AI SOCI E AGLI AMICI DELLA SOCIETA` TARQUINIENSE D`ARTE E
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AI SOCI E AGLI AMICI DELLA SOCIETA` TARQUINIENSE D`ARTE E
AI SOCI E AGLI AMICI DELLA SOCIETA’ TARQUINIENSE D’ARTE E STORIA Al compiersi del quarto anno di attività della Società Tarquiniense d’Arte e Storia siamo lieti di poter presentare ai Soci ed agli Amici il nostro BOLLETTINO annuale. Le manifestazioni svolte nell’anno 1975 sono state molte, e con piacere abbiamo notato un crescente interesse verso di esse. Personalità ben note per la loro dottrina e per il loro prestigio ci hanno onorato con la loro attiva partecipazione, intrattenendoci con dotte Conferenze e simpatiche Conversazioni che ci hanno fatto meglio conoscere la storia e capire i Monumenti e la vita della nostra Città attraverso i secoli. A tutti desideriamo porgere i nostri vivi ringraziamenti, con l’augurio di poterli ascoltare ancora in altre occasioni. Il P. e Enrico Zoffoli, Passionista, profondo studioso della vita di S. Paolo della Croce e della Storia dei Passionisti, ci ha parlato del primo Monastero delle Monache Passioniste, fondato nella nostra Città da Paolo della Croce. Da questo, che può ben dirsi la Culla delle Congregazioni delle Passioniste, sono partite le Religiose che hanno portato il nome di Corneto nelle nuove Fondazioni in Italia, in Europa e nelle Americhe. Il Prof. Romolo Staccioli, nella Conferenza “Incontri e scontri tra Tarquinia e Roma”, ci ha parlato dei rapporti e delle vicissitudini non sempre pacifiche occorse tra le due Città negli ultimi cinque secoli prima dell’Era Volgare. Non è mancato alle nostre manifestazioni il contributo del concittadino arch. Renzo Pardi, Soprintendente ai Monumenti della Lombardia. La sua illustrazione del grande Tempio di Santa Maria in Castello ha fatto rivivere dinanzi a noi la vicenda della monumentale Costruzione con rilievi e dettagli che ci hanno fatto comprendere l’architettura originaria dell’Edificio, non sempre intuibile a causa delle manomissioni verificatesi durante la sua storia millenaria. Ancora, per quanto riguarda Tarquinia, l’arch. Leonardo Proli, anch’esso nostro cittadino, in una sua lucida Conferenza ci ha parlato del nostro Palazzo Comunale e delle sue trasformazioni. Questa Conferenza ha aumentato in noi il desiderio che possa finalmente essere portato a termine il restauro di questo Edificio, unico nel suo genere, che costituirà, con il Palazzo Vitelleschi, un altro Monumento di grande interesse nella nostra Città. Ci auguriamo che la Soprintendenza ai Monumenti del Lazio possa continuare nell’opera iniziata, e per questo facciamo appello all’illustre Soprintendente prof. Giovanni Di Geso. 1 Il Prof. Guglielmo De Angelis d’Ossat ci ha presentato una “Tarquinia Città esemplare nel Medio Evo”, descrivendo le evoluzioni sociali, urbanistiche ed architettoniche di Corneto. La sua Conferenza, però, insieme a quella del prof. Mario Moretti, potremo pubblicarle solo nel Bollettino del 1976. Anche il Prof. Moretti infatti è stato tra noi per parlarci, con la sua competenza, sulle più recenti scoperte etrusche di Cerveteri, Feronia, Ferento etc. avvincendo il numeroso uditorio con la sua facondia e con la freschezza delle immagini. Siamo grati al Prof. Moretti anche per aver accettato di guidarci nella visita alla Necropoli di Cerveteri, che è stata meta di una nostra gita culturale che ci ha condotti fino a Bracciano al Castello degli Odescalchi. Abbiamo infine voluto procurare ai nostri Soci ed Amici un momento di godimento spirituale di eccezione, promovendo l’esecuzione di un concerto vocale nella Chiesa di S. Francesco. Il “Coro dei Maestri Cantori Romani”, diretto dal Maestro Laureto Bucci, ha eseguito con rara perizia musiche polifoniche riscuotendo il più ampio consenso dal numeroso pubblico intervenuto. Desideriamo ringraziare il caro Maestro Bucci ed i suoi validi collaboratori e speriamo che questo incontro possa ripetersi. La nostra Società ha anche collaborato ad iniziative e manifestazioni di altri sodalizi mettendo a disposizione l’Auditorium di S. Pancrazio, nel quale si sono anche svolte mostre del Club Filatelico-Numismatico e dei pittori Gin Torres, Anna Maria Balucani Moretti, Miralli, Balduini, Alfieri ed altri, per i quali tutti formuliamo i migliori auguri. Abbiamo dato anche la possibilità ai nostri Soci e alle loro famiglie di conoscere le bellezze naturali ed artistiche di alcune parti d’Italia. In questo anno infatti abbiamo organizzato anche una gita in Abruzzo ed un’altra in Puglia, ciascuna della durata di 5 giorni. L’anno 1975 è stato anche anno del Giubileo, che ha visto confluire a Roma moltitudini da tutti i continenti. Anche un gruppo di nostri soci ha voluto compiere il suo pellegrinaggio nella Città Eterna. Dopo aver adempiuto alle pratiche religiose nella Basilica di S. Pietro, hanno potuto visitare e ammirare le bellezze dei Giardini Vaticani. Le iniziative e le manifestazioni non sono state dunque poche, e desideriamo esprimere il nostro ringraziamento e il nostro plauso ai Soci ed agli amici che hanno voluto parteciparvi, perché la loro presenza non solo è stato motivo di soddisfazione per noi, ma anche di incoraggiamento e di stimolo a intensificare sempre di più la nostra azione. Di un’altra importante iniziativa del nostro Consiglio Direttivo vogliamo ora informarvi, la pubblicazione a stampa delle “Cronache Cornetane” del Canonico Muzio Polidori. 2 Abbiamo potuto mettere insieme i tre volumi delle “Cronache Cornetane”, di cui tanto si è parlato e che sono state notoriamente la fonte di informazione di tutti gli studiosi che si sono occupati della storia di Corneto. Sarà un lavoro non facile e che richiederà del tempo, perché si tratta di trascrivere tre grossi volumi manoscritti sulle cui pagine l’usura del tempo ha purtroppo lasciato i suoi segni. Il lavoro di trascrizione è già a buon punto e ci auguriamo di poter completare la redazione del testo definitivo entro il 1976. Le spese per la trascrizione e per l’edizione tipografica saranno notevoli, ma non disperiamo di trovare mecenati che vorranno far questo dono alla Città di Tarquinia. Altra iniziativa, che chiameremo di Storia minore, riguarda le ricerche che qualche Socio sta compiendo su vecchie carte, raccogliendo documenti, memorie e dati che serviranno a farci conoscere tante notizie circa la vita dei Cornetani nei secoli passati. Un primo saggio è già contenuto in questo bollettino. Con la necessaria discrezione e prudenza abbiamo infine incominciato a ricercare, fotografare e catalogare quegli oggetti, conservati in vari luoghi di Tarquinia, che hanno un valore storico e artistico notevoli. Potrebbe essere un primo passo per la eventuale creazione di un Museo medioevale cittadino. E’ un nostro desiderio, e se sono rose fioriranno! Abbiamo finito; qualche amico potrà dire che forse la S.T.A.S. vuol fare troppo. Certamente questo non è il nostro intendimento, anzi vogliamo lavorare modestamente ma con perseveranza, essendo convinti che i problemi da risolvere nel nostro campo sono molti. Noi ci sentiamo stimolati a muoverci e ad operare nella speranza che altri, compresi della bontà della nostra azione e della validità delle nostre iniziative si uniscano con spirito di collaborazione per realizzare quel che è possibile di buono, di utile e di decoroso per la nostra Città. Quanto tempo libero dei nostri giovani potrebbe essere così impiegato e utilizzato! E’ una semplice esortazione e una richiesta che rivolgiamo ai giovani stessi nell’interesse di tutti i cittadini. Da ultimo inviamo a tutti i Soci e a tutti i nostri Amici un cordiale e grato saluto. 3 La Chiesa di S. Maria in Castello a Tarquinia, dalla fondazione alla consacrazione L’articolo di Guglielmo De Angelis d’Ossat sulla distrutta “cupola di Castello” a Tarquinia (1) mi ha offerto lo spunto per una rilettura della letteratura riguardante la S. Maria in Castello, non che per una ulteriore riflessione su alcune anomalie dell’organismo della monumentale chiesa (2) . Quando, or sono circa vent’anni, eseguii il rilievo dell’edificio, mi accorsi che la cupola suaccennata, con i suoi pennacchi sferoidici (3) , gli archi a sesto acuto e le quattro colonnine diagonali di sostegno all’intera struttura, erano frutto di aggiunte effettuate all’ultimo momento: infatti le citate colonnine diagonali presentano un diametro di cm. 26, a differenza delle altre il cui minimo diametro è di cm. 34; inoltre esse sono sormontate da capitelli di stile gotico e non romanico. Il De Angelis d’Ossat nel sopra richiamato articolo ha stabilito che la calotta di Tarquinia appartiene alla stessa famiglia di quelle toscane, peraltro coeve, del duomo e della chiesa di S. Paolo a Ripa d’Arno in Pisa (4) , non che della cattedrale di Siena: anzi, egli restringe l’inserimento e addirittura “l’ideazione” della calotta stessa tra il 1174 - data di un trattato d’alleanza tra Tarquinia e Pisa (5) - ed il 1207, data della consacrazione della chiesa di S. Maria in Castello. Deve essere conseguentemente escluso che la cupola sia stata progettata sin dall’inizio dei lavori: al contrario, si deve ritenere che - prima del 1174 - al posto della cupola in questione dovesse essere eretta una volta a crociera provvista di costoloni, uguale in tutto alle altre insistenti sulle restanti quattro campate dell’edificio. (1) DE ANGELIS D’OSSAT GUGLIELMO: La distrutta “cupola di Castello” a Tarquinia; Palladio I-IV, 1969, ppgg.. 15-32. (2) Nel presente articolo sintetizzo uno studio più ampio che mi propongo di portare a termine entro il 1976; detto studio dovrebbe investire anche parecchie chiese milanesi e pavesi. (3) Nel mio commento al rilievo della chiesa di S. Maria in Castello, pubblicato in Palladio 1959, ppgg. 79, 83, definii imperfettamente i pennacchi come sferici; supposi, invero, che un eventuale tiburio dalle consuete forme romanicolombarde avrebbe potuto svilupparsi su pennacchi conici (cfr. DE ANGELIS, op. cit., pg. 28, nota 24). (4) DE ANGELIS, op. cit. pg. 15). (5) DE ANGELIS, op. cit., pg. 21. 4 Sembra opportuno, a tal punto, richiamare per sommi capi le conclusioni degli studiosi più qualificati, circa l’ideazione e l’innalzamento delle volte a crociera di tipo lombardo (6) . I primi esempi di consimili coperture si ritrovano nei seguenti organismi: a) S. Pietro di Casalvolone (Novara), chiesa consacrata nel 1118 o 1119. b) S. Giulio di Dolzago (Novara), chiesa consacrata fra il 1118 e il 1148. c) chiesa di Sannazaro Sesia, circa del 1125. d) duomo di Novara, consacrato nel 1132. e) circa al 1125 è ascritto dalla più gran parte della letteratura artistica l’innalzamento delle grandi volte di S. Ambrogio in Milano. Identico processo storico-costruttivo si verifica negli altri paesi d’Europa: infatti le volte a costoloni di Morienval sono del 1125. Ciò premesso, è opportuno confrontare con le sopra elencate date quella di fondazione del tempio tarquiniense: il 1121. Sulla base di siffatta comparazione credo esser difficilmente sostenibile che, fin dal tracciamento dell’impianto, si sia inteso esemplare la S. Maria in Castello secondo lo schema attuale, consistente in un organismo di architettura romanico-lombarda, offrente volte sostenute da costoloni ricadenti su pilastri cruciformi e polilobati. Infatti, a mio avviso, è necessario lasciare un congruo lasso di tempo fra l’epoca di innalzamento delle coperture delle volte di Tarquinia: invero, la presenza di organismi così spiccatamente lombardi nell’Alto Lazio costituisce un fatto del tutto eccezionale, che ha condotto addirittura a definire il complesso dell’architettura romanica tarquiniense come “enclave lombarda”. Si deve quindi dedurre che siffatta eccezionalità condiziona il momento di costruzione della S. Maria in Castello - che è la prima basilica romanico-lombarda dell’Alto Lazio - rispetto all’epoca di realizzazione dei principali monumenti milanesi e pavesi del dodicesimo secolo. Anche Richard Krautheimer (7) ritiene che le volte della suddetta S. Maria siano posteriori almeno al 1143, anno in cui fu finito il portale principale e nel quale, conseguentemente i lavori dovevano riguardare l’ulteriore innalzamento della facciata; ad (6) Notizie ed argomentazioni riprese dall’articolo di PAOLO VERZONE: L’origine della volta lombarda a nervature; è in: Atti IV Convegno di storia dell’architettura, pg. 53. (7) Vedasi in generale l’articolo di RICHARD KRAUTHEIMER: Lombardische Hallenkirchen im XII Jahrundert; è in: Galls Jahrbuch der Kunstwissenschaft 1928; articolo che appresso verrà citato nei singoli punti investenti il tema della nostra trattazione. 5 essa - internamente - sono appoggiate le colonnine di sostegno delle volte e le volte stesse, insieme ai relativi costoloni a sezione quadrata. In conclusione, sembra ragionevole e verosimile distanziare le coperture di Tarquinia di una ventina d’anni rispetto a quelle di S. Ambrogio in Milano. La chiesa di S. Maria, però, possiede anche volte sorrette da costoloni a sezione rotonda: siffatto tipo di costolone, detto anche “ogiva a toro” compare in Italia verso il 1136 - 1142 alla chiesa cistercense di S. Benedetto di Vallalta (8) ; le prime ogive a toro francesi sembrano essere quelle appartenenti alla seconda costruzione della chiesa cistercense di Pontigny, fra il 1150 e il 1170. Quelle di Tarquinia, secondo la Fraccaro ed il Porter (9) , apparterrebbero ad una ricostruzione del 1190, dovuta alla necessità di procedere ad estese riparazioni dell’edificio. *** Credo che qui appresso opportuno richiamare l’attenzione del lettore sul risultato del rilievo cui dinanzi accennai: le colonnine diagonali dei pilastri appartenenti alla terza campata vennero elevate simultaneamente agli archi di sostegno della cupola, non che alla cupola medesima. Anteriormente, i pilastri suddetti non possedevano colonnine diagonali e - da quel che si può osservare attraverso l’abbastanza ampia fessura tra attuali colonnine e facce dei pilastri cruciformi - essi non hanno mai posseduto consimili elementi costruttivi. Ma anche in tutti gli altri pilastri della chiesa, le colonnine diagonali sono state installate senza malta mediante il semplice taglio delle murature: esse, cioè, sono soltanto “infilate” dentro gli angoli interni dei pilastri stessi. Sembra, pertanto, di dover dedurre che le colonnine in discussione vennero installate soltanto quando si trattò di provvedere la chiesa di volte a crociera costolonata in un momento che dal Krautheimer è stato indicato come ruotante verso il 1143. Ma allora è necessario formulare la domanda: se l’espressione attuale del monumento è dovuta a sostanziali trasformazioni operate circa verso la metà del dodicesimo secolo, qual’era la forma del tempio progettato fra il 1121 (epoca della fondazione) ed il 1143 (epoca delle trasformazioni)? (8) Notizie ed argomentazioni riprese dall’articolo di LELIA FRACCARO DE LONGHI: Note sul monastero di S. Benedetto di Vallalta sopra Bergamo e sul problema delle prime ogive a toro introdotte dai Cistercensi in Italia; è in Palladio, 1953 (II-III), pg. 118 e ssgg. (9) L. FRACCARO DE LONGHI: L’architettura delle chiese cistercensi italiane; Milano 1958, pg. 239, nota 3. ARTHUR KINGSLEY PORTER: Lombard Architecture; New Haven, 1916, vol. II, pg. 362. 6 *** Ritengo indispensabile - a questo punto - rammentare succintamente le tesi esposte da Richard Krautheimer a proposito di un ristretto gruppo di chiese romaniche ruotanti intorno agli inizi del dodicesimo secolo: tali edifici sarebbero stati interessati da diversi progetti elaborati in rapidissima sequenza dalla fine circa dell’undicesimo al primo trentennio del secolo successivo. Quando tali organismi furono iniziati si intese conferir loro un assetto a sala con campate di navata centrale coperte da volte a crociera a spigolo vivo, insistenti su una pianta oblunga, cioè rettangolare nel senso della larghezza. L’Arslan (10) , al riguardo, indica un esempio precoce - appartenente a circa il 1090 nella chiesa milanese di S. Eustorgio; la stessa icnografia offre l’alto tempio milanese di S. Babila non che l’organismo pavese di S. Pietro in Ciel d’Oro: da quest’ultimo, anzi, proverrebbe l’impianto della chiesa tedesca di Maria Laach e di varie altre realizzazioni architettoniche della Lombardia centromeridionale. La stessa disposizione è presentata dalla chiesa di Anzyle-Duc, datata al 1110-25, non che dal duomo di Sovana (iniziato da Gregorio VII; 1073-1085) ove le volte oblunghe sono ipotizzabili come progettate nei primi decenni del secolo dodicesimo, secondo il Salmi (11) il quale per il periodo precedente individua un organismo basilicale. Le campate oblunghe di tutti i monumenti sopra elencati sarebbero state ben presto sostituite con un impianto di basilica divisa da pilastri cruciformi arricchiti da supporti angolari atti a raccogliere lo spigolo delle volte a crociera; terzo progetto sarebbe stato quello di trasformare l’impianto basilicale in un assetto a sala con navata centrale coperta da volta a botte e navate laterali recanti volte a crociera con spigoli vivi; sarebbe seguito, infine, l’adozione di uno schema basilicale coperto da volte a crociera, ottenuto mediante la sopraelevazione dei muri insistenti sulle arcate di valico fra le navate. La chiesa tarquiniense, presentate una delle basi appartenenti ai pilastri diagonali disposta in senso frontale e non obliquo (come sarebbe invece logico attendersi) sarebbe stata originariamente ideata, almeno nelle parti più antiche che sono indubitamente quelle verso le absidi, come provvista di una volta a botte ricoprente la navata centrale (12) : si spiegherebbe, così, anche la ragione della presenza della semicolonna appartenente al (10) ARSLAN EDOARDO: Storia di Milano, Vol. III, Milano 1954, ppgg. 449-453. SALMI MARIO: L’architettura romanica in Toscana; Milano s.d., pg. 52, nota 53. (12) KRAUTHEIMER R., op.cit. p. 185 “An einer einzigen Stelle steht die Basis noch frontal: am dritten Pfeiler der Nordreihe (von Osten) am östlichen Dienst, sie ist vom Fussboden halb verdeckt, liegt also noch an ihrem alten Platz”. Sarà - dico io - ma la base mi sembra piuttosto irregolare per assumerla in decisa posizione frontale. (11) 7 pilastro intermedio, o debole, la quale è coronata da un capitello largo e frontale. Essa, sempre secondo il Krautheimer, avrebbe ricevuto un grande sottarco rafforzante interiormente la volta a botte di copertura alla navata centrale. Tale assetto, preparato ma non compiuto, apparterrebbe al terzo decennio del secolo dodicesimo e sarebbe derivato dall’architettura del Poitou. Tuttavia - si osserva - il terzo decennio del XII secolo va dal 1120 al 1130: onde secondo il Krautheimer - detto assetto andrebbe ascritto all’epoca di fondazione della chiesa. Ad ogni modo l’illustre autore qui chiamato in causa conclude che la navata centrale della S. Maria venne iniziata ad esser voltata, con i necessari costoloni, a partire dal 1143, anno in cui fu finito il portale principale e nel quale - conseguentemente - i lavori dovevano concernere l’ulteriore innalzamento della facciata (13) : infatti le basi delle colonnine applicate ai pilastri poggianti contro il retrofacciata sono disposte in senso diagonale, cioè in senso esattamente orientato per quel che concerne la continuità strutturale e stilistica fra struttura portante e struttura portata (14) . In conclusione, dal 1121 al 1143 la chiesa sarebbe stata progettata per essere coperta da una grande volta a botte; dal 1143 al 1174 l’organismo fu trasformato in senso stilisticamente lombardo, con le attuali volte a crociera costolonata. Verso il 1190 si sarebbero rifatte due volte crollate; infine, poco prima della consacrazione del 1207, sarebbe stata installata la cupola. Renate Wagner - Rieger fa notare come l’inutilità della semicolonna inserita nel pilastro debole sia sottolineata dalla monofora situata (presso la campata adiacente all’abside) immediatamente al di sopra della semicolonna stessa: situazioni consimili si ritrovano tanto documentate dai disegni di Ottavio Mascherino illustranti l’antico duomo di Bologna, quanto tuttora esistenti nelle chiese cistercensi di Chiaravalle della Colomba, di Fiastra e di Fontevivo, non che nella cattedrale di Piacenza (15) . *** (13) KRAUTHEIMER R., op.cit. pg. 188: “1143 arbeitete man an der Westfassade... und damals hatte man sich schon entschlossen, das Mittelschiff auf Rippen einzuwölben, die Basen an der Westwand unmittelbar neben dem Portal stehan diagonal”. Aderisco alla tesi del Krautheimer, il cui ragionamento - almeno in questo punto - mi sembra molto logico. Circa l’organismo dell’epoca di fondazione l’illustre autore tedesco si esprime testualmente come segue: “1121, als man den Bau in Angriff nahm, plante man noch das system der Ostjoche von Rivolta und S. Celso zu verwenden, nachzüglerisch jedenfalls”. (14) v. preced, nota 12. 8 Ciò premesso, esaminiamo più da vicino l’organismo descritto dal Krautheimer, corrispondente alla prima edizione della S. Maria in Castello e derivato dall’architettura poitevina; al riguardo, è necessario preliminarmente produrre tutta una serie di osservazioni che, mutuamente collegate, conducono infine all’esclusione delle tesi sostenute dall’illustre autore qui citato: tanto per cominciare, non si saprebbe dove individuare la struttura resistente atta ad assorbire la fortissima spinta esercitata sui muri laterali da una volta a botte di copertura della navata centrale. Ma, anzitutto, occupiamoci della posizione dei tetti sopra le navate laterali: ciascuna falda taglia al presente le finestre appartenenti ai muri della navata centrale, non che - in corrispondenza della parete sinistra - la parte inferiore del rosone campeggiante sopra la terza campata. Poiché le suddette finestre sono assegnate dal Porter al secolo XVII (16) , mi sembra di poter assumere come pacifico che l’attuale falda è posteriore all’epoca di costruzione delle finestre stesse; onde, qualora si volesse riportare in piena luce rosone e finestre, la falda del tetto dovrebbe essere abbassata ad una pendenza massima del 14%. Il Porter, invero, pensa che le navate laterali dovessero essere in origine coperte quasi in piano (17) : ma una pendenza tanto modesta non avrebbe sicuramente assicurato il buon deflusso dell’acqua piovana. Tuttavia, all’esterno, circa a metà altezza dei due muri delimitanti la navata centrale, corrono visibilmente tracce di una serie di fori, disposti fittamente su una linea orizzontale, praticati evidentemente non per sostenere una palcatura - chè sarebbero mutuamente più distanti ed anche più grandi - bensì la piccola orditura di un tetto, attualmente non più esistente. Si potrebbe pertanto ritenere che i citati fori rappresentino il margine superiore dell’antico tetto che ricopriva le navate laterali: ma se proviamo a ricostruirne l’inclinazione, partendo dalla linea di gronda - che deve per forza costituire un punto fermo, essendo ornata di cornice e di fregio ad arcatelle lombarde - otteniamo una pendenza di circa il 46%, risultato che rappresenta, stavolta per eccesso, un dato del tutto inaccettabile quale caratteristica di un tetto appartenente ad un edificio ubicato in zona dal clima piuttosto mite e scarsamente piovoso. Non resta quindi che ritenere che le tracce di cui si discorre debbano essere riferite ad un terzo tetto, a suo tempo imposto al di sopra della piatta, o quasi piatta, copertura delle navate laterali: se proviamo a disegnarne la falda, con pendenza parallela a quella (15) RENATE WAGNER-RIEGER: Die italienische Baukunst zu beginn der Gotik; Graz. 1957, vol. I, ppgg. 50-56 e vol. II ppgg. 33-37. (16) PORTER A. K. op.cit. pg. 360. 9 delle attuali coperture, otteniamo una sezione offrente, al di sopra delle navate laterali, due ambienti di altezza interna minima pari a circa m.1,70, altezza del tutto normale per l’agibilità degli ambienti stessi. Sembra abbastanza trasparente, a questo punto, che la prima serie di osservazioni ricavate dalla lettura diretta del monumento orienta verso la configurazione della esistenza di due matronei, o gallerie, al di sopra delle navate laterali. Ma ulteriori elementi possono essere chiamati in causa a favore di siffatta raffigurazione. Anzitutto, si può produrre la scaletta esistente nel muro - circa a metà della navata laterale destra - tuttora adducente al livello delle coperture: essa per i paramenti murari si rivela essere coeva al monumento medioevale e va conseguentemente escluso che possa trattarsi di un inserimento seriore. Essa, inoltre, essendo stata ricavata nel muro cui si appoggiano pilastri, colonnine parietali e volte, deve essere stata costruita o prima o insieme al muro stesso e non dopo l’innalzamento delle volte a crociera pertinenti alle navate laterali. In quest’ultimo caso, infatti, sarebbe stato necessario abbattere le volte delle ultime quattro campatelle di destra, ricostruire muro, pilastri, colonnine diagonali e rifare - infine - le volte precedentemente rimosse: sembra difficile immaginare che si sia proceduto alla demolizione di mezza navata laterale destra allo scopo di disporre di una misera scaletta larga una sessantina di centimetri ed atta al passaggio di una persona per volta. Nè credo che la scaletta in parola sia stata installata allo scopo di trasferire più agevolmente il materiale da costruzione sui tetti delle navate laterali e sulla cupola: invero i tetti succitati sono tuttora facilmente accessibili non comuni scale a pioli, essendo la loro gronda situata a circa otto metri e mezzo da terra. In conclusione, a mio avviso la scaletta fu installata prima del 1143, cioè prima dell’innalzamento delle volte e, per tale ragione, essa non può essere stata costruita che per assolvere alla funzione di addurre i fedeli dalle navate al superiore matroneo. Tuttavia, la presenza di una sola scaletta induce a domandarsi come si potesse raggiungere la galleria di sinistra (18) : ma esaminando all’esterno la zona absidale si vede che la possibilità di un passaggio fra l’una e l’altra navata a livello di un probabile matroneo non solo esiste, ma forse si è tentato anche di darle concreta realizzazione. Infatti la parete di testata della navata centrale è spostata, rispetto alle corrispondenti pareti di testata delle (17) PORTER A.K.,op.cit., pg. 359: “.... this roof must have been almost flat”. Si potrebbe a questo punto chiamare in causa il duomo di Modena che possedette matronei ad impalcato ligneo di cui non sono state mai trovate le scale per salirvi. (18) 10 navate laterali si elevano due muri, con pendenza obliqua, i quali devono essere i resti della facciata absidale della chiesa (19) . E’ da escludere - in ogni caso - che detti muri siano due contrafforti sia perchè non sono collegabili - in quanto arretrati - alle pareti di perimetro della navata centrale, sia perchè sono anche staccati dalle pareti di perimetro stesse mediante un taglio regolare che sembra indicare la posizione di alcune finestre probabilmente disposte in serie. Dalla somma di siffatte osservazioni si ricavano le seguenti conclusioni: a) i due muri a pendenza obliqua non sono due contrafforti, bensì i resti della facciata posteriore del monumento; b) i due muri stessi fissano le quote originarie delle falde di copertura (beninteso qualora siano immaginati come completati con la grossa orditura in legname e con il manto di tegole e coppi); c) i tagli regolari che li staccano dalle pareti di navata centrale individuano le finestre illuminanti il percorso collegante la navata laterale sinistra quella destra; d) il suddetto percorso doveva svolgersi nello stretto spazio, pari a circa sessanta centimetri, situato tra la facciata posteriore e la parete di testata della navata centrale; il percorso in questione scavalcava il semicatino absidale attraverso due rampe, lievemente inclinate secondo l’estradosso del semicatino stesso. Non deve recar meraviglia il fatto che il passaggio sopra definito fosse largo appena una sessantina di centimetri poichè, ad esempio, le scomodissime scalette adducenti ai matronei della chiesa di S. Eufemio in Spoleto (fine XII secolo) sono larghe - appunto - sui sessanta centimetri e permettono il passaggio di una sola persona alla volta. *** Le osservazioni e le argomentazioni sopra svolte possono essere corroborate da ulteriori prove e deduzioni. Sui paramenti murari della navata centrale si può cogliere, circa a metà altezza della chiesa, un lieve arretramento delle pareti (19bis), denunciante chiarissimamente che la costruzione ha subìto un arresto nel momento in cui si giunse al livello sopra indicato. Siffatta sospensione dei lavori non può che esser connessa con un cambiamento di progetto che va relazionato al momento in cui ci si orientò verso la trasformazione dell’organismo in senso romanico - lombardo, con l’innalzamento delle volte a crociera (19) Tale retrofacciata venne notato anche dal PORTER, op.cit. pg. 360: “The horizontal cornice ought to have been 11 fornite di costoloni quadrati o rotondi. Come ha ben messo in evidenza il Peroni nel suo monumentale volume sul tempio di S. Michele in Pavia (20) , la volta a crociera abbisogna di una forma di pianta piuttosto regolare: questa necessità si profila soprattutto nel tracciamento di volte a crociera dalle grandi dimensioni, onde permettere il regolare congiungimento in chiave dei costoloni diagonali tracciati a semicerchio. Nelle piccole volte, invece, il relazionamento degli elementi costruttivi è più arrangiabili. Diventa evidente, allora, che, quando in Tarquinia vennero abbracciate le forme romanicolombarde, fu necessario correggere il difettoso allineamento dei pilastri della S. Maria in Castello, al fine di rendere la pianta delle grandi campate di navata centrale la più vicina possibile al quadrato: ma siffatte correzioni costituiscono un’ulteriore prova per asserire che la versione romanico-lombarda fu cominciata ad essere attuata soltanto quando era stata già innalzata la metà inferiore dell’ossatura del monumento. Altri particolari degni di nota sono offerti dalla strana posizione dei capitelli appartenenti ai pilastri della zona absidale. Essi - come a suo tempo osservato dal Porter (21) - sono anzitutto di puro stile lombardo e secondariamente non sono come di consueto situati in sommità del piedritto, bensì sono incastrati nel suo corpo che prosegue verso l’alto e si arresta ad un livello superiore a quello dei capitelli in parola: mi sembra abbastanza chiaro che consimile anomalia indichi in primo luogo che la forma degli archi dividenti le navate non doveva, in origine, essere del tipo attuale a due ghiere sovrapposte, bensì ad una sola ghiera, ed in secondo luogo che l’applicazione di tali capitelli fu effettuata in un momento posteriore a quello in cui vennero costruiti i suddetti archi divisori. Abbiamo, quindi, un’altra prova per ascrivere l’edizione romanico-lombarda del monumento ad epoca alquanto posteriore a quella degli anni immediatamente seguenti la data di fondazione. Occorre, inoltre e finalmente, esaminare l’elemento architettonico che rappresenta un po' il clou dei numerosi problemi presentati dalla S. Maria in Castello: la semicolonna apposta frontalmente al pilastro intermedio o debole. Il Krautheimer esclude che essa servisse a concorrere alla portanza di una volta a sei costoloni, mentre non sembra convincere l’ipotesi del Porter che essa svolgesse funzioni di controspinta nei confronti delle volte insistenti sulle navate laterali (22) . surmonted by a wall following the inclination of the roofs, as may still be seen in the north wall of the church”. (20) PERONI ADRIANO: S. Michele di Pavia; Milano 1967, pg. 66. (21) PORTER A.K. op.cit. pg. 360: soprattutto i capitelli della zona absidale in corrispondenza delle ultime due campate. (22) Per quel che concerne l’argomento delle volte a sei costoloni vedasi: A.M. ROMANINI: Les Premières voutes sexparties en Italie; si rinvia, in particolare alla pg. 174, nota 2 richiamante il KRAUTHEIMER, op. cit. pg. 186, supponendo che la volta a sei costoloni di S. Pancrazio in Tarquinia sia comprensibile solo con un’influenza dalla Ile de France, collocabile verso la 2ª metà del XII secolo. Circa il paragone fatto dal PORTER, op.cit. pg. 358 tra le 12 D’altro canto, chiamando in causa, per eventuali raffronti, monumenti coevi a quello tarquiniense si può stabilire quanto segue. Il tempio di S. Michele in Pavia presenta, in corrispondenza dei pilastri intermedi, semicolonne le quali - seppure più ridotte, nel quadro generale della struttura, rispetto a quelle di Tarquinia - sono state proseguite verso l’alto da lesene a sezione quadrata quando, verso la fine del 1400, si dovettero rimuovere le volte pericolanti della navata centrale. Ma poiché dette volte erano soltanto due, le lesene dei pilastri intermedi non potevano espletare altra funzione che quella decorativa di sostenere archi incornicianti le aperture di affaccio del matroneo verso la navata maggiore. Anzi, il De Dartein nei suoi finissimi disegni arresta addirittura la semicolonna al livello della cornice a mensole marcante il piano del matroneo e, in tal modo, la semicolonna stessa è ridotta a pura decorazione parietale (23) . Nella chiesa di S. Celso in Milano e nella Parrocchiale di Rivolta d’Adda essa, invece è sfruttata quale sostegno di un sottarco irrobustente una volta a botte contraddistinguente lo spazio presbiteriale: ma, nel primo dei due casi, la suddetta volta è posteriore al 1818 e non sembra da escludere che, antecedentemente il presbiterio fosse coperto da un tetto in vista poggiante su un arcone trasversale. Nel tempio di S. Ambrogio di Milano il pilastro intermedio è arricchito da una timida lesena che va ad interrompersi contro una cornice ad arcatelle individuante, come nel S. Michele di Pavia, il piano del matroneo. Non mi sembra il caso di tirare in ballo l’abbazia di Nonantola il cui corpo di navata è diviso da pilastri offrenti semicolonne tonde non proseguite verso l’alto, dal momento che dall’organismo è assente l’alternanza tra pilastri forti e deboli, che deve invero costituire la base per eventuali raffronti. Il Porter, anzi, fa notare che nel coro - dove i sostegni sono del secolo XIV - la semicolonna del pilastro, in corrispondenza del lato guardante verso la navata, è stata omessa perché il coro stesso doveva essere coperto con volta a botte: si arriverebbe pertanto alla conclusione che, in alcuni monumenti medioevali, in corrispondenza degli spazi dove era prevista l’installazione di una volta a botte, le semicolonne dei pilastri, lungi dall’essere installate, venivano addirittura soppresse. Neanche credo di richiamare il S. Savino di Piacenza ove il pilastro debole, recante la solita semicolonna, sopporta gli archi di valico fra le navate: la semicolonna in semicolonne della S. Maria in Castello e quelle della distrutta chiesa di Laffaux (Aisne) occorre far presente che tale comparazione è respinta dalla FRACCARO: L’architettura delle chiese cistercensi ecc. ppgg. 169-170, la quale osserva che negli esempi addotti dal PORTER le semicolonne erano messe per controspinta all’esterno delle costruzioni, e non all’interno. (23) DE DARTEIN F.: Etude sur l’architecture lombarde; Paris 1865, 1882, (Atlante). 13 questione, nel caso piacentino, non è chiamata a svolgere ruoli portanti con riferimento a possibili strutture inseribili nelle pareti superiori e presso le volte del monumento. Si possono invece proporre gli esempi del duomo di Spira, dove le semicolonne dei pilastri deboli sono svolte in alto secondo due arcate parietali inquadranti aperture di finestre; della chiesa di Notre Dame in St. Dié, dove la robustissima lesena semitonda si arresta contro una cornice con mensole, secondo una soluzione molto prossima a quella ipotizzabile per la prima edizione del S. Michele di Pavia; della chiesa di St. Pierre ad Issoire nella quale, in corrispondenza della navata centrale, una semicolonna si arresta a livello delle altre lesene di egual sezione introducenti alla crociera sulla quale svetta la torre: tale semicolonna non può essere stata inserita per raccogliere un sottarco di sostegno alla volta a botte insistente sulla navata centrale poichè essa - con il proprio capitello - resta troppo bassa rispetto tanto allo spiccato della volta stessa, quanto alle altre lesene situate più verso la facciata alle quali - invero - è stato affidato il ruolo di raccogliere la ricaduta dei sottarchi della volta in questione. Quindi, proprio in un edificio presentante la volta a botte munita di sottarchi - come il St. Pierre di Issoire - abbiamo la prova che l’inserimento di semicolonne non doveva necessariamente essere subordinato all’attribuzione di una funzione portante alle semicolonne stesse: come a St. Dié, come a Spira, come ad Issoire, esse possono svolgere anche una semplice funzione decorativa, di arricchimento stilistico della espressione architettonica degli interni. Tutto ciò premesso, mi sembrerebbe di dover intanto osservare che, se nella prima fase di costruzione della S. Maria in Castello si previde di realizzare un matroneo in corrispondenza delle navate laterali - come sopra ho reputato di assumere - sarebbe stato di conseguenza impossibile installare una volta a botte, munita di sottarchi, al di sopra della navata centrale, dal momento che siffatta copertura avrebbe completamente otturato le aperture, verso la navata, del matroneo stesso. Si potrebbe tuttavia ipotizzare che la supposta volta a botte fosse disposta al di sopra del matroneo: ma, in tal caso, occorrerebbe automaticamente prolungare verso l’alto le semicolonne sorreggente i sottarchi della volta suddetta, onde raggiungere la più elevata quota d’imposta dei sottarchi in questione; in Tarquinia manca la minima prova per soltanto immaginare consimile soluzione. Il matroneo, pertanto e nel caso del tempio tarquiniense, è incompatibile con la volta a botte non che con i sottarchi sostenenti la volta stessa: si conclude conseguentemente che, in presenza di due gallerie sulle navate laterali, le semicolonne dei pilastri intermedi o deboli non potevano assolvere che funzioni decorative. 14 Esse, ad esempio, avrebbero potuto accogliere la ricaduta di arcate parietali inquadranti le aperture dei matronei, secondo una soluzione compatibile tanto in un organismo architettonico sprovvisto di volte a crociera - come la S. Maria in Castello fra il 1121 ed il 1143 - quanto in una ossatura come quella attuale offrente volte a crociera costolonata. Aggiungo, poi, di ritenere che le semicolonne di cui si discute siano frutto di un’addizione effettuata dopo il 1143, non solo perchè esse recano uno sviluppato capitello di stile romanico-lombardo - ed abbiamo visto innanzi che sussiste tutta una serie di elementi per reputare che gli inserimenti di scuola lombarda, capitelli compresi, debbano essere posteriori all’anzidetta data - ma anche perchè le soluzioni architettoniche proposte dalla loro presenza sono troppo legate all’espressione offerta dai più insigni monumenti milanesi e pavesi. *** Sulla base degli elementi esaminati e degli argomenti svolti mi sembra di poter finalmente rispondere alla domanda dianzi formulata: quale era la forma del tempio progettato fra il 1121 ed il 1143? Occorre, anzitutto, espungere dalla fabbrica tutti gli elementi stilisticamente romanico-lombardi e, invece, aggiungere sulle navate laterali i due matronei: si ottiene una chiesa divisa alternatamente da pilastri forti e deboli, i primi a sezione cruciforme e sviluppati superiormente in archi attraversanti la navata maggiore e sostenenti il tetto, i secondi invece con sezione a T. in corrispondenza delle navate laterali figurerebbe un matroneo a solaio ligneo, sostenuto dalla fitta rete di archi trasversali insistenti sulle navati laterali medesime. Tra il 1143 ed il 1174 vennero aggiunte colonnine diagonali per ricevere la ricaduta dei costoloni delle volte a crociera non che le volte a crociera stesse; ai pilastri deboli furono applicate le semicolonne, da sviluppare superiormente in arcate di inquadratura delle aperture del matroneo verso la navata centrale (24) . (24) L’APOLLONJ (-GHETTI BRUNO M.) nel suo volume: Architettura della Tuscia, Roma 1960, ppgg. 170-171, adombra l’ipotesi di due possibili matronei sulle navate laterali della S. Maria in Castello e ne dà, anzi, una restituzione grafica che può essere molto vicina alla soluzione qui indicata per la nostra chiesa fra gli anni 1143-1174. Poichè il volume citato - peraltro utilissimo - presenta esercitazioni scolastiche eseguite presso la Facoltà d’Architettura di Roma, l’APOLLONJ accompagna i disegni con un breve, semplice commento, senza (o con ridottissima) discussione dei monumenti trattati. 15 Verso il 1190 si ricostruirono due volte crollate e si abolì, contemporaneamente il matroneo sulle navate laterali, probabilmente perchè si reputò di irrobustire le pareti di perimetro attraverso il tamponamento con pietra da taglio delle aperture, verso la navata centrale, del citato matroneo. Inoltre si provvide a costruire una serie di forti speroni esterni, riconosciuti dal Porter come di aggiunta seriore, speroni che in parte restano ed in parte hanno lasciato visibilissime tracce della loro avvenuta installazione, in corrispondenza della pareti della navata centrale. Infine, tra il 1190 ed il 1207, fu innalzata la cupola, poggiante coi pennacchi su quattro snelle colonnine, apposte presso gli angoli interni dei pilastri nel momento in cui ci si orientò verso la costruzione della cupola suddetta. *** Non resta, ora, che esaminare gli organismi sopra raffigurati, rapportandoli alla contemporanea architettura, fase per fase: incominciamo dalla prima, caratterizzata dalle gallerie sulle navate laterali. Chiese altomedioevali italiane provviste di matronei sono quelle romane di S. Lorenzo al Verano (sotto Papa Pelagio II, 579-590) e di S. Agnese (sotto Papa Onorio I, 625-638) (25) . Vanno citati inoltre in Amalfi la chiesa del Crocefisso (VIII-IX secolo) ed il duomo (iniziato nel 987 e proseguito fino alla fine del secolo) presentanti entrambi gallerie con pavimento ad impalcato ligneo (26) . La chiesa di S. Donato in Genova, circa dell’anno 1060, possedeva falsi matronei (27) ; nel duomo di Pisa, invece, sembra che fin dall’origine (fondazione nel 1063) venissero installati matronei sopra le navate collaterali (28) . Si può infine chiamare in causa il tempio di S. Nicola di Bari, iniziato prima del 1089 ed influenzato da correnti stilistiche normanne a partire dal principio del XII secolo: gli stimoli nordfrancesi si configurano nella presenza delle due torri in facciata e nella successione colonna-colonna-pilastro, successione derivante da quella dell’abbazia di (25) MATTHIAE GUGLIELMO: Le chiese di Roma dal IV al X secolo; Rocca S. Casciano 1962, ppgg. 159-164. VENDITTI ARNALDO: Architettura bizantina nell’Italia meridionale; Napoli 1967, Vol. II, ppgg. 630-644. (27) CESCHI CARLO: Architettura romanica genovese, Milano 1954, ppgg. 126-134. (28) THUMMLER HANS: Die Baukunst des 11 Jahrhunderts in Italien; è in: Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte, III, 1939 ppgg. 183-190. (26) 16 Jumièges; le navate laterali del S. Nicola hanno matronei; il complesso dell’organismo può esser raffrontabile alle due chiese di S. Stefano e di S. Nicola di Caen (29) Verso la fine dell’XI secolo le gallerie vengono recepite anche nell’architettura religiosa dell’entroterra: possono citarsi le chiese di S. Ambrogio a Milano, di S. Michele e di S. Giovanni in Borgo a Pavia, di S. Maria Maggiore a Bergamo, del duomo di Cremona, del duomo di Modena, del duomo di Parma, di S. Giulio ad Isola S. Giulio, chiesa quest’ultima esemplata sulla seconda edizione dell’abbaziale di Cluny. L’abbondanza degli esempi elencati evidenzia che l’installazione di due gallerie al di sopra delle navate laterali della chiesa di S. Maria in Castello non avrebbe costituito un fatto eccezionale, dal momento che siffatto partito architettonico poteva essere facilmente mutuato tanto da Roma quanto da Pisa. Ma l’organismo originario dell’edificio tarquiniense era caratterizzato anche dalla presenza dell’arco trasversale sostenente il tetto, ricoprente tanto la navata centrale quanto le laterali. Siffatta struttura è presente alla S. Maria di Lomello, assegnata dal Thümmler alla prima metà dell’XI secolo (30) , ed al S. Miniato di Firenze (sempre dell’XI); tuttavia l’arco trasversale portante il tetto è presente in Toscana, già nell’XI secolo, al S. Michele di Pescia (31) . Archi trasversali ebbe in tal secolo anche la S. Prassede in Roma: anzi, ottenne anche pilastri e gallerie. Importantissimo, per eventuali riferimenti con la S. Maria in Castello, è il duomo di Sovana ove dovevano essere installati archi a tutto sesto insistenti sulla navata centrale, con tetto in vista (32) ; esso, poi, fu coperto con volte (33) , ma è evidente - data la vicinanza geografica tra Sovana e Tarquinia - che i due monumenti in questione dovettero esser soggetti a fasi costruttive strettamente affini, risultato questo che sanziona in misura piuttosto sensibile tutto il complesso di argomenti innanzi svolti a favore delle soluzioni proposte (34) . (29) THUMMLER H.: op.cit.. ppgg. 219-221. THUMMERL H: op.cit. ppgg. 157 e 161. (31) SALMI M: o. cit. pg. 37, nota 21; egli anzitutto specifica che altri edifici “.... ripetono lo stesso ordinamento specie nel senese...” e secondariamente rinvia alla pg. 53, nota 52, concernente il duomo di Sovana; onde, dalla correlazione fra le due note, si deve concludere che il citato duomo aveva originariamente la navata coperta con archi trasversali a tutto sesto, sostenenti l’oditura lignea del tetto. (32) vedi precedente nota 31. (33) L’ARSLAN, op.cit., pg. 449, nota 2, precisa che le volte oblunghe furono previste ai primi decenni del XII secolo. (34) Nel breve commento illustrante il mio rilievo sostenni la tripartizione della S. Maria in Castello in successive fasi costruttive, per spiegare le differenze stilistiche e fabbricative individuabili nell’insigne monumento. Tali differenze, però, non possono invariabilmente essere ascritte a crolli seguiti da ricostruzioni, bensì - più convincentemente - al cambiamento di maestranze susseguitosi nello spazio di 86 anni, fra il 1121 ed il 1207. Questi motivi mi inducono, oggi a cambiare radicalmente parere, secondo le tesi esposte nell’attuale pubblicazione: debbo però osservare, a mia (30) 17 *** Vediamo ora - se possibile - di inquadrare le varie edizioni della S. Maria in Castello nel contesto dell’architettura romanica dell’Alto Lazio (35) . Premesso che tale regione è singolarmente povera di monumenti prima dell’XI secolo, i primi edifici significativi del secolo stesso sono le chiese di S. Salvatore e di S. Maria in Vasanello; il primo edificio è datato da una lapide al 1038 e pertanto deve essere stato costruito nei primi decenni del secolo, mentre il secondo ripete lo schema basilicale e si accosta per le caratteristiche ad alcune chiese umbre dell’XI secolo situate nella vicina zona di Narni (36) . Entro il 1050 ed il 1093, anno della consacrazione, è collocata dal Thümmler (37) la parte più arcaica del celeberrimo tempio di S. Pietro in Tuscania, costituito da un corpo longitudinale desinente in un transetto non sporgente che l’illustre studioso tedesco riallaccia - proprio per tale motivo - alla tradizione proveniente da Montecassino: siamo quindi in presenza di un organismo ripetente la consueta basilica paleocristiana; è incerto se detto transetto appartenga all’XI secolo, o piuttosto al XII, e se sia stato costruito insieme con la cripta che viene, invece, posta in stretta relazione con quella del tempio di S. Miniato in Firenze. Più vicine alla fine dell’XI secolo sono le chiese viterbesi di S. Maria nova, offrente il consueto organismo di basilica latina ed il duomo di Viterbo che però deve appartenere al primo quarto del XII secolo, attesa la parentela fra l’impianto a tre navate desinenti in un transetto e la tradizione costruttiva cassinate che in esso è presente in maniera molto più decisa e sicura che nel S. Pietro di Tuscania (38) ; il monumento viterbese è pertanto largamente posteriore a quello tuscanese e deve aver espletato una funzione di mediazione fra Montecassino e la zona dell’Alto Viterbese non che dell’Umbria meridionale: ivi, infatti, esistono molte cattedrali ripetenti l’icnografia del duomo di Viterbo (39) . consolazione, che quel rilievo - fatto da studente - non fu inutile perchè, anzi, mi stimolò a prender nota di tutte le numerose anomalie del monumento. (35) Per l’acquisizione di più ampi elementi sulle espressioni artistiche di tal regione si rinvia al volume di JOSELITA RASPI SERRA: Tuscia Romana; la stessa ha svolto nel 1973 una conferenza sui diversi aspetti dell’architettura tarquiniense presso la locale Società di Arte e Storia. Ma vedasi anche APOLLONI-GHETTI B. M. op.cit. (36) APOLLONI-GHETTI B. M. op.cit. ppgg 194-195. Ulteriori notizie sono nel volumetto MARIANI SALVATORE: Il Cavaliere di Cristo S. Lando M. protettore di Bassanello; Civita Castellana 1957. (37) THUMMLER H.: Die Kirche S. Pietro in Tuscania; è in Kunstgeschichtliche Jahrbuch der Bibliotheka Hertziana, II, 1938. (38) WAGNER-RIEGER R. op. cit. vol. II da pg. 213 a pg. 216 ove viene trattata l’architettura del Lazio del Nord nello scorcio del XII secolo. (39) BATTISTI EUGENIO: Monumenti romanici del Viterbese: le cripte a sud dei Cimini, ppgg. 67-80; Palladio 1953, n. 1. 18 Al termine dell’XI secolo viene ascritto dal Thümmler il S. Anastasio di Castel S. Elia presso Nepi offrente anch’esso lo schema cassinate (40) ; ad esso si rifanno nell’impianto le chiese di S. Francesco di Sutri (41) e di S. Francesco in Vetralla assegnate dall’Apollonj all’XI secolo. Allo scorcio di tal secolo dovrebbero esser collocate il S. Silvestro di Orte, ad unuca navata absidata e la S. Cristina di Bolsena, a tre navate con impianto basilicale e partizione interna a rozze colonne. Un caso a sè stante è rappresentato dal S. Flaviano in Montefiascone, la cui pianta (43) riproduce quella che avrebbe dovuto possedere il duomo di Arezzo (44) il quale, a sua volta, non avrebbe rappresentato che una libera ripetizione del tempio a pianta centrale di S. Vitale a Ravenna: infatti l’aretino Maginardo si recò in Romagna apposta per copiare lo splendido edificio bizantino. La data del 1032 leggibile sulla famosa lapide di facciata va conseguentemente riferita all’impianto del S. Flaviano, mentre le volte a crociera con costoloni a sezione quadrata, per le stesse ragioni addotte a proposito di quelle di Tarquinia (45) , andrebbero collocate verso il 1140. A verso la metà del XII secolo viene fatto risalire il S. Giacomo di Tarquinia: la chiesa, infatti, presenta le solite volte con costoloni quadrati e l’Apollonj (46) ha dimostrato con argomenti molto circostanziati, che tali particolari strutture sono senz’altro posteriori a quelle analoghe installate nella vicina S. Maria in Castello. Inoltre, per il tracciato a croce “patibulata” con tre absidi, l’organismo deve essere posteriore a quello della chiesa di S. Giovanni degli Eremiti in Palermo, datata circa al 1132. Ma la Wagner-Rieger ha dimostrato che tutta una folla di edifici - soprattutto toscani - esemplati sullo schema di pianta suaccennato, con cupoletta sul transetto, vengono realizzati verso lo scorcio del XII secolo (47) : onde io credo che si debba prestar fede alla citata studiosa e spostare conseguentemente il S. Giacomo a dopo il 1150. Forse al 1140 appartiene la chiesa del Carmine in Civitacastellana ripetente il consueto impianto benedettino - cassinate; il S. Biagio di Nepi è ad unica navata e deve appartenere alla seconda metà del XII secolo. A dopo il 1150 sono assegnate le chiese (40) THUMMLER H., Die Kirche S. Pietro ecc.pg. 280 e 285. APOLLONI-GHETTI B.M. op.cit. ppgg. 192 e 193. (43) SALMI M.: Atti del I Congresso internazionale di studi longobardi, Spoleto 1951, ppgg. 54-55. (44) SALMI M.: L’architettura romanica in Toscana, fig. 42 a pg. 23. (45) v. a precedente nota 6. Anche il THUMMLER (Die Baukunst ecc. pg. 168) propende per una collocazione di tale tipo di volte entro il XII secolo: “Nach den ersten Versuchen an Kleineren Bauten, von denen Keiner mehr mit Sicherheit ins 11 lahrhundert zu datieren ist, stellt S. Ambrogio auch den ersten grossen Gewölbebau dar”. Il KRAUTHEIMER, per il S. Ambrogio, pensa che le volte costolonate della navata possano essere state progettate verso il 1128, mentre quelle del nartece sarebbero anteriori di alcuni anni. In definitiva, solo l’ARSLAN colloca le volte del S. Ambrogio verso il 1080. (46) APOLLONI-GHETTI B.M.: La chiesa di S. Giacomo in Tarquinia; Palladio 1988, pg. 171 e ssgg. (47) WAGNER RIEGER R. op. cit. vol. I pg. 104 e ssgg.; (41) 19 tarquiniensi dell’Annunziata, di S. Francesco e di S. Pancrazio (48) ; aggiungo che, a mio avviso, anche la chiesa di S. Martino va ascritta a tale epoca, per la presenza dei semicatini absidali estradossati, uguali a quelli dell’Annunziata. Al XIII secolo inoltrato dovrebbero, infine, esser attribuite le due chiese tarquiniensi di S. Giovanni e di S. Antonio. Credo di dover arrestare a tal punto la rassegna di chiese medioevali dell’Alto Lazio, dal momento che qui interessa soprattutto tentare eventuali paralleli tra la S. Maria in Castello e la contemporanea architettura della Tuscia. Ma dalla descrizione pur sommaria degli organismi sopra elencati emerge che la prima veste architettonica del tempio tarquiniense non trova alcun riscontro in edifici appartenenti alla suddetta area geografica (49) e che la possibilità di utili raffronti è data soprattutto dai monumenti della vicina Toscana non che, più debolmente, della lontana Lombardia: si possono produrre, come sopra abbiamo visto, il duomo di Sovana, il S. Miniato in Firenze, la S. Maria di Lomello, ed infine, il duomo di Pisa, per i matronei e per la cupola. Gli elementi architettonici di aggiunta posteriore al 1143, provenienti dall’area milanese e pavese, costituiranno nelle epoche successive riferimento pressochè costante per l’ulteriore sviluppo della più qualificata e rappresentativa edilizia medioevale di Tarquinia. arch. dott. RENZO PARDI Soprintendente ai Monumenti della Lombardia (48) PORTER K.A. op. cit. Vol. II da pg. 338 a pg. 365. Ma penso che debbano essere spostate verso la fine del XII secolo per la presenza in esse di molti elementi ormai marcatamente gotici. Al riguardo si tenga conto del fatto che la prima chiesa italiana, in stile gotico, è la S. Maria di Fossanova, nel Lazio meridionale, fondata da Federico I nel 1187 e consacrata nel 1208. (49) La chiesa di Maria in Castello ha riferimenti con la chiesa di S. Maria di Falleri (Civita Castellana), ma per ragioni diverse da quelle qui indagate, da relazionare piuttosto all’architettura cistercense ed ai motivi stilistico-costruttivi delle fabbriche appartenenti al XIII secolo. 20 I RAPPORTI FRA TARQUINIA E ROMA NELL’ANTICHITA’ Una serie di testimonianze storico-letterarie, benchè in parte soffuse di leggenda o, quanto meno, non sempre del tutto attendibili e talvolta confuse, e un certo numero di testimonianze archeologiche, soprattutto di carattere epigrafico, anche se frammentarie e incomplete, ci consentono di mettere insieme un discorso che, nell’ambito dei più generali, profondi, lunghi “incontri” tra il mondo etrusco e quello romano, tocca da vicino i rapporti diretti fra Tarquinia e Roma. O, meglio, ci consentono di individuare e circoscrivere alcuni “momenti” durante i quali la storia delle due città, nate più o meno contemporaneamente e pressochè nel medesimo modo, a non molta distanza tra loro, venne momentaneamente a coincidere. A partire dal VII-VI secolo a.C. quando, forse proprio grazie a un rapporto sia pure indiretto con Tarquinia, Roma assurse per la prima volta a un ruolo di protagonista della più antica storia d’Italia. E ciò, lasciando da parte la “preistoria” leggendaria e il racconto del poeta greco Lykoprhon, seguito poi in parte da Virgilio, secondo il quale Enea, mitico progenitore di Roma, avrebbe stretto alleanza con Tarconte (e con il fratello di questi Tirreno), mitico fondatore ed eponimo di Tarquinia. E’ infatti da Tarquinia, secondo le fonti greche e latine, che, sul finire del secolo VII, nell’anno 616 a.C., giunge a Roma quel Lucio (o Luchie, o Lucumo), figlio del greco Demarato e di una tarquiniese e sposo della tarquiniese Tanaquilla, il quale, impadronitosi del potere vi diverrà il quinto re della serie tradizionale con il nome di Lucio Tarquinio Prisco. Il suo regno e quello dei suoi successori della “dinastia etrusca” di Roma, Servio Tullio e Tarquinio il superbo, corrisponde a un periodo di vera e propria supremazia di Tarquinia sulle altre città dell’Etruria, in specie meridionale e costiera, e di sicura presenza etrusca, e quindi tarquiniese, nel Lazio che proprio nel controllo di Roma e del suo guado del Tevere doveva avere uno dei suoi più importanti punti di forza. Sulla storicità della monarchia etrusca a Roma, nel corso del secolo VI a.C. dopo le incontrovertibili conferme venute dall’archeologia, oggi non ci sono più dubbi e, visto che la tradizione riferisce a questo “momento” un periodo di splendore per Roma, che l’archeologia ancora una volta conferma, non è difficile far risalire a Tarquinia, o quanto 21 meno al suo tramite più o meno diretto, quegli apporti determinanti che fecero di Roma, per la prima volta, una città vera e propria, a tal punto imbevuta della cultura e improntata nel suo aspetto esteriore alla tradizioni, anche “monumentali”, provenienti dall’Etruria da farla apparire agli occhi dei Greci come una “città etrusca”. Alla fine del secolo VI, con la cacciata da Roma di Tarquinio il Superbo (che, almeno secondo una versione, cercherà aiuto per recuperare il trono proprio a Tarquinia donde, come dice lo storico greco Dionigi d’Alicarnasso, era originaria la sua stirpe) i rapporti fecondi tra la grande città etrusca e Roma si interrompono. Per un lungo periodo, durante il quale entrambe le città furono variamente e, Roma soprattutto, pericolosamente in crisi. Il contatto riprende all’inizio del secolo IV ma si tratta di un contatto violento, di un vero e proprio scontro. Caduta Veio in mano dei Romani, l’anno 394, ed entrata Cerveteri nell’orbita di Roma, Tarquinia viene a trovarsi improvvisamente sotto la diretta minaccia dell’espansionismo romano e il possesso della piazzaforte di Sutri da parte di Roma costituisce una vera spina al fianco del territorio tarquiniese. La situazione, gravida di pericoli soprattutto per Tarquinia, non poteva che dar luogo a una guerra. Le fonti storiche - tutte di parte romana - riferiscono di una prima guerra scoppiata subito dopo il “sacco” di Roma ad opera dei Galli, intorno al 390, con un assedio posto dai Tarquiniesi a Sutri, combattimenti nel territorio di Tarquinia che portarono i Romani a conquistare le due città, ancora non identificate, di Cortuosa e Contenebra, di una conclusione delle operazioni belliche senza vinti nè vincitori (anche se fu Tarquinia a fallire il suo scopo, costretta a riconoscere la nuova realtà dello stato romano che aveva esteso i suoi confini ben oltre la linea del Tevere e a prendere atto di una situazione di equilibrio che, a lungo andare, non poteva che risolversi a favore di Roma). Ma gli storici moderni hanno posto in dubbio la storicità di questa prima guerra o, almeno, considerato molti dei suoi episodi come duplicazione, retrodatata, di quanto in realtà successe in seguito. La vera guerra fra Tarquinia e Roma dovette essere così quella che gli antichi ci hanno tramandato come seconda: quella scoppiata nel 358 e durata fino al 351. L’occasione ne fu, secondo Livio, una scorreria dei Tarquiniesi sul confine romano (quasi certamente dalle parti di Sutri) conclusosi con una sconfitta dei Romani atterriti, sempre secondo Livio, da una turba di sacerdoti urlanti che precedevano i soldati tarquiniesi agitando nelle mani serpenti e fiaccole accese. A questo episodio seguì il massacro di 307 prigionieri romani nel “Foro” di Tarquinia dopo di che, l’anno 356 si ebbe la prima vera operazione militare, condotta da Tarquinia che, con una ardita mossa strategica, spinse il suo esercito, attraverso il territorio costiero di Cerveteri, fino alla foce 22 del Tevere. L’incursione dovette avere un iniziale successo, non foss’altro per la sorpresa e l’audacia se sono vere le notizie che riferiscono della conquista tarquiniese di numerosi centri del territorio romano, ma fu alla fine bloccata e stroncata dai Romani nella regione delle Saline tiberine. E a sottolineare l’insuccesso di Tarquinia c’è la notizia della vendetta dei Roma che nel loro Foro uccisero, a loro volta, l’anno 354, trecento cinquantotto prigionieri tarquiniesi. Dopo lo scontro frontale alle Saline, la guerra si trascinò avanti piuttosto stancamente con piccoli scontri e alterne vicende e fu conclusa nel 351 con una tregua di quarant’anni che, di fatto, sanciva tra le due città rivali il reciproco riconoscimento dello “status quo” ma, al tempo stesso, consolidava sul piano “internazionale” la presenza “nuova” della realtà romana. Probabilmente non ci furono ulteriori guerra fra Roma e Tarquinia, anche perchè altre città etrusche, come Vulci, Volsini, Chiusi, approfittando dell’indebolimento della loro consorella, ne presero il posto nella lotta antiromana. Tanto è vero che nella guerra combattuta fra quelle città e Roma, dal 311 al 308, Tarquinia non è menzionata nelle fonti storiche, anche se in qualche modo dovette anch’essa restarne coinvolta (interessante è, tuttavia, una notizia di Livio secondo la quale nel 308 Tarquinia rifornì Roma di grano e in grazia di questo aiuto ottenne il rinnovo della tregua quarantennale che era appena scaduta). E la rivalità comunque perdurante dovette venir meno all’inizio del secolo III a C. quando, definitivamente vittoriosa Roma su Vulci e Volsini, Tarquinia fu costretta a instaurare con la città del Tevere un nuovo tipo di rapporto sancito da un trattato di alleanza che, date le condizioni (tra le quali, forse, la confisca da parte di Roma della fascia costiera del territorio tarquiniese dove poi venne fondata la colonia romana di Graviscae) equivaleva per Tarquinia a un vero e proprio atto di sottomissione. Il nuovo rapporto - divenuto sempre più, col passare del tempo, una sorta di pura “finzione giuridica” chè, di fatto, Tarquinia pur mantenendo una larvata sua sovranità “interna”, venne a far parte integrante dello stato romano con precisi obblighi di aiuto a Roma (come quando, nel 205, fornì alla spedizione di Scipione contro Cartagine le tele di lino per le vele delle navi in allestimento a Lilibeo, in Sicilia) - durò fino all’inizio del I secolo a.C. E il cambiamento fu in conseguenza della concessione della cittadinanza romana a tutte le città italiche “alleate” di Roma in virtù della quale anche Tarquinia divenne un “municipio” della nuova Italia romana. A questo punto non sarebbe più possibile enucleare particolari rapporti fra Roma e Tarquinia, diversi da quelli che intercorsero tra la capitale e ogni altra città della penisola, se non ci venissero in soccorso alcune singolari e importanti testimonianze epigrafiche e i 23 risultati dell’acuta analisi e interpretazione che di esse ha dato recentissimamente Mario Torelli (e per le quali v. in questo Bollettino, anno 1974, pagg. 7-15). Si tratta dei noti frammenti di iscrizioni, in latino, rinvenuti a più riprese nell’area del tempio detto Ara della Regina sulla Civita di Tarquinia, dai quali, oltre a preziose notizie di storia tarquiniese, si possono trarre importanti deduzioni relative proprio a quelli che possiamo definire, ancora, rapporti diretti fra Roma e Tarquinia. Un gruppo di frammenti ci ha restituito il profilo, sia pure molto lacunoso, di quattro aruspici tarquiniesi (di uno solo dei quali è conservato per intero il nome: Publius Celius Etruscus) membri di quel Collegio “sexaginta haruspicum” cui fu affidato dallo stato romano il compito di conservare integra la tradizione dell’aruspicina tedesca e che, alla fine del I secolo a.C. e all’inizio dell’età imperiale, oltre che a Roma ebbe una sua sede ufficiale a Tarquinia. La testimonianza epigrafica è importante perchè ci consente di sottolineare il ruolo che nella trasmissione a Roma dell’aruspicina etrusca dovette svolgere Tarquinia concordemente ritenuta culla dell’aruspicina stessa essendone considerato il primo depositario quel Tarconte, fondatore della città, che era stato istruito dalle rivelazioni del divino fanciullo Tagete. Un nuovo tipo di rapporto è quindi possibile definire tra le due città che si traduce quasi come ai tempi dei re Tarquinia - in una nuova “ondata di etruschizzazione” che muove da Tarquinia verso Roma, che caratterizza il I secolo a.C. e che con l’aruspicina, e più in generale con le varie norme della religione etrusca, riversa su Roma un consistente filone di cultura etrusca dal quale prende l’impronta gran parte della cosiddetta “antiquaria” romana del tempo. Purtroppo non c’è, almeno per il momento, alcuna possibilità di confermare l’ipotesi dell’origine tarquiniese (anche se questa resta estremamente verosimile) del più grande aruspice di questo periodo, Tarquinio Prisco, che per trent’anni insegnò a Roma la sua arte (seguito poi dal figlio) e tradusse in latino tutti i testi della religione etrusca; ma ha un nome tipicamente e nobilmente tarquiniese lo Spurinna che fu l’Augure di Cesare e che al dittatore predisse le “idi di marzo” e Tarquinia rimane comunque la “matrice” riconosciuta dell’aruspicina romana come dimostra la sede in essa del massimo Collegio degli Aruspici. Anche l’altra serie di frammenti epigrafici provenienti dall’Ara della Regina, quelli contenenti gli “elogia” dei personaggi della famiglia Spurinna, una delle più celebri e antiche di Tarquinia, è suscettibile di fornirci alcuni aspetti particolari di rapporti - che sono ormai di intima fusione - fra Roma e Tarquinia, nello spirito stesso che quelle iscrizioni informò e nella tradizione in cui esse si inquadrano. Di questi potremo leggere 24 tra poco nel volume in corso di stampa che il Torelli ha dedicato, per l’appunto, agli “Elogia tarquiniensia”. Possiamo intanto concludere il nostro rapido e provvisorio discorso ricordando che un tarquiniese della nobile famiglia dei Cesenni, Lucius Caesennius Paetus, è uno dei due consoli dell’anno 61 d.C., durante il regno di Nerone (e sarà poi lo sfortunato successore del generale Domizio Corbulone nella condotta della guerra in Asia) e che, finalmente, l’anno 127, sotto l’impero di Adriano, tutti e due i consoli, Publius Tullius Varro e Iunius Paetus, sono Tarquiniesi di nascita o, quanto meno, d’origine. Romolo A. Staccioli TARQUINIA E IL MONASTERO DELLE PASSIONISTE A Tarquinia tutti conoscono le Monache Passioniste; molti le ammirano; ma pochi sono informati della loro storia; e penso che pochissimi siano in grado di giustificare il loro singolare genere di vita. Il Monastero fu eretto canonicamente il 3 maggio 1771, quattro anni prima che morisse il suo Fondatore; e anche per questo ritengo che una delle forme più degne di celebrare il II centenario della morte di Paolo della Croce sia appunto quella di parlarvi delle sue figlie, più fedele riflesso della sua eccezionale personalità di Mistico. Effettivamente il Monastero scaturì dalle più gelose profondità della sua anima, o per essere più esatti - dal mistero delle sue immersioni nell’amore di Dio attraverso la Passione del Cristo: chi non si cala in quell’ “Abisso” non può neppure intravvedere la vera origine dei Monasteri sparsi in Europa, nelle Americhe, in Asia, con circa 600 religiose, tutte - possiamo dire - almeno indirettamente sciamate dal vostro di Tarquinia. *** L’idea di un nuovo Istituto femminile credo dovesse balenare nel Santo fin dai primi rapporti avuti coi monasteri del Settecento. A Castellazzo - presso Alessandria - fu colpito dagli abusi notati nella comunità delle Agostiniane, tra cui una sua stessa zia paterna, suor Rosa Maria. Più illuminanti furono le penose esperienze fatte presso le Clarisse di 25 Piombino; e - pochi anni dopo - quelle cui diedero occasione i ripetuti incontri con le Benedettine di S. Lucia di Tarquinia. Ma, al riguardo, non ritengo necessario moltiplicare casi tutt’altro che edificanti, ampiamente documentati in tutte le storie della spiritualità del secolo XVIII in Italia. Assai più numerosi dovettero essere “i lumi” intorno al futuro Monastero derivati sia pure remotamente - dai contatti personali con donne della tempra di Giovanna Battista Solimani di Genova, Lilia del Crocifisso di Viterbo, Geltrude Salandri di Roma: tutte fondatrici e riformatrici... Enorme dovette essere anche l’influsso subito dalle esemplarissime Cappucine di S. Fiora, come dalle Carmelitane di Vetralla...; e, non ultime, dalle religiose del monastero del Divino Amore di Montefiascone, associate alla memoria del venerando card. Barbarigo da una parte, e a quella della beata Rosa Venerini e santa Lucia Filippini dall’altra, entrambe madri di quelle Maestre Pie che Paolo della Croce incontrava quasi ovunque, non cessando poi di esaltarne lo zelo e additarne l’esempio. Basti ricordare che, secondo lui, il monastero era “veramente (...) santissimo, di vita perfetta comune...”; e che alle sue Regole egli attinse largamente per comporre quelle delle sue figlie di Tarquinia. *** Il primo timido accenno alla fondazione del loro istituto risale al 10 settembre 1734 in una lettera del Santo ad Agnese Grazi, allusiva a due giovani sorelle, desiderose di “servire Dio alla grande”. Eloquenti, a proposito, altre espressioni dell’epistolario comprese tra il 35 e il 36, che oltre tutto rivelano altre grandi figure quali suor M. Cherubina Bresciani, clarissa di Piombino e Francesca Lucci, maestra pia di Pitigliano. In sostanza, l’idea embrionale del Monastero delle Passioniste potrebbe già riconoscersi nella confidenza fatta a quest’ultima: “Vorrei che si facesse un ritiro di fanciulle che si guadagnassero il pane con le loro mani...”. Seguirono anni altamente drammatici per il Santo, alle prese con difficoltà umanamente insormontabili incontrate per avviare la fondazione del ramo maschile dell’Istituto: esse, come spiega all’amico Tommaso Fossi dell’Isola d’Elba, non gli consentono di pensare ad altro: “In quanto al fondare per donne - scrive nel ‘48 - non v’è la minima via aperta per ora..”. Il medesimo continua confidare ad altri, convinto che per arrivare a qualcosa di positivo occorrerebbero “miracoli”. Ecco perchè “l’opera (...) deve essere parto di orazioni”. Nel ‘50 comincia ad accennare ad una certa “anima, sepolta agli occhi di tutti, in un mare di afflizioni, da tutti abbandonata, ma costante nel bene...”. 26 Non è certo chi fosse, e solo in base a congettare più o meno probabili si potrebbe pensare alla serva di Dio Luca Burlini di Piansano. Sappiamo soltanto che questa, prima dell’estate del ‘51 aveva avuto alcune ispirazioni. Alla giovane Mistica era sembrato di trovarsi sul Calvario e di aver visto ai piedi del Crocifisso “una moltitudine di anime”, le quali “come vedove tortorelle piangevano il loro morto Sposo”. La visione conteneva gli elementi più tipici della fisionomia spirituale delle future religiose della Passione. *** Ovviamente si era ancora molto lontani dall’approdo; e lo si era assai più quando nel 1734-5 - al tempo della guerra dei Presidi Toscani - le Benedettine di S. Lucia ospitarono le Clarisse di Orbetello, da cui furono informate di Paolo e dell’opera che andava svolgendo all’Argentario. Non ci volle altro perché egli fosse invitato a Tarquinia per un corso di esercizi al monastero; e fu appunto allora che Paolo poté conoscere la famiglia dei Costantini, poi fondatori della prima casa delle Passioniste. Un passo indietro. Il Santo in quella circostanza (e nelle successive in cui poté recarsi in città per corsi di predicazione e per affari del suo Istituto) strinse particolari rapporti di amicizia col sacerdote don Nicola Costantini e specialmente col fratello Domenico e la consorte di questi, Lucia Casciola. Appunto i protagonisti dell’opera, della quale la benedettina donna M. Crocifissa Costantini ne sarà l’anima. Di tutta la complessa e interminabile vicenda di cui parlano le fonti si è detto l’essenziale quando si è riferito che i coniugi Costantini disponevano di notevoli possibilità finanziarie, erano profondamente pii, e - non avendo avuto prole - decisero di associare la loro memoria ad un’iniziativa degna della tradizionale fede di famiglia. Si comprende che i loro sforzi non avrebbero approdato a nulla, se Paolo della Croce si fosse disinteressato dell’opera: egli ne fu il segreto ispiratore e la guida più sapiente. E, con la sua azione, fu determinante anche quella del ven. p. Giambattista di S. Michele Arcangelo, fratello del Santo e in ottimi rapporti con donna Lucia Casciola. Sembrò che il progetto dovesse fallire in seguito alla fondazione di un monastero, ideato - a Roma - da un certo don Giuseppe Nicola Carbone: M. Crocifissa ne sarebbe stata la prima superiora; i lavori erano terminati e Benedetto XIV aveva concesso l’approvazione di tutto, quando - imprevedibilmente - non se ne fece più nulla, appunto come Paolo aveva predetto. 27 Poco dopo, nel ‘54, all’attuazione del “nido” di Tarquinia diede il via la tragica morte del giovane Arcangelo, penultimo dei fratelli Costantini, ormai seriamente disposti all’impresa anche perché animati da un sogno dei genitori defunti. Ma presto complicazioni di natura giuridica ritardano il ritmo dei preparativi, e ci volle tutto il buon senso e la lealtà di Paolo per sostenere i coniugi Costantini, esposti ai giudizi di un pubblico tutt’altro che favorevole all’iniziativa. Egli, nel frattempo, si apre con gl’intimi, si rivolge all’architetto Clementi Orlandi e al capomastro Luca Alessi, e soprattutto si preoccupa di incoraggiare i promotori dell’opera: “Lei - scrive a Domenico Costantini - si armi sempre più di gran confidenza in Dio; non lo spaventino le difficoltà, Iddio le farà veder prodigi...”; si accinga alla grande impresa con cuore umiliato, con purissima intenzione per la pura gloria di Dio e per fare un nido per le pure colombe del Crocifisso.. Oh che grand’opera!....”. Ciò nonostante, raccomanda che in città non trapeli nulla e nessuno sappia che egli s’interessa del progetto, temendo ingerenze e complicazioni che avrebbero bloccato irrimediabilmente ogni cosa. ** * Il 29 gennaio del ‘59 iniziano i lavori di demolizione di alcune casupole che occupavano l’area destinata alla nuova fabbrica; il 9 febbraio si procede alla posa della prima pietra, e nel marzo del ‘60 l’edificio è già coperto. Ma, proseguendo i lavori, aumentano le spese interamente a carico dei Costantini, a loro volta condizionati dal raccolto delle campagne che in quegli anni è straordinariamente scarso. “Quel monastero di Corneto - scrive Paolo nell’ottobre del ‘64 ad una postulante - vuole andare in lungo assai perché non ha forze il benefattore di terminarlo presto e non si lavora più. Chi sa se io lo vedrò finito!...” Seguirono anni anche più tremendi, perché quei signori, sul più bello, contro quanto avevano condiviso, respinsero l’idea di un monastero quale il Santo aveva ideato, ossia con clausura severa, perpetua astinenza dalle carni, levata notturna... Mancò poco che tutto naufragasse: non si finirà mai di ammirare la ferma e saggia diplomazia di Paolo. Le Regole, già quasi ultimate nell’estate del ‘66 con la collaborazione di alcuni tra i più illuminati religiosi della Congregazione, in seguito all’esaltazione di Clemente XIV presto sarebbero state approvate. Ma il Santo trepidava ancora e volle attendere prima di agire e sostenere apertamente la causa del Monastero presso la S. Sede. Infatti, non prima del 19 marzo del ‘70, durante un’udienza particolarmente cordiale col Pontefice 28 - già suo grande amico - osò, sfidargli il piano dell’opera ed ebbe le promesse più incoraggianti. Il testo delle Costituzioni fu esaminato dal p. Francesco Angelo Pastrovich e il 3 settembre dello stesso anno fu approvato con rescritto. Il Santo esultò, e i Costantini felicissimi dell’esito delle trattative - s’impegnarono a condurre a termine i lavori. Restava da concludere quella delicata opera di selezione delle postulanti che da molti anni aveva assorbito le migliori energie di Paolo quale impareggiabile maestro di spirito. Con M. Crocifissa salirono a undici le sue “colombe”, che alla vigilia della fondazione ritroviamo raccolte nell’ospitale casa dei Costantini. Sono le coriste: Maria Teresa Palozzi di Ronciglione, Anna Maria Casamayor di Palermo, ma giunta da Orbetello; Clementina Pirelli, romana; le sorelle Clementina e Caterina Segneri di Arpino (Frosinone); Tullia Rosa Carboni di Vetralla. Seguono le converse: Teresa Recchia di Riano (Roma); Teresa Besozzi di Ronciglione; Teresa Franceschi di Pieve S. Matteo (Pistoia), e Geltrude Calzelli di Paliano (Frosinone). Tutte finalmente in porto dopo anni di speranze, di timori, di attesa; la quale però, contro ogni previsione, si protrasse per altre interminabili settimane quante ne fece scorrere la duchessa romana Anna Maria ColonnaBarberini, vedova del duca Filippo Sforza-Cesarini, scelta come “fondatrice e prima superiora” del Monastero. A Roma la nobildonna aveva avvicinato il Santo, a cui doveva aver fatto un’ottima impressione, anche prescindendo dal prestigio del nome e dalle cospicue possibilità finanziarie, particolarmente provvidenziali per coronare gli sforzi dei Costantini. Paolo la ritiene “anima di santa vita”, “gran serva di Dio”; e a sua volta Clemente XIV arriva a indirizzarle un Breve in cui la ricolma di elogi, conferendole tutte le facoltà relative all’ardua missione di responsabile dell’opera. La Barberini il 22 marzo del ‘71 avrebbe dovuto raggiungere Tarquinia, ma la solenne erezione canonica del Monastero dovette rimandarsi al 3 maggio senza la sua partecipazione. Ne fu impedita da inesatte informazioni sul conto del Monastero, da suggerimenti non saggi né forse del tutto disinteressati, ma soprattutto dalla volubilità del carattere già da tempo scosso da infelici vicende familiari. Quando la sera del 18 maggio raggiunse Tarquinia, la vita della giovane Comunità aveva preso il suo ritmo, così intenso da invogliare anche la duchessa. Ma il suo ripensamento fu passeggero, perché poco dopo brigò tanto da ottenere dal Papa la facoltà di tornare sui suoi passi: il 6 giugno partì, visse anni tristissimi e finalmente poté essere accolta tra le Clarisse di Narni. 29 Al rito della vestizione delle religiose celebrato il 3 maggio del ‘71 l’anno dopo - il 20 maggio - seguì l’altro anche più solenne della professione, ultimo dei fatti più essenziali della storia delle Passioniste di Tarquinia. *** Agli studiosi di memorie patrie potranno interessare particolarmente alcuni dati che inquadrano il nostro Monastero nel contesto delle burrascose vicende dei secoli XVIII e XIX. Nel febbraio del ‘98, la prigionia di Pio VI e la creazione della Repubblica Romana ebbero tremende ripercussioni ovunque, specialmente nello Stato Pontificio che in Tarquinia aveva uno dei maggiori centri più vicini alla Capitale. Le religiose, per vivere, furono obbligate a lavorare anche più duramente del solito. E seguirono momenti anche più tristi quando nel 1807 Bonaparte occupò Roma, due anni dopo Pio VII fu condotto in esilio e il 3 giugno 1810 comparve l’editto di soppressione degli Ordini religiosi. Il 15 entrò in vigore obbligando alla dispersione anche le nostre “colombe”: 12 restarono a Tarquinia, accolte in gruppi di quattro in case private, mentre le altre tornarono alle rispettive famiglie. Pio VII - caduto Napoleone - il 24 Maggio 1814 torna a Roma; il 27 giugno ripristina la Congregazione dei Passionisti e nel novembre autorizza la riapertura del Monastero, già trasformato in orfanotrofio, scuola, ospedale. Le monache poterono rientrarvi il 3 dicembre, e il 23 ebbero la gioia di indossare nuovamente l’abito religioso. Esse saranno sempre grate alla memoria dei signori Bruschi-Falgari, esemplarmente liberali con la comunità; e con non minore riconoscenza ricordano i cardinali protettori Lorenzo Litta e Giuseppe Fesch, zio materno di Napoleone: la sorella Letizia, madre dell’imperatore, riposò nella chiesina del monastero fino al 5 luglio 1851, quando le sue spoglie furono trasportate in Corsica. Memoranda, il 25 maggio 1835, la visita di Gregorio XVI. Merita un cenno il fatto che si attribuì alle preghiere delle nostre religiose se Tarquinia, nel 1837, fu risparmiata dalla peste che menò strage in tutta Italia. A loro volta, per un vero miracolo esse non subirono i soprusi del governo giacobino durante i torbidi che caratterizzarono l’instaurazione della seconda Repubblica Romana, mentre Pio IX si tratteneva in esilio a Gaeta. Nel ‘70, con l’invasione dello Stato Pontificio e la presa di Roma la nostra cittadina attraversò un nuovo periodo di crisi, vissuto specialmente dal Monastero: le Passionisti 30 furono spogliate di tutto perché i loro beni stabili passarono al Demanio... Provvidenziale, in quei frangenti, la mediazione del sindaco, il conte Francesco Bruschi-Falgari. *** Molto più interessanti - fin dalle origini - le irradiazioni del Monastero nel mondo delle anime: qua e là, in Italia, non tardò a propagarsi la fama delle umili claustrali di Tarquinia, associate al nome prestigioso del Fondatore dei Passionisti. Tra le prime, attratte dal fascino della loro singolare vita di nascondimento e di preghiera, fu Rosa Calabresi, già discepola spirituale del Santo e privilegiata testimone delle sue ultime grazie mistiche straordinarie. Chiese di essere accolta, ma forse per le sue condizioni fisiche non le fu possibile associarsi alle nostre “colombe”. Più tardi, la marchesa Maria Maddalena Frescobaldi, madre di Gino Capponi, il 10 novembre 1825, col permesso di Leone XII, ottenne di restare per qualche tempo nel monastero “per osservare e apprendere le costumanze dell’Istituto”. A Firenze la nobildonna aveva già fondato nel 1815 il “Ritiro delle Ancille della Passione” “sotto il titolo di S. Maria Maddalena Penitente”; e nelle sue Regole, pubblicate nel 1830, ho avuto la soddisfazione di leggere il più geniale sviluppo dell’idea ispiratrice di Paolo della Croce. Il “Ritiro” fiorentino, pertanto, risultò quasi come la prima “succursale femminile” del nostro Monastero, il suo più tangibile atto di presenza nel mondo, inteso a tradurvi e rivelare l’infinità virtù redentrice della Passione. Le due ultime religiose superstiti, suor Crocifissa Tognoni e suor Pia Frosali, nel 1866, ritiratesi a Signa e sostenute dal santo parroco, don Giuseppe Fiammetti, diedero inizio all’attuale Istituto delle Suore Passioniste d’Italia. Altra esimia figura di consacrata che ha onorato la Comunità di Tarquinia è madre Vittoria di Gesù Crocifisso, della nobile famiglia Bruschi-Falgari. La sua memoria è legata a quella di santa Gemma Galgani, che sospirava di ritirarsi tra le Passioniste, e madre Giuseppa Armellini sua amica, che pochi anni dopo fondò a Lucca il Monastero che custodisce le spoglie mortali della grande Mistica. Il 26 novembre 1770 Paolo, scrivendo ad una sua figlia spirituale, poteva annunziarle imminente la fondazione del Monastero: “Spero - aggiunge - sarà di grande splendore ed edificazione a tutto il mondo, e quando ne saprete le circostanze, resterete stupita e benedirete e magnificherete le misericordie di Dio, che solo sa fare cose meravigliose..”. 31 Per molti, oggi, non è facile intuire il senso e dimostrare la fondatezza delle parole del Santo: mai forse la cultura laica ha respinto più sdegnosamente la vita contemplativa come ridicola alienazione della coscienza umana. La “svolta antropologica” di certa presunta teologia e il conseguente processo di secolarizzazione che ha indotto al rifiuto del “sacro”, ormai ha reso inconcepibile la vita dello spirito, l’incontro personale con Dio, il messaggio evangelico di una giustizia che trascende l’orizzonte storico di tutti i valori profani, di ogni rivendicazione sociale. E assai più folle (almeno secondo la concezione immanentistica e materialistica dell’esistenza) appare un tipo di vita vissuta all’insegna del “sacrificio”, come appunto quella delle “Colombe del Crocifisso”. Noi, invece di gridare all’assurdo, accettiamo il “mistero” di una redenzione dal male e di un ricupero di bene che nella Passione espiatrice concentra la luce più abbagliante che possa guidare il cammino della storia verso le più desiderabili affermazioni della civiltà umana. Appunto ciò fonda la nobilità della vocazione contemplativa e riparatrice quale più eroica espressione di solidarietà soprannaturale, riflesso del sublime martirio della Croce. Ecco perché, come affermava Giovanni XXIII, “alle suore di clausura (...) spetta il primato del servizio di Dio, che è preghiera incessante, distacco assoluto da tutto e da tutti, amore al sacrificio, espiazione per i peccati del mondo”. Perché, come già Pio XI aveva dichiarato, esse “giovano molto più al progresso della Chiesa e alla salvezza del genere umano” di tutti gli altri “operai evangelici”...; perché il loro è l”apostolato più universale e più fecondo”. Esse, sentenzia Paolo VI, “costituiscono il cuore” della Chiesa... Non altre le intime convinzioni di Paolo della Croce, certissimo - nell’erezione del Monastero - di affidare a Tarquinia il più geloso tesoro della sua anima di contemplativo e di apostolo. Prof. ENRICO ZOFFOLI 32 PER IL RESTAURO DEL PALAZZO COMUNALE DI TARQUINIA Nel momento che la città dell’alto medioevo erano tutte in fermento di attività artigianali e commerciali, ci si trovò di fronte alla necessità di dare una sede al raggiungimento di quella complessa organizzazione quale era la società di allora; sorsero quindi i “palazzi comunali”, edifici che erano l’espressione di una organizzazione e di una struttura politica, sociale, amministrativa. Il libero comune medioevale era dotato di autoamministrazione e di autonomia, intesa questa in uno dei più larghi significati che possano applicarsi ad un ente come il Comune, soggetto alla sovranità dello Stato; aveva funzioni decentrate in grado assai elevato ed era sottratto quasi totalmente ai concetti di statalismo e statalizzazione. In questo clima politico e culturale si innesta, dopo la prima metà del XIII secolo, l’edificazione del Palazzo Comunale di “Corneto”, che nell’insieme decorativo presenta delle spiccate analogie con la chiesa di S. Pancrazio, diventata il fulcro dell’attività civica a partire dagli inizi del XIII secolo. Indubbiamente, tra la costruzione dei due edifici, intercorre un lasso di tempo (60 anni circa) troppo vasto per poter giustificare tali similitudini, senza far riferimento a due ordini di fattori; il primo, inerente al fatto che la forma dei due palazzi comunali, ideata in Lombardia, là dove c’era maggior fervore di vita associativa, mantenne nell’Italia superiore e centrale, anche nei primordi gotici, la semplicità franca da cui ebbe grandezza; il secondo, riguardante le maestranze che, come è noto, erano solite, in questo periodo, 33 suddividersi i compiti in maniera specifica, il qual fatto è ampiamente testimoniato nelle strutture e nelle decorazioni dell’edificio. Per quanto riguarda il primo punto, bisogna aggiungere che in effetti il Palazzo ha risentito degli influssi della nuova arte gotica che nel Lazio attecchisce solo nel 1200, ampiamente mediata dalla tradizione locale: questo fatto lo si può riscontrare nell’arco rampante della loggia, negli archi ogivali di Via Antica e in taluni altri particolari di secondo piano. Tutto sommato però l’edificio, nell’insieme strutturale della presunta parte originaria, fornisce significanti aspetti di quella cultura Lombarda di cui parlavamo poc’anzi e riscontrabili nella distribuzione e dimensione degli ambienti, nelle coperture e nella pavimentazione in legno, sostituita in epoca successiva con volte a botte. Discorso a parte meritano le facciate, dalle quali, più che in ogni altra parte della costruzione, traspare la partecipazione popolare, sia a livello culturale che operativo. Infatti, la matrice culturale della decorazione tardo-antica a bugne stellari dell’arco della loggia e della cornice marcapiano, più che all’esterno, va ricercata nella stessa Corneto che, tramite S. Giovanni, S. Pancrazio, lo stesso attuale S. Francesco, le aveva riprese dall’architettura normanna, insieme ad altri episodi artistici. Ad esempio, punte di diamante a bugne a stella compaiono nella cattedrale di Palermo della seconda metà del XII secolo. La stessa cosa circa le influenze, si può dire delle decorazioni policrome degli archetti a tutto sesto delle finestre, leggermente aggettanti dalla muratura (oggi inglobate totalmente in essa in seguito alla sovrapposizione delle finestre cinquecentesche) e dei capitelli, la cui rudimentale fattura testimonia la purezza e la semplicità espressiva dell’artefice, e ricorda lontani esempi lombardi. Altra prova di quanto detto circa l’opera svolta nel Palazzo del Comune dalle maestranze locali, la si può trovare nel portale di accesso alle scale che conducono alla parte aggiunta con l’ampliamento del 1478; detto portale nello stile e nelle decorazioni è molto simile a quello situato nella torre del Palazzo, detto dei Priori. Il portale del Palazzo Comunale però si distingue dall’altro, in quanto presenta in più delle decorazioni a punta di diamante a base quadrata, simili a loro volta a quelle dell’arco rampante della loggia di periodo certamente precedente. Probabilmente, invece, il motivo delle lesene, legate in alto da archi ciechi a tutto sesto, è da ricollegarsi alla architettura pisana e più precisamente al duomo che a sua volta lo riprende dalla cattedrale di Ani in Armenia e da altre chiese del X secolo. 34 Per la verità, il motivo delle arcate cieche era già noto all’architettura romana e da questa, tramite quella paleo-cristiana, la bizantina e quella ottoniana, era pervenuto ad esempio al duomo di Modena, ma il fatto che Corneto, nel periodo dell’erezione del Palazzo, avesse stretti contatti con Pisa e facesse parte della Marca Toscana, escluderebbe ogni altra influenza che non fosse quella della città marinara. INSERIMENTO NELLA STRUTTURA URBANA Come è stato detto in precedenza, il Palazzo Comunale risale alla seconda metà del XIII secolo; il suo inserimento nella struttura urbana è abbastanza interessante e coincide con una operazione di spostamento generale degli interessi della città. Tuttavia, prima di entrare più profondamente in questo discorso, è necessario tracciare un quadro sintetico sulla formazione e la crescita di Corneto sin dall’inizio. Non è facile stabilire la consistenza urbana di Corneto nel VI secolo, ma si può senz’altro identificare il principale nucleo civile e militare nella rocca di S. Maria in Castello. L’accrescimento del borgo in riferimento al “Castello” (fig. 2) si può definire (secondo il Munford) del tipo organico ossia nella più completa semplicità e privo di una ricerca formale e di un certo tipo di programmazione. I risultati sono soddisfacenti: si ha una prevalenza di corpi di fabbrica allungati costruiti parallelamente alle curve di livello e perpendicolarmente ai venti di tramontana e libeccio. Di conseguenza anche la struttura viaria risulta semplice e funzionale: strade parallele alternate nei punti nevralgici da piazze (Duomo, S. Stefano, S. Martino). Le prime fortificazioni del “Castro de Corgnito” sono databili (secondo il Dasti) nel 731-741 sotto il pontificato di Gregorio III. Un miglioramento dovrebbe essere avvenuto nella prima metà del IX secolo in seguito alle invasioni dei Saraceni. Nell’XI secolo lo sviluppo urbano all’interno della prima cerchia doveva essere quasi completo. (fig.3) Fra il XII e il XIII secolo si concretizzavano quei fatti in stretta relazione con la costruzione del Palazzo Comunale; cerchiamo di analizzarli. La costruzione di due conventi (fig. 3 e 4), uno di benedettini (l’odierno S. Francesco) e l’altro degli eremitani di S. Marco, e la conseguente formazione all’interno di essi di piccole concentrazioni abitative, è il primo episodio importante. 35 Infatti, probabilmente, per inglobare questi viene costruita la seconda cerchia di mura e conseguentemente abbattuta tutta o in parte l’altra. Proprio per avere una conferma sulla demolizione delle fortificazioni a sud è fondamentale ricordare che nel 1204 viene incoronato Pietro II d’Aragona in S. Pancrazio, la chiesa è tangente alle suddette mura e quindi è arduo supporre la loro coesistenza in detta data. Sempre riferendosi all’importanza del fatto è da sottolineare che fino ad allora tali cerimonie avevano trovato la loro giusta sede nella chiesa di S. Maria di Castello, quindi la preferenza per S. Pancrazio, costituita con ogni probabilità solo quattro anni prima, fa supporre, data la sua posizione eccentrica rispetto al vecchio nucleo, che era già in atto uno spostamento del centro della città forse a causa di nuovi interessi politico-economici. Il nuovo centro si concretizzava con la costruzione del Palazzo Comunale sul tracciato delle primitive mura ed in posizione baricentrica nella nuova configurazione della città. Come precedentemente accennato, la nascita del nuovo centro-urbano è senz’altro da porre in relazione ai nuovi interessi politico-economici di Corneto. Infatti, la piazza del Comune si trova proprio sui due assi di comunicazione principali; (fig.5) e la strada che porta al mare (di conseguenza al porto) ed alla via Aurelia, è quella che porta a Viterbo ed all’entroterra (è da ricordare a questo proposito che proprio in una delle apoteche del palazzo era situata la dogana del sale). Da quanto detto è chiaro che la piazza nata di fronte al Palazzo Comunale doveva essere un punto obbligato per ogni tipo di commercio e di relazioni (non a caso rileggendo la Margarita Cornetana si ha notizia di molti atti stipulati nella piazza, nella loggia e sulle scale del Palazzo Comunale). Concludendo, si possono fare alcune considerazioni sulla piazza come realizzazione architettonica. E’ infatti chiaro che la posizione di questa indica il compimento di un certo programma urbanistico, ma non altrettanto chiara è la “volontà” architettonica, anche a causa degli sventramenti ipotizzabili, l’ultimo dei quali avvenuto nel 1841 con la demolizione della chiesa della Misericordia (fig. 6). Forse la condizione del terreno che fa da supporto alla piazza e che rende difficile la continuità di questa, ha impedito di trasformare il funzionale spazio urbano in un riuscito spazio architettonico. In altre parole, la piazza del Comune non riesce ad essere uno spazio unico e continuo, ma si cristallizza in altri spazi. 36 Va comunque sottolineato, che quanto detto deriva da una visione attuale della piazza, tuttalpiù, tenendo conto dell’unica demolizione accertata da un documento storico (la chiesa della Misericordia). CRONOLOGIA DEGLI INTERVENTI Chiarita la situazione urbanistica e sociale, che vede la nascita del Palazzo Comunale e chiarite le cause che hanno portato alla sua edificazione, passiamo ora ad analizzarne gli aspetti architettonici, cercando per quel che è possibile di distinguerne le varie fasi che si sono succedute nel tempo attraverso ampliamenti e rifacimenti. Cercheremo di aiutarci con le analogie strutturali e decorative che il Palazzo ha con altre costruzioni simili del periodo comunale; in particolare con quegli aspetti della cultura architettonica lombarda di cui, come si è detto, il territorio cornetano ha subito influenze notevoli. Attualmente il Palazzo si estende in lunghezza dalla chiesa del Suffragio fino alle scale della cisterna, ed in profondità da P.zza Matteotti a via S. Pancrazio. Esso però è pervenuto all’assetto attuale tramite una serie di rimaneggiamenti che ne hanno alterato le caratteristiche primitive. Con molta probabilità, la parte originaria è quella che va dall’arco, che lo attraversa in tutta la sua profondità, alla fine della torre. Questa zona dell’edificio, infatti, presenta in maniera accentuata quasi tutte le caratteristiche, comuni ai palazzi pubblici dell’epoca. Tali edifici, generalmente, si articolavano su due piani: un piano terreno completamente aperto in porticato ed un piano superiore comprendente un unico grosso vano, chiamato “Camera”, in cui si tenevano i consigli e si svolgevano le attività amministrative del Comune. Generalmente, l’area sottostante la “Camera” era suddivisa da arconi insistenti su piedritti cruciformi, al centro ed a T sui lati. Sulla parte superiore di tali arconi, che costituivano lo scheletro di base, erano inserite delle travi in legno che facevano da supporto al pavimento, anch’esso di legno, del vano superiore. Tali palazzi, quasi sempre di forma rettangolare, erano muniti di un’alta torre campanaria, generalmente localizzata sul lato minore, o inglobata nella struttura all’angolo del medesimo. Non sempre erano muniti di collegamenti verticali, in quanto, spesso, l’accesso sulla “Camera” avveniva tramite dei passaggi che collegavano tale parte superiore del Palazzo 37 con la residenza dei massimi ufficiali che reggevano le sorti del Comune. Altre volte, invece, tali collegamenti erano localizzati all’esterno, però quasi sempre nella parte del lato minore dove era situato l’accesso alla “Camera”. A volte si possono riscontrare degli esempi di scale, che tramite un pianerottolo o una loggia, permettevano l’accesso alla “Camera” dalla parte del lato maggiore, che dava sulla piazza. Tali logge, oltre che per lo scopo di cui sopra, servivano anche per le arringhe al popolo e, come nel caso di Corneto, per la stipulazione dei contratti privati. Servendoci, dunque, del quadro generale della tipologia dei palazzi comunali, ci è stato possibile, nel caso specifico, individuarne in un primo momento la presunta parte originaria e di conseguenza approfondire la ricerca di quei particolari che, in qualche modo, confermassero la nostra ipotesi. L’edificio nelle sue parti esterne, presenta una apparente soluzione di continuità, in quella zona che va dall’accesso alla scala 800esca e quindi dalla torre, fino alla chiesa del Suffragio. Abbiamo usato il termine “apparente” perché ad una più attenta analisi delle sue parti tipologiche e decorative, sono emerse varie differenze. Il Palazzo presenta una serie di costoloni, legati superiormente da archi a tutto sesto, aggettanti dalla muratura. Tali archi si trovano in tutta la parete nord dell’edificio, mentre mancano nella parte della facciata prospiciente P.zza Matteotti, dalla loggia fino alla chiesa del Suffragio. Sul retro, inoltre, gli archi pensili, aggettanti per circa 40 cm. dalla muratura fino all’arco di Via Antica cambiano totalmente nella parte di destra. Si può addirittura notare, oltre che il differente grado di rifinitura, anche il diverso aggetto dal muro, in quanto meno profondo. Nella facciata di P.zza Matteotti invece, dove in assenza degli archi sono tracciate solo le linee di imposta nel muro, si può notare che nella parte diametralmente opposta al punto di innesto delle due diverse tipologie del retro, corrisponde un più ampio spazio tra l’attacco dell’arco tagliato e quello successivo segnato nella muratura. Altro elemento di differenziazione esterna lo si può notare osservando la copertura. Infatti, in direzione del punto in cui cambia la tipologia degli archi, il tetto verso la chiesa del Suffragio, pur avendo la stessa linea di gronda, ha il colmo più basso, che lascia intravedere l’originaria muratura perimetrale su cui insiste un piccolissimo campanile a vela. All’interno, la differenza è ancora più macroscopica. La presunta parte originaria, fermo restando il fatto di aver subito delle trasformazioni, tra cui la sostituzione dell’antica 38 pavimentazione in legno della “Camera” con volte a botte grossolanamente eseguite, presenta delle diversificazioni, oltre che nel numero dei piani, anche nella tipologia strutturale. Infatti, l’esecuzione della volta a botte costolonata del sito addetto a deposito della ferramente, del tutto simile a quella delle parti basse di Palazzo Vitelleschi, risalente al 1439, e la diversa distribuzione interna degli ambienti, permettono di farne risalire la costruzione ad un’epoca posteriore anche se non troppo lontana nel tempo. Questo convincimento ci viene dalla presenza della cornice marcapiano che lega le due parti, e dalle bifore del piano superiore di cui si conservano tracce e che hanno ceduto il posto in un restauro del 1512 alle attuali finestre. Per completare il quadro della situazione originaria, resta da prendere in considerazione un ulteriore elemento: la torre. Sicuramente quella attuale non è nata con il Palazzo, come in un primo tempo si credeva, in quanto da una parte, interrompe bruscamente il motivo dei costoloni e degli archi pensili, e dall’altra, la sua muratura non fa corpo unico col palazzo ma è ad esso aderente, cosa che è stato possibile verificare scrostando l’intonaco e introducendo una sonda. Rimane allora da localizzare la posizione della torre che sicuramente doveva avere il Palazzo originario. Dal rilievo è emersa l’esistenza di un vuoto di struttura, nella parte terminale del Palazzo verso la torre attuale, di dimensioni 5, 00 x 4,50 ed occupante il piano terreno ed il 1° piano della zona di destra, più tarda. Tale indeterminazione scompariva a livello del piano nobile. A questo punto abbiamo le due circostanze, facendo l’ipotesi che la torre attuale fosse stata costruita internamente alla struttura del Palazzo e che quella vecchia, invece, fosse da identificarsi col vano di cui sopra. Fatti dei sondaggi con carotatura di materiale, abbiamo scoperto che il vano in esame era delimitato da muri a sacco di m. 1,30 di spessore. Tali dimensioni dei muri, unitamente ad una lesione, individuata in uno di essi, con molta probabilità provocata da rotazione, facevano supporre che era questa la torre diruta e l’altra, quella ricostruita dalle fondamenta nel 1512 con i fondi del Papa Giulio II (v. Dasti). A questo punto è possibile fare un’ipotesi: in origine il Palazzo Comunale era quello che, come abbiamo già detto, comprendeva la sola aula del consiglio, il vano che ospita la scala del 1800, il vano della torre attuale e la parte immediatamente sopra all’arco di Via Antica. 39 Con molta probabilità però, durante l’esecuzione dei lavori si è avuto un ripensamento, dal momento che si è costruita l’ala che si estende verso la chiesa del Suffragio, forse per adibirla a residenza di qualche notabile. Con molta probabilità, il Palazzo non aveva un porticato in tutto il piano terra, bensì delle apoteche, di cui si fa menzione in alcuni documenti. Se nulla è possibile dire con esattezza circa la data di inizio dei lavori, è quasi certa quella del loro termine. Infatti, nella lapide trovata sopra la loggia, e che parla di “haec domus”, si legge che la fine dei lavori risale al 1266. Come si preciserà più oltre, però, abbiamo rilevato delle discordanze nei documenti presi in esame, in quanto ce n’è uno nel quale si parla di attività svolte nel Palazzo Comunale già nel 1263. Questo si potrebbe spiegare con quanto detto pocanzi, circa la cronologia degli interventi, intendendo la lapide riferirsi alla fine dei lavori di entrambe le parti. Comunque, non si hanno notizie del Palazzo prima del 1263; del resto prima di questa data, l’attività del Comune si svolgeva prevalentemente nelle chiese. Prime fra tutte, a questo scopo, era stata adibita S. Maria in Castello ma agli inizi del XIII secolo, con molta probabilità, tale compito era demandato a S. Pancrazio, costruita in fretta per permettere l’incoronazione di Pietro II d’Aragona, e come si è detto, nel centro del nuovo nucleo urbano. Sicuramente, S. Pancrazio avrà svolto questo compito sociale per lungo tempo, fino appunto all’erezione del nuovo Palazzo Comunale, poco distante. Il motivo della cornice marcapiano a bugne stellari, del Palazzo, il cui uso è certamente raro nel 1266, è identico a quello della cornice dell’abside e della facciata di S. Pancrazio quasi a simboleggiare la continuità delle manifestazioni nei due edifici. Precedentemente, parlando della lapide, abbiamo detto che essa era stata trovata murata sopra la loggia, e questo fatto ci ha lasciato alquanto perplessi. Sicuramente, detta loggia non è nata con il Palazzo, la qual cosa di può accertare sia esaminando documenti, sia osservando particolari di rilievo ed architettonici. Sicuramente il Palazzo doveva essere, originariamente, fornito di due scale, una delle quali era interna. Il primo documento in cui si fa menzione di esse, risale al 1287 continuando fino al 1293, anno in cui è stipulato un contratto davanti alle scale del Palazzo Comunale e il 10 marzo dello stesso anno, in cima alle scale nuove del suddetto Palazzo. 40 Le scale vecchie sono infine citate nel 1294 e dopo questa data, non si ha più notizia di esse, probabilmente abbattute per lasciare il posto al nuovo ampliamento della parte destra oltre la torre, probabilmente distrutta da un incendio e restaurata nel 1512. Le scale nuove, e dunque la loggia compaiono per la prima volta nel 1293, e questo è un fatto facilmente verificabile nella struttura. Infatti, la muratura della loggia, è addossata a quella del Palazzo e non formante un unico corpo con esso. La porta che dalla loggia immette nell’aula del Consiglio è stata ricavata sotto una finestra a bifora primitiva. Di periodo più tardo inoltre sono le decorazioni dell’arco rampante, su cui insiste la scala, rispetto a quelle della cornice marcapiano e alle decorazioni delle bifore. Tali decorazioni infatti, pur riprendendo il motivo a stella delle cornici di cui sopra, sembrano più curate e rifinite. Alla luce di quanto detto finora dunque si può stabilire con una certa approssimazione, che in effetti è inesatto cercare di stabilire una data circa la fine dei lavori, in quanto presentando il Palazzo, nella sua globalità, una continua evoluzione strutturale, esso probabilmente è stato oggetto di continui rimaneggiamenti non molto lontani nel tempo l’uno dall’altro. Resta il fatto, comunque, che alla fine del XIII secolo esso doveva avere già l’aspetto attuale, nella parte presa in considerazione, salvo alcune modifiche che ha subìto negli interni. Ad esempio, sono scomparse delle “apoteche” ubicate nel piano terreno, prospicienti un porticato e ubicate vicino alla torre. Probabilmente, sono state inglobate negli ampi locali del Monte di Pietà istituito in Corneto nel 1579 ed occupante tutta la parte sotto l’aula del Consiglio. Scomparsa è anche una cappella interna al Palazzo di cui si parla in un documento del 1362, e l’aula circolare, sede del Consiglio dei Nove, menzionata in un documento del 1409. Probabilmente, queste modifiche sono da attribuirsi all’intervento di restauro che il Palazzo ha subìto nel 1476, in seguito ad un incendio. A questo periodo inoltre è da attribuirsi anche il successivo ampliamento che va dalla torre attuale alle scale della cisterna e testimoniato dalla data (1478) scritta sull’architrave della porta che immette nel salone d’ingresso. Forse non tutta questa parte è sorta ex novo ma con molta probabilità si è innestata sui rari ruderi di un fabbricato precedente distrutto appunto dall’incendio ed addirittura 41 sui retti delle vecchie mura di difesa della città e delle quali abbiamo scoperto delle tracce affianco alla scala di cui sopra. E’ stato anche in questo periodo che con ogni probabilità si è provveduto alla sostituzione dell’antica pavimentazione in legno dell’aula del Consiglio, con volte a botte, insistente sugli arconi sottostanti, motivo questo che permetteva di scongiurare il ripetersi di pericolosi incendi. La nuova parte del Palazzo menzionata è forse la meglio conservata nel suo insieme, eccezione fatta per l’aggiunta di alcuni tramezzi, e la sostituzione di una antica volte a botte lunettata con volte a schifo, nell’attuale anagrafe, e l’aggiunta di solai a volterranee, nel piano terra. Concludendo dunque, una prima parte del Palazzo è stata ultimata nel 1266, immediatamente dopo è stato ampliato verso la chiesa del Suffragio, indi costruita la loggia e solo più tardi è stato ampliato verso la “cisterna”. Concluse le fasi precedenti di indagine storica ed ambientale (del Palazzo), si è reso indispensabile un più diretto contatto fisico con il monumento, onde acquisire tutti quei dati necessari nella successiva fase tecnica del restauro. Stabilito un programma di massima, in base ai risultati emersi dal rilievo, si è portato avanti un tipo di ricerca, capace di chiarire, non solo lo stato di conservazione della struttura, nel suo insieme, ma anche certi interrogativi di carattere storico-cronologico, ai quali non era stato possibile dare una risposta esauriente, servendoci solo della lettura dei documenti pervenutici. Tracciato, quindi, come detto pocanzi un quadro generale delle priorità di intervento, si è proceduto ad una prima immediata classificazione dei dissesti e delle degradazioni. Nella facciata prospiciente P. zza Matteotti e esattamente nella loggia, si sono individuate delle lesioni, il cui andamento faceva in un primo momento pensare che la causa fosse da attribuirsi esclusivamente alla presenza della copertura, aggiunta in periodo relativamente recente. Infatti la muratura della parte compromessa ha subìto una rotazione verso l’esterno dovuta al contributo di due dattori: 1) Cedimento del piedritto di destra dell’arco, con conseguente indebolimento della struttura nella parte centrale. 2) Presidenza del carico dovuto alla nuova copertura e gravante, tramite le colonne, sull’arco di facciata. Eseguita la verifica di stabilità dell’arco con il metodo grafico di Méry, si è potuto accertare dall’andamento della curva delle pressioni, completamente interna alle linee di 42 nocciolo, che le dimensioni dell’arco sono esatte e che di conseguenza la struttura lavora tutta a compressione e nei limiti di sicurezza consentiti dal materiale (5 kg/cm 2). Tuttavia la verifica al ribaltamento ha dimostrato l’inadeguatezza del piedritto. Infatti il momento reagente è inferiore al momento agente, e questo spiega la presenza del contrafforte laterale. E’ importante precisare che tale verifica deriva dalla copertura e dalle colonne, il che dà anche adito all’ipotesi che la sola loggia abbia resistito per lungo tempo in condizione di equilibrio instabile e che il collasso sia avvenuto in seguito alla sovrapposizione del nuovo corpo. Ricostruite dalle cause gli effetti, è emerso che non tutte le lesioni possono essere pienamente giustificate dalla concomitanza dei fenomeni citati. A questo punto, l’unica verifica mancante è quella della portanza del terreno di fondazione, senza la quale non è possibile avere un quadro completo delle cause del dissesto. Individuata una maglia a livello planimetrico, si è proceduto all’esecuzione di fori verticali con conseguenze estrazione di campioni del terreno. Quest’operazione è stata svolta con un martello perforatore C.A.R.P.E.R. con velocità di 250 gir-min e carotiere da 45 mm. Per permettere l’asporto dei materiali di accumulo, esterni al carotiere, e che se non estratti possono provocare l’inceppo dello strumento con grave pericolo per l’operatore, è stata fatta una applicazione per permettere l’immissione di acqua di lavaggio ad alta pressione. Contemporaneamente alle perforazioni, sono stati eseguiti degli scavi, che hanno permesso di individuare una lesione, localizzata nello strato di macco su cui poggia il muro laterale della loggia. Questa lesione stabilisce in maniera definitiva la presenza di cedimenti fondali, che insieme al degrado delle parti basse delle murature sono difficilmente spiegabili senza il contributo di uno studio geochimico. Il materiale da costruzione impiegato nell’opera in esame è, sotto un profilo geologico, il medesimo che si rinviene come supporto di tutto l’abitato di Tarquinia. L’affioramento di questo tipo di roccia prevalentemente carbonatica di origine organogena, si estende su tutta la vasta area a sud e a est dell’abitato e appoggia direttamente sulle marne e sulle argille grigio-azzurrino del Pliocene; sotto un profilo stratigrafico queste due formazioni sono continue e il passaggio da quella carbonatica ai due litotipi precedentemente accennati corrisponde ad un approfondimento del bacino di sedimentazione; in altre parole, le argille corrispondono al sedimento terrigeno del bacino miocenico di provenienza terrigena mentre la formazione sovrastante corrisponde ad una fase di maggiore trasgressione con l’apporto terrigeno molto limitato; pertanto si ha, in 43 questa formazione superficiale, un sopravvento del materiale carbonatico organogeno rispetto all’apporto classico. Lo spessore medio della formazione carbonatica può essere valutata fino a 20 metri. La formazione carbonatica è costituita da calcari organogeni calcareniti e calcari sabbiosi più o meno compatti giallo-biancastri che localmente prendono nome di “macco”; talora si osservano intercalazioni di sabbie gialle e argille sabbiose; la macrofauna permette di attribuire al Pliocene Superiore-Medio questa formazione. Data la posizione stratigrafica di questa formazione, i fenomeni diagenetici intercorsi sono da attribuirsi a percolazione delle acque sia in fase precoce che in fase regressiva; assenti invece fenomeni di costipamento non esistendo in fase precoce formazione che potesse dare tale costipamento (identico processo diagentico si ha nei travertini ad opera delle acque circolanti che sciolgono carbonato di calcio nella parte superiore e lo depositano nella parte inferiore); da tutto questo insieme dei dati ne consegue un’altra porosità e permeabilità del materiale impiegato nella costruzione dell’opera. A titolo di informazione si possono elencare le caratteristiche tecniche dei materiali di cava come segue: porosità : 5 - 10% peso specifico reale : 2,70 - (g/cmc) peso specifico apparente : 2,40 - 2,55 (g/cmc) permeabilità 100 - 500 millidarcy : Si intende che questi valori sono riferiti a materiali di cava coerenti mentre le caratteristiche possono decadere notevolmente sia in vari punti della cava medesima che per dissoluzione di parte della calcite nei manufatti costruiti con questo materiale: questo può essere verificato in certe porzioni di materiale estratto dalla costruzione dove la porosità arriva al 25 - 35%, e quindi il peso specifico apparente diminuisce fino a 1,7 2,000 g/cmc. Questo fenomeno può essere spiegato con la dissoluzione da parte delle acque di imbibizione del CaCO3, con l’aumento del numero dei pori da cui un sempre maggiore percolamento; infatti, il materiale impiegato nella costruzione è sempre un calcare ad elevata purezza con residuo insolubile (materiale non carbonatico valutabile attorno allo 0,1-1,00%). Il materiale non carbonatico risulta costituito da una sabbia silicatica con piccolissime quantità di materiale argilloso; questa caratteristica può spiegare la rapida 44 degradazione della “pietra” utilizzata in quanto non contenendo grosse porzioni di materiale argilloso, la porosità del materiale tende sempre ad aumentare senza mai giungere alla occlusione dei pori da parte dell’azione del materiale granulometricamente più fine, costituito dai materiali silicati presenti. Processo quindi di degradazione del materiale in esame che può essere spiegato invertendo il processo che ha subìto la “pietra” durante la fase diagenetica: dissoluzione del CaCO3 per sviluppo di una circolazione delle acque di infiltrazione con aumento notevole sia della porosità che della permeabilità del materiale, fino al suo collasso. Un fenomeno naturale del tutto simile è quello che si verifica in formazioni carbonatiche per circolazione di acque sia superficiali che sotterranee (carsismo). Il micro-carsismo che si rivela nella “pietra” in esame può arrivare ad uno stadio così avanzato da disgregare completamente il materiale litoide, separando tutti i singoli granelli di CaCO3, e cioè sciogliendo tutto il cementante e ottenere quindi una massa incoerente con dimensioni dei singoli grani da sabbia fine a limo. Il fenomeno della degradazione quindi in questa “pietra” è da identificarsi nell’alternanza dei movimenti dell’acqua di infiltrazione che allontana il carbonato. A questa conclusione si può giungere anche indirettamente osservando il processo di degradazione dell’opera in esame tenendo presente la situazione geologica descritta precedentemente: le argille sottostanti del materiale carbonatico su cui poggia l’opera costituiscono un letto impermeabile e sopportano una falda acquifera che è localizzata nella formazione carbonatica sovrastante; questa falda acquifera subirà forti oscillazioni sia stagionali che in relazione all’emungimento dei pozzi ubicati nella zona, queste oscillazioni determineranno fenomeni più vistosi di dissoluzione nella roccia carbonatica a più alto livello e lo stesso fenomeno si verificherà in corrispondenza della parte più bassa dell’opera. Questi fenomeni quindi comportano una instabilità delle fondazioni (vedi problema dissesto loggia in seguito a cedimento fondale) e una maggiore alterazione localizzata nella parte più bassa a diretto contatto della formazione carbonatica in situ. Per quanto riguarda infine il diverso colore del materiale litoide impiegato, sempre da campioni di materiale estratti, questo fatto può essere spiegato con fenomeni di ossidazione dovuti alla dissoluzione del CaCO3 e un arricchimento degli elementi più ossidabili contenuti come sostituenti dal calcio sul carbonato; questo fenomeno si può riscontrare sia nel materiale di cava (legato ai fenomeni diagnetici), che in quello degradato in situ. 45 CONCLUSIONI Come in tutti gli interventi di restauro di monumenti, dopo una fase di analisi e di ricerca, si giunge alla proposta progettuale di intervento. Nel nostro lavoro per scelte ben precise, la proposta di restauro, non è stata formulata completamente. Questo può sembrare strano a prima vista, infatti quando si dispone di una concreta analisi giungere a una proposta non è difficile. Tuttavia è anche dimostrato che partendo da una stessa analisi si può arrivare a conclusioni diverse, in una materia in cui il rigore scientifico non è componente essenziale. Infatti tecnici diversi che lavorano ad uno stesso intervento di restauro potranno fornire risposte simili finché resteranno nel campo tecnico del consolidamento o del risanamento, ma più oltre le risposte saranno del tutto soggettive e derivanti da diversi gradi di sensibilità. E’ per questo che attraverso un’accurato lavoro di ricerca, abbiamo creato una base d’informazione, sufficiente a far conoscere il monumento in ogni aspetto, storico, sociale, tecnico, in modo che il progettista non agisca da solo, ma sia suffragato nel suo lavoro da diversi componenti, per giungere così ad una conclusione il meno possibile soggettiva. Secondo me questo è il metodo più giusto per intervenire su un monumento (in special modo nel nostro caso) che spesso è stato nel tempo l’immagine dell’evoluzione della volontà di più persone. arch. LEONARDO PROLI RICORDO DI LEONIDA MARCHESE Avevo da poco assunto la direzione del Museo e degli Scavi di Tarquinia, quando il compianto amico e collega, senatore Alfonso Bartoli, mi interessò per far comandare al mio ufficio Leonida Marchese, che era allora, credo, segretario di una scuola media, e contemporaneamente iscritto alla Facoltà di Lettere dell’Università di Roma. Accolsi la proposta con una certa freddezza, sapendo per esperienza che la richiesta di tali comandi veniva di solito da elementi che ricercavano un posto di comodo e di poco impegno: mi dava tuttavia affidamento la persona dalla quale questa richiesta ora era avanzata: il Bartoli, sempre restio a fare raccomandazioni di elementi dei quali non potesse garantire la serietà e lo zelo nel lavoro. 46 Acconsentii perciò e il Marchese venne a Tarquinia: aveva allora 33 anni, essendo nato a San Severo in provincia di Foggia il 1902. Ma ben presto mi accorsi che l’ufficio aveva fatto un acquisto di raro valore, acquisto che, con il passare degli anni, sarebbe stato non per il solo museo e per gli scavi, che di lì a poco si sarebbero iniziati nell’area della Civita, ma per tutta la città di Tarquinia, della quale il Marchese finì per essere uno dei più profondi conoscitori e appassionati amatori. Uscito da una famiglia di genitori insegnanti nelle scuole medie superiori e di fratelli rivestiti di alte responsabilità nella magistratura o nell’amministrazione dello Stato, il Marchese, che nel frattempo si era laureato con una tesi numismatica con la prof.ssa Cesano, aveva vivo l’amore e l’interesse per la cultura, specie per quella artistica, artista in certo qual modo egli stesso (chè nelle ore libere si dilettava di disegno e di pittura e di altre arti figurative), e desideroso di far parte di quanto egli sapeva a quanto altri potesse: così che non solo accoglieva di buon grado il compito di guidare e illustrare a chiunque glielo chiedesse, e soprattutto alle scolaresche, le collezioni del museo e le pitture delle tombe, ma con eguale se non più ancora fervida passione accettò a tenere per molti anni l’insegnamento nell’istituto magistrale delle Suore Benedettine con grande profitto delle alunne: incarico che tuttavia non lo distolse mai in nessun modo dai suoi impegni nell’ufficio. In questo anzi fu un modello di zelo e di dedizione: quando si iniziarono gli scavi della Civita, ed io non potevo essere sul luogo che saltuariamente, egli seguiva i lavori giorno per giorno, redigendo con ogni cura il giornale di scavo; le pagine di questo giornale che si riferiscono al ritrovamento dei vari frammenti del gruppo dei cavalli, meriterebbero di essere pubblicate per la loro precisione e per l’entusiasmo che ne traspare; molte volte ho pensato di farlo, non mantenendo mai il mio proposito. Andato in pensione per raggiunti limiti di età, fu, su proposta del Soprintendente dr. Moretti accolta unanimamente dal Consiglio Superiore, nominato Conservatore onorario del Museo: e da questo non si distaccò, chè sarebbe stato troppo doloroso per Lui. Ma insieme continuò ad interessarsi della storia e dei monumenti della città, essendo tra i primi a partecipare alla ricostituzione della Società Tarquiniense d’Arte e Storia, che ne riconobbe i meriti con l’assegnazione di una medaglia. E’ del 1974 un suo volume Tarquinia nel Medioevo, pubblicato su iniziativa della Cassa di Risparmio di Civitavecchia nella ricorrenza dell’ottantesimo anniversario della istituzione dell’agenzia tarquiniese. Ma, accanto alle sue qualità di funzionario, di studioso e di insegnante, non si possono tacere le sue doti umane: il suo profondo attaccamento alla famiglia, a quella 47 paterna e a quella che egli si era formata, alla sua compagna, ai suoi figlioli, l’una e gli altri dediti con eguale passione all’insegnamento. Ed è stato proprio nel compiere quell’atto di pietà familiare che ogni anno egli era solito adempiere nella ricorrenza dei defunti andando a rendere omaggio alla tomba dei suoi genitori, che la morte lo ha inopinatamente raggiunto: Dio Gli renderà il giusto premio di una vita tutta spesa nell’adempimento senza risparmio dei suoi doveri nella famiglia e nella società. PIETRO ROMANELLI SPIGOLATURE SULLE TRADIZIONI DELLA NOSTRA CITTÀ’ La Società Tarquiniense d’Arte e Storia, al fine di portare alla luce ogni documentazione storica intorno alla nostra città, va seguitando, presso archivi pubblici e privati, scrupolosa ed attenta ricerca di manoscritti, stampe e tutto quanto può essere annoverato in una raccolta che non solo sia attestazione di un passato nobile ma soprattutto motivo di conoscenza e divulgazione a favore dei nostri Sodali, degli studiosi e della popolazione che nutrono a ciò interesse e passione. Il caso ha voluto che ci capitasse fra le mani un manoscritto dal titolo “Gli Statuti della Comunità di Corneto, compilati nel 1545 e trascritti da un esemplare membranaceo che è custodito nella nobil Casa Falzacappa” raccolto in cinque libri e ricopiato in lingua latina da Giovanni Felice Franzosi, notaro pubblico e segretario del Comune di Corneto nel 48 1770; e un “Diario Cornetano” di anonimo del 1778 dove sono enumerati “tutti gli avvenimenti più ragguardevoli spettanti sì allo spirituale sì allo temporale della Città di Corneto”. Da entrambi abbiamo stralciato alcuni capitoli e altri episodi (assai importanti per il fatto che in essi si fa menzione del nome delle Chiese Cornetane, delle feste civili e religiose, della prima presenza del simulacro ligneo della Resurrezione e delle Maestre Pie nella nostra città, nonché della festa di mezza quaresima, della Vecchia Mora, della tradizionale Cena degli Apostoli): i quali riportiamo per curiosità su come i nostri predecessori intendevano celebrare le festività a sollievo e diletto della popolazione nei rispettivi tempi. Cap. XXXII In onore di Dio Onnipotente e della Beata Vergine Maria e del Beato Lituardo, confessore e protettore della città di Corneto, decretiamo e diciamo che il Podestà e i Magnifici Signori Priori siano tenuti e debbano sotto loro giuramento, far fare ogni anno per la festa di S. Lituardo la corsa dell’anello nella piazza del Comune similmente alle corse dei cavalli in onore di San Pancrazio, secondo l’uso, e chiunque può gareggiare; i partecipanti ricevano ventiquattro bononini; e se i predetti Signori saranno stati negligenti, paghino ciascuno la pena di otto carlini, da defalcare dal loro salario. Cap. XXXIII In onore di Dio Onnipotente, della Beata Vergine Maria, sua madre, e del glorioso San Secondiano martire, protettore del popolo della città di Corneto, decretiamo e ordiniamo che ogni anno, per la festa del santo, si corrano i palii dei cavalli e delle cavalle, che debbono essere di razza; il palio dei cavalli è di cinque ducati di carlini e quello delle cavalle deve essere almeno di tre ducati; un toro ai corridori a piedi nel consueto percorso; per tale festa sia osservato quest’ordine: per primi corrano i ragazzi, per un denaro; subito dopo, per tutto il Podiarello e per tutto il percorso ov’è la colonnetta, e sotto la via, verso gli orti, non osi stare nessuna persona, nè cavalli o pedoni, nè grandi nè piccoli, nè cittadini o forestieri, nè chicchessia, ma stiano nel campo che sta sopra la via: dopo di che i podisti facciano la corsa per il toro; nessuna persona può entrare nella strada dell’intero percorso, dopo che i podisti hanno cominciato a correre, nè deve mescolarsi fra i podisti in gara; ciò sia fatto conoscere pubblicamente col bando da parte del signor Podestà; il quale, se avrà 49 disatteso in alcuna parte di quanto sopra detto, stia alla stessa pena; dopo corrano i cavalli: il primo, anche se senza fantino, abbia il palio e l’ultimo il gallo; e similmente nessuno possa attraversare come sopra detto il percorso, alla stessa pena; né debbasi procurare qualche impedimento a chi corre, sotto pena di due ducati; e se qualcuno dei corridori avrà attraversato, al fine di accorciarlo, il percorso, non arrivando per il retto percorso, anche se sarà stato primo, non debba ricevere il palio, ma paghi la pena di quattro carlini; nessun corridore debba percuotere col bastone un altro concorrente o il cavallo; se avrà percorso, sia punito come sopra, con la pena raddoppiata, anche se l’uno avrà arrecato ingiuria all’altro; e detto cavallo non abbia il palio. Cap. XXXV. Decretiamo che ogni spesa debba essere fatta ad utilità del Comune di Corneto: per cui il Camerlengo della Comunità non possa né debba spendere il denaro delle Comunità, a richiesta di chicchessia, per la Festa della Natività del Signor Nostro Gesù Cristo, o fare spese in cera, in fuoco, in vino e in qualsiasi altra cosa, se non quindici libbre di consumazione: dodici libbre di ceri, dieci some di legna, un orcio di vino, non ostante qualsiasi altra consuetudine fin qui tramandata per somma maggiore; e se il Camerlengo avrà fatto le suddette spese, sia tenuto a ripagare di tasca propria; e non possa dare incarico a chicchessia perché porti legna e ogni altro avere; i Magnifici Signori Priori siano tenuti in detta vigilia a comunicare per mezzo del banditore in tutti i luoghi pubblici di Corneto, con tempestività, che nella sera di detta vigilia, all’ora stabilita e consueta, tutti i singoli Rettori, i Camerlenghi e i Consiglieri delle contrade stesse, debbano venire con i Presbiteri e i propri parrocchiani al Palazzo della Comunità a prestare la dovuta obbedienza ai Magnifici Signori Priori, com’è consuetudine, per la letizia e la venerazione di detta Natività, come fin qui si è osservato: e se i Rettori, i Camerlenghi e i Consiglieri di ogni contrada o delle contrade non verranno, per quell’anno non abbiano né debbano avere dalla Comunità di Corneto il salario e tanto meno ottenere il loro premio in altra maniera. Cap. XLI 50 Secondo la tradizione assai antica dei nostri antenati, quella cioè di celebrare, in occasione della festa di S. Secondiano, insigne protettore di questa illustre città di Corneto, dei magnifici festeggiamenti in sua lode e onore, noi che siamo, come discendenti, loro testimonianza e prosecuzione, fin quando sarà consentito, delle loro egregie costumanze, stabiliamo che l’Abate o il Rettore della Chiesa di S. Nicola o il fattore secondo l’antica usanza, sia tenuto e debba dare un toro veloce, sano, animoso e indomito da scegliere fra tutti gli armenti di Corneto a giudizio dei Magnifici Signori Priori: il suddetto Priore o il fattore di lui sia tenuto, dopo la scelta del toro, a legare la bestia e così condurla nella predetta Chiesa di S. Nicola, assicurandola precisamente alla colonna che si trova nella piazza della suddetta Chiesa; e di là, così legata, donarla, trasferirla e assegnarla solennemente ai Magnifici Signori Priori; se il Rettore, in tutto quanto descritto, sarà stato negligente o manchevole, il signor Podestà sia tenuto, e lo deve sotto pena di maggiori sanzioni e quindi di 25 ducati, a prestare ai predetti Magnifici Signori Priori consiglio, aiuto e collaborazione perché si possa operare in modo che il suddetto toro, nel giorno stabilito, sia acquistato a spese del surriferito Rettore; e gli stessi Magnifici Signori Priori, non appena ricevuto il suddetto toro, lo facciano condurre nella piazza del Comune davanti al Palazzo degli stessi Priori perché sia legato alla colonna di detta piazza nella vigilia della festività; e nello stesso giorno e nella stessa piazza facciano fare la giostra. Nel giorno poi della festività, facciano condurre lo stesso toro a Fontana Nuova perché sia legato alla colonna che è prossima alla Fonte; e i corridoi a piedi disputino il palio che deve essere assegnato al vincitore a lode di Dio onnipotente e di S. Secondiano, protettore della città di Corneto; e in memoria di quella nobile Signora che lasciò i suoi beni alla Chiesa di S. Nicola con questo legato. Cap. LXXXVI. Poi stabiliamo e fermamente ordiniamo che le ferie nelle cause penali, civili e straordinarie siano così come vengono sottoscritte: Circoncisione del Signor Nostro Gesù Cristo Epifania del Signore Purificazione della beata Maria Vergine Annunciazione della divina Vergine Maria Il venerdì santo La festa della Santa Croce dei mesi di maggio e settembre Natività di San Giovanni Battista 51 San Lituardo confessore San Lorenzo San Secondiano martire Assunzione della Beata Vergine Maria Natività della Beata Vergine Maria Festa di S. Michele Arcangelo dei mesi di maggio e settembre Festa di tutti gli Apostoli Festa di tutti gli Evangelisti Festa di tutti i Santi Commemorazione dei Defunti San Martino vescovo San Pantaleo Natività di Nostro Signore Gesù Cristo Santo Stefano protomartire Festa dei Santi Innocenti San Silvestro papa Pasqua di resurrezione del signor Nostro Gesù Cristo con i due giorni che seguono Ascensione di Nostro Signore Gesù Cristo Pasqua di Pentecoste con i due giorni che seguono Festa del Corpo di Cristo Tutte le domeniche. Nei quali giorni non si può procedere contro alcuno nè pronunciare condanna, e i termini dati agli imputati o agli inquisiti non debbano scadere, eccettuati i casi in cui qualcuno abbia, in detti giorni, commesso delitto o arrecato danno; nel qual caso questi può essere accusato, preso e condotto nel Palazzo del Podestà come se il reato o il danno arrecato fosse stato commesso in giorni non festivi, e possono essere ricevuti i fiedejussori. Nelle cause civili inoltre siano osservate le ferie suddette e infrascritte, e i termini dati agli attori e ai contenuti per fare qualche atto in Curia, non debbano scadere: e le ferie infrascritte sono: Dalla vigilia di Natale del Signor Nostro Gesù Cristo fino alla Pasqua Epifania inclusa Sant’Antonio Sant’Agnese Conversione di S. Paolo San Biagio 52 Sant’Agata Cattedra di S. Pietro San Gregorio San Giovanni in Porta Latina San Pancrazio Consacrazione di Santa Maria in Castello San Fortunato Santa Margherita Santa Maria Maddalena San Pietro in vincoli San Domenico Sant’Agapito Assunzione della Beata Maria Vergine e tutta l’ottava Sant’Agostino Decapitazione di S. Giovanni Battista Sant’Egidio San Giuliano martire San Girolamo San Francesco San Leonardo SS. Salvatore Consacrazione dei SS. Pietro e Paolo Santa Cecilia San Clemente Santa Caterina San Nicola Sant’Ambrogio Santa Lucia Il primo giorno di Quaresima Tutti i Venerdì di Marzo I Venerdì di tutta la Quaresima Sette giorni antecedenti e altrettanti seguenti la Pasqua di Resurrezione del Signor Nostro Gesù Cristo. In questi giorni non si può procedere, ma si possono fare le citazioni e ricevere le testimonianze ed altro che viene consentito dal diritto della Comunità. 53 I giorni nei quali si fa il Consiglio Generale. I giorni nei quali vengono eletti i Magnifici Signori Priori. DIARIO Il 17 gennaio suol darsi principio alle maschere per tutto il Carnevale, eccetto il venerdì e la domenica di ogni settimana, e la vigilia e festa della Purificazione di nostra Donna. Alle volte peraltro s’incomincia il Carnevale suddetto qualche giorno più tardi, e ciò succede perché dal Governo di Civitavecchia non si spedisce subito al Giudice di Corneto, l’ordine del Sovrano Pontefice. Allorquanto è giunto il suddivisato permesso, si provvede subito ad ogni inconveniente che possa nascere in tali giorni di carnevale, col prescriversi in un Editto (dato dalla Cancelleria Criminale) il termine e forma per le maschere, ed altre baje carnevalesche, secondo il volere dei Bandi Generali, per procedersi contro li trasgressori. La copia di quest’Editto ad un’ora congrua vien pubblicato a capo della Piazza del Magistrato dal pubblico Banditore a suono di tromba, e mentre dal pubblico Cursore si affigge nei luoghi soliti della Città per regola di ciascheduna Persona, suona la Campana grande del pubblico, e questo è il segno di poter fare liberamente le maschere, le Commedite, i Festini. Nel Giovedì Grasso si fanno alla mattina delli Suffragi per l’anima dei trapassati Confratri nella Chiesa di S. Giuseppe. Il giorno poi dopo il pranzo si dà principio al divertimento dell’Anello, che ordinariamente si prolunga al Sabato, Lunedì e Martedì ultimi del Carnevale, al quale effetto sono assegnati in Tabella Comunitativa scudi 20, pagabili dagli affittuari delle Mole: i quali denari s’impiegono nelli premi e nelle merengole, che (terminato il primo divertimento) si gettano dalla Loggia del Palazzo Apostolico in copiosa abbondanza, acciocchè da chicchessia si raccolgano, al fine di lanciarle indosso liberamente a ciascheduna Persona di qualsivoglia grado e condizione si sia. Questo barbaro spasso si prolunga fino alla calata del sole; e siccome bene spesso cagiona delle ammaccature di viso, in tal caso sono gli Speziali obbligati a somministrare gratis della Biacca agli Offesi. Da questo, fino al primo giorno di quaresima, incominciano e durano le ferie nelli Tribunali Vescovile, Laico ed Agrario. Nel corso poi dei giorni di Carnevale si dà principio a due ottavari dei morti: il primo nella Chiesa di S. Croce per adempimento di un legato del signor Domenico Fantozzini, uno dei Confratri di quella Congregazione, il secondo nella 54 Chiesa di S. Giovanni Gerosolomitano all’altare del Crocifisso in suffragio delle anime dei passati. Nella Domenica Quinquagesima incomincia il giro delle quaranta ore per l’esposizione del Venerabile, che ha principio dalla Cattedrale, dove intervengono processionalmente i Curati con i respettivi loro Parrocchiani alla visita del S. Sagramento, ciascheduno nelle ore e giorni assegnati. E siccome son certo che da molti verrà gradito, che io vi porti qualche cosa intorno all’Origine delle 40 ore suddette, sappino essi che le prime quarant’ore, e più antiche sono quelle che in memoria del tempo che stette nostro Signore nella sua sepoltura, furono istituite dal P. Giuseppe da Milano cappuccino, che fiorì e terminò di vivere nel 1596. Le seconde sono quelle che altra volta facevansi ogni mese a Roma dalli Confratelli della Compagnia dell’Orazione, o sia della Morte, ad imitazione del digiuno di 40 giorni che nostro Signore osservò nel deserto, e così pure degli Apostoli e dei Padri della primitiva chiesa, che pregavano senza intercessione. Queste furono confermate da Pio IV alli 4 novembre 1560 con sua Bolla, in cui si riconosce che i Confratelli della Morte, ad imitazione del digiuno di 40 giorni che nostro Signore osservò nel deserto, e così pure degli Apostoli e dei Padri della primitiva chiesa, che pregavano senza intercessione. Queste furono confermate da Pio IV alli 4 novembre 1560 con sua Bolla, in cui si riconosce che i Confratelli della Morte dimandarono licenza al Papa di portare il Venerabile in processione (senza spiegarsi se ciò dovea essere portando il detto Venerabile scoperto, o pure coperto dentro un qualche ciborio) la penultima domenica di ciascun mese, o un altro giorno, nell’atto di cominciare l’Orazione delle 40 ore. E si vede che Pio IV non rispose loro nulla su quest’articolo, segno evidente che non li fu grata la dimanda. Così tali preghiere non furono istituite per causa pubblica, ma solo per soddisfare alla divozione particolare della Confraternita della Morte. Le 40 ore di terza maniera sono quelle che si fanno tutto l’anno, giorno e notte, incessantemente nelle chiese di Roma, di Milano e di più città. Clemente VIII ne fu l’istitutore sotto il 25 novembre 1592 a cagione delle turbolenze della Francia e per implorare l’assistenza divina contro gli Eretici e contro i Turchi. Pio V alli 10 di maggio 1606 fece continuare detta Orazione. Nella domenica di settuagesima, si dà principio nella Chiesa di S. Giovanni Gerosolomitano all’altare del Crocefisso ad un ottavario in suffragio delle Anime dei trapassati Confratri della Venerabile Congregazione ivi eretta, sotto il titolo di Buona Morte. 55 Nella domenica di sessuagesima si dà principio nella chiesa di S. Giuseppe ad un settenario in memoria delle Sette Allegrezze di quel Patriarca per divozione della signora Rosa Avvolta Querciola. Nel corso quaresimale, come ancora nell’Avvento, si predica ogni giorno nella chiesa Cattedrale. L’elezione del sacro Dicitore per la quaresima appartiene al Reverendo Capitolo, ed al Consiglio delli 13 di decembre, cioè: essendovi in Corneto quattro Conventi di Frati di quattro Ordini differenti, cioè Agostiniani, Serviti, Minori Osservanti e Minori Conventuali, il Consiglio suddetto concede a questi la Predicazione secondo la loro antichità in Corneto, toccando però il primo anno al sopradetto Rev.mo Capitolo di eleggere con particolare congregazione, a spese però della Comunità, un Predicatore a piacere, essendo il più delle volte Prete. Il secondo anno eleggendo il Consiglio uno degli Agostiniani: il terzo anno dei Servi di Maria; il quarto anno dei PP. Minori Osservanti; ed il quinto anno (dopo il quale ha nuovamente principio l’Ordine sopraddetto) uno dei Minori Conventuali; e ad ognuno degli eletti nei loro respettivi anni, compresovi ancora quello del Rev.mo Capitolo, vien pagata dalla Comunità sopradetta la somma di Scudi 40. Quanto poi al Predicatore dell’Avvento, è in libertà del suddetto Consiglio elegger questo a piacere, ma delle quattro religioni indicate, avvertendosi che tanto i Predicatori della Quaresima che dell’Avvento, non possono eleggersi per due anni avanti; ed ha il suddetto Predicatore dell’Avvento da questo Comune la scarsa mercede di 12 Scudi. Nelli giorni quaresimali di ogni settimana di domenica, mercoledì e venerdì, salvo gli eccettuati ed impediti, il Predicatore ad un’ora congrua, passa a recitare le sue Opere nella Chiesa di S.Lucia, alle sole Monache Benedettine, ricevendo in compenso da quelle Scudi sei, e delle Paste per il panegirico di S. Benedetto. Il lunedì primo di quaresima si apre la pubblica scuola. Dal primo giorno in quaresima sino a tutto il Martedì Santo, verso la sera, si recitano i Sette Salmi Penitenziali dalli Confratri del Gonfalone; del SS. Sagramento e Morte; e da quelli di S. Maria del Suffragio nelli respettivi loro Oratori. Tutti li mercoledì di quaresima, eccettuato quello della settimana Maggiore, si cantano le lodi di Maria Vergine innanzi alla sua immagine nella Chiesa di Valverde per divozione della Casa Monti. Non compreso il Giovedì Santo, in tutti gli altri vi è l’esposizione del Venerabile, con un discorso panegirico per ogni volta in suffragio delle Anime del Purgatorio, nella Chiesa della Misericordia, per adempimento di un legato della Signora Prudenza Paris. In ogni venerdì di marzo vi è il giorno la Via Crucis nella Chiesa dei PP. Minori Osservanti di S. Francesco; terminata la quale, ivi si dà principio alla Divozione 56 cognominata li Venerdì di S. Francesco di Paola nella sua cappella, e coll’esposizione del Venerabile per divozione di Casa Mola, la qual funzione si esercita dal primo Venerdì dell’anno, sino a tutto il Venerdì di Passione. Quindi si passa alla Chiesa dei PP. Minori Conventuali all’acquisto delle Sante Indulgenze nell’esercizio divoto, e volgarmente chiamata dalle parole dell’Immagine la Corda Pia; ove interviene una Confraternita per venerdì, e non più tutte unite per gl’inconvenienti che ne nascevano a cagione delle Precedenze: e datagli quivi la Benedizione col legno della SS. Croce all’altare del Crocifisso, dove manda la cera il signor Alessandro Chiocca, ed a cui spetta la suddetta Cappella, la Confraternita intervenuta ed il Popolo, si trasferisce alla Chiesa di S. Maria di Valverde, ove all’altare della Vergine Addolorata si ritrova il Venerabile esposto per divozione della Casa Petrighi, con il quale dà la Benedizione il Cappellano della Confraternita intervenuta, il quale va sempre processionalmente con Essa. E finalmente si passa alla Chiesa di S. Croce dove si fa una quarta Funzione coll’esposizione del SS. Sagramento, in adempimento del legato di Maddalena Biancardi. Ferie nei tre tribunali per tutti li venerdì’ di Marzo e della Quaresima. In ogni sabato poi, fuori che in quello della Settimana maggiore, si cantano le lodi di nostra Donna innanzi alla miracolosa Sua immagine nella Chiesa dei PP. Agostiniani per divozione del signor Angelo e Sorelle Falgari. Nella prima domenica di Quaresima vi sono le quarant’ore nella Chiesa della SS. Trinità, di cui parleremo a suo luogo. Nella seconda domenica poi, principiano le 40 ore suddette nella Chiesa di S. Giuseppe. Il Giovedì di mezza quaresima, egli è comune favoleggiare fra tutte le nazioni cattoliche per sollievo dei Bambini, il dire che nella passata notte si segò la vecchia, quasi per tal vecchia voglia intendersi l’austera secca quaresima, che per mezzo si divide in quest’oggi. Tuttavolta in diverse città ragguardevoli si fanno altresì certi popolari folleggiamenti che se fossero più moderati, potrebbe dirsi che siccome la Chiesa Santa nella domenica quarta, che dicesi mediana, e Domenica di Laetare, si rallegra, e con un lieto introito nella Messa, Laetare Jerusalem, annunzia agli afflitti a mezza strada delle loro fatiche, la Pace del vicino riposo, così il Popolo voglia anticipare questo Giubilo, scorgendosi alla metà del patimento che soffre nella penitenza, e ristorandosi nel meditare la refezione che fece Gesù Cristo alle Turbe; ma a vero dire, sanno più tosto di Gentilesimo che delle misteriose Allegrezze del ritorno del Popolo eletto dalla Schiavitù di Babilonia, e del più misterioso ristoro delle Turbe saziate nel deserto dal Redentore nella prossima quarta Domenica. 57 Nella terza Domenica poi si dà principio all’Orazione delle quarant’ore nella Chiesa della Misericordia, di cui ragioneremo a suo luogo. La quarta Domenica di Quaresima si passa alle quarant’ore nella Chiesa di S. Croce. E poiché questa Domenica perorano i Sacri Oratori a favore delle Anime Sante del Purgatorio affinché verso di queste siano maggiori i suffragi, vanno questuando per la Chiesa i sigg. Canonici deputati, e per la città tutta diversi Galantuomini, prescelti dal Rev.mo Capitolo. E perché questa Domenica appellasi ancora della Rosa, saper conviene che il Sommo Pontefice in questa Domenica benedice una rosa d’Oro, facendone dono a qualche Principe Cristiano, o Signoria benemerita della S. Sede. Di questa benedizione della Rosa parlano diversi autori per istituto. Il Sabato detto del Sitientes si tiene Ordinazione nella Chiesa Cattedrale, qualora il Vescovo si ritrova in Corneto. Incomincia il giorno nella Chiesa dei PP. Serviti, volgarmente chiamata la Chiesola, un divoto settenario a Maria Addolorata per divozione del sig. Luc’Antonio Bruschi. Verso la sera si canta solenne Compieta dalli Confratri delle Cinque Piaghe di Nostro Signore Gesù Cristo nella Chiesa di S. Pancrazio, mentre nella Domenica seguente celebrano la Festa delle suddivisate Sacratissime Piaghe con Panegirico ed indulgenza plenaria. Nel 1764, sotto il 4 di aprile, coll’autorità ordinaria di Mons. Ill.mo e Rev.mo Saverio Giustiniani Vescovo di Corneto e Montefiascone, fu eretta nell’Altar Maggiore della Chiesa di S. Pancrazio la Confraternita sopradetta sotto il titolo delle Cinque Piaghe di Cristo, la quale sotto il 25 di maggio 1764 ottenne l’aggregazione all’Archiconfraternita della Basilica dei SS. Lorenzo e Damaso in Roma. *** La domenica di Passione principiano le 40 ore nella chiesa di S. Lucia, di cui parleremo alle 13 di decembre. Questa devozione è detta ancora di Lazzaro. A questo Santo si vedeva anticamente eretta in Corneto una chiesa nell’ingresso della Bandita di S. Pantaleo. Ora se ne veggono le vestigia conservando tuttavolta quella contrada il vocabolo di S. Lazzaro. Né qui voglio tralasciare di riferire, che nel 1452 un certo Cavaliere napolitano venuto a Corneto, fece discorso di restaurare la chiesa suddetta, afferendo 50 ducati d’oro del suo, quando la Comunità avesse voluto impiegarvi altrettanta porzione di denaro, ad effetto di erigervi lo spedale degl’Infermi del male volgarmente chiamato di 58 Lazzaro, sotto il Governo di un Cornetano; ma l’offerta non fu accettata per dubbio che da simil male non si causasse infezione nei sani della città. Pretesero ancora li Cavalieri di SS. Maurizio e Lazzaro, che la selva di S. Pantaleo fosse propria di loro, asserendo che l’antica sua denominazione era quella di S. Lazzaro, ma ciò tutto fu vano, e di niuno loro vantaggio. Il Venerdì di Passione si fa memoria dei Dolori di Maria sempre Vergine, e si va alla chiesa dei Padri Serviti ed a quella cognominata S. Croce, non che al Ritiro dei Padri Passionisti situato nella suddetta selva di S. Pantaleo. Della prima avremo a suo luogo ragione. Della seconda, situata fuori della porta Clementina sotto il titolo di S. Maria del Calvario, volgarmente Le Croci, poche memorie ne abbiamo, e da queste appena si può venire in cognizione, che circa l’anno 1706 fosse edificata nel luogo il quale si dice Poggio della Giustizia. Appartiene all’Università degli Osti di Corneto concessa loro da mons. Bonaventura. Questi la mantengono coll’elemosine che ricevono nell’Osterie, amministrate dal Camerlengo dell’Università sopradetta. Ogni tre anni alla presenza del Vicario Generale, fanno l’estrazione dei nuovi Offiziali e del Camerlengo. I PP. Min. Oss. di S. Francesco celebrano in questa chiesa le messe in tutte le domeniche, e nelli venerdì del mese di marzo e nella solennità, che quivi si celebrano il giorno dell’Esaltazione della SS. Croce e nel presente venerdì di Passione coll’esposizione del Venerabile, ed a spese della Università sopraddetta. In queste due feste solenni si lucra in questa Chiesa dell’Indulgenza Plenaria, e nelle Ferie Seste di Quaresima di sette anni d’Indulgenza, ed altrettante quarantene. Non lungi poi dalla Porta Maddalena, sino alla Chiesa suddetta di tanto in tanto si veggono situate delle Croci, che in numero di quattordici, rispondono alle tante stazioni, alle quali concorre il Popolo per lucrare delle indulgenze nell’esercizio di meditare la Passione di N.S. Gesù Cristo. Del Ritiro dei Padri Passionisti è da sapersi che nel 1759 fu dal Consiglio Generale accordato alli Padri suddetti di poter venire in Corneto. Inoltre che dal predetto Consiglio nel 1763 ne fu concessa la facoltà di erigere il Convento nella selva di S. Pantaleo denominata della Bandita: e quindi gli accordavano ancora nel 1765 quattro stara di terreno adiacente in oggi al suddivisato Convento, con diverse condizioni accettate nel 1766, allorquando ne fu preso il possesso. Alli 16 marzo 1769 fu aperta la Chiesa, e pubblicata Comodità, e benedetta dal Vicario Generale. Una compitissima lettera del P. Paolo della Croce Preposito e Fondatore dei Padri della Passione di Gesù Cristo, si conserva in segreteria magistrale, dove si legge una seconda dimanda di nuovo possesso del suddetto terreno nell’anno 1769. 59 Verso la sera si canta dalli Confratelli del SS. Sagramento e Morte, nella propria chiesa denominata la Misericordia, solenne Compieta per la Festività del SS. Crocifisso, che in essa Chiesa si celebra nel prossimo sabato di Passione, della quale immagine si ebbe ragione il primo di giugno, nella guisa appunto, che a lungo discorreremo della Confraternita e chiesa suddetta la domenica fra l’Ottava del Corpo di Cristo. Il Sabato di Passione si danno ancora vacanze nella pubblica scuola fino al Lunedì in Albis. La Domenica delle Palme per tutte le chiese offiziate si dispensano le Palme benedette. L’Eccelso Senato le riceve alla Cattedrale, dove si trasferisce, e sente la Messa cantata. Quivi si predica il Giorno dopo Vespro, ed immediatamente si trasferisce il SS. Sagramento in Processione, associato come nelle terze domeniche di ciaschedun mese, e si dà principio all’Orazione delle 40 Ore per compiere il giro delle medesime. Le Confraternite tutte vanno alla visita del Venerabile, ciascheduna peraltro nelli giorni ed ore assegnate dal Maestro di Cerimonia del Duomo. Da questa Domenica fino alla Domenica in Albis sono le ferie per tutti li Tribunali. Dopo il pranzo si tiene una generale Congregazione dalli Confratelli di S. Giuseppe per l’elezione dei nuovi Offiziali. Questa Domenica delle Palme chiamata ancora nei rituali ecclesiastici la Pasqua Fiorita o la Pasqua dei Rami, come scrive il Tommassini nel trattato delle Feste della Chiesa, il quale in proposito della Settimana Santa dice che era in questi giorni osservato dagli antichi Fedeli un Digiuno particolare, appellatto Xerophagiis, e fra gli altri molti testimoni porta quello di S. Epifanio; e le costituzioni Apostoliche parlano nel medesimo senso. Chi poi desidera maggiori notizie di questa Domenica, come ancora di tutti gli entranti Santissimi Giorni, potrà leggere a suo bell’agio i Rituali e gli Offici di questa Settimana maggiore, non che l’eruditissima Opera del celebre sig. Abate Alessandro Mazzinelli, il quale distese eccellentemente gli Argomenti di Salmi, le Spiegazioni delle Cerimonie e delli Misteri, aggiungendovi ancora altre Sacre e Divote Osservazioni. Il mercoledì Santo è propriamente affisso alla memoria del tradimento dell’Apostolo infedele, e della vendita che fece del Redentore Maestro; perciò afferma il Durando che questa quarta Feria viene privilegiata, dopo la Festa, da chi voglia digiunarla. Il giorno si canta il Matutino a Duomo ed alle Chiese dei Regolari, delle Moniche, e delle Confraternite del Gonfalone, del SS. Sagramento e Morte, e del Suffragio, facendo ancora lo stesso negli altri seguenti due giorni. 60 Verso la sera poi ad un’ora discreta si fa solenne processione dalli Confratelli della SS. Trinità, i quali trasferiscono in una macchina di legno la statua del Redentore, immaginata secondo le parole dell’Evangelista S. Luca : “et positis genibus, orabat dicens - Pater, si vis, transfer calicem istum a me”. (vedendosi in aria a tale effetto sospeso un Angelo con il calice in mano). “Apparuit illi Angelus de coelo confortans Eum (che realmente si vede) et factus in agonia prolixius orabat. Et factus est sudor eius, sicut guttae sanguinis decurrentis in terram”. Si crede ancora esser copia del celebre quadro dell’Orazione all’Orto, che si vede in Roma nel Palazzo del Principe Giustiniani. A questa processione, come nelle altre seguenti, si veggono parecchi Fanciulli vestiti a foggia di Angeli, i quali ricevono al fine in regalo un cartoccio di confetti, distribuiti ancora agli inservienti della Processione; all’eccelso Senato che per un preventivo avviso v’interviene con il Giudice locale; alla di lui Famiglia; al Cappellano della Confraternita, che vestito dei sacri paramenti va nel mezzo del sopraddetto Senato; alli musici e cantori del Miserere a concerto; e finalmente ad un altro Sacerdote parimenti vestito delli Sacri arredi che invitato ha la pazienza di far recitare delli Rosari al numeroso Popolo che ha la devozione di associare la medesima processione, la quale si trasferisce alla visita del SS. Sacramento nella Cattedrale; nella chiesa dei PP. Agostiniani; in quella delle Moniche Benedettine, dove entra la macchina; nella Chiesa di S. Giovanni Gerosolomitano; e finalmente in quella di S. Francesco, prossima alla propria, detta della Trinità, dove immediatamente si riconduce. Da ciascuna poi delle nominate Chiese entra il Magistrato e Commissario con il Cappellano suddetto, il quale, dopo una breve visita, recita a bassa voce Christus factus est con l’orazione Respice quaesumus Domine. Gli Officiali in fine sono obbligati alla spesa degli enunciati confetti. Ed intanto si è creduto bene di fare la presente descrizione per non ripeterla inutilmente in appresso. E prima di passare più innanzi fa d’uopo sapere che simili Processioni si facevano anticamente di notte, in cui si vedeva la mostruosità di qualche Confratello mascherato da Cristo, e di altri simili assai più pazzi del primo, che per divertimento si percotevano a sangue le spalle, nella maniera appunto che dalli Spagnoli si pratica in questi S. giorni, i quali allorché giungono sotto le finestre delle loro ganze, ivi fanno stazione, e si danno un centinaio di colpi di Disciplina presto presto ad onore e gloria delle medesime. All’Ave Maria suona la campana Grande del Magistrato per la prossima solennità della prima Pasqua. Al Giovedì Santo si fa Pontificale la mattina alla Cattedrale, colle Cerimonie degli Olii Santi (incontrandosi il Vescovo a Corneto) e del S. Sepolcro; il quale si venera ancora 61 nelle chiese di S. Francesco, di S. Leonardo, delle Monache Passioniste, di S. Croce, di S. Giovanni, di S. Lucia, di S. Antonio, di S. Marco, di S. Maria in Castello, di S. Martino, di S. Pancrazio, del Suffragio e delli PP. Serviti. L’eccelso Senato, con il Governatore locale, e Sua corte si porta ancor esso, invitato, alle Sagre Funzioni nella Cattedrale suddetta, ove prende la Pasqua. Incontrandosi in Corneto il Prelato, lava i piedi a dodici Poverelli con sacco bianco vestiti nella prefata Chiesa matrice, al di cui cenno si legano tutte le campane della Città. Il giorno si cantano i matutini nelle solite Chiese, e dalli Confratelli del Gonfalone, e dalli Confratelli del Gonfalone si fa una seconda Processione, in cui si porta l’Immagine del Salvatore flagellato, e mostrato così malconcio alle turbe. Questa si trasferisce alla visita delli SS. Sepolcri nelle sole Chiese di S. Leonardo, di S. Francesco, del Duomo, di S. Marco, di S. Lucia e di S. Giovanni Gerosolomitano, dalla quale subito ritorna nella propria Chiesa di S. Croce, ove giunta si canta dal Cappellano il Vangelo Ante Diem ge e si lavano dalli Offiziali li piedi a dodici Poverelli, i quali si conducono in seguito in una stanza contigua alla chiesa, dove sta imbandita una lauta cena, fatta a spese della Confraternita in genere, e delli Fratelli in particolare, che la dispensano gratuitamente ed egualmente all’indicati poveri del Signore. Ad un’ora discreta ancora la Confraternita delle Cinque Piaghe di Cristo, si porta processionalmente alla visita di tutti quanti i Sepolcri. A mezz’ora di notte si passa in Cattedrale ad ascoltare per mezzo del sagro Oratore la Passione dell’Uomo Dio, la di cui Immagine sulla Croce distesa, e mostrata preventivamente al Popolo ascoltatore dal Predicante suddetto, si adora, e si venera nella Cappella maggiore, decentemente situata sul suolo. In questa sera i Pizzicagnoli fanno magnifica illuminazione nella di loro Bottega accomodata a disegno per mezzo dei salati, e simili altre materie di loro ispezione. Il Venerdì Santo di buon mattino la Confraternita degli Umili, e quella del Suffragio, si portano processionalmente alla visita delli Santi Sepolcri, cantando in suono lugubre la Stabat Mater. Ancora le Maestre Pie fanno lo stesso in compagnia delle di loro scuolare modestamente vestite, vale a dire con velo bianco e corona di spine al capo, cantanti egualmente la Stabat Mater in italiano verso tradotta. Diverse Bambine vestite a guisa di Angeli, e sostenenti ognuna di esse qualche istrumento della Passione di Cristo, rendono più rispettabile questa Processione divota. Ad un’ora discreta nelle chiese, ove si conserva il S. Sepolcro si fanno le solite cerimonie; e nella chiesa matrice quell’elemosina che lassano i surriferiti Canonici nell’adorazione della Croce in un tondino a tale effetto preparato, va in beneficio del 62 Maestro di Cerimonie; come quella del Giovedì Santo, la quale passa in riscatto delli Cattolici Schiavi nei Paesi dei Turchi. Fino alla mattina nella Chiesa della Misericordia sta esposta alla pubblica venerazione sopra di una macchia di legno la statua di Maria Addolorata a piè della Croce, con il figlio morto alli piedi, la quale immagine è quella medesima di cui parlossi al primo di Giugno. Le Maestre Pie con le respettive discepole, prima di ritornare alla propria abitazione dalla visita delli S. Sepolcri, passano in questa Chiesa a venerare la Vergine ed il Santissimo Crocifisso, che nel giorno terminati li soliti matutini, si porta processionalmente per la città da quelli Confratelli, che in particolare si trasferiscono a Duomo alla visita della Croce indicata nel Giovedì Santo, ed a S. Marco affine di baciarne la Reliquia Santissima. Nel lungo tratto della medesima processione si canta dai Musici la Stabat Mater concertata. Giunta di nuovo alla Chiesa si posa la macchina innanzi alla Porta di quella per lo spazio di un Pater e un Ave, che recita il Popolo segretamente per i bisogni spirituali e temporali della città, così raccomandato dal Cappellano della medesima Chiesa. E terminata ogn’altra Cerimonia si passa alla Chiesa di S. Maria del Suffragio ove sta esposto per divozione di quella Confraternita il Legno della SS. Croce, con il quale, nominato l’Inno Vexilla si dà al Popolo la Benedizione che lo va in seguito riverentemente a baciare. Il Sabato Santo si fanno per le Chiese offiziate le solite Cerimonie prescritte dal rituale, colla benedizione del Fonte nella Chiesa di S. Giovanni, ed in Cattedrale, la quale dà il segno per lo scioglimento delle campane di tutte le Chiese. Allo scioglimento suddetto finisce quel Digiuno che da certuni si pratica, e dicesi il Trapasso, cioè Trapasso d’ogni sorta di cibo e bevanda dal punto che le campane si legano nel Giovedì Santo sino a quest’avviso della Resurrezione del Redentore, che dà la Chiesa coi suoi magri Metalli; e di tal maniera d’astinenza rigorosa, pare che parlasse S. Epifanio. Dal sopradetto Segno di Gioia si comincia oggi l’Orare in piedi, in memoria di Cristo nostro Signore Risuscitato, siccome debbe praticarsi ogni Domenica: e vedine le misteriose Osservazioni presso S. Agostino, S. Girolamo e Tertulliano ed anche il Decreto del Concilio di Niceno, cap. 20. Tale Resuscitamento dalla colpa suppone la Chiesa ancora in tutt’i Fedeli che orano dritti; giacchè l’orare in ginocchio, figura la nostra caduta per la colpa. Callisto III concedette ai PP. Serviti di potere in tal giorno presso le loro Chiese cantare la Messa alle 22 ore, e indi incoronare solennemente un’Immagine della Regina del Cielo trionfante nel Trionfo del Divino Figliolo, vincitore della Morte e dell’Inferno. Ma 63 S.S. Pio V giudicò abolire questo rito, onde rimane a quell’Ordine l’uso della sola Incoronazione di nostra Donna. E di fatti i nostri PP. Serviti, dimoranti in quel tempo nella chiesa di Valverde, ivi celebravano una tal Messa, e forse fino all’abolizione indicata, dopo della quale s’incominciarono a servirsi, come attualmente si servono, per quello che riguarda la Coronazione di Maria sempre Vergine, dell’Opera delli Confratelli di S. Giuseppe, i quali in questo giorno facendo una quarta Processione colla Statua di Gesù Cristo Risorto, si trasferiscono alla Chiesa di S. Maria di Valverde, di cui a suo luogo avremo ragione, ove giunti, pongono per mezzo di uno dei sopradetti Bambini vestiti da Angioli, una corona d’argento sopra il Capo di quell’Immagine miracolosa, la qual corona, spettante alli medesimi Frati, conducono per quell’Angeletto dalla propria Chiesa di S. Giuseppe, fino a quella di Valverde, ove la lasciano nella descritta maniera. Questa Processione gira come le altre, ed in segno di gioia si cantano dalli Musici le Litanie di Maria Vergine, concertate, coll’aggiunta della parola alleluja. In quest’oggi sogliono i Parrochi entrare nelle case tutte di loro giurisdizione affine di benedirle, ed in quelle più bisognose lasciano delle elemosine in quatrini, provenienti dalle questue fatte nel corso della Quaresima in Cattedrale alla Prediche, e giustamente dispensati dal sig. Archidiacono alli suddetti Curati, che dalle case più comode in regalo ricevono delli denari, e delle ova. Sogliono ancora a piacere i Parrochi sopradetti raccogliere in simile circostanza il numero delle anime, e ritirare a suo luogo e tempo i biglietti pasquali per procedere contro dei Trasgressori. Di questo giorno di Pasqua si fa Pontificale a Duomo alla Messa, ed al Vespro. L’Eccelso Senato vi si porta tanto la mattina, che il giorno per corrispondere al gentile invito, che fatto gli viene preventivamente dal reverendissimo Capitolo. Terminata dopo il Vespro la Predica, si fa mostra delle SS. Reliquie, le quali tralascio ora di enumerare, perché più cose mi richiamano indietro, cioé l’inveterato costume di farsi per questo Giorno in Corneto delle Pizze veramente eccellenti, e di lessarsi delle Ova in copiosa abbondanza: le quali cose tutte benedette da un Sacerdote, ciascheduno in casa propria ne mangia, facendone ancora parte alli respettivi Famiglie ed Operai di Campagna. In secondo luogo, la questua che da quattro deputati Patrizi si fa per la Città tutta in favore del sig. Oratore, al quale appartiene ancora l’Elemosina solita della Predica di questa Domenica di Pasqua. 64 In terzo luogo, le varie composizioni Poetiche, fatte stampare dall’Eccelso Senato ad onore del Predicante suddetto, le quali si dispensano in Cattedrale in tempo del Vespro, da uno o due prescelti e supplicati Signori. E finalmente l’istorica narrazione delle suddette Sacre Reliquie; che brevemente sarò per stendere, alla di cui Solennissima Mostra vi si trasferiscono processionalmente le venerabili Confraternite del Gonfalone, del SS. Sagramento e Morte; di S. Giuseppe; e della S. Trinità. Le reliquie adunque che si conservano al Duomo, sono la maggior parte della città di Palestrina. Il celebre cardinale Vitelleschi, dopoché ebbe arsa e distrutta quella città superba e rubella alla Chiesa, ne fece il Glorioso trasporto a Corneto, sua patria. Ciò tutto successe nell’anno di Cristo 1435. Intanto è necessario sapersi che in Cattedrale per custodia delle Reliquie suddetta, vi sono due armari, le di cui chiavi si devono ritenere in Segretaria Magistrale, conforme dalle notizie e memoriale della S. Congregazione dei Vescovi, in essa gelosamente serbati. Per decreto ancora della S. C. de Reti, ha il diritto il magistrato di ritenere una chiave delle Reliquie dei S. Protettori della città. E terminata la suddetta solennissima Mostra, si passa subito dalle Confraternite e Popolo alla Chiesa di S. Marco dove si dà la benedizione Papale, indicata alli 25 di Marzo, quante volte il Vescovo non si ritrovi in Corneto. E finalmente si va alla Chiesa di S. Maria di Valverde dove si cantano le gloriose sue lodi, avanti alla di Lei scoperta miracolosissima immagine. Il Lunedì di Resurrezione, Pontificale a Duomo, con la predica, la di cui elemosina è del Sagrestano della Cattedrale. Ad un’ora competente la mattina si porta privatamente l’Eccelso Senato e Governatore Locale nella Chiesa di S. Maria di Valverde per l’estrazione delli nuovi Signori della Festa, come più diffusamente al sabato della prima Domenica dopo Pasqua. Il giorno poi dalli Confratri del Gonfalone e della SS. Trinità si celebra una generale Congregazione per l’elezione delle nuovi Offiziali e nella Chiesa di S. Francesco de’ Minori Osservanti, coll’intervento dell’Eccelso Senato da quelli Padri invitato, e delle Confraternite come sopra, si mostra altre Reliquie. Delle quali tutte non se ne sa cosa alcuna, né si veggono tra le altre Palestrinese Reliquie che sole si conservano nella Chiesa di S. Francesco nella nicchia sopra all’altare maggiore, la quale nelle occorrenze si apre da tre chiavi differenti, una delle quali ritengono i suddetti Padri dei Minori Osservanti, da essi per supplica domandata al Consiglio, ed ottenuta dal medesimo, che nella stessa occasione decise che le altre due chiavi si tenessero dalla Comunità o conforme il solito dal di loro Cancelliere sig. Mattia Martellacci, la qual Famiglia presentemente ne ritiene una senza alcuna giurisdizione o Consiliare Permesso. 65 E passando al Martedì di Resurrezione, Pontificale a Duomo la mattina; ed il giorno si passa alla chiesa de’ Padri Agostiniani, ove si cantano le Lodi di Maria, innanzi all’Immagine sua miracolosa, alla quale funzione intervengono ancora le Confraternite sopraddette che in simili giornate si portavano anticamente alla Visita delle Sette Chiese. La Domenica in Albis così è detta dallo spogliarsi degli abiti bianchi di quei che furono battezzati il Sabato Santo. Oggi si celebrava la festa con la pubblica Fiera, nella Chiesa di S. Maria del Mignone. Il solennizzarsi presentemente nella Domenica terza dopo la Pasqua di Resurrezione, mi fa credere che ciò succedesse nell’antica e non mai nella Chiesa moderna nuovamente eretta vicino al Fiume Mignone, da Francesco Fani nell’anno 1653, sotto il Titolo di S. Maria della Redenzione de’ Schiavi e di S. Francesco d’Assisi; la qual chiesa appartiene oggi alla Casa Soderini di Roma, che comprò ancora le Mole e gli adiacenti terreni; e nella quale si celebra ogni Festa la messa, da qualche Sacerdote, che vi spedisce il Ministro in Corneto delli suddivisati Conti Soderini. Ed in proposito dell’antica Chiesa di S. Maria di Mignone, situata di qua del fiume che Mignone si noma (la di cui pesca si vendeva fino al 1288) esistente ancora vicino alle selve dell’Allumiere, se ne ha memoria fino dall’anno 766 (Registro Farfense n. 62). Il Monastero ed il Cenobio dei Monaci era di S. Benedetto, soggetto al Cenobio Farfense sino all’anno 801 (e Rg.Farfense n. 288). Alla suddetta Chiesa di S. Maria di Mignone erano unite le Chiese di S. Pellegrino, di S. Anastasio, di S. Pietro e di S. Angelo negli anni 1011, 1017, e 1073 (Reg. Farfense n. 636, 538, 1010). Avanti l’anno 1051 (Reg. Farfense n. 855) verteva una certa controversia tra il Cenobio Farfense e quello di S. Cosma di Roma sopra la pertinenza di S. Maria del Mignone, e delle altre chiese della città di Corneto. Negli anni 1019, 1027, 1050, 1065 e 1084 (reg. Farf. n. 558, 707, 909, 980, 400), si ha parimenti memoria di questa Chiesa, la quale nell’anno 1083 (reg. Farf. n. 1077 e 1079) e negli anni susseguenti fu soggetta a delle barbare incursioni, per le quali restò demolita e distrutta. Dalla partenza dei Monaci sopraddetti si vive affatto allo scuro. Solo sappiamo di certo che il Pontefice Eugenio IV di felice memoria concesse nell’anno 1435 alla Mensa Vescovile di Corneto i Beni di S. Maria sopradetta, di S. Savino ed il Beneficio di S. Nicolao. Si crede che in questa Chiesa vi fosse una Pittura rappresentante un Angelo che consegna all’Eremita Sansone lo stendardo chiamato Orofiamma, supponendosi che tale Eremita quivi stanziasse e che questo consegnasse detto Stendardo a Fiovo creduto Costanzo figlio di Costantino magro, e nepote dello stesso eremita immaginato fratello di Licinio Imperadore. Ma ciò è tutto falso perché l’insegna d’Orofiamma fu dono celeste a Clodoveo battezzato da S. Remigio e chiamato in seguito Luigi, venuto alla fedele per opera 66 di Clotilde sua moglie e per la miracolosa vittoria ottenuta contro gli Alemanni. In quest’oggi si aprono i tre Tribunali soliti. Il Sabato che precede alla seconda Domenica dopo Pasqua di Resurrezione, si cantano i primi Vespri Solenni nella chiesa di S.Maria di Valverde. Nel secondo giorno di Pasqua di Resurrezione avanti il mezzo dì, si porta privatamente l’Eccelso Senato nella suddetta Chiesa di S. Maria di Valverde, ove ascolta una messa letta, e dove (premessa l’invocazione dello Spirito Santo) elegge i Prefetti, volgarmente detti i Signori per la Festa dell’anno futuro. Questa elezione o per meglio dire estrazione di nuovi prefetti, cade sopra di tre differenti Università che non vestono Cappa, la prima delle quali è tanto dei Rustici quanto dei Cittadini, che sogliono o fanno composta, che possiedono vacche, e simili altri bestiami; la Terza finalmente dei Casenghi, che vien formata da Genti Gregarie, le quali possiedono dei Giumenti da Basto. Da queste Università se n’estraggono quattro per sorte, i quali tutti devono senza meno accettare la carica, e ripartirsi l’obblighi a cui son tenuti, non che portare in Segreteria Magistrale il giorno 20 di Marzo scudi 5 per ciascheduno Prefetto, i quali costituiscono la somma di 60; che le suddette Arti impiegono per questa Festa, ed in mancanza son soggetti alla spedizione della manureggia. La comunità ancora spende altri 60 scudi che fanno in tutto la scarsa somma per una Festa solenne di 120, da impiegarsi in tre cerii di Libra, ed in altra simile di tre Libra a cagion delle Offerte, in 18 candele da 4 oncie per ardere sopra gli altari dell’Università sopraddette in tempo delle tre messe; in altre sei candele da 4 oncie, che nelli medesimi altari devono stare accese nel tempo della Messa solenne; in quattro altre Candele da 3 oncie, che devono ardere innanzi delle reliquie; in 5 di elemosina alli Padri Serviti per le tre Messe alle Arti, e per il settenario da incominciare il giorno dopo la Festa; e finalmente in altri leciti e onesti divertimenti, e non in bagordi come succedeva da prima. In occasione poi che dalli Prefetti si paga in Segreteria la propria tangente. ivi si lassa da loro il riparto delle Persone, che in ciascheduna delle tre rispettive Università devono avere il Biscotto. Alli custodi degli altari estratti parimenti dal Popolo, che ritengono i Padri Serviti, le di cui chiavi peraltro esistono nella Segreteria Magistrale, spetta continuamente tenere accomodati i respettivi altari, dei quali i più nobili arredi in Comunità si conservano. Ognuna delle tre Università spende del proprio per la conservazione dei medesimi; i quali denari si defalcono all’occasione dalli 60 che devono sborsare in ogn’anno. Le priore estratte come sopra devono imbiancare le tovaglie; e tener politi gli altari, in ognuno dei quali vi deve essere la Tabella in cui si legghino tutti i Confratrii separatamente che compongono le tre Università differenti. I Padri Serviti pensano per l’altare maggiore. 67 La seconda Domenica dopo Pasqua si celebra solenne Festa a Valverde, dove il Clero ed il Magistrato col Vescovo si trasferiscono, seguendo l’Ordine sopracitato. Ancora le tre Università in questa mattina sono obbligate di trovarsi nella pubblica Piazza maggiore, affine di corteggiare a cavallo l’Eccelso Senato fuori che quella degli Aratori, la quale a piedi lo va accompagnando coll’altre alla Chiesa di S. Maria di Valverde, e da questa al Luogo di sua residenza. Secondo l’antico costume vengono prima i Bifolci, poscia i Vaccari, e finalmente i Casenghi, ricevendo la destra mano dai vecchi i nuovi estratti Perfetti; i primi dei quali (nell’anno che fanno la Festa) sostengono un vessillo per cadauno allusivo alla propria professione, che fino dal bel mattino si veggono spiegati fuori del Palazzo Apostolico, dove gli enunciati Prefetti li collocano, dei quali i secondi come sopra portano l’indicato cerio di libbra. L’incombenza poi delle terzi, e dei quarti ella consiste nel notare i mancanti alla cavalcata per darne subito conto all’Ill.mo Magistrato, acciò faccia pagare alli trasgressori la pena di Paoli 3 per ciascuno d’applicarsi in beneficio della propria Cappella, dalla qual pena sono bensì esenti quei Tali che in primo luogo mandano il cambio, essendo lecito cavalcare ancora tra li Bifolci o il respettivo Capoccia, o in sua vece il Bifolco. Anticamente accompagnavano ancora l’Eccelso Senato i Barbareschi con propri cavalli da correre in questo giorno. L’ordine del suddetto accompagno egli era ancora nei secoli trapassati molto dissimile da quello che ai nostri giorni si pratica; imperciocchè i Prefetti delle Università sopraddette seguivano a cavallo l’augusto Senato, il primo dei quali portava i respettivi vessilli delle tre società differenti, il secondo un solo cerio di tre libbre, che a nome offeriva dalle Università sopraddette; e gli altri poi tutti sopra delli propri cavalli sino al numero di trecento, corteggiavano l’Eccelso Senato colle spade nude sopra le mani. Nel tempo adunque che si celebra solennemente la Messa all’altare della Madonna, si dicono contemporaneamente tre altre messe private negli altari spettanti delle tre Università sopradette, che l’ascoltano insieme con i rispettivi Loro Prefetti, i quali fanno l’offerta del Cerio, baciando poi tutti la Reliquia esposta in ognuno degli altari indicati. Da prima solamente baciavano al Sacerdote il manipolo, ed offrivano solo cerio di tre libbre. Le Università poi sopradette accompagnano l’Eccelso Senato al Palazzo suo priorale, fanno tre giri all’intorno della maestosa Fontana eretta l’anno 1724; e quindi passano a prendere i Biscotti dalli Prefetti secondo il fatto ripartimento in segreteria magistrale, e lassano ai primi Signori estratti per la Festa dell’Anno futuro, la respettiva Bandiera, i quali devono dare alla Priora il Biscotto. Immediatamente nel giorno dopo della Festa descritta, si dà principio ad un ottavario divoto coll’esposizione del Venerabile nella predetta Chiesa di S. Maria di 68 Valverde. Quest’esercizio fu introdotto dal P. M.ro Fabiani da Corneto Servita; si faceva da prima per divozione dei particolari Fedeli divoti di quella Sacra Immagine. In oggi per il medesimo si spendono, come si detto, scudi 3 da consegnarsi all’indicati servizi, tanto dalla Comunità che dalli Signori Prefetti. Il sopradetto Padre Fabiani ottenne dal Sommo Pontefice Benedetto XIV l’indulgenza plenaria, da lucrarsi dalli Fedeli nell’intero corso di questo ottavario. Vi è ancora nell’ultimo giorno di questo divoto Esercizio la benedizione Papale, per grazia ottenuta, ed in simil giorno fissata dal predetto Sommo Pontefice, che per la prima volta fu data in questa chiesa di S. Maria di Valverde sotto li 3 di maggio 1748. Nel giorno ancora della Festa vi è l’indulgenza plenaria concessa dal regnante Pio VI li 2 maggio 1778 con suo particolare rescritto da riconfermarsi di sette in sett’anni. Prima di questa concessione si attaccava ancora la tabella dell’indulgenza sulla supposizione che l’indulgenza concessa dal Pontefice Alessandro VI sotto li 6 aprile 1494 fosse perpetua, ma essendosi scoperto che era ad terminum, senza alcuna conferma, fu procurata dall’Ill.mo Magistrato l’indulgenza suddetta dal regnante Pio VI. In occasione ancora di questa solennità principale, evvi in Corneto la Fiera che principia quattro giorni avanti, e termina quattro giorni dopo la Festività sopradetta. Il celebre Cardinale Vitelleschi concesse alla Città questo nobile privilegio il giorno secondo di maggio 1436. Si faceva anticamente in ogni anno sotto li 20 di maggio, in cui si celebra la consacrazione del Tempio di S. Maria in Castello. Era abbondante in quei tempi d’ogni sorta di merci, ed ogni genere di bestiame, il campo dei quali era al di là del Ponte della Marta sopra strada verso la Città di Toscanella. Pio II ad istigazione dei Cornetani supplicanti, la trasferì nel 1460 a dopo l’ottava della Festa di Maria Vergine di Settembre, cioè a dopo la Fiera di Viterbo, da quattro giorni già terminata. Ma all’impensata, l’indicato Pontefice dodici giorni dopo conceduta la grazia, la rivocò e commandò espressamente che non s’innovasse cosa alcuna e che si facesse la Fiera conforme il solito, cioé sotto li 20 di maggio, con franchigia e sicurezza di Dazi e Gabelle e di qualsivoglia delitto da concedersi o con lettere o a bocca del Magistrato, eccettuati i ribelli e nemici di S. Chiesa; gli assassini, e gli Omicidiari della Città conforme vuole il Privilegio dal Vitelleschi concesso. In occasione poi che Alessandro VI per la via di Viterbo e di Toscanella si trasferì in Corneto sotto li 5 settembre 1493, tra le grazie che gratuitamente concesse alli supllichevoli Cornetani, il prelodato Sommo Pontefice si annovera ancora quella di farsi la Fiera in occasione della descritta Festa di S. Maria di Valverde, ed in quella circostanza concesse ancora l’indulgenza plenaria per il giorno della seconda Domenica dopo l’Ottava di Pasqua di Resurrezione da valere per soli 3 anni, promettendo in seguito che passato l’anno del Giubileo prossimo futuro, l’avrebbe 69 accordata perpetua. Allora fu che si diede principio a tenere le Merci esposte dalli respettivi mercanti (come in oggi si seguita) dal Palazzo del Magistrato fino a Valverde. Il Campo poi del Bestiame bravo era nel Poggio della Giustizia e del Duomo nell’Oliveto sotto la medesima Chiesa di S. Maria di Valverde. Parleremo della Processione Cornetana, premessa prima una necessaria osservazione, cioè che tanto rispetto si avea da fedeli altra volta a queste tre giornate, che come festive solenni si celebravano: parte dunque in questa prima mattina dalla Cattedrale la Processione composta dal solo clero regolare e secolare, in cui si trasferisce sotto il Baldacchino il Legno della SS. Croce, la quale uscita la Porta, che dicesi della Valle, fa la prima posata nella Chiesa di S. Maria di Valverde, ove cantata l’antifona pasquale Regina Coeli, passa a benedire le campagne che si veggono di prospetto alla Chiesa di S. Maria in Castello, in cui fa la seconda posata, e dalla quale (cantata l’antifona di S. Francesco di Assisi) fa il suo ritorno alla Cattedrale. E qui parrebbe che dovesse aver luogo una istorica narrazione del vastissimo e fruttifero Territorio della Città di Corneto, non che delle Porte ed altro, che in questa circostanza riferir si potrebbe; ma basta quel che di ciò si è scritto nel primo Tomo del presente Diario. Il Martedì delle Rogazioni si benedicono le campagne che si presentano avanti alla chiesa di S. Maria delle Carceri fuori della Porta Nuova, fermandosi prima la Processione nella Chiesa di S. camente si ferma, ed è questa Chiesa di Jus Padronato di Casa Tassi. Il Mercoledì delle Rogazioni si dà la benedizione fuori della Porta Nuova, fermandosi prima la Processione nella Chiesa di S. Croce, ove si canta l’antifona propria; e nella Chiesa di S. Francesco, dove appunto si canta l’antifona di quel Confessore. In questi tre giorni si osservano le Ferie nelli sopradetti tre Tribunali. Il giorno a vespro si fa Pontificale al Duomo. L’Ascensione del Signore al Cielo, si fa Pontificale alla Metropolitana a Messa, coll’intervento dell’Eccelso Senato, ed a’ vespri. Si solennizza pure questo mistero nella piccola Chiesola, esistente nella vigna del sig. Pietro Petrighi, all’Ascensione medesima dedicata. Ancora nell’altra Chiesola situata vicino al Porto Clementino, e dedicata a S. Ferma, si celebra parimenti La Festa dell’Ascensione del Signore. Questa Chiesa fu eretta a spese della Reverenda Camera Apostolica che ne ha il jus Padronato, ed alla quale spetta di provederla di Cappellano in beneficio dei Pescatori e naviganti, acciò possino confessarsi ed ascoltare la Messa ogni giorno festivo dell’anno. A questa Festa concorre una buona parte degli abitanti del Paese non perché la divozione colaggiù li trasporti; ma per 70 straviziare col vino navigato, che a questo tempo vi è in copiosa abbondanza in quelle medesime spiaggie. Il Sabato precedente alla Pentecoste, vigilia; e Pontificale a Duomo colle solite Cerimonie del Sabato Santo, ove suol tenersi dal Prelato (quando si ritrova in Corneto) l’ordinazione. Pontificale pure a’ vespri. Feria fino a tutto il terzo giorno di Pentecoste nelli soliti tre Tribunali. Per nove giorni avanti a questa Solennità, si fa la novena dello Spirito Santo coll’Esposizione del Venerabile nella Chiesa di S. Lucia e della Presentazione a spese dei Monasteri. Ancora nella Chiesa di S. Pancrazio si celebra un Divoto Settenario coll’Esposizione del Venerabile ad onore del Divino Spirito Paracleto; e ciò per elemosina dei devoti Fedeli. Ad un’ora poi competente, dopo il pranzo, si trasferisce privatamente l’Eccelso Senato al magnifico Edifizio delle Mole, in compagnia dei Soprintendenti alle medesime, che si eleggono nel general Consiglio delli 13 di dicembre, per ivi assistere all’alzata delle Cataratte, solita farsi ogni anno in questo medesimo sabato, affine di potere nei susseguenti tre giorni festivi adagiamente e sicuramente ripulire la Lega e riattare le Mole. *** Un divertimento che seguitò fino a non molto tempo indietro e che s’intrecciò con delle tradizioni popolari è il solco a tutti noti, spesso ricordato nelle conversazioni famigliari. L’Università dei Bifolchi o Aratori pensava a dare questo divertimento. Il giovedì o venerdì dopo la domenica di Pasqua, i signori dell’Arte dei Bifolchi scavavano un solco lungo circa tre miglia partendo dalla porta principale della Chiesa di Valverde e giungevano fino al mare, ad un segno determinato. E poiché ogni anno si teneva diversa via, si cercava di passare per quella parte dove il grano sembrava più bello e rigoglioso, e per non deviare nemmeno un palmo dalla retta linea, si tagliavano alberi, si demolivano muri di orti e di vigne. Nessuno si lamentava di questi danni sia perché questa libera facoltà di procedere era invalsa per consuetudine e anche perché si sperava dal passare del solco, colla benedizione di Maria SS., una messa più abbondante, e si credeva un augurio di più felici vicende per l’avvenire. E questo veniva provato da una tradizione immemorabile 71 che narrava non aver mai sofferto pregiudizio alcuno nella raccolta del grano i padroni di quei campi per dove era passato il solco. Il solco doveva terminare il sabato seguente prima che cominciasse la solenne processione della sera, vigilia della festa. Il solco che solevasi fare nella circostanza delle feste popolari della Chiesa di Valverde al mare, in memoria, come dicevasi, della via che percorse l’Immagine quando venne a Corneto, non ha però alcuna forza di verso argomento. Non può negarsi che il popolo sia solito creare attorno a un fatto talvolta semplicissimo delle appendici più o meno strane da travisare spesso il fatto medesimo. E passando di generazione in generazione il fatto si confonde da mettere lo storico nell’impossibilità di riconoscere la storia. Nulla di tutto questo si ha nella tradizione: forse tale leggenda l’ha fatta creare l’oscurità dell’origine. 72 73 74