privo di una
ricerca formale e di un certo tipo di programmazione.
I risultati sono soddisfacenti:
si ha una prevalenza di corpi di fabbrica allungati costruiti parallelamente alle curve di
livello e perpendicolarmente ai venti di tramontana e libeccio.
Di conseguenza anche la struttura viaria risulta semplice e funzionale:
strade parallele alternate nei punti nevralgici da piazze (Duomo, S. Stefano, S.
Martino).
Le prime fortificazioni del “Castro de Corgnito” sono databili (secondo il Dasti) nel
731-741 sotto il pontificato di Gregorio III.
Un miglioramento dovrebbe essere avvenuto nella prima metà del IX secolo in
seguito alle invasioni dei Saraceni.
Nell’XI secolo lo sviluppo urbano all’interno della prima cerchia doveva essere quasi
completo. (fig.3)
Fra il XII e il XIII secolo si concretizzavano quei fatti in stretta relazione con la
costruzione del Palazzo Comunale; cerchiamo di analizzarli.
La costruzione di due conventi (fig. 3 e 4), uno di benedettini (l’odierno S.
Francesco) e l’altro degli eremitani di S. Marco, e la conseguente formazione all’interno di
essi di piccole concentrazioni abitative, è il primo episodio importante.
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Infatti, probabilmente, per inglobare questi viene costruita la seconda cerchia di
mura e conseguentemente abbattuta tutta o in parte l’altra.
Proprio per avere una conferma sulla demolizione delle fortificazioni a sud è
fondamentale ricordare che nel 1204 viene incoronato Pietro II d’Aragona in S. Pancrazio,
la chiesa è tangente alle suddette mura e quindi è arduo supporre la loro coesistenza in
detta data.
Sempre riferendosi all’importanza del fatto è da sottolineare che fino ad allora tali
cerimonie avevano trovato la loro giusta sede nella chiesa di S. Maria di Castello, quindi la
preferenza per S. Pancrazio, costituita con ogni probabilità solo quattro anni prima, fa
supporre, data la sua posizione eccentrica rispetto al vecchio nucleo, che era già in atto uno
spostamento del centro della città forse a causa di nuovi interessi politico-economici.
Il nuovo centro si concretizzava con la costruzione del Palazzo Comunale sul
tracciato delle primitive mura ed in posizione baricentrica nella nuova configurazione della
città. Come precedentemente accennato, la nascita del nuovo centro-urbano è senz’altro da
porre in relazione ai nuovi interessi politico-economici di Corneto.
Infatti, la piazza del Comune si trova proprio sui due assi di comunicazione
principali; (fig.5) e la strada che porta al mare (di conseguenza al porto) ed alla via Aurelia,
è quella che porta a Viterbo ed all’entroterra (è da ricordare a questo proposito che proprio
in una delle apoteche del palazzo era situata la dogana del sale).
Da quanto detto è chiaro che la piazza nata di fronte al Palazzo Comunale doveva
essere un punto obbligato per ogni tipo di commercio e di relazioni (non a caso rileggendo
la Margarita Cornetana si ha notizia di molti atti stipulati nella piazza, nella loggia e sulle
scale del Palazzo Comunale).
Concludendo, si possono fare alcune considerazioni sulla piazza come realizzazione
architettonica.
E’ infatti chiaro che la posizione di questa indica il compimento di un certo
programma urbanistico, ma non altrettanto chiara è la “volontà” architettonica, anche a
causa degli sventramenti ipotizzabili, l’ultimo dei quali avvenuto nel 1841 con la
demolizione della chiesa della Misericordia (fig. 6). Forse la condizione del terreno che fa
da supporto alla piazza e che rende difficile la continuità di questa, ha impedito di
trasformare il funzionale spazio urbano in un riuscito spazio architettonico.
In altre parole, la piazza del Comune non riesce ad essere uno spazio unico e
continuo, ma si cristallizza in altri spazi.
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Va comunque sottolineato, che quanto detto deriva da una visione attuale della
piazza, tuttalpiù, tenendo conto dell’unica demolizione accertata da un documento storico
(la chiesa della Misericordia).
CRONOLOGIA DEGLI INTERVENTI
Chiarita la situazione urbanistica e sociale, che vede la nascita del Palazzo Comunale
e chiarite le cause che hanno portato alla sua edificazione, passiamo ora ad analizzarne gli
aspetti architettonici, cercando per quel che è possibile di distinguerne le varie fasi che si
sono succedute nel tempo attraverso ampliamenti e rifacimenti.
Cercheremo di aiutarci con le analogie strutturali e decorative che il Palazzo ha con
altre costruzioni simili del periodo comunale; in particolare con quegli aspetti della cultura
architettonica lombarda di cui, come si è detto, il territorio cornetano ha subito influenze
notevoli.
Attualmente il Palazzo si estende in lunghezza dalla chiesa del Suffragio fino alle
scale della cisterna, ed in profondità da P.zza Matteotti a via S. Pancrazio.
Esso però è pervenuto all’assetto attuale tramite una serie di rimaneggiamenti che
ne hanno alterato le caratteristiche primitive.
Con molta probabilità, la parte originaria è quella che va dall’arco, che lo attraversa
in tutta la sua profondità, alla fine della torre.
Questa zona dell’edificio, infatti, presenta in maniera accentuata quasi tutte le
caratteristiche, comuni ai palazzi pubblici dell’epoca.
Tali edifici, generalmente, si articolavano su due piani: un piano terreno
completamente aperto in porticato ed un piano superiore comprendente un unico grosso
vano, chiamato “Camera”, in cui si tenevano i consigli e si svolgevano le attività
amministrative del Comune.
Generalmente, l’area sottostante la “Camera” era suddivisa da arconi insistenti su
piedritti cruciformi, al centro ed a T sui lati. Sulla parte superiore di tali arconi, che
costituivano lo scheletro di base, erano inserite delle travi in legno che facevano da
supporto al pavimento, anch’esso di legno, del vano superiore.
Tali palazzi, quasi sempre di forma rettangolare, erano muniti di un’alta torre
campanaria, generalmente localizzata sul lato minore, o inglobata nella struttura all’angolo
del medesimo.
Non sempre erano muniti di collegamenti verticali, in quanto, spesso, l’accesso sulla
“Camera” avveniva tramite dei passaggi che collegavano tale parte superiore del Palazzo
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con la residenza dei massimi ufficiali che reggevano le sorti del Comune. Altre volte,
invece, tali collegamenti erano localizzati all’esterno, però quasi sempre nella parte del lato
minore dove era situato l’accesso alla “Camera”.
A volte si possono riscontrare degli esempi di scale, che tramite un pianerottolo o
una loggia, permettevano l’accesso alla “Camera” dalla parte del lato maggiore, che dava
sulla piazza. Tali logge, oltre che per lo scopo di cui sopra, servivano anche per le arringhe
al popolo e, come nel caso di Corneto, per la stipulazione dei contratti privati.
Servendoci, dunque, del quadro generale della tipologia dei palazzi comunali, ci è
stato possibile, nel caso specifico, individuarne in un primo momento la presunta parte
originaria e di conseguenza approfondire la ricerca di quei particolari che, in qualche
modo, confermassero la nostra ipotesi.
L’edificio nelle sue parti esterne, presenta una apparente soluzione di continuità, in
quella zona che va dall’accesso alla scala 800esca e quindi dalla torre, fino alla chiesa del
Suffragio.
Abbiamo usato il termine “apparente” perché ad una più attenta analisi delle sue
parti tipologiche e decorative, sono emerse varie differenze.
Il Palazzo presenta una serie di costoloni, legati superiormente da archi a tutto
sesto, aggettanti dalla muratura.
Tali archi si trovano in tutta la parete nord dell’edificio, mentre mancano nella parte
della facciata prospiciente P.zza Matteotti, dalla loggia fino alla chiesa del Suffragio.
Sul retro, inoltre, gli archi pensili, aggettanti per circa 40 cm. dalla muratura fino
all’arco di Via Antica cambiano totalmente nella parte di destra.
Si può addirittura notare, oltre che il differente grado di rifinitura, anche il diverso
aggetto dal muro, in quanto meno profondo.
Nella facciata di P.zza Matteotti invece, dove in assenza degli archi sono tracciate
solo le linee di imposta nel muro, si può notare che nella parte diametralmente opposta al
punto di innesto delle due diverse tipologie del retro, corrisponde un più ampio spazio tra
l’attacco dell’arco tagliato e quello successivo segnato nella muratura.
Altro elemento di differenziazione esterna lo si può notare osservando la copertura.
Infatti, in direzione del punto in cui cambia la tipologia degli archi, il tetto verso la
chiesa del Suffragio, pur avendo la stessa linea di gronda, ha il colmo più basso, che lascia
intravedere l’originaria muratura perimetrale su cui insiste un piccolissimo campanile a
vela.
All’interno, la differenza è ancora più macroscopica. La presunta parte originaria,
fermo restando il fatto di aver subito delle trasformazioni, tra cui la sostituzione dell’antica
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pavimentazione in legno della “Camera” con volte a botte grossolanamente eseguite,
presenta delle diversificazioni, oltre che nel numero dei piani, anche nella tipologia
strutturale.
Infatti, l’esecuzione della volta a botte costolonata del sito addetto a deposito della
ferramente, del tutto simile a quella delle parti basse di Palazzo Vitelleschi, risalente al
1439, e la diversa distribuzione interna degli ambienti, permettono di farne risalire la
costruzione ad un’epoca posteriore anche se non troppo lontana nel tempo.
Questo convincimento ci viene dalla presenza della cornice marcapiano che lega le
due parti, e dalle bifore del piano superiore di cui si conservano tracce e che hanno ceduto
il posto in un restauro del 1512 alle attuali finestre.
Per completare il quadro della situazione originaria, resta da prendere in
considerazione un ulteriore elemento: la torre. Sicuramente quella attuale non è nata con il
Palazzo, come in un primo tempo si credeva, in quanto da una parte, interrompe
bruscamente il motivo dei costoloni e degli archi pensili, e dall’altra, la sua muratura non
fa corpo unico col palazzo ma è ad esso aderente, cosa che è stato possibile verificare
scrostando l’intonaco e introducendo una sonda.
Rimane allora da localizzare la posizione della torre che sicuramente doveva avere il
Palazzo originario.
Dal rilievo è emersa l’esistenza di un vuoto di struttura, nella parte terminale del
Palazzo verso la torre attuale, di dimensioni 5, 00 x 4,50 ed occupante il piano terreno ed il
1° piano della zona di destra, più tarda.
Tale indeterminazione scompariva a livello del piano nobile.
A questo punto abbiamo le due circostanze, facendo l’ipotesi che la torre attuale
fosse stata costruita internamente alla struttura del Palazzo e che quella vecchia, invece,
fosse da identificarsi col vano di cui sopra.
Fatti dei sondaggi con carotatura di materiale, abbiamo scoperto che il vano in
esame era delimitato da muri a sacco di m. 1,30 di spessore.
Tali dimensioni dei muri, unitamente ad una lesione, individuata in uno di essi, con
molta probabilità provocata da rotazione, facevano supporre che era questa la torre diruta
e l’altra, quella ricostruita dalle fondamenta nel 1512 con i fondi del Papa Giulio II (v.
Dasti).
A questo punto è possibile fare un’ipotesi:
in origine il Palazzo Comunale era quello che, come abbiamo già detto,
comprendeva la sola aula del consiglio, il vano che ospita la scala del 1800, il vano della
torre attuale e la parte immediatamente sopra all’arco di Via Antica.
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Con molta probabilità però, durante l’esecuzione dei lavori si è avuto un
ripensamento, dal momento che si è costruita l’ala che si estende verso la chiesa del
Suffragio, forse per adibirla a residenza di qualche notabile.
Con molta probabilità, il Palazzo non aveva un porticato in tutto il piano terra, bensì
delle apoteche, di cui si fa menzione in alcuni documenti.
Se nulla è possibile dire con esattezza circa la data di inizio dei lavori, è quasi certa
quella del loro termine.
Infatti, nella lapide trovata sopra la loggia, e che parla di “haec domus”, si legge che
la fine dei lavori risale al 1266.
Come si preciserà più oltre, però, abbiamo rilevato delle discordanze nei documenti
presi in esame, in quanto ce n’è uno nel quale si parla di attività svolte nel Palazzo
Comunale già nel 1263.
Questo si potrebbe spiegare con quanto detto pocanzi, circa la cronologia degli
interventi, intendendo la lapide riferirsi alla fine dei lavori di entrambe le parti.
Comunque, non si hanno notizie del Palazzo prima del 1263; del resto prima di
questa data, l’attività del Comune si svolgeva prevalentemente nelle chiese.
Prime fra tutte, a questo scopo, era stata adibita S. Maria in Castello ma agli inizi del
XIII secolo, con molta probabilità, tale compito era demandato a S. Pancrazio, costruita in
fretta per permettere l’incoronazione di Pietro II d’Aragona, e come si è detto, nel centro
del nuovo nucleo urbano. Sicuramente, S. Pancrazio avrà svolto questo compito sociale per
lungo tempo, fino appunto all’erezione del nuovo Palazzo Comunale, poco distante.
Il motivo della cornice marcapiano a bugne stellari, del Palazzo, il cui uso è
certamente raro nel 1266, è identico a quello della cornice dell’abside e della facciata di S.
Pancrazio quasi a simboleggiare la continuità delle manifestazioni nei due edifici.
Precedentemente, parlando della lapide, abbiamo detto che essa era stata trovata
murata sopra la loggia, e questo fatto ci ha lasciato alquanto perplessi.
Sicuramente, detta loggia non è nata con il Palazzo, la qual cosa di può accertare sia
esaminando documenti, sia osservando particolari di rilievo ed architettonici.
Sicuramente il Palazzo doveva essere, originariamente, fornito di due scale, una
delle quali era interna.
Il primo documento in cui si fa menzione di esse, risale al 1287 continuando fino al
1293, anno in cui è stipulato un contratto davanti alle scale del Palazzo Comunale e il 10
marzo dello stesso anno, in cima alle scale nuove del suddetto Palazzo.
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Le scale vecchie sono infine citate nel 1294 e dopo questa data, non si ha più notizia
di esse, probabilmente abbattute per lasciare il posto al nuovo ampliamento della parte
destra oltre la torre, probabilmente distrutta da un incendio e restaurata nel 1512.
Le scale nuove, e dunque la loggia compaiono per la prima volta nel 1293, e questo è
un fatto facilmente verificabile nella struttura.
Infatti, la muratura della loggia, è addossata a quella del Palazzo e non formante un
unico corpo con esso.
La porta che dalla loggia immette nell’aula del Consiglio è stata ricavata sotto una
finestra a bifora primitiva.
Di periodo più tardo inoltre sono le decorazioni dell’arco rampante, su cui insiste la
scala, rispetto a quelle della cornice marcapiano e alle decorazioni delle bifore.
Tali decorazioni infatti, pur riprendendo il motivo a stella delle cornici di cui sopra,
sembrano più curate e rifinite.
Alla luce di quanto detto finora dunque si può stabilire con una certa
approssimazione, che in effetti è inesatto cercare di stabilire una data circa la fine dei
lavori, in quanto presentando il Palazzo, nella sua globalità, una continua evoluzione
strutturale, esso probabilmente è stato oggetto di continui rimaneggiamenti non molto
lontani nel tempo l’uno dall’altro.
Resta il fatto, comunque, che alla fine del XIII secolo esso doveva avere già l’aspetto
attuale, nella parte presa in considerazione, salvo alcune modifiche che ha subìto negli
interni.
Ad esempio, sono scomparse delle “apoteche” ubicate nel piano terreno, prospicienti
un porticato e ubicate vicino alla torre.
Probabilmente, sono state inglobate negli ampi locali del Monte di Pietà istituito in
Corneto nel 1579 ed occupante tutta la parte sotto l’aula del Consiglio.
Scomparsa è anche una cappella interna al Palazzo di cui si parla in un documento
del 1362, e l’aula circolare, sede del Consiglio dei Nove, menzionata in un documento del
1409.
Probabilmente, queste modifiche sono da attribuirsi all’intervento di restauro che il
Palazzo ha subìto nel 1476, in seguito ad un incendio.
A questo periodo inoltre è da attribuirsi anche il successivo ampliamento che va
dalla torre attuale alle scale della cisterna e testimoniato dalla data (1478) scritta
sull’architrave della porta che immette nel salone d’ingresso.
Forse non tutta questa parte è sorta ex novo ma con molta probabilità si è innestata
sui rari ruderi di un fabbricato precedente distrutto appunto dall’incendio ed addirittura
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sui retti delle vecchie mura di difesa della città e delle quali abbiamo scoperto delle tracce
affianco alla scala di cui sopra.
E’ stato anche in questo periodo che con ogni probabilità si è provveduto alla
sostituzione dell’antica pavimentazione in legno dell’aula del Consiglio, con volte a botte,
insistente sugli arconi sottostanti, motivo questo che permetteva di scongiurare il ripetersi
di pericolosi incendi.
La nuova parte del Palazzo menzionata è forse la meglio conservata nel suo insieme,
eccezione fatta per l’aggiunta di alcuni tramezzi, e la sostituzione di una antica volte a botte
lunettata con volte a schifo, nell’attuale anagrafe, e l’aggiunta di solai a volterranee, nel
piano terra.
Concludendo dunque, una prima parte del Palazzo è stata ultimata nel 1266,
immediatamente dopo è stato ampliato verso la chiesa del Suffragio, indi costruita la loggia
e solo più tardi è stato ampliato verso la “cisterna”.
Concluse le fasi precedenti di indagine storica ed ambientale (del Palazzo), si è reso
indispensabile un più diretto contatto fisico con il monumento, onde acquisire tutti quei
dati necessari nella successiva fase tecnica del restauro. Stabilito un programma di
massima, in base ai risultati emersi dal rilievo, si è portato avanti un tipo di ricerca, capace
di chiarire, non solo lo stato di conservazione della struttura, nel suo insieme, ma anche
certi interrogativi di carattere storico-cronologico, ai quali non era stato possibile dare una
risposta esauriente, servendoci solo della lettura dei documenti pervenutici.
Tracciato, quindi, come detto pocanzi un quadro generale delle priorità di
intervento, si è proceduto ad una prima immediata classificazione dei dissesti e delle
degradazioni.
Nella facciata prospiciente P. zza Matteotti e esattamente nella loggia, si sono
individuate delle lesioni, il cui andamento faceva in un primo momento pensare che la
causa fosse da attribuirsi esclusivamente alla presenza della copertura, aggiunta in periodo
relativamente recente.
Infatti la muratura della parte compromessa ha subìto una rotazione verso l’esterno
dovuta al contributo di due dattori:
1) Cedimento del piedritto di destra dell’arco, con conseguente indebolimento della
struttura nella parte centrale.
2) Presidenza del carico dovuto alla nuova copertura e gravante, tramite le colonne,
sull’arco di facciata.
Eseguita la verifica di stabilità dell’arco con il metodo grafico di Méry, si è potuto
accertare dall’andamento della curva delle pressioni, completamente interna alle linee di
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nocciolo, che le dimensioni dell’arco sono esatte e che di conseguenza la struttura lavora
tutta a compressione e nei limiti di sicurezza consentiti dal materiale (5 kg/cm 2).
Tuttavia la verifica al ribaltamento ha dimostrato l’inadeguatezza del piedritto.
Infatti il momento reagente è inferiore al momento agente, e questo spiega la
presenza del contrafforte laterale. E’ importante precisare che tale verifica deriva dalla
copertura e dalle colonne, il che dà anche adito all’ipotesi che la sola loggia abbia resistito
per lungo tempo in condizione di equilibrio instabile e che il collasso sia avvenuto in
seguito alla sovrapposizione del nuovo corpo. Ricostruite dalle cause gli effetti, è emerso
che non tutte le lesioni possono essere pienamente giustificate dalla concomitanza dei
fenomeni citati.
A questo punto, l’unica verifica mancante è quella della portanza del terreno di
fondazione, senza la quale non è possibile avere un quadro completo delle cause del
dissesto. Individuata una maglia a livello planimetrico, si è proceduto all’esecuzione di fori
verticali con conseguenze estrazione di campioni del terreno.
Quest’operazione è stata svolta con un martello perforatore C.A.R.P.E.R. con
velocità di 250 gir-min e carotiere da 45 mm. Per permettere l’asporto dei materiali di
accumulo, esterni al carotiere, e che se non estratti possono provocare l’inceppo dello
strumento con grave pericolo per l’operatore, è stata fatta una applicazione per permettere
l’immissione di acqua di lavaggio ad alta pressione.
Contemporaneamente alle perforazioni, sono stati eseguiti degli scavi, che hanno
permesso di individuare una lesione, localizzata nello strato di macco su cui poggia il muro
laterale della loggia.
Questa lesione stabilisce in maniera definitiva la presenza di cedimenti fondali, che
insieme al degrado delle parti basse delle murature sono difficilmente spiegabili senza il
contributo di uno studio geochimico.
Il materiale da costruzione impiegato nell’opera in esame è, sotto un profilo
geologico, il medesimo che si rinviene come supporto di tutto l’abitato di Tarquinia.
L’affioramento di questo tipo di roccia prevalentemente carbonatica di origine
organogena, si estende su tutta la vasta area a sud e a est dell’abitato e appoggia
direttamente sulle marne e sulle argille grigio-azzurrino del Pliocene; sotto un profilo
stratigrafico queste due formazioni sono continue e il passaggio da quella carbonatica ai
due litotipi precedentemente accennati corrisponde ad un approfondimento del bacino di
sedimentazione; in altre parole, le argille corrispondono al sedimento terrigeno del bacino
miocenico di provenienza terrigena mentre la formazione sovrastante corrisponde ad una
fase di maggiore trasgressione con l’apporto terrigeno molto limitato; pertanto si ha, in
43
questa formazione superficiale, un sopravvento del materiale carbonatico organogeno
rispetto all’apporto classico.
Lo spessore medio della formazione carbonatica può essere valutata fino a 20 metri.
La formazione carbonatica è costituita da calcari organogeni calcareniti e calcari
sabbiosi più o meno compatti giallo-biancastri che localmente prendono nome di “macco”;
talora si osservano intercalazioni di sabbie gialle e argille sabbiose; la macrofauna
permette di attribuire al Pliocene Superiore-Medio questa formazione.
Data la posizione stratigrafica di questa formazione, i fenomeni diagenetici
intercorsi sono da attribuirsi a percolazione delle acque sia in fase precoce che in fase
regressiva; assenti invece fenomeni di costipamento non esistendo in fase precoce
formazione che potesse dare tale costipamento (identico processo diagentico si ha nei
travertini ad opera delle acque circolanti che sciolgono carbonato di calcio nella parte
superiore e lo depositano nella parte inferiore); da tutto questo insieme dei dati ne
consegue un’altra porosità e permeabilità del materiale impiegato nella costruzione
dell’opera.
A titolo di informazione si possono elencare le caratteristiche tecniche dei materiali
di cava come segue:
porosità
:
5 - 10%
peso specifico reale
:
2,70 - (g/cmc)
peso specifico apparente :
2,40 - 2,55 (g/cmc)
permeabilità
100 - 500 millidarcy
:
Si intende che questi valori sono riferiti a materiali di cava coerenti mentre le
caratteristiche possono decadere notevolmente sia in vari punti della cava medesima che
per dissoluzione di parte della calcite nei manufatti costruiti con questo materiale: questo
può essere verificato in certe porzioni di materiale estratto dalla costruzione dove la
porosità arriva al 25 - 35%, e quindi il peso specifico apparente diminuisce fino a 1,7 2,000 g/cmc.
Questo fenomeno può essere spiegato con la dissoluzione da parte delle acque di
imbibizione del CaCO3, con l’aumento del numero dei pori da cui un sempre maggiore
percolamento; infatti, il materiale impiegato nella costruzione è sempre un calcare ad
elevata purezza con residuo insolubile (materiale non carbonatico valutabile attorno allo
0,1-1,00%).
Il materiale non carbonatico risulta costituito da una sabbia silicatica con
piccolissime quantità di materiale argilloso; questa caratteristica può spiegare la rapida
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degradazione della “pietra” utilizzata in quanto non contenendo grosse porzioni di
materiale argilloso, la porosità del materiale tende sempre ad aumentare senza mai
giungere alla occlusione dei pori da parte dell’azione del materiale granulometricamente
più fine, costituito dai materiali silicati presenti.
Processo quindi di degradazione del materiale in esame che può essere spiegato
invertendo il processo che ha subìto la “pietra” durante la fase diagenetica: dissoluzione del
CaCO3 per sviluppo di una circolazione delle acque di infiltrazione con aumento notevole
sia della porosità che della permeabilità del materiale, fino al suo collasso.
Un fenomeno naturale del tutto simile è quello che si verifica in formazioni
carbonatiche per circolazione di acque sia superficiali che sotterranee (carsismo).
Il micro-carsismo che si rivela nella “pietra” in esame può arrivare ad uno stadio
così avanzato da disgregare completamente il materiale litoide, separando tutti i singoli
granelli di CaCO3, e cioè sciogliendo tutto il cementante e ottenere quindi una massa
incoerente con dimensioni dei singoli grani da sabbia fine a limo.
Il fenomeno della degradazione quindi in questa “pietra” è da identificarsi
nell’alternanza dei movimenti dell’acqua di infiltrazione che allontana il carbonato.
A questa conclusione si può giungere anche indirettamente osservando il processo
di degradazione dell’opera in esame tenendo presente la situazione geologica descritta
precedentemente: le argille sottostanti del materiale carbonatico su cui poggia l’opera
costituiscono un letto impermeabile e sopportano una falda acquifera che è localizzata
nella formazione carbonatica sovrastante; questa falda acquifera subirà forti oscillazioni
sia stagionali che in relazione all’emungimento dei pozzi ubicati nella zona, queste
oscillazioni determineranno fenomeni più vistosi di dissoluzione nella roccia carbonatica a
più alto livello e lo stesso fenomeno si verificherà in corrispondenza della parte più bassa
dell’opera.
Questi fenomeni quindi comportano una instabilità delle fondazioni (vedi problema
dissesto loggia in seguito a cedimento fondale) e una maggiore alterazione localizzata nella
parte più bassa a diretto contatto della formazione carbonatica in situ.
Per quanto riguarda infine il diverso colore del materiale litoide impiegato, sempre
da campioni di materiale estratti, questo fatto può essere spiegato con fenomeni di
ossidazione dovuti alla dissoluzione del CaCO3 e un arricchimento degli elementi più
ossidabili contenuti come sostituenti dal calcio sul carbonato; questo fenomeno si può
riscontrare sia nel materiale di cava (legato ai fenomeni diagnetici), che in quello
degradato in situ.
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CONCLUSIONI
Come in tutti gli interventi di restauro di monumenti, dopo una fase di analisi e di
ricerca, si giunge alla proposta progettuale di intervento. Nel nostro lavoro per scelte ben
precise, la proposta di restauro, non è stata formulata completamente. Questo può
sembrare strano a prima vista, infatti quando si dispone di una concreta analisi giungere a
una proposta non è difficile. Tuttavia è anche dimostrato che partendo da una stessa
analisi si può arrivare a conclusioni diverse, in una materia in cui il rigore scientifico non è
componente essenziale. Infatti tecnici diversi che lavorano ad uno stesso intervento di
restauro potranno fornire risposte simili finché resteranno nel campo tecnico del
consolidamento o del risanamento, ma più oltre le risposte saranno del tutto soggettive e
derivanti da diversi gradi di sensibilità. E’ per questo che attraverso un’accurato lavoro di
ricerca, abbiamo creato una base d’informazione, sufficiente a far conoscere il monumento
in ogni aspetto, storico, sociale, tecnico, in modo che il progettista non agisca da solo, ma
sia suffragato nel suo lavoro da diversi componenti, per giungere così ad una conclusione il
meno possibile soggettiva. Secondo me questo è il metodo più giusto per intervenire su un
monumento (in special modo nel nostro caso) che spesso è stato nel tempo l’immagine
dell’evoluzione della volontà di più persone.
arch. LEONARDO PROLI
RICORDO DI LEONIDA MARCHESE
Avevo da poco assunto la direzione del Museo e degli Scavi di Tarquinia, quando il
compianto amico e collega, senatore Alfonso Bartoli, mi interessò per far comandare al mio
ufficio Leonida Marchese, che era allora, credo, segretario di una scuola media, e
contemporaneamente iscritto alla Facoltà di Lettere dell’Università di Roma. Accolsi la
proposta con una certa freddezza, sapendo per esperienza che la richiesta di tali comandi
veniva di solito da elementi che ricercavano un posto di comodo e di poco impegno: mi
dava tuttavia affidamento la persona dalla quale questa richiesta ora era avanzata: il
Bartoli, sempre restio a fare raccomandazioni di elementi dei quali non potesse garantire la
serietà e lo zelo nel lavoro.
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Acconsentii perciò e il Marchese venne a Tarquinia: aveva allora 33 anni, essendo
nato a San Severo in provincia di Foggia il 1902. Ma ben presto mi accorsi che l’ufficio
aveva fatto un acquisto di raro valore, acquisto che, con il passare degli anni, sarebbe stato
non per il solo museo e per gli scavi, che di lì a poco si sarebbero iniziati nell’area della
Civita, ma per tutta la città di Tarquinia, della quale il Marchese finì per essere uno dei
più profondi conoscitori e appassionati amatori.
Uscito da una famiglia di genitori insegnanti nelle scuole medie superiori e di fratelli
rivestiti di alte responsabilità nella magistratura o nell’amministrazione dello Stato, il
Marchese, che nel frattempo si era laureato con una tesi numismatica con la prof.ssa
Cesano, aveva vivo l’amore e l’interesse per la cultura, specie per quella artistica, artista in
certo qual modo egli stesso (chè nelle ore libere si dilettava di disegno e di pittura e di altre
arti figurative), e desideroso di far parte di quanto egli sapeva a quanto altri potesse: così
che non solo accoglieva di buon grado il compito di guidare e illustrare a chiunque glielo
chiedesse, e soprattutto alle scolaresche, le collezioni del museo e le pitture delle tombe,
ma con eguale se non più ancora fervida passione accettò a tenere per molti anni
l’insegnamento nell’istituto magistrale delle Suore Benedettine con grande profitto delle
alunne: incarico che tuttavia non lo distolse mai in nessun modo dai suoi impegni
nell’ufficio.
In questo anzi fu un modello di zelo e di dedizione: quando si iniziarono gli scavi
della Civita, ed io non potevo essere sul luogo che saltuariamente, egli seguiva i lavori
giorno per giorno, redigendo con ogni cura il giornale di scavo; le pagine di questo giornale
che si riferiscono al ritrovamento dei vari frammenti del gruppo dei cavalli, meriterebbero
di essere pubblicate per la loro precisione e per l’entusiasmo che ne traspare; molte volte
ho pensato di farlo, non mantenendo mai il mio proposito.
Andato in pensione per raggiunti limiti di età, fu, su proposta del Soprintendente dr.
Moretti accolta unanimamente dal Consiglio Superiore, nominato Conservatore onorario
del Museo: e da questo non si distaccò, chè sarebbe stato troppo doloroso per Lui.
Ma insieme continuò ad interessarsi della storia e dei monumenti della città,
essendo tra i primi a partecipare alla ricostituzione della Società Tarquiniense d’Arte e
Storia, che ne riconobbe i meriti con l’assegnazione di una medaglia.
E’ del 1974 un suo volume Tarquinia nel Medioevo, pubblicato su iniziativa della
Cassa di Risparmio di Civitavecchia nella ricorrenza dell’ottantesimo anniversario della
istituzione dell’agenzia tarquiniese.
Ma, accanto alle sue qualità di funzionario, di studioso e di insegnante, non si
possono tacere le sue doti umane: il suo profondo attaccamento alla famiglia, a quella
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paterna e a quella che egli si era formata, alla sua compagna, ai suoi figlioli, l’una e gli altri
dediti con eguale passione all’insegnamento.
Ed è stato proprio nel compiere quell’atto di pietà familiare che ogni anno egli era
solito adempiere nella ricorrenza dei defunti andando a rendere omaggio alla tomba dei
suoi genitori, che la morte lo ha inopinatamente raggiunto: Dio Gli renderà il giusto
premio di una vita tutta spesa nell’adempimento senza risparmio dei suoi doveri nella
famiglia e nella società.
PIETRO ROMANELLI
SPIGOLATURE SULLE TRADIZIONI DELLA NOSTRA CITTÀ’
La Società Tarquiniense d’Arte e Storia, al fine di portare alla luce ogni
documentazione storica intorno alla nostra città, va seguitando, presso archivi pubblici e
privati, scrupolosa ed attenta ricerca di manoscritti, stampe e tutto quanto può essere
annoverato in una raccolta che non solo sia attestazione di un passato nobile ma
soprattutto motivo di conoscenza e divulgazione a favore dei nostri Sodali, degli studiosi e
della popolazione che nutrono a ciò interesse e passione.
Il caso ha voluto che ci capitasse fra le mani un manoscritto dal titolo “Gli Statuti
della Comunità di Corneto, compilati nel 1545 e trascritti da un esemplare membranaceo
che è custodito nella nobil Casa Falzacappa” raccolto in cinque libri e ricopiato in lingua
latina da Giovanni Felice Franzosi, notaro pubblico e segretario del Comune di Corneto nel
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1770; e un “Diario Cornetano” di anonimo del 1778 dove sono enumerati “tutti gli
avvenimenti più ragguardevoli spettanti sì allo spirituale sì allo temporale della Città di
Corneto”.
Da entrambi abbiamo stralciato alcuni capitoli e altri episodi (assai importanti per il
fatto che in essi si fa menzione del nome delle Chiese Cornetane, delle feste civili e
religiose, della prima presenza del simulacro ligneo della Resurrezione e delle Maestre Pie
nella nostra città, nonché della festa di mezza quaresima, della Vecchia Mora, della
tradizionale Cena degli Apostoli): i quali riportiamo per curiosità su come i nostri
predecessori intendevano celebrare le festività a sollievo e diletto della popolazione nei
rispettivi tempi.
Cap. XXXII
In onore di Dio Onnipotente e della Beata Vergine Maria e del Beato Lituardo,
confessore e protettore della città di Corneto, decretiamo e diciamo che il Podestà e i
Magnifici Signori Priori siano tenuti e debbano sotto loro giuramento, far fare ogni anno
per la festa di S. Lituardo la corsa dell’anello nella piazza del Comune similmente alle corse
dei cavalli in onore di San Pancrazio, secondo l’uso, e chiunque può gareggiare; i
partecipanti ricevano ventiquattro bononini; e se i predetti Signori saranno stati negligenti,
paghino ciascuno la pena di otto carlini, da defalcare dal loro salario.
Cap. XXXIII
In onore di Dio Onnipotente, della Beata Vergine Maria, sua madre, e del glorioso
San Secondiano martire, protettore del popolo della città di Corneto, decretiamo e
ordiniamo che ogni anno, per la festa del santo, si corrano i palii dei cavalli e delle cavalle,
che debbono essere di razza; il palio dei cavalli è di cinque ducati di carlini e quello delle
cavalle deve essere almeno di tre ducati; un toro ai corridori a piedi nel consueto percorso;
per tale festa sia osservato quest’ordine: per primi corrano i ragazzi, per un denaro; subito
dopo, per tutto il Podiarello e per tutto il percorso ov’è la colonnetta, e sotto la via, verso gli
orti, non osi stare nessuna persona, nè cavalli o pedoni, nè grandi nè piccoli, nè cittadini o
forestieri, nè chicchessia, ma stiano nel campo che sta sopra la via: dopo di che i podisti
facciano la corsa per il toro; nessuna persona può entrare nella strada dell’intero percorso,
dopo che i podisti hanno cominciato a correre, nè deve mescolarsi fra i podisti in gara; ciò
sia fatto conoscere pubblicamente col bando da parte del signor Podestà; il quale, se avrà
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disatteso in alcuna parte di quanto sopra detto, stia alla stessa pena; dopo corrano i cavalli:
il primo, anche se senza fantino, abbia il palio e l’ultimo il gallo; e similmente nessuno
possa attraversare come sopra detto il percorso, alla stessa pena; né debbasi procurare
qualche impedimento a chi corre, sotto pena di due ducati; e se qualcuno dei corridori avrà
attraversato, al fine di accorciarlo, il percorso, non arrivando per il retto percorso, anche se
sarà stato primo, non debba ricevere il palio, ma paghi la pena di quattro carlini; nessun
corridore debba percuotere col bastone un altro concorrente o il cavallo; se avrà percorso,
sia punito come sopra, con la pena raddoppiata, anche se l’uno avrà arrecato ingiuria
all’altro; e detto cavallo non abbia il palio.
Cap. XXXV.
Decretiamo che ogni spesa debba essere fatta ad utilità del Comune di Corneto: per
cui il Camerlengo della Comunità non possa né debba spendere il denaro delle Comunità, a
richiesta di chicchessia, per la Festa della Natività del Signor Nostro Gesù Cristo, o fare
spese in cera, in fuoco, in vino e in qualsiasi altra cosa, se non quindici libbre di
consumazione: dodici libbre di ceri, dieci some di legna, un orcio di vino, non ostante
qualsiasi altra consuetudine fin qui tramandata per somma maggiore; e se il Camerlengo
avrà fatto le suddette spese, sia tenuto a ripagare di tasca propria; e non possa dare
incarico a chicchessia perché porti legna e ogni altro avere; i Magnifici Signori Priori siano
tenuti in detta vigilia a comunicare per mezzo del banditore in tutti i luoghi pubblici di
Corneto, con tempestività, che nella sera di detta vigilia, all’ora stabilita e consueta, tutti i
singoli Rettori, i Camerlenghi e i Consiglieri delle contrade stesse, debbano venire con i
Presbiteri e i propri parrocchiani al Palazzo della Comunità a prestare la dovuta
obbedienza ai Magnifici Signori Priori, com’è consuetudine, per la letizia e la venerazione
di detta Natività, come fin qui si è osservato: e se i Rettori, i Camerlenghi e i Consiglieri di
ogni contrada o delle contrade non verranno, per quell’anno non abbiano né debbano
avere dalla Comunità di Corneto il salario e tanto meno ottenere il loro premio in altra
maniera.
Cap. XLI
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Secondo la tradizione assai antica dei nostri antenati, quella cioè di celebrare, in
occasione della festa di S. Secondiano, insigne protettore di questa illustre città di Corneto,
dei magnifici festeggiamenti in sua lode e onore, noi che siamo, come discendenti, loro
testimonianza e prosecuzione, fin quando sarà consentito, delle loro egregie costumanze,
stabiliamo che l’Abate o il Rettore della Chiesa di S. Nicola o il fattore secondo l’antica
usanza, sia tenuto e debba dare un toro veloce, sano, animoso e indomito da scegliere fra
tutti gli armenti di Corneto a giudizio dei Magnifici Signori Priori: il suddetto Priore o il
fattore di lui sia tenuto, dopo la scelta del toro, a legare la bestia e così condurla nella
predetta Chiesa di S. Nicola, assicurandola precisamente alla colonna che si trova nella
piazza della suddetta Chiesa; e di là, così legata, donarla, trasferirla e assegnarla
solennemente ai Magnifici Signori Priori; se il Rettore, in tutto quanto descritto, sarà stato
negligente o manchevole, il signor Podestà sia tenuto, e lo deve sotto pena di maggiori
sanzioni e quindi di 25 ducati, a prestare ai predetti Magnifici Signori Priori consiglio,
aiuto e collaborazione perché si possa operare in modo che il suddetto toro, nel giorno
stabilito, sia acquistato a spese del surriferito Rettore; e gli stessi Magnifici Signori Priori,
non appena ricevuto il suddetto toro, lo facciano condurre nella piazza del Comune davanti
al Palazzo degli stessi Priori perché sia legato alla colonna di detta piazza nella vigilia della
festività; e nello stesso giorno e nella stessa piazza facciano fare la giostra. Nel giorno poi
della festività, facciano condurre lo stesso toro a Fontana Nuova perché sia legato alla
colonna che è prossima alla Fonte; e i corridoi a piedi disputino il palio che deve essere
assegnato al vincitore a lode di Dio onnipotente e di S. Secondiano, protettore della città di
Corneto; e in memoria di quella nobile Signora che lasciò i suoi beni alla Chiesa di S.
Nicola con questo legato.
Cap. LXXXVI.
Poi stabiliamo e fermamente ordiniamo che le ferie nelle cause penali, civili e
straordinarie siano così come vengono sottoscritte:
Circoncisione del Signor Nostro Gesù Cristo
Epifania del Signore
Purificazione della beata Maria Vergine
Annunciazione della divina Vergine Maria
Il venerdì santo
La festa della Santa Croce dei mesi di maggio e settembre
Natività di San Giovanni Battista
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San Lituardo confessore
San Lorenzo
San Secondiano martire
Assunzione della Beata Vergine Maria
Natività della Beata Vergine Maria
Festa di S. Michele Arcangelo dei mesi di maggio e settembre
Festa di tutti gli Apostoli
Festa di tutti gli Evangelisti
Festa di tutti i Santi
Commemorazione dei Defunti
San Martino vescovo
San Pantaleo
Natività di Nostro Signore Gesù Cristo
Santo Stefano protomartire
Festa dei Santi Innocenti
San Silvestro papa
Pasqua di resurrezione del signor Nostro Gesù Cristo con i due giorni che seguono
Ascensione di Nostro Signore Gesù Cristo
Pasqua di Pentecoste con i due giorni che seguono
Festa del Corpo di Cristo
Tutte le domeniche.
Nei quali giorni non si può procedere contro alcuno nè pronunciare condanna, e i
termini dati agli imputati o agli inquisiti non debbano scadere, eccettuati i casi in cui
qualcuno abbia, in detti giorni, commesso delitto o arrecato danno; nel qual caso questi
può essere accusato, preso e condotto nel Palazzo del Podestà come se il reato o il danno
arrecato fosse stato commesso in giorni non festivi, e possono essere ricevuti i fiedejussori.
Nelle cause civili inoltre siano osservate le ferie suddette e infrascritte, e i termini
dati agli attori e ai contenuti per fare qualche atto in Curia, non debbano scadere: e le ferie
infrascritte sono: Dalla vigilia di Natale del Signor Nostro Gesù Cristo fino alla Pasqua
Epifania inclusa
Sant’Antonio
Sant’Agnese
Conversione di S. Paolo
San Biagio
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Sant’Agata
Cattedra di S. Pietro
San Gregorio
San Giovanni in Porta Latina
San Pancrazio
Consacrazione di Santa Maria in Castello
San Fortunato
Santa Margherita
Santa Maria Maddalena
San Pietro in vincoli
San Domenico
Sant’Agapito
Assunzione della Beata Maria Vergine e tutta l’ottava
Sant’Agostino
Decapitazione di S. Giovanni Battista
Sant’Egidio
San Giuliano martire
San Girolamo
San Francesco
San Leonardo
SS. Salvatore
Consacrazione dei SS. Pietro e Paolo
Santa Cecilia
San Clemente
Santa Caterina
San Nicola
Sant’Ambrogio
Santa Lucia
Il primo giorno di Quaresima
Tutti i Venerdì di Marzo
I Venerdì di tutta la Quaresima
Sette giorni antecedenti e altrettanti seguenti la Pasqua di Resurrezione del Signor Nostro
Gesù Cristo.
In questi giorni non si può procedere, ma si possono fare le citazioni e ricevere le
testimonianze ed altro che viene consentito dal diritto della Comunità.
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I giorni nei quali si fa il Consiglio Generale.
I giorni nei quali vengono eletti i Magnifici Signori Priori.
DIARIO
Il 17 gennaio suol darsi principio alle maschere per tutto il Carnevale, eccetto il
venerdì e la domenica di ogni settimana, e la vigilia e festa della Purificazione di nostra
Donna.
Alle volte peraltro s’incomincia il Carnevale suddetto qualche giorno più tardi, e ciò
succede perché dal Governo di Civitavecchia non si spedisce subito al Giudice di Corneto,
l’ordine del Sovrano Pontefice.
Allorquanto è giunto il suddivisato permesso, si provvede subito ad ogni
inconveniente che possa nascere in tali giorni di carnevale, col prescriversi in un Editto
(dato dalla Cancelleria Criminale) il termine e forma per le maschere, ed altre baje
carnevalesche, secondo il volere dei Bandi Generali, per procedersi contro li trasgressori.
La copia di quest’Editto ad un’ora congrua vien pubblicato a capo della Piazza del
Magistrato dal pubblico Banditore a suono di tromba, e mentre dal pubblico Cursore si
affigge nei luoghi soliti della Città per regola di ciascheduna Persona, suona la Campana
grande del pubblico, e questo è il segno di poter fare liberamente le maschere, le
Commedite, i Festini. Nel Giovedì Grasso si fanno alla mattina delli Suffragi per l’anima
dei trapassati Confratri nella Chiesa di S. Giuseppe. Il giorno poi dopo il pranzo si dà
principio al divertimento dell’Anello, che ordinariamente si prolunga al Sabato, Lunedì e
Martedì ultimi del Carnevale, al quale effetto sono assegnati in Tabella Comunitativa scudi
20, pagabili dagli affittuari delle Mole: i quali denari s’impiegono nelli premi e nelle
merengole, che (terminato il primo divertimento) si gettano dalla Loggia del Palazzo
Apostolico in copiosa abbondanza, acciocchè da chicchessia si raccolgano, al fine di
lanciarle indosso liberamente a ciascheduna Persona di qualsivoglia grado e condizione si
sia. Questo barbaro spasso si prolunga fino alla calata del sole; e siccome bene spesso
cagiona delle ammaccature di viso, in tal caso sono gli Speziali obbligati a somministrare
gratis della Biacca agli Offesi.
Da questo, fino al primo giorno di quaresima, incominciano e durano le ferie nelli
Tribunali Vescovile, Laico ed Agrario. Nel corso poi dei giorni di Carnevale si dà principio a
due ottavari dei morti: il primo nella Chiesa di S. Croce per adempimento di un legato del
signor Domenico Fantozzini, uno dei Confratri di quella Congregazione, il secondo nella
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Chiesa di S. Giovanni Gerosolomitano all’altare del Crocifisso in suffragio delle anime dei
passati.
Nella Domenica Quinquagesima incomincia il giro delle quaranta ore per
l’esposizione del Venerabile, che ha principio dalla Cattedrale, dove intervengono
processionalmente i Curati con i respettivi loro Parrocchiani alla visita del S. Sagramento,
ciascheduno nelle ore e giorni assegnati.
E siccome son certo che da molti verrà gradito, che io vi porti qualche cosa intorno
all’Origine delle 40 ore suddette, sappino essi che le prime quarant’ore, e più antiche sono
quelle che in memoria del tempo che stette nostro Signore nella sua sepoltura, furono
istituite dal P. Giuseppe da Milano cappuccino, che fiorì e terminò di vivere nel 1596. Le
seconde sono quelle che altra volta facevansi ogni mese a Roma dalli Confratelli della
Compagnia dell’Orazione, o sia della Morte, ad imitazione del digiuno di 40 giorni che
nostro Signore osservò nel deserto, e così pure degli Apostoli e dei Padri della primitiva
chiesa, che pregavano senza intercessione. Queste furono confermate da Pio IV alli 4
novembre 1560 con sua Bolla, in cui si riconosce che i Confratelli della Morte, ad
imitazione del digiuno di 40 giorni che nostro Signore osservò nel deserto, e così pure degli
Apostoli e dei Padri della primitiva chiesa, che pregavano senza intercessione. Queste
furono confermate da Pio IV alli 4 novembre 1560 con sua Bolla, in cui si riconosce che i
Confratelli della Morte dimandarono licenza al Papa di portare il Venerabile in processione
(senza spiegarsi se ciò dovea essere portando il detto Venerabile scoperto, o pure coperto
dentro un qualche ciborio) la penultima domenica di ciascun mese, o un altro giorno,
nell’atto di cominciare l’Orazione delle 40 ore. E si vede che Pio IV non rispose loro nulla
su quest’articolo, segno evidente che non li fu grata la dimanda. Così tali preghiere non
furono istituite per causa pubblica, ma solo per soddisfare alla divozione particolare della
Confraternita della Morte. Le 40 ore di terza maniera sono quelle che si fanno tutto l’anno,
giorno e notte, incessantemente nelle chiese di Roma, di Milano e di più città. Clemente
VIII ne fu l’istitutore sotto il 25 novembre 1592 a cagione delle turbolenze della Francia e
per implorare l’assistenza divina contro gli Eretici e contro i Turchi. Pio V alli 10 di maggio
1606 fece continuare detta Orazione.
Nella domenica di settuagesima, si dà principio nella Chiesa di S. Giovanni
Gerosolomitano all’altare del Crocefisso ad un ottavario in suffragio delle Anime dei
trapassati Confratri della Venerabile Congregazione ivi eretta, sotto il titolo di Buona
Morte.
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Nella domenica di sessuagesima si dà principio nella chiesa di S. Giuseppe ad un
settenario in memoria delle Sette Allegrezze di quel Patriarca per divozione della signora
Rosa Avvolta Querciola.
Nel corso quaresimale, come ancora nell’Avvento, si predica ogni giorno nella chiesa
Cattedrale. L’elezione del sacro Dicitore per la quaresima appartiene al Reverendo
Capitolo, ed al Consiglio delli 13 di decembre, cioè: essendovi in Corneto quattro Conventi
di Frati di quattro Ordini differenti, cioè Agostiniani, Serviti, Minori Osservanti e Minori
Conventuali, il Consiglio suddetto concede a questi la Predicazione secondo la loro
antichità in Corneto, toccando però il primo anno al sopradetto Rev.mo Capitolo di
eleggere con particolare congregazione, a spese però della Comunità, un Predicatore a
piacere, essendo il più delle volte Prete. Il secondo anno eleggendo il Consiglio uno degli
Agostiniani: il terzo anno dei Servi di Maria; il quarto anno dei PP. Minori Osservanti; ed il
quinto anno (dopo il quale ha nuovamente principio l’Ordine sopraddetto) uno dei Minori
Conventuali; e ad ognuno degli eletti nei loro respettivi anni, compresovi ancora quello del
Rev.mo Capitolo, vien pagata dalla Comunità sopradetta la somma di Scudi 40.
Quanto poi al Predicatore dell’Avvento, è in libertà del suddetto Consiglio elegger
questo a piacere, ma delle quattro religioni indicate, avvertendosi che tanto i Predicatori
della Quaresima che dell’Avvento, non possono eleggersi per due anni avanti; ed ha il
suddetto Predicatore dell’Avvento da questo Comune la scarsa mercede di 12 Scudi.
Nelli giorni quaresimali di ogni settimana di domenica, mercoledì e venerdì, salvo
gli eccettuati ed impediti, il Predicatore ad un’ora congrua, passa a recitare le sue Opere
nella Chiesa di S.Lucia, alle sole Monache Benedettine, ricevendo in compenso da quelle
Scudi sei, e delle Paste per il panegirico di S. Benedetto.
Il lunedì primo di quaresima si apre la pubblica scuola.
Dal primo giorno in quaresima sino a tutto il Martedì Santo, verso la sera, si
recitano i Sette Salmi Penitenziali dalli Confratri del Gonfalone; del SS. Sagramento e
Morte; e da quelli di S. Maria del Suffragio nelli respettivi loro Oratori.
Tutti li mercoledì di quaresima, eccettuato quello della settimana Maggiore, si
cantano le lodi di Maria Vergine innanzi alla sua immagine nella Chiesa di Valverde per
divozione della Casa Monti.
Non compreso il Giovedì Santo, in tutti gli altri vi è l’esposizione del Venerabile, con
un discorso panegirico per ogni volta in suffragio delle Anime del Purgatorio, nella Chiesa
della Misericordia, per adempimento di un legato della Signora Prudenza Paris.
In ogni venerdì di marzo vi è il giorno la Via Crucis nella Chiesa dei PP. Minori
Osservanti di S. Francesco; terminata la quale, ivi si dà principio alla Divozione
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cognominata li Venerdì di S. Francesco di Paola nella sua cappella, e coll’esposizione del
Venerabile per divozione di Casa Mola, la qual funzione si esercita dal primo Venerdì
dell’anno, sino a tutto il Venerdì di Passione. Quindi si passa alla Chiesa dei PP. Minori
Conventuali all’acquisto delle Sante Indulgenze nell’esercizio divoto, e volgarmente
chiamata dalle parole dell’Immagine la Corda Pia; ove interviene una Confraternita per
venerdì, e non più tutte unite per gl’inconvenienti che ne nascevano a cagione delle
Precedenze: e datagli quivi la Benedizione col legno della SS. Croce all’altare del Crocifisso,
dove manda la cera il signor Alessandro Chiocca, ed a cui spetta la suddetta Cappella, la
Confraternita intervenuta ed il Popolo, si trasferisce alla Chiesa di S. Maria di Valverde,
ove all’altare della Vergine Addolorata si ritrova il Venerabile esposto per divozione della
Casa Petrighi, con il quale dà la Benedizione il Cappellano della Confraternita intervenuta,
il quale va sempre processionalmente con Essa. E finalmente si passa alla Chiesa di S.
Croce dove si fa una quarta Funzione coll’esposizione del SS. Sagramento, in adempimento
del legato di Maddalena Biancardi.
Ferie nei tre tribunali per tutti li venerdì’ di Marzo e della Quaresima.
In ogni sabato poi, fuori che in quello della Settimana maggiore, si cantano le lodi di
nostra Donna innanzi alla miracolosa Sua immagine nella Chiesa dei PP. Agostiniani per
divozione del signor Angelo e Sorelle Falgari.
Nella prima domenica di Quaresima vi sono le quarant’ore nella Chiesa della SS.
Trinità, di cui parleremo a suo luogo.
Nella seconda domenica poi, principiano le 40 ore suddette nella Chiesa di S.
Giuseppe.
Il Giovedì di mezza quaresima, egli è comune favoleggiare fra tutte le nazioni
cattoliche per sollievo dei Bambini, il dire che nella passata notte si segò la vecchia, quasi
per tal vecchia voglia intendersi l’austera secca quaresima, che per mezzo si divide in
quest’oggi. Tuttavolta in diverse città ragguardevoli si fanno altresì certi popolari
folleggiamenti che se fossero più moderati, potrebbe dirsi che siccome la Chiesa Santa
nella domenica quarta, che dicesi mediana, e Domenica di Laetare, si rallegra, e con un
lieto introito nella Messa, Laetare Jerusalem, annunzia agli afflitti a mezza strada delle
loro fatiche, la Pace del vicino riposo, così il Popolo voglia anticipare questo Giubilo,
scorgendosi alla metà del patimento che soffre nella penitenza, e ristorandosi nel meditare
la refezione che fece Gesù Cristo alle Turbe; ma a vero dire, sanno più tosto di Gentilesimo
che delle misteriose Allegrezze del ritorno del Popolo eletto dalla Schiavitù di Babilonia, e
del più misterioso ristoro delle Turbe saziate nel deserto dal Redentore nella prossima
quarta Domenica.
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Nella terza Domenica poi si dà principio all’Orazione delle quarant’ore nella Chiesa
della Misericordia, di cui ragioneremo a suo luogo.
La quarta Domenica di Quaresima si passa alle quarant’ore nella Chiesa di S. Croce.
E poiché questa Domenica perorano i Sacri Oratori a favore delle Anime Sante del
Purgatorio affinché verso di queste siano maggiori i suffragi, vanno questuando per la
Chiesa i sigg. Canonici deputati, e per la città tutta diversi Galantuomini, prescelti dal
Rev.mo Capitolo.
E perché questa Domenica appellasi ancora della Rosa, saper conviene che il
Sommo Pontefice in questa Domenica benedice una rosa d’Oro, facendone dono a qualche
Principe Cristiano, o Signoria benemerita della S. Sede.
Di questa benedizione della Rosa parlano diversi autori per istituto.
Il Sabato detto del Sitientes si tiene Ordinazione nella Chiesa Cattedrale, qualora il
Vescovo si ritrova in Corneto.
Incomincia il giorno nella Chiesa dei PP. Serviti, volgarmente chiamata la Chiesola,
un divoto settenario a Maria Addolorata per divozione del sig. Luc’Antonio Bruschi.
Verso la sera si canta solenne Compieta dalli Confratri delle Cinque Piaghe di Nostro
Signore Gesù Cristo nella Chiesa di S. Pancrazio, mentre nella Domenica seguente
celebrano la Festa delle suddivisate Sacratissime Piaghe con Panegirico ed indulgenza
plenaria.
Nel 1764, sotto il 4 di aprile, coll’autorità ordinaria di Mons. Ill.mo e Rev.mo Saverio
Giustiniani Vescovo di Corneto e Montefiascone, fu eretta nell’Altar Maggiore della Chiesa
di S. Pancrazio la Confraternita sopradetta sotto il titolo delle Cinque Piaghe di Cristo, la
quale sotto il 25 di maggio 1764 ottenne l’aggregazione all’Archiconfraternita della Basilica
dei SS. Lorenzo e Damaso in Roma.
***
La domenica di Passione principiano le 40 ore nella chiesa di S. Lucia, di cui
parleremo alle 13 di decembre. Questa devozione è detta ancora di Lazzaro. A questo Santo
si vedeva anticamente eretta in Corneto una chiesa nell’ingresso della Bandita di S.
Pantaleo. Ora se ne veggono le vestigia conservando tuttavolta quella contrada il vocabolo
di S. Lazzaro. Né qui voglio tralasciare di riferire, che nel 1452 un certo Cavaliere
napolitano venuto a Corneto, fece discorso di restaurare la chiesa suddetta, afferendo 50
ducati d’oro del suo, quando la Comunità avesse voluto impiegarvi altrettanta porzione di
denaro, ad effetto di erigervi lo spedale degl’Infermi del male volgarmente chiamato di
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Lazzaro, sotto il Governo di un Cornetano; ma l’offerta non fu accettata per dubbio che da
simil male non si causasse infezione nei sani della città.
Pretesero ancora li Cavalieri di SS. Maurizio e Lazzaro, che la selva di S. Pantaleo
fosse propria di loro, asserendo che l’antica sua denominazione era quella di S. Lazzaro,
ma ciò tutto fu vano, e di niuno loro vantaggio.
Il Venerdì di Passione si fa memoria dei Dolori di Maria sempre Vergine, e si va alla
chiesa dei Padri Serviti ed a quella cognominata S. Croce, non che al Ritiro dei Padri
Passionisti situato nella suddetta selva di S. Pantaleo. Della prima avremo a suo luogo
ragione. Della seconda, situata fuori della porta Clementina sotto il titolo di S. Maria del
Calvario, volgarmente Le Croci, poche memorie ne abbiamo, e da queste appena si può
venire in cognizione, che circa l’anno 1706 fosse edificata nel luogo il quale si dice Poggio
della Giustizia. Appartiene all’Università degli Osti di Corneto concessa loro da mons.
Bonaventura. Questi la mantengono coll’elemosine che ricevono nell’Osterie, amministrate
dal Camerlengo dell’Università sopradetta. Ogni tre anni alla presenza del Vicario
Generale, fanno l’estrazione dei nuovi Offiziali e del Camerlengo. I PP. Min. Oss. di S.
Francesco celebrano in questa chiesa le messe in tutte le domeniche, e nelli venerdì del
mese di marzo e nella solennità, che quivi si celebrano il giorno dell’Esaltazione della SS.
Croce e nel presente venerdì di Passione coll’esposizione del Venerabile, ed a spese della
Università sopraddetta. In queste due feste solenni si lucra in questa Chiesa
dell’Indulgenza Plenaria, e nelle Ferie Seste di Quaresima di sette anni d’Indulgenza, ed
altrettante quarantene. Non lungi poi dalla Porta Maddalena, sino alla Chiesa suddetta di
tanto in tanto si veggono situate delle Croci, che in numero di quattordici, rispondono alle
tante stazioni, alle quali concorre il Popolo per lucrare delle indulgenze nell’esercizio di
meditare la Passione di N.S. Gesù Cristo.
Del Ritiro dei Padri Passionisti è da sapersi che nel 1759 fu dal Consiglio Generale
accordato alli Padri suddetti di poter venire in Corneto. Inoltre che dal predetto Consiglio
nel 1763 ne fu concessa la facoltà di erigere il Convento nella selva di S. Pantaleo
denominata della Bandita: e quindi gli accordavano ancora nel 1765 quattro stara di
terreno adiacente in oggi al suddivisato Convento, con diverse condizioni accettate nel
1766, allorquando ne fu preso il possesso. Alli 16 marzo 1769 fu aperta la Chiesa, e
pubblicata Comodità, e benedetta dal Vicario Generale. Una compitissima lettera del P.
Paolo della Croce Preposito e Fondatore dei Padri della Passione di Gesù Cristo, si
conserva in segreteria magistrale, dove si legge una seconda dimanda di nuovo possesso
del suddetto terreno nell’anno 1769.
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Verso la sera si canta dalli Confratelli del SS. Sagramento e Morte, nella propria
chiesa denominata la Misericordia, solenne Compieta per la Festività del SS. Crocifisso,
che in essa Chiesa si celebra nel prossimo sabato di Passione, della quale immagine si ebbe
ragione il primo di giugno, nella guisa appunto, che a lungo discorreremo della
Confraternita e chiesa suddetta la domenica fra l’Ottava del Corpo di Cristo.
Il Sabato di Passione si danno ancora vacanze nella pubblica scuola fino al Lunedì in
Albis.
La Domenica delle Palme per tutte le chiese offiziate si dispensano le Palme
benedette. L’Eccelso Senato le riceve alla Cattedrale, dove si trasferisce, e sente la Messa
cantata. Quivi si predica il Giorno dopo Vespro, ed immediatamente si trasferisce il SS.
Sagramento in Processione, associato come nelle terze domeniche di ciaschedun mese, e si
dà principio all’Orazione delle 40 Ore per compiere il giro delle medesime. Le
Confraternite tutte vanno alla visita del Venerabile, ciascheduna peraltro nelli giorni ed ore
assegnate dal Maestro di Cerimonia del Duomo.
Da questa Domenica fino alla Domenica in Albis sono le ferie per tutti li Tribunali.
Dopo il pranzo si tiene una generale Congregazione dalli Confratelli di S. Giuseppe
per l’elezione dei nuovi Offiziali.
Questa Domenica delle Palme chiamata ancora nei rituali ecclesiastici la Pasqua
Fiorita o la Pasqua dei Rami, come scrive il Tommassini nel trattato delle Feste della
Chiesa, il quale in proposito della Settimana Santa dice che era in questi giorni osservato
dagli antichi Fedeli un Digiuno particolare, appellatto Xerophagiis, e fra gli altri molti
testimoni porta quello di S. Epifanio; e le costituzioni Apostoliche parlano nel medesimo
senso.
Chi poi desidera maggiori notizie di questa Domenica, come ancora di tutti gli
entranti Santissimi Giorni, potrà leggere a suo bell’agio i Rituali e gli Offici di questa
Settimana maggiore, non che l’eruditissima Opera del celebre sig. Abate Alessandro
Mazzinelli, il quale distese eccellentemente gli Argomenti di Salmi, le Spiegazioni delle
Cerimonie e delli Misteri, aggiungendovi ancora altre Sacre e Divote Osservazioni.
Il mercoledì Santo è propriamente affisso alla memoria del tradimento dell’Apostolo
infedele, e della vendita che fece del Redentore Maestro; perciò afferma il Durando che
questa quarta Feria viene privilegiata, dopo la Festa, da chi voglia digiunarla.
Il giorno si canta il Matutino a Duomo ed alle Chiese dei Regolari, delle Moniche, e
delle Confraternite del Gonfalone, del SS. Sagramento e Morte, e del Suffragio, facendo
ancora lo stesso negli altri seguenti due giorni.
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Verso la sera poi ad un’ora discreta si fa solenne processione dalli Confratelli della
SS. Trinità, i quali trasferiscono in una macchina di legno la statua del Redentore,
immaginata secondo le parole dell’Evangelista S. Luca : “et positis genibus, orabat
dicens - Pater, si vis, transfer calicem istum a me”. (vedendosi in aria a tale effetto
sospeso un Angelo con il calice in mano). “Apparuit illi Angelus de coelo confortans
Eum (che realmente si vede) et factus in agonia prolixius orabat. Et factus est
sudor eius, sicut guttae sanguinis decurrentis in terram”. Si crede ancora esser
copia del celebre quadro dell’Orazione all’Orto, che si vede in Roma nel Palazzo del
Principe Giustiniani.
A questa processione, come nelle altre seguenti, si veggono parecchi Fanciulli vestiti
a foggia di Angeli, i quali ricevono al fine in regalo un cartoccio di confetti, distribuiti
ancora agli inservienti della Processione; all’eccelso Senato che per un preventivo avviso
v’interviene con il Giudice locale; alla di lui Famiglia; al Cappellano della Confraternita,
che vestito dei sacri paramenti va nel mezzo del sopraddetto Senato; alli musici e cantori
del Miserere a concerto; e finalmente ad un altro Sacerdote parimenti vestito delli Sacri
arredi che invitato ha la pazienza di far recitare delli Rosari al numeroso Popolo che ha la
devozione di associare la medesima processione, la quale si trasferisce alla visita del SS.
Sacramento nella Cattedrale; nella chiesa dei PP. Agostiniani; in quella delle Moniche
Benedettine, dove entra la macchina; nella Chiesa di S. Giovanni Gerosolomitano; e
finalmente in quella di S. Francesco, prossima alla propria, detta della Trinità, dove
immediatamente si riconduce. Da ciascuna poi delle nominate Chiese entra il Magistrato e
Commissario con il Cappellano suddetto, il quale, dopo una breve visita, recita a bassa voce
Christus factus est con l’orazione Respice quaesumus Domine. Gli Officiali in fine
sono obbligati alla spesa degli enunciati confetti. Ed intanto si è creduto bene di fare la
presente descrizione per non ripeterla inutilmente in appresso.
E prima di passare più innanzi fa d’uopo sapere che simili Processioni si facevano
anticamente di notte, in cui si vedeva la mostruosità di qualche Confratello mascherato da
Cristo, e di altri simili assai più pazzi del primo, che per divertimento si percotevano a
sangue le spalle, nella maniera appunto che dalli Spagnoli si pratica in questi S. giorni, i
quali allorché giungono sotto le finestre delle loro ganze, ivi fanno stazione, e si danno un
centinaio di colpi di Disciplina presto presto ad onore e gloria delle medesime.
All’Ave Maria suona la campana Grande del Magistrato per la prossima solennità
della prima Pasqua.
Al Giovedì Santo si fa Pontificale la mattina alla Cattedrale, colle Cerimonie degli
Olii Santi (incontrandosi il Vescovo a Corneto) e del S. Sepolcro; il quale si venera ancora
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nelle chiese di S. Francesco, di S. Leonardo, delle Monache Passioniste, di S. Croce, di S.
Giovanni, di S. Lucia, di S. Antonio, di S. Marco, di S. Maria in Castello, di S. Martino, di S.
Pancrazio, del Suffragio e delli PP. Serviti.
L’eccelso Senato, con il Governatore locale, e Sua corte si porta ancor esso, invitato,
alle Sagre Funzioni nella Cattedrale suddetta, ove prende la Pasqua. Incontrandosi in
Corneto il Prelato, lava i piedi a dodici Poverelli con sacco bianco vestiti nella prefata
Chiesa matrice, al di cui cenno si legano tutte le campane della Città.
Il giorno si cantano i matutini nelle solite Chiese, e dalli Confratelli del Gonfalone, e
dalli Confratelli del Gonfalone si fa una seconda Processione, in cui si porta l’Immagine del
Salvatore flagellato, e mostrato così malconcio alle turbe. Questa si trasferisce alla visita
delli SS. Sepolcri nelle sole Chiese di S. Leonardo, di S. Francesco, del Duomo, di S. Marco,
di S. Lucia e di S. Giovanni Gerosolomitano, dalla quale subito ritorna nella propria Chiesa
di S. Croce, ove giunta si canta dal Cappellano il Vangelo Ante Diem ge e si lavano dalli
Offiziali li piedi a dodici Poverelli, i quali si conducono in seguito in una stanza contigua
alla chiesa, dove sta imbandita una lauta cena, fatta a spese della Confraternita in genere, e
delli Fratelli in particolare, che la dispensano gratuitamente ed egualmente all’indicati
poveri del Signore.
Ad un’ora discreta ancora la Confraternita delle Cinque Piaghe di Cristo, si porta
processionalmente alla visita di tutti quanti i Sepolcri.
A mezz’ora di notte si passa in Cattedrale ad ascoltare per mezzo del sagro Oratore
la Passione dell’Uomo Dio, la di cui Immagine sulla Croce distesa, e mostrata
preventivamente al Popolo ascoltatore dal Predicante suddetto, si adora, e si venera nella
Cappella maggiore, decentemente situata sul suolo.
In questa sera i Pizzicagnoli fanno magnifica illuminazione nella di loro Bottega
accomodata a disegno per mezzo dei salati, e simili altre materie di loro ispezione.
Il Venerdì Santo di buon mattino la Confraternita degli Umili, e quella del Suffragio,
si portano processionalmente alla visita delli Santi Sepolcri, cantando in suono lugubre la
Stabat Mater. Ancora le Maestre Pie fanno lo stesso in compagnia delle di loro scuolare
modestamente vestite, vale a dire con velo bianco e corona di spine al capo, cantanti
egualmente la Stabat Mater in italiano verso tradotta. Diverse Bambine vestite a guisa di
Angeli, e sostenenti ognuna di esse qualche istrumento della Passione di Cristo, rendono
più rispettabile questa Processione divota.
Ad un’ora discreta nelle chiese, ove si conserva il S. Sepolcro si fanno le solite
cerimonie; e nella chiesa matrice quell’elemosina che lassano i surriferiti Canonici
nell’adorazione della Croce in un tondino a tale effetto preparato, va in beneficio del
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Maestro di Cerimonie; come quella del Giovedì Santo, la quale passa in riscatto delli
Cattolici Schiavi nei Paesi dei Turchi.
Fino alla mattina nella Chiesa della Misericordia sta esposta alla pubblica
venerazione sopra di una macchia di legno la statua di Maria Addolorata a piè della Croce,
con il figlio morto alli piedi, la quale immagine è quella medesima di cui parlossi al primo
di Giugno. Le Maestre Pie con le respettive discepole, prima di ritornare alla propria
abitazione dalla visita delli S. Sepolcri, passano in questa Chiesa a venerare la Vergine ed il
Santissimo
Crocifisso,
che
nel
giorno
terminati
li
soliti
matutini,
si
porta
processionalmente per la città da quelli Confratelli, che in particolare si trasferiscono a
Duomo alla visita della Croce indicata nel Giovedì Santo, ed a S. Marco affine di baciarne la
Reliquia Santissima. Nel lungo tratto della medesima processione si canta dai Musici la
Stabat Mater concertata. Giunta di nuovo alla Chiesa si posa la macchina innanzi alla
Porta di quella per lo spazio di un Pater e un Ave, che recita il Popolo segretamente per
i bisogni spirituali e temporali della città, così raccomandato dal Cappellano della
medesima Chiesa. E terminata ogn’altra Cerimonia si passa alla Chiesa di S. Maria del
Suffragio ove sta esposto per divozione di quella Confraternita il Legno della SS. Croce, con
il quale, nominato l’Inno Vexilla si dà al Popolo la Benedizione che lo va in seguito
riverentemente a baciare.
Il Sabato Santo si fanno per le Chiese offiziate le solite Cerimonie prescritte dal
rituale, colla benedizione del Fonte nella Chiesa di S. Giovanni, ed in Cattedrale, la quale
dà il segno per lo scioglimento delle campane di tutte le Chiese.
Allo scioglimento suddetto finisce quel Digiuno che da certuni si pratica, e dicesi il
Trapasso, cioè Trapasso d’ogni sorta di cibo e bevanda dal punto che le campane si
legano nel Giovedì Santo sino a quest’avviso della Resurrezione del Redentore, che dà la
Chiesa coi suoi magri Metalli; e di tal maniera d’astinenza rigorosa, pare che parlasse S.
Epifanio.
Dal sopradetto Segno di Gioia si comincia oggi l’Orare in piedi, in memoria di Cristo
nostro Signore Risuscitato, siccome debbe praticarsi ogni Domenica: e vedine le misteriose
Osservazioni presso S. Agostino, S. Girolamo e Tertulliano ed anche il Decreto del Concilio
di Niceno, cap. 20. Tale Resuscitamento dalla colpa suppone la Chiesa ancora in tutt’i
Fedeli che orano dritti; giacchè l’orare in ginocchio, figura la nostra caduta per la colpa.
Callisto III concedette ai PP. Serviti di potere in tal giorno presso le loro Chiese
cantare la Messa alle 22 ore, e indi incoronare solennemente un’Immagine della Regina del
Cielo trionfante nel Trionfo del Divino Figliolo, vincitore della Morte e dell’Inferno. Ma
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S.S. Pio V giudicò abolire questo rito, onde rimane a quell’Ordine l’uso della sola
Incoronazione di nostra Donna.
E di fatti i nostri PP. Serviti, dimoranti in quel tempo nella chiesa di Valverde, ivi
celebravano una tal Messa, e forse fino all’abolizione indicata, dopo della quale
s’incominciarono a servirsi, come attualmente si servono, per quello che riguarda la
Coronazione di Maria sempre Vergine, dell’Opera delli Confratelli di S. Giuseppe, i quali in
questo giorno facendo una quarta Processione colla Statua di Gesù Cristo Risorto, si
trasferiscono alla Chiesa di S. Maria di Valverde, di cui a suo luogo avremo ragione, ove
giunti, pongono per mezzo di uno dei sopradetti Bambini vestiti da Angioli, una corona
d’argento sopra il Capo di quell’Immagine miracolosa, la qual corona, spettante alli
medesimi Frati, conducono per quell’Angeletto dalla propria Chiesa di S. Giuseppe, fino a
quella di Valverde, ove la lasciano nella descritta maniera. Questa Processione gira come le
altre, ed in segno di gioia si cantano dalli Musici le Litanie di Maria Vergine, concertate,
coll’aggiunta della parola alleluja.
In quest’oggi sogliono i Parrochi entrare nelle case tutte di loro giurisdizione affine
di benedirle, ed in quelle più bisognose lasciano delle elemosine in quatrini, provenienti
dalle questue fatte nel corso della Quaresima in Cattedrale alla Prediche, e giustamente
dispensati dal sig. Archidiacono alli suddetti Curati, che dalle case più comode in regalo
ricevono delli denari, e delle ova.
Sogliono ancora a piacere i Parrochi sopradetti raccogliere in simile circostanza il
numero delle anime, e ritirare a suo luogo e tempo i biglietti pasquali per procedere contro
dei Trasgressori.
Di questo giorno di Pasqua si fa Pontificale a Duomo alla Messa, ed al Vespro.
L’Eccelso Senato vi si porta tanto la mattina, che il giorno per corrispondere al gentile
invito, che fatto gli viene preventivamente dal reverendissimo Capitolo. Terminata dopo il
Vespro la Predica, si fa mostra delle SS. Reliquie, le quali tralascio ora di enumerare,
perché più cose mi richiamano indietro, cioé l’inveterato costume di farsi per questo
Giorno in Corneto delle Pizze veramente eccellenti, e di lessarsi delle Ova in copiosa
abbondanza: le quali cose tutte benedette da un Sacerdote, ciascheduno in casa propria ne
mangia, facendone ancora parte alli respettivi Famiglie ed Operai di Campagna.
In secondo luogo, la questua che da quattro deputati Patrizi si fa per la Città tutta in
favore del sig. Oratore, al quale appartiene ancora l’Elemosina solita della Predica di
questa Domenica di Pasqua.
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In terzo luogo, le varie composizioni Poetiche, fatte stampare dall’Eccelso Senato ad
onore del Predicante suddetto, le quali si dispensano in Cattedrale in tempo del Vespro, da
uno o due prescelti e supplicati Signori.
E finalmente l’istorica narrazione delle suddette Sacre Reliquie; che brevemente
sarò per stendere, alla di cui Solennissima Mostra vi si trasferiscono processionalmente le
venerabili Confraternite del Gonfalone, del SS. Sagramento e Morte; di S. Giuseppe; e della
S. Trinità. Le reliquie adunque che si conservano al Duomo, sono la maggior parte della
città di Palestrina. Il celebre cardinale Vitelleschi, dopoché ebbe arsa e distrutta quella città
superba e rubella alla Chiesa, ne fece il Glorioso trasporto a Corneto, sua patria. Ciò tutto
successe nell’anno di Cristo 1435. Intanto è necessario sapersi che in Cattedrale per
custodia delle Reliquie suddetta, vi sono due armari, le di cui chiavi si devono ritenere in
Segretaria Magistrale, conforme dalle notizie e memoriale della S. Congregazione dei
Vescovi, in essa gelosamente serbati. Per decreto ancora della S. C. de Reti, ha il diritto il
magistrato di ritenere una chiave delle Reliquie dei S. Protettori della città.
E terminata la suddetta solennissima Mostra, si passa subito dalle Confraternite e
Popolo alla Chiesa di S. Marco dove si dà la benedizione Papale, indicata alli 25 di Marzo,
quante volte il Vescovo non si ritrovi in Corneto.
E finalmente si va alla Chiesa di S. Maria di Valverde dove si cantano le gloriose sue
lodi, avanti alla di Lei scoperta miracolosissima immagine.
Il Lunedì di Resurrezione, Pontificale a Duomo, con la predica, la di cui elemosina è
del Sagrestano della Cattedrale.
Ad un’ora competente la mattina si porta privatamente l’Eccelso Senato e
Governatore Locale nella Chiesa di S. Maria di Valverde per l’estrazione delli nuovi Signori
della Festa, come più diffusamente al sabato della prima Domenica dopo Pasqua.
Il giorno poi dalli Confratri del Gonfalone e della SS. Trinità si celebra una generale
Congregazione per l’elezione delle nuovi Offiziali e nella Chiesa di S. Francesco de’ Minori
Osservanti, coll’intervento dell’Eccelso Senato da quelli Padri invitato, e delle Confraternite
come sopra, si mostra altre Reliquie. Delle quali tutte non se ne sa cosa alcuna, né si
veggono tra le altre Palestrinese Reliquie che sole si conservano nella Chiesa di S.
Francesco nella nicchia sopra all’altare maggiore, la quale nelle occorrenze si apre da tre
chiavi differenti, una delle quali ritengono i suddetti Padri dei Minori Osservanti, da essi
per supplica domandata al Consiglio, ed ottenuta dal medesimo, che nella stessa occasione
decise che le altre due chiavi si tenessero dalla Comunità o conforme il solito dal di loro
Cancelliere sig. Mattia Martellacci, la qual Famiglia presentemente ne ritiene una senza
alcuna giurisdizione o Consiliare Permesso.
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E passando al Martedì di Resurrezione, Pontificale a Duomo la mattina; ed il giorno
si passa alla chiesa de’ Padri Agostiniani, ove si cantano le Lodi di Maria, innanzi
all’Immagine sua miracolosa, alla quale funzione intervengono ancora le Confraternite
sopraddette che in simili giornate si portavano anticamente alla Visita delle Sette Chiese.
La Domenica in Albis così è detta dallo spogliarsi degli abiti bianchi di quei che
furono battezzati il Sabato Santo.
Oggi si celebrava la festa con la pubblica Fiera, nella Chiesa di S. Maria del Mignone.
Il solennizzarsi presentemente nella Domenica terza dopo la Pasqua di Resurrezione, mi fa
credere che ciò succedesse nell’antica e non mai nella Chiesa moderna nuovamente eretta
vicino al Fiume Mignone, da Francesco Fani nell’anno 1653, sotto il Titolo di S. Maria della
Redenzione de’ Schiavi e di S. Francesco d’Assisi; la qual chiesa appartiene oggi alla Casa
Soderini di Roma, che comprò ancora le Mole e gli adiacenti terreni; e nella quale si
celebra ogni Festa la messa, da qualche Sacerdote, che vi spedisce il Ministro in Corneto
delli suddivisati Conti Soderini.
Ed in proposito dell’antica Chiesa di S. Maria di Mignone, situata di qua del fiume
che Mignone si noma (la di cui pesca si vendeva fino al 1288) esistente ancora vicino alle
selve dell’Allumiere, se ne ha memoria fino dall’anno 766 (Registro Farfense n. 62). Il
Monastero ed il Cenobio dei Monaci era di S. Benedetto, soggetto al Cenobio Farfense sino
all’anno 801 (e Rg.Farfense n. 288). Alla suddetta Chiesa di S. Maria di Mignone erano
unite le Chiese di S. Pellegrino, di S. Anastasio, di S. Pietro e di S. Angelo negli anni 1011,
1017, e 1073 (Reg. Farfense n. 636, 538, 1010). Avanti l’anno 1051 (Reg. Farfense n. 855)
verteva una certa controversia tra il Cenobio Farfense e quello di S. Cosma di Roma sopra
la pertinenza di S. Maria del Mignone, e delle altre chiese della città di Corneto. Negli anni
1019, 1027, 1050, 1065 e 1084 (reg. Farf. n. 558, 707, 909, 980, 400), si ha parimenti
memoria di questa Chiesa, la quale nell’anno 1083 (reg. Farf. n. 1077 e 1079) e negli anni
susseguenti fu soggetta a delle barbare incursioni, per le quali restò demolita e distrutta.
Dalla partenza dei Monaci sopraddetti si vive affatto allo scuro. Solo sappiamo di certo che
il Pontefice Eugenio IV di felice memoria concesse nell’anno 1435 alla Mensa Vescovile di
Corneto i Beni di S. Maria sopradetta, di S. Savino ed il Beneficio di S. Nicolao.
Si crede che in questa Chiesa vi fosse una Pittura rappresentante un Angelo che
consegna all’Eremita Sansone lo stendardo chiamato Orofiamma, supponendosi che tale
Eremita quivi stanziasse e che questo consegnasse detto Stendardo a Fiovo creduto
Costanzo figlio di Costantino magro, e nepote dello stesso eremita immaginato fratello di
Licinio Imperadore. Ma ciò è tutto falso perché l’insegna d’Orofiamma fu dono celeste a
Clodoveo battezzato da S. Remigio e chiamato in seguito Luigi, venuto alla fedele per opera
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di Clotilde sua moglie e per la miracolosa vittoria ottenuta contro gli Alemanni. In
quest’oggi si aprono i tre Tribunali soliti.
Il Sabato che precede alla seconda Domenica dopo Pasqua di Resurrezione, si
cantano i primi Vespri Solenni nella chiesa di S.Maria di Valverde.
Nel secondo giorno di Pasqua di Resurrezione avanti il mezzo dì, si porta
privatamente l’Eccelso Senato nella suddetta Chiesa di S. Maria di Valverde, ove ascolta
una messa letta, e dove (premessa l’invocazione dello Spirito Santo) elegge i Prefetti,
volgarmente detti i Signori per la Festa dell’anno futuro.
Questa elezione o per meglio
dire estrazione di nuovi prefetti, cade sopra di tre differenti Università che non vestono
Cappa, la prima delle quali è tanto dei Rustici quanto dei Cittadini, che sogliono o fanno
composta, che possiedono vacche, e simili altri bestiami; la Terza finalmente dei Casenghi,
che vien formata da Genti Gregarie, le quali possiedono dei Giumenti da Basto. Da queste
Università se n’estraggono quattro per sorte, i quali tutti devono senza meno accettare la
carica, e ripartirsi l’obblighi a cui son tenuti, non che portare in Segreteria Magistrale il
giorno 20 di Marzo scudi 5 per ciascheduno Prefetto, i quali costituiscono la somma di 60;
che le suddette Arti impiegono per questa Festa, ed in mancanza son soggetti alla
spedizione della manureggia. La comunità ancora spende altri 60 scudi che fanno in tutto
la scarsa somma per una Festa solenne di 120, da impiegarsi in tre cerii di Libra, ed in altra
simile di tre Libra a cagion delle Offerte, in 18 candele da 4 oncie per ardere sopra gli altari
dell’Università sopraddette in tempo delle tre messe; in altre sei candele da 4 oncie, che
nelli medesimi altari devono stare accese nel tempo della Messa solenne; in quattro altre
Candele da 3 oncie, che devono ardere innanzi delle reliquie; in 5 di elemosina alli Padri
Serviti per le tre Messe alle Arti, e per il settenario da incominciare il giorno dopo la Festa;
e finalmente in altri leciti e onesti divertimenti, e non in bagordi come succedeva da prima.
In occasione poi che dalli Prefetti si paga in Segreteria la propria tangente. ivi si lassa da
loro il riparto delle Persone, che in ciascheduna delle tre rispettive Università devono avere
il Biscotto. Alli custodi degli altari estratti parimenti dal Popolo, che ritengono i Padri
Serviti, le di cui chiavi peraltro esistono nella Segreteria Magistrale, spetta continuamente
tenere accomodati i respettivi altari, dei quali i più nobili arredi in Comunità si
conservano. Ognuna delle tre Università spende del proprio per la conservazione dei
medesimi; i quali denari si defalcono all’occasione dalli 60 che devono sborsare in
ogn’anno. Le priore estratte come sopra devono imbiancare le tovaglie; e tener politi gli
altari, in ognuno dei quali vi deve essere la Tabella in cui si legghino tutti i Confratrii
separatamente che compongono le tre Università differenti. I Padri Serviti pensano per
l’altare maggiore.
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La seconda Domenica dopo Pasqua si celebra solenne Festa a Valverde, dove il Clero
ed il Magistrato col Vescovo si trasferiscono, seguendo l’Ordine sopracitato. Ancora le tre
Università in questa mattina sono obbligate di trovarsi nella pubblica Piazza maggiore,
affine di corteggiare a cavallo l’Eccelso Senato fuori che quella degli Aratori, la quale a
piedi lo va accompagnando coll’altre alla Chiesa di S. Maria di Valverde, e da questa al
Luogo di sua residenza. Secondo l’antico costume vengono prima i Bifolci, poscia i Vaccari,
e finalmente i Casenghi, ricevendo la destra mano dai vecchi i nuovi estratti Perfetti; i
primi dei quali (nell’anno che fanno la Festa) sostengono un vessillo per cadauno allusivo
alla propria professione, che fino dal bel mattino si veggono spiegati fuori del Palazzo
Apostolico, dove gli enunciati Prefetti li collocano, dei quali i secondi come sopra portano
l’indicato cerio di libbra. L’incombenza poi delle terzi, e dei quarti ella consiste nel notare i
mancanti alla cavalcata per darne subito conto all’Ill.mo Magistrato, acciò faccia pagare alli
trasgressori la pena di Paoli 3 per ciascuno d’applicarsi in beneficio della propria Cappella,
dalla qual pena sono bensì esenti quei Tali che in primo luogo mandano il cambio, essendo
lecito cavalcare ancora tra li Bifolci o il respettivo Capoccia, o in sua vece il Bifolco.
Anticamente accompagnavano ancora l’Eccelso Senato i Barbareschi con propri cavalli da
correre in questo giorno. L’ordine del suddetto accompagno egli era ancora nei secoli
trapassati molto dissimile da quello che ai nostri giorni si pratica; imperciocchè i Prefetti
delle Università sopraddette seguivano a cavallo l’augusto Senato, il primo dei quali
portava i respettivi vessilli delle tre società differenti, il secondo un solo cerio di tre libbre,
che a nome offeriva dalle Università sopraddette; e gli altri poi tutti sopra delli propri
cavalli sino al numero di trecento, corteggiavano l’Eccelso Senato colle spade nude sopra le
mani.
Nel tempo adunque che si celebra solennemente la Messa all’altare della Madonna,
si dicono contemporaneamente tre altre messe private negli altari spettanti delle tre
Università sopradette, che l’ascoltano insieme con i rispettivi Loro Prefetti, i quali fanno
l’offerta del Cerio, baciando poi tutti la Reliquia esposta in ognuno degli altari indicati. Da
prima solamente baciavano al Sacerdote il manipolo, ed offrivano solo cerio di tre libbre.
Le Università poi sopradette accompagnano l’Eccelso Senato al Palazzo suo priorale,
fanno tre giri all’intorno della maestosa Fontana eretta l’anno 1724; e quindi passano a
prendere i Biscotti dalli Prefetti secondo il fatto ripartimento in segreteria magistrale, e
lassano ai primi Signori estratti per la Festa dell’Anno futuro, la respettiva Bandiera, i quali
devono dare alla Priora il Biscotto.
Immediatamente nel giorno dopo della Festa descritta, si dà principio ad un
ottavario divoto coll’esposizione del Venerabile nella predetta Chiesa di S. Maria di
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Valverde. Quest’esercizio fu introdotto dal P. M.ro Fabiani da Corneto Servita; si faceva da
prima per divozione dei particolari Fedeli divoti di quella Sacra Immagine. In oggi per il
medesimo si spendono, come si detto, scudi 3 da consegnarsi all’indicati servizi, tanto dalla
Comunità che dalli Signori Prefetti. Il sopradetto Padre Fabiani ottenne dal Sommo
Pontefice Benedetto XIV l’indulgenza plenaria, da lucrarsi dalli Fedeli nell’intero corso di
questo ottavario. Vi è ancora nell’ultimo giorno di questo divoto Esercizio la benedizione
Papale, per grazia ottenuta, ed in simil giorno fissata dal predetto Sommo Pontefice, che
per la prima volta fu data in questa chiesa di S. Maria di Valverde sotto li 3 di maggio 1748.
Nel giorno ancora della Festa vi è l’indulgenza plenaria concessa dal regnante Pio VI
li 2 maggio 1778 con suo particolare rescritto da riconfermarsi di sette in sett’anni.
Prima di questa concessione si attaccava ancora la tabella dell’indulgenza sulla
supposizione che l’indulgenza concessa dal Pontefice Alessandro VI sotto li 6 aprile 1494
fosse perpetua, ma essendosi scoperto che era ad terminum, senza alcuna conferma, fu
procurata dall’Ill.mo Magistrato l’indulgenza suddetta dal regnante Pio VI.
In occasione ancora di questa solennità principale, evvi in Corneto la Fiera che
principia quattro giorni avanti, e termina quattro giorni dopo la Festività sopradetta. Il
celebre Cardinale Vitelleschi concesse alla Città questo nobile privilegio il giorno secondo
di maggio 1436. Si faceva anticamente in ogni anno sotto li 20 di maggio, in cui si celebra
la consacrazione del Tempio di S. Maria in Castello. Era abbondante in quei tempi d’ogni
sorta di merci, ed ogni genere di bestiame, il campo dei quali era al di là del Ponte della
Marta sopra strada verso la Città di Toscanella.
Pio II ad istigazione dei Cornetani supplicanti, la trasferì nel 1460 a dopo l’ottava
della Festa di Maria Vergine di Settembre, cioè a dopo la Fiera di Viterbo, da quattro giorni
già terminata. Ma all’impensata, l’indicato Pontefice dodici giorni dopo conceduta la
grazia, la rivocò e commandò espressamente che non s’innovasse cosa alcuna e che si
facesse la Fiera conforme il solito, cioé sotto li 20 di maggio, con franchigia e sicurezza di
Dazi e Gabelle e di qualsivoglia delitto da concedersi o con lettere o a bocca del Magistrato,
eccettuati i ribelli e nemici di S. Chiesa; gli assassini, e gli Omicidiari della Città conforme
vuole il Privilegio dal Vitelleschi concesso. In occasione poi che Alessandro VI per la via di
Viterbo e di Toscanella si trasferì in Corneto sotto li 5 settembre 1493, tra le grazie che
gratuitamente concesse alli supllichevoli Cornetani, il prelodato Sommo Pontefice si
annovera ancora quella di farsi la Fiera in occasione della descritta Festa di S. Maria di
Valverde, ed in quella circostanza concesse ancora l’indulgenza plenaria per il giorno della
seconda Domenica dopo l’Ottava di Pasqua di Resurrezione da valere per soli 3 anni,
promettendo in seguito che passato l’anno del Giubileo prossimo futuro, l’avrebbe
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accordata perpetua. Allora fu che si diede principio a tenere le Merci esposte dalli
respettivi mercanti (come in oggi si seguita) dal Palazzo del Magistrato fino a Valverde. Il
Campo poi del Bestiame bravo era nel Poggio della Giustizia e del Duomo nell’Oliveto sotto
la medesima Chiesa di S. Maria di Valverde.
Parleremo
della
Processione
Cornetana,
premessa
prima
una
necessaria
osservazione, cioè che tanto rispetto si avea da fedeli altra volta a queste tre giornate, che
come festive solenni si celebravano: parte dunque in questa prima mattina dalla Cattedrale
la Processione composta dal solo clero regolare e secolare, in cui si trasferisce sotto il
Baldacchino il Legno della SS. Croce, la quale uscita la Porta, che dicesi della Valle, fa la
prima posata nella Chiesa di S. Maria di Valverde, ove cantata l’antifona pasquale Regina
Coeli, passa a benedire le campagne che si veggono di prospetto alla Chiesa di S. Maria in
Castello, in cui fa la seconda posata, e dalla quale (cantata l’antifona di S. Francesco di
Assisi) fa il suo ritorno alla Cattedrale.
E qui parrebbe che dovesse aver luogo una istorica narrazione del vastissimo e
fruttifero Territorio della Città di Corneto, non che delle Porte ed altro, che in questa
circostanza riferir si potrebbe; ma basta quel che di ciò si è scritto nel primo Tomo del
presente Diario.
Il Martedì delle Rogazioni si benedicono le campagne che si presentano avanti alla
chiesa di S. Maria delle Carceri fuori della Porta Nuova, fermandosi prima la Processione
nella Chiesa di S. camente si ferma, ed è questa Chiesa di Jus Padronato di Casa Tassi.
Il Mercoledì delle Rogazioni si dà la benedizione fuori della Porta Nuova,
fermandosi prima la Processione nella Chiesa di S. Croce, ove si canta l’antifona propria; e
nella Chiesa di S. Francesco, dove appunto si canta l’antifona di quel Confessore.
In questi tre giorni si osservano le Ferie nelli sopradetti tre Tribunali.
Il giorno a vespro si fa Pontificale al Duomo.
L’Ascensione del Signore al Cielo, si fa Pontificale alla Metropolitana a Messa,
coll’intervento dell’Eccelso Senato, ed a’ vespri.
Si solennizza pure questo mistero nella piccola Chiesola, esistente nella vigna del
sig. Pietro Petrighi, all’Ascensione medesima dedicata.
Ancora nell’altra Chiesola situata vicino al Porto Clementino, e dedicata a S. Ferma,
si celebra parimenti La Festa dell’Ascensione del Signore. Questa Chiesa fu eretta a spese
della Reverenda Camera Apostolica che ne ha il jus Padronato, ed alla quale spetta di
provederla di Cappellano in beneficio dei Pescatori e naviganti, acciò possino confessarsi
ed ascoltare la Messa ogni giorno festivo dell’anno. A questa Festa concorre una buona
parte degli abitanti del Paese non perché la divozione colaggiù li trasporti; ma per
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straviziare col vino navigato, che a questo tempo vi è in copiosa abbondanza in quelle
medesime spiaggie.
Il Sabato precedente alla Pentecoste, vigilia; e Pontificale a Duomo colle solite
Cerimonie del Sabato Santo, ove suol tenersi dal Prelato (quando si ritrova in Corneto)
l’ordinazione. Pontificale pure a’ vespri.
Feria fino a tutto il terzo giorno di Pentecoste nelli soliti tre Tribunali.
Per nove giorni avanti a questa Solennità, si fa la novena dello Spirito Santo
coll’Esposizione del Venerabile nella Chiesa di S. Lucia e della Presentazione a spese dei
Monasteri.
Ancora nella Chiesa di S. Pancrazio si celebra un Divoto Settenario coll’Esposizione
del Venerabile ad onore del Divino Spirito Paracleto; e ciò per elemosina dei devoti Fedeli.
Ad un’ora poi competente, dopo il pranzo, si trasferisce privatamente l’Eccelso
Senato al magnifico Edifizio delle Mole, in compagnia dei Soprintendenti alle medesime,
che si eleggono nel general Consiglio delli 13 di dicembre, per ivi assistere all’alzata delle
Cataratte, solita farsi ogni anno in questo medesimo sabato, affine di potere nei
susseguenti tre giorni festivi adagiamente e sicuramente ripulire la Lega e riattare le Mole.
***
Un divertimento che seguitò fino a non molto tempo indietro e che s’intrecciò con
delle tradizioni popolari è il solco a tutti noti, spesso ricordato nelle conversazioni
famigliari.
L’Università dei Bifolchi o Aratori pensava a dare questo divertimento. Il giovedì o
venerdì dopo la domenica di Pasqua, i signori dell’Arte dei Bifolchi scavavano un solco
lungo circa tre miglia partendo dalla porta principale della Chiesa di Valverde e
giungevano fino al mare, ad un segno determinato. E poiché ogni anno si teneva diversa
via, si cercava di passare per quella parte dove il grano sembrava più bello e rigoglioso, e
per non deviare nemmeno un palmo dalla retta linea, si tagliavano alberi, si demolivano
muri di orti e di vigne. Nessuno si lamentava di questi danni sia perché questa libera
facoltà di procedere era invalsa per consuetudine e anche perché si sperava dal passare del
solco, colla benedizione di Maria SS., una messa più abbondante, e si credeva un augurio di
più felici vicende per l’avvenire. E questo veniva provato da una tradizione immemorabile
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che narrava non aver mai sofferto pregiudizio alcuno nella raccolta del grano i padroni di
quei campi per dove era passato il solco.
Il solco doveva terminare il sabato seguente prima che cominciasse la solenne
processione della sera, vigilia della festa.
Il solco che solevasi fare nella circostanza delle feste popolari della Chiesa di
Valverde al mare, in memoria, come dicevasi, della via che percorse l’Immagine quando
venne a Corneto, non ha però alcuna forza di verso argomento. Non può negarsi che il
popolo sia solito creare attorno a un fatto talvolta semplicissimo delle appendici più o
meno strane da travisare spesso il fatto medesimo. E passando di generazione in
generazione il fatto si confonde da mettere lo storico nell’impossibilità di riconoscere la
storia. Nulla di tutto questo si ha nella tradizione: forse tale leggenda l’ha fatta creare
l’oscurità dell’origine.
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