Il Gioco - I.I.S. “Carducci”

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Il Gioco - I.I.S. “Carducci”
Il Gioco
AÁãn paÊv ¢sti paÀzwn pesseÖwn: paidÍv « basilhÀh.
Il tempo è un fanciullo che gioca con il tavoliere; il regno di un fanciullo.
Eraclito – Fr. 52
Il termine “Gioco” indica ogni libera attività che non mostri alcun fine immediato (a
parte il gusto stesso di agire) ed esplichi abilità fisiche, manuali, intellettive…1. Tratti
chiave del gioco sono: la piacevolezza, la “leggerezza”, la libertà (di giocare e di
scegliere certe mosse), la presenza (almeno minima) di regole, l’incertezza dell’esito.
Il gioco ha una funzione essenziale nello sviluppo umano e in quello di molte specie
animali, in quanto costituisce una forma primaria ed insostituibile di apprendimento:
questo aspetto è sottolineato, in particolare, dalle cosiddette “teorie dell’esercizio”.
Tutto ciò induce a ritenere che si tratti di una tendenza innata negli esseri viventi.
Nel caso dell’uomo, è evidente anche la funzione socializzante (e quindi educativa e
formativa) del gioco: esso consente infatti di entrare in contatto con i propri simili e
d’interagire con essi, secondo sistemi sempre più complessi di relazioni e di regole.
Nella nostra epoca tende ad attenuarsi la tradizionale contrapposizione tra “gioco” e
“lavoro”: se è certo, infatti, che molti lavori hanno ben poco di divertente, resta il
fatto che in molti casi la gratificazione “interna” (cioè la soddisfazione di svolgere
bene un certo compito) può persino prevalere su quella “esterna” (il ricavo economico).
A volte è una questione di prospettiva: come insegna Mark Twain nel suo Tom Sawyer,
molte attività possono apparire interessanti, se le si prendono per il verso giusto.
È comunque sempre più discutibile la distinzione tra ciò che sarebbe “utile” (lavoro) e
ciò che non lo sarebbe (gioco): «lavorare è necessario per vivere» dirà qualcuno – ma
qualcun altro potrebbe chiedere, in risposta: «e vivere, a che cosa serve?». Viceversa,
è difficile negare che anche il gioco serva per vivere (o almeno per vivere meglio).
Fatto sta che, a partire dall’Ottocento – e sempre più, nel Novecento – il gioco ha
cominciato ad esser preso molto sul serio, fino alla formulazione delle odierne “teorie
ludocentriche”. Anche i “giochi sociali” di Simmel o i “giochi linguistici” di cui parla
Wittgenstein, sono esempi rilevanti di questo sviluppo. Ma Simmel e Wittgenstein
(come del resto Huizinga) devono molto a Nietzsche, che nel Gioco e nell’immagine del
Fanciullo che gioca vede espressa l’energia cosmica e la potenza creativa dell’uomo (o
meglio: dell’Oltre-Uomo). Né va dimenticato che Nietzsche deve molto, a sua volta, a
Leopardi: «Tutto è follia fuorché il folleggiare, tutto è degno di riso fuorché il ridersi
di tutto» (ma si badi che quest’ultima affermazione ha un’aria tutt’altro che allegra).
1
Cfr. Schiller: «L’animale lavora, quando il movente della sua azione è la mancanza di qualcosa;
gioca quando il movente è la pienezza della sua forza, se lo stimola un’esuberanza di vita».
Teorie sul Gioco
TEORIE RESIDUALI: I comportamenti ludici rappresentano il permanere (senza funzioni
specifiche) di attività primordiali destinate all’autodifesa, alla procreazione, alla
ricerca del cibo etc. Secondo il filosofo positivista H. Spencer, lo sviluppo sociale e
tecnico dell’umanità ha reso più facile conseguire tutti quegli obiettivi, per cui c’è oggi
un surplus di energia, che si accumula e cerca altre vie di sfogo. Lo psicologo
americano Stanley Hall (discepolo di W. Wundt) ritiene che nel “residuo” costituito
dal gioco si esprima anche l’analogia tra lo sviluppo dell’individuo (ontogenesi) e
l’evoluzione della specie (filogenesi): una sorta di “eco” del nostro passato.
TEORIE DELL’ESERCIZIO: Si tratta di concezioni già presenti nell’antichità (v. p. es.
Aristotele), riprese in età moderna da Kant, dal pedagogista Friedrich Fröbel, e dal
filosofo-psicologo Karl Groos (v. Die Spiele der Menschen – 1899). Secondo queste
tesi, l’attività ludica è necessaria allo sviluppo e alla maturazione di certe abilità che
l’individuo appena nato non possiede ancora – o possiede solo in potenza: si tratta di
una prospettiva che, rispetto alla precedente, dà meno importanza ai fattori ereditari.
Anche l’etologia (v. il concetto di imprinting) appare vicina a questa prospettiva.
Idee simili sono esposte da Freud, che focalizza l’attenzione sullo sviluppo emotivo:
giocando, il bambino impara a dirigere la propria energia psichica (spesso distruttiva
ed a-sociale) verso obiettivi socialmente accettabili. Ciò, secondo la psicoanalisi, è
all’origine dell’Io (principio di realtà) e del Super-io (regole morali). Allo stesso tempo,
Freud si avvicina anche alle teorie “residuali”, proponendo un analogo modello idraulico
della psiche (s’ipotizza un’energia di base che deve sfogarsi in un modo o nell’altro).
Anche lo psicoanalista Donald Winnicott (che segue l’indirizzo kleiniano) vede nel gioco
una forma di adattamento psichico, soprattutto in relazione alla figura materna
(affettivamente ambigua) e all’angoscia della separazione da essa: gli oggetti con cui il
bambino gioca hanno una funzione “transizionale”, cioè consentono da un lato di
surrogare tale figura, dall’altro di spostare su altri elementi la propria carica emotiva.
J. Piaget vede nel gioco la diretta espressione dell’intelligenza, che si sviluppa secondo
certe tappe e schemi (innati, ma da attivare e potenziare con l’esercizio), ciascuno dei
quali viene consolidato tramite un’indefinita ripetizione (vedi il far cadere a terra ogni
oggetto disponibile). In altre parole, il gioco risponderebbe quasi esclusivamente al
processo di “assimilazione” (cioè all’utilizzo di strumenti già acquisiti), piuttosto che a
quello di “accomodamento” (cioè alla capacità di modificare i propri schemi cognitivi).
Su quest’ultimo aspetto mettono invece l’accento gli esponenti del cognitivismo (come
Bruner), che vedono nel gioco l’occasione per liberarsi dai modelli imposti da una data
situazione fattuale: per il suo carattere di libertà e di “uscita dal contesto”, il gioco
induce l’adozione di nuovi schemi, con sviluppo della creatività. È evidente l’analogia tra
questa funzione del gioco e quella dei linguaggi simbolici in generale: si tratta di
rappresentazioni del reale, che insieme aprono prospettive verso il possibile.
In sintonia con le tesi cognitiviste erano quelle già espresse dagli psicologi della
Gestalt (v. i meccanismi di insight studiati da Wertheimer o da Köhler all’inizio del
Novecento), come pure le successive idee elaborate dall’americano Robert White, che
nel 1959 propone il suo Need for Competence and Autonomy. Quest’ultimo concetto
tende anche a ridurre la distanza tra “gioco” e “lavoro”2 (cfr. le osservazioni iniziali).
TEORIE LUDOCENTRICHE: esprimono la tendenza, in atto nella cultura contemporanea, a
mettere in questione la “serietà” dei modelli antropologici tradizionali, in vista di un
rinnovamento e di una ridefinizione globale dell’uomo e della società umana.
Nel suo libro Homo Ludens (1938), lo storico olandese Johan Huizinga reagisce al
dogma positivistico di un progresso garantito: ogni epoca storica ha la sua struttura e
realizza certi valori (nessuno dei quali può aspirare all’assolutezza). Rifiutando il
concetto di “progresso”, Huizinga parla di un difficile equilibrio della civiltà sull’orlo
della barbarie: egli ritiene essenziale la dialettica serietà / gioco, di cui il secondo
momento (essenziale nella cultura umana) rappresenta l’aspetto dinamico ed antiautoritario, che impedisce la sclerotizzazione dei sistemi politici e sociali.
In questi termini Huizinga interpreta anche la “follia” celebrata da Erasmo. Nell’opera
dedicata a quest’ultimo, egli analizza il tramonto degli ideali umanistici e scorge
nell’Elogio l’anticipazione di una nuova epoca.
Riprendendo le tesi di Huizinga, il francese Roger Caillois propone anche una tipologia
secondo cui ogni gioco sarebbe strutturato da quattro aspetti fondamentali: Alea (la
sorte); Agón (la competizione); Mimicry (la finzione / imitazione); Ilinx (la vertigine).
Egli distingue inoltre due livelli nell’organizzazione del gioco: la Paidìa (caratterizzata
da spontaneità e carenza di regole) e il Ludus (articolato secondo regole precise).
2
Nello stesso anno, lo psicologo americano Frederik Herzberg formula la sua “Motivation-hygiene
Theory”, secondo cui ogni tipo di lavoro presenta, accanto ad aspetti necessitanti (“Hygienefactors”, v. paga, sicurezza, condizioni di lavoro…) una serie di elementi gratificanti (“Motivators”,
vedi responsabilità, sfida, competenza), che incentivano a produrre.