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7 marzo 2010 London Calling Viaggio nell’underground londinese D.J. Taylor La prima sfida che deve affrontare chiunque si accinga a scrivere “Una storia della controcultura londinese dal 1945” è quella di capire che cosa intende con questa parola. È semplicemente un sinonimo di bohémien, oppure un termine generico atto a descrivere qualsiasi manifestazione artistica volutamente anticonformista? Nella sua introduzione Barry Miles cita la “vita creativa di Londra e, più in particolare, la sua vita bohémien, i beatnik, gli hippie e la controcultura”, ma anche questo provoca inevitabilmente più domande che risposte. Ogni tanto salta fuori l’inossidabile aggettivo “trasgressivo”, eppure si tratta di un libro che pone Kingsley Amis accanto a Genesis P-Orridge e suggerisce l’idea che qualsiasi rete in grado di catturare Jim il fortunato e i COUM Transmission in un’unica trappola sia così ampia che quasi non vale la pena lanciarla. In uno dei capitoli dedicati agli anni Sessanta – che sono comunque parecchi – Miles cita l’opinione del serioso mensile «Encounter», secondo cui la Swinging London era la prova vivente di “una rivolta totale da parte di una determinata categoria di giovani contro i costumi, le maniere, i principi, la morale, la politica, i gusti, i tabù e lo stile di vita dei loro vecchi”. Ecco il genere di cose che appassionano Miles, ma il sogno di un’autentica ribellione viene costantemente neutralizzato dalla fatale tendenza del movimento giovanile a trasformare, come ha affermato Thom Gunn nella sua poesia su Elvis Presley “la rivolta in stile”. Gli outsider arrabbiati di una generazione sono generalmente i beniamini del sistema di quella successiva, come dimostrano ampiamente le carriere di Francis Bacon e Lucian Freud (ai quali si dedica qui abbondante spazio). Forse, alla fin fine, ciò che davvero interessa a Miles è “l’underground”. Il principale punto focale di London Calling è dunque rappresentato dai bizzarri elementi di Soho, a partire dagli impresari letterari e artistici della fine degli anni Quaranta in poi, passando per gli happening degli anni Sessanta, «International Times» e la London Free School, fino al mondo parimenti ad alto tasso pubblicitario di Grayson Perry e Leigh Bowery. La baldoria poetica dell’Albert Hall orchestrata da Allen Ginsberg nel 1965 viene ripresa in ogni minimo dettaglio, e c’è qualche reportage scelto dal palco dell’UFO Club, da cui l’estemporanea presentatrice, Suzy Creamcheese, una volta ha annunciato: “Forse alcuni di voi sono mosci, e forse stanotte verrà la polizia […] Ma noi non vogliamo che gli sbirri chiudano l’UFO. Perciò, se siete mosci, fatemi il favore, andate fuori e tornate quando state alla grande”. Attraverso una nebbia di fumi di hascisc, corroborata dal fruscio dei caffettani, vanno e vengono figure familiari: Johnny “Hoppy” Hopkins, polivalente creatore di happening; Jeff Nuttall, l’autore di Bomb Culture; il manager dei Sex Pistols Malcolm McLaren. Le parti migliori, inevitabilmente, derivano dalla posizione di Miles, che in quel periodo agitava la scena, e dalla sua amicizia con Paul McCartney, cliente della sua libreria, l’Indica. Lo sfrenato racconto di Miles si avvia a una lenta conclusione quando raggiunge gli anni Novanta e Duemila, e suggerisce che il nuovo epicentro della controcultura sia l’East End, non più W1. I dettagli bohémien abbondano. Mi stupisce una visione incredibilmente allegra delle attrattive della controcultura. Agli inizi dei fatti l’autore descrive un club denominato Jimmy’s a Frith Street come un rifugio per coloro che «tentavano la fuga dalla dura realtà dell’Inghilterra postbellica». Quanto a questo, anche Soho era una realtà piuttosto dura.