Mostra Da zero a cento

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Mostra Da zero a cento
Un’idea e una produzione della Fondazione Marino Golinelli
in collaborazione con La Triennale di Milano
BOLOGNA Palazzo Re Enzo
2_12 febbraio 2012
MILANO Triennale di Milano
21 febbraio_ 1 aprile 2012
DaZeroaCento
Con il Patrocinio di
Con il contributo di
Concept allestimento
Fotografie e filmati
Si ringraziano
Fondazione del Monte
di Bologna e Ravenna
Iosa Ghini Associati
Raccolte Museali Fratelli
Alinari
Gli artisti • I prestatori
Un’idea e una produzione
Fondazione Marino Golinelli
in collaborazione con
La Triennale di Milano
Ministero per i Beni e le
Attività Culturali
Ministero dell’Istruzione,
dell’Università
e della Ricerca /USR
Emilia-Romagna
le nuove età della vita
Un progetto di
Giovanni Carrada
Scienza
a cura di Giovanni Carrada
con la collaborazione di
Mauro Mennuni
Arte
a cura di Cristiana Perrella
con la collaborazione di
Alessandra Troncone
Ministero dell’Istruzione,
dell’Università
e della Ricerca /USR
Lombardia
Regione Emilia-Romagna
Provincia di Bologna
Comune di Bologna
Comune di Milano
Accademia Nazionale
dei Lincei
Alma Mater Studiorum
Università di Bologna
Città e siti italiani/Patrimonio
Mondiale Unesco
Istituto Mario Negri di Milano
Rai Segretariato Sociale
Camera di Commercio
Industria Artigianato
e Agricoltura di Bologna
Politecnico di Milano
Con il sostegno di
Alfa Wassermann
IMA
MARPOSS
Coop Adriatica
Unindustria Bologna
Philips
Confcommercio
Ascom - Provincia di Bologna
Banca Popolare
dell’Emilia Romagna
Progetto e testi exhibit
Giovanni Carrada
Mauro Mennuni
Documentazione iconografica
Manuela Fugenzi
Realizzazione allestimento
Genius Progetti
Progetto grafico della mostra,
delle videografiche
e della comunicazione
Raffaella Ottaviani
Maria Teresa Pizzetti
con la collaborazione di
Marcello Rossi
Matteo Brogi
videografiche:
voce Riccardo Mei
animazione Roberto Baldassari
montaggio Roberto di Tanna
musiche Paolo Modugno
Marco Rosano
post-produzione audio
oasi studio
Ufficio Stampa
Delos servizi per la cultura
Milano
Catalogo
MINISTERO
PER I BENI E
L E AT T I V I T à
C U LT U R A L I
testi
Giovanni Carrada
Cristiana Perrella
con interventi di
Marino Golinelli
Gilberto Corbellini
progetto grafico
Raffaella Ottaviani
Teresa Pizzetti
coordinamento
Fiorella Buffignani
redazione e schede opere
Alessandra Troncone
Fototeca Storica Nazionale
Ando Gilardi
Museo demologico
dell’economia,
del lavoro e della storia
sociale silana
di San Giovanni in Fiore
Stato Maggiore Esercito
Ufficio Storico
Archivio Fotografico
Archivi Alinari
Archivio Scala
Archivio Storico Luce
Contrasto
Dino Fracchia
Getty Images
Photoservice Electa
Publifoto-Olycom
Sintesi
Maurizio Valdarnini
Un ringraziamento particolare
Comune di Bologna
per la collaborazione
ed il concreto sostegno
Fondazione
Corriere della Sera
per la collaborazione
nella realizzazione a Milano
degli incontri collegati
alla mostra
Iosa Ghini Associati
Massimo Minini, Valentina
Costa - Galleria Massimo
Minini, Brescia • Andrew
Richards, Brian Loftus,
Catherine Belloy, Rose Lord
- Marian Goodman Gallery,
New York • Rowena Chiu Hauser & Wirth, London •
Rob Eagle - Martin Creed
Studio, London • Francesca
Pennone, Antonella Berruti,
Roberta Garufi - Pinksummer,
Genova • Raffaella Cortese
- Galleria Raffaella Cortese,
Milano • Louise O.Kelly,
Johann Bournot - Alison
Jacques Gallery, London •
Lodovica Busiri Vici, Paola
Potena - Galleria Lia Rumma,
Napoli/Milano • Cornelia
Grassi, Edwige Cochois
- greengrassi, London •
Karsten Löckemann, Nina
Holm - Sammlung Goetz,
München Tom Heman - Metro
Picture, New York • Pepi
Marchetti - Gagosian Gallery,
Roma • Francesca Kaufmann,
Beatrice Girelli, Bianca
Baroni - Kaufmann Repetto,
Milano • Nicole Klagsbrun,
Taylor Trabulus - Nicole
Klagsbrun Gallery, New York
• Masha Facchini, Cindy
Lu - FaMa Gallery, Verona •
Renata Knes - Fondazione
Orsi, Segrate Milano •
Francesco Pantaleone Francesco Pantaleone Arte
Contemporanea, Palermo •
Annette Hofmann - Lisson
Gallery, Milano • Marc Alain Ryan McGinley Studios, LLC
e tutti i prestatori che hanno
preferito restare anonimi
Si ringraziano
Gapminder.org
Vespa Club Bologna
Fondazione
Marino Golinelli
Marino Golinelli
Presidente
Consiglio d’Amministrazione
Marino Golinelli
Gianpaolo Girotti
Piero Gnudi
Stefano Golinelli
Stefano Golinelli Jr
Lanfranco Masotti
Andrea Zanotti
Collegio dei Revisori
Alberto Caltabiano
Sergio Parenti
Sergio Marchese
Direttore Generale
Antonio Danieli
Area Progetti Speciali
Fiorella Buffignani
Area Formazione
ed Educazione
Giorgia Bellentani
Area Comunicazione
e Relazioni esterne
Sara Mattioli
Area Amministrazione
Daniele Vandelli
Segreteria generale
e organizzativa
Jessica Di Donato
Pier Francesco Bellomaria
Alessandra Cataneo
Ufficio stampa
Annalisa Perrone
Responsabile per la sicurezza
Marcello Verrocchio
Life Learning Center
Divisione formativa
e didattica Scuole
Secondarie
Responsabile scientifico alle
attività educative e didattiche
Lanfranco Masotti
Responsabile del laboratorio
e delle attività didattiche
Raffaella Spagnuolo
Didattica e rapporti
con le scuole
Patrizia Zambonelli
Segreteria didattica
Stefania Barbieri
Tutor di laboratorio Senior
Maria Chiara Pascerini
Giuliano Matteo Carrara
Tutor di laboratorio Junior
Sara Bernardi
Alessandro Saracino
Start Laboratorio
di Culture Creative •
Divisione educativa scuole
primarie
e dell’infanzia
Responsabile
Antonio Danieli
Coordinamento operativo
Giorgia Bellentani
Segreteria didattica
ed organizzativa
Lucia Tarantino
Supervisione scientifica
area 2/5 anni
Servizi educativi
Comune di Bologna
Fondazione
La Triennale di Milano
Consiglio d’Amministrazione
Claudio De Albertis
Presidente
Mario Giuseppe Abis
Giulio Ballio
Renato Besana
Ennio Brion
Flavio Caroli
Angelo Lorenzo Crespi
Carlotta de Bevilacqua
Alessandro Pasquarelli
Collegio dei Revisori dei conti
Emanuele Giuseppe
Maria Gavazzi
Presidente
Alessandro Danovi
Salvatore Percuoco
Direttore Generale
Andrea Cancellato
Comitato scientifico
Aldo Bonomi
industria, artigianato, società
Francesco Casetti
nuovi media, comunicazione
e tecnologia
Germano Celant
arte e architettura
Severino Salvemini
economia della cultura
Settore Affari Generali
Maria Eugenia Notarbartolo
Maria Pina Poledda
Franco Romeo
Settore Biblioteca,
Documentazione, Archivio
Tommaso Tofanetti
Claudia Di Martino
Elvia Redaelli
Settore Iniziative
Laura Agnesi
Roberta Sommariva
Laura Maeran
Chiara Spangaro
Violante Spinelli Barrile
Ufficio Servizi Tecnici
Pierantonio Ramaioli
Franco Olivucci
Alessandro Cammarata
Xhezair Pulaj
Ufficio Servizi Amministrativi
Giuseppina Di Vito
Paola Monti
Marina Tuveri
Ufficio Stampa e Comunicazione
Antonella La Seta Catamancio
Alice Angossini
Marco Martello
Fondazione Museo
del Design
Consiglio d’Amministrazione
Arturo Dell’Acqua Bellavitis
Presidente
Mario Artali
Gianluca Bocchi
Flavio Caroli
Maria Antonietta Crippa
Carlo Alberto Panigo
Direttore Generale
Andrea Cancellato
Triennale di Milano
Servizi Srl
Consiglio d’Amministrazione
Mario Giuseppe Abis
Presidente
Claudio De Albertis
Andrea Cancellato Consigliere
Delegato
Collegio dei Revisori dei conti
Francesco Perli
Presidente
Domenico Salerno
Maurizio Scazzina
Ufficio Servizi Tecnici
Marina Gerosa
Nick Bellora
Ufficio Servizi Amministrativi
Anna Maria D’Ignoti
Marina Cimino
Isabella Micieli
Ufficio Marketing
Valentina Barzaghi
Olivia Ponzanelli
Caterina Concone
Collegio Sindacale
Salvatore Percuoco
Presidente
Maria Rosa Festari
Andrea Vestita
Direttore
Silvana Annicchiarico
Producer attività museo
Roberto Giusti
Collezioni e ricerche museali
Marilia Pederbelli
Archivio del Design Italiano
Giorgio Galleani
Ufficio iniziative
Carla Morogallo
Ufficio stampa e Comunicazione
Damiano Gullì
Attività Triennale
DesignMuseum Kids
Michele Corna
Web designer
Cristina Chiappini
Triennale Design Museum
Studio Camuffo
Triennale Design Museum Kids
Logistica
Giuseppe Utano
Laboratorio di Restauro,
Ricerca e Conservazione
Barbara Ferriani,
coordinamento
Alessandra Guarascio
Rafaela Trevisan
LA CULTURA NUTRE IL PIANETA
Marino Golinelli
Da molti secoli si è prodotta una frattura profonda tra le scienze della natura e le
scienze dell’uomo, come tradizionalmente venivano definite. Non c’è dubbio che negli ultimi anni si siano privilegiate in maniera evidente le seconde, coniugate – per la
prima volta in maniera così efficiente nella storia dell’uomo – con tecnologie molto sviluppate e potenti. Le cosiddette humanities sono così divenute figlie di un dio minore,
nelle quali investire meno risorse ed energie perché non direttamente produttive. E
se è innegabile che il procedere delle tecno-scienze abbia innalzato la qualità della
vita materiale dell’uomo, va tuttavia colto e non sottovalutato un certo smarrimento
della sua dimensione esistenziale, legata ad una progressiva incapacità di elaborare
categorie di pensiero forti per un nuovo paradigma dell’umano.
Oggi cominciamo ad avvertire il peso e le conseguenze di questa separazione, che
va recuperata promuovendo una nuova unità nella visione di ciò che chiamiamo cultura. È oramai chiaro, infatti, come non ci possa essere un vero progresso delle attività umane laddove esse non siano supportate da un quadro di civiltà che si faccia
carico non solo dell’avanzamento delle future possibilità tecno-economiche, ma anche di un adeguato sostegno al pieno ed armonioso sviluppo delle attività dell’uomo
nel loro complesso. Il solo moltiplicarsi delle nostre potenzialità operative non sarà
sufficiente a fornire all’uomo – così potente e fragile ad un tempo – tutte le risposte di
cui esso ha bisogno. Viceversa, solo una cultura in grado di ricucire l’unità di saperi
oggi così frammentati potrà far comprendere il valore della salute lungo tutto l’arco
dell’esistenza, incrementando una qualità della vita che deve nutrirsi di stili adeguati
ed essere sostenuto da un’equa distribuzione della ricchezza in grado di promuovere
politiche di welfare entro un orizzonte economico ristabilito e sostenibile, coerente
alla visione prospettica a lungo termine.
Ci piace viceversa immaginare che una conquistata ricomposizione della conoscenza umana possa nutrire un’esistenza piena e cosciente, in grado di farci assumere
una responsabilità libera e consapevole verso noi stessi e verso gli altri.
Anche quest’idea di responsabilità varia con le stagioni dell’uomo, e conosce gradazioni ed intensità diverse nelle varie età che attraversiamo: da quelle più leggere che
contraddistinguono i primi anni della giovinezza a quelle più gravi che segnano l’età
della piena maturità, a quelle dense di esperienza che contraddistinguono gli anni
che preludono la nostra uscita di scena. è dall’assunzione di questo paradigma di
responsabilità che dipende il prosperare di una civiltà e di una socialità equilibrate, in
grado di garantire una partecipazione alla vita comune di persone di ogni età, facendo dell’idea di democrazia non una vuota utopia ma una realtà da perseguire e da
costruire giorno per giorno. Il nostro attraversare il tempo, infatti, modifica le nostre
percezioni e le nostre idee: rendendoci più capaci di penetrare le ragioni degli altri; di
capire, proprio attraverso uno scambio continuo con la realtà, le diversità dalle quali
siamo circondati. In questo senso la conoscenza contribuisce in maniera decisiva
al superamento dei conflitti anche nella loro dimensione sociale: ed in questo senso
una società fondata sulla conoscenza custodisce la speranza concreta di fondare
un futuro possibile per un pianeta popolato ormai da sette miliardi di esseri umani.
In verità, una sintesi che recuperi la divisione in comparti della conoscenza è già presente nel nostro cervello, essendo la ripartizione e la classificazione delle scienze
non un prodotto della struttura per così dire fisica del nostro pensiero, ma il frutto di
una evoluzione scandita dalla capacità analitica dell’uomo e dalla sua necessità, per
definire un sapere, di distinguere e classificare i fenomeni.
Nella complessità bio-neuronale che guida la nostra mente non c’è posto per la distinzione tra ciò che appartiene alle scienze dell’uomo e ciò che appartiene alle scienze della natura.
Ogni atto creativo, sia che spieghi la propria potenza nell’ambito delle tecno-scienze,
sia che segni una novità creativa nell’ambito artistico o del pensiero, affonda le proprie radici nella capacità del nostro cervello di scoprire almeno una parte di quegli
infiniti mondi in attesa di essere scoperti dall’uomo.
Così non c’è alcuna differenza tra l’illuminazione che suggerisce improvvisamente a
Giotto di dipingere i cieli del blu che appare ai nostri occhi invece che laminarli d’oro
come voleva la tradizione corrente, ed il sogno ad occhi desti di Isaac Newton nel
quale il mondo gli si disvela nei suoi rapporti geometrico-matematici in seguito alla
caduta di una mela sulla propria testa.
Entrambi questi momenti creativi – ancora inspiegati ed inspiegabili nella loro genesi
e nel loro sviluppo – segnano il cammino della nostra civiltà.
L’arte e la scienza, dunque, sono due facce di una stessa medaglia che non possiamo dividere, ma che, viceversa, dobbiamo ricondurre ad un’unità perduta. è dunque
la nostra identità, sia collettiva che soggettiva, a determinare l’evoluzione della nostra
civiltà, che si nutre della diversità che ognuno di noi porta scolpita nel proprio dna di
provenienza. Guai se i sogni smisurati di grandezza dell’uomo dovessero conoscere,
nel loro avverarsi, il sacrificio delle diversità che da sempre alimentano l’evoluzione
della vita e del pensiero. Questo pericolo esiste ed è reale: e proprio l’affermazione
della sacralità inscindibile dei processi creativi umani – scientifici o artistici che siano
– rappresenta una linea di resistenza al dominio della semplice ragione tecnica. In
questa prospettiva, la diversità rappresenta un valore irrinunciabile: e niente di grande che l’uomo abbia concepito e realizzato sin qui nella storia prescinde da una appartenenza ad una terra e ad una tradizione.
La diversità rappresenta la ricchezza dell’umanità nel suo complesso e, nello stesso
tempo, la ricchezza di ognuno di noi, che nelle diverse stagioni della nostra esistenza,
trova la via per emergere ed affermarsi.
Ecco dunque colto, sia pure in poche battute, il senso profondo di questa mostra che
abbiamo fortemente voluto.
La cultura nutre il pianeta in tutte le età dell’uomo, la creatività è lo spirito che ci
tiene vivi e che contribuisce - attraverso la linfa di una cultura che tutti insieme siamo
chiamati ad elaborare - ad alimentare il pianeta, dotando di senso, allo stesso tempo,
le nostre stesse esistenze.
La nostra vita è solo un gioco?
Sì, un gioco che va giocato fino alla fine del suo tempo.
L’ottimismo della storia
Gilberto Corbellini
Viviamo una stagione segnata da un diffuso pessimismo nostalgico. La crisi economica genera ansia per il futuro, soprattutto nei paesi che, come l’Italia, nei decenni
scorsi non hanno investito in capitale cognitivo e cultura civica. Cioè negli unici strumenti di cui si sa per via empirica che sono capaci di inventare un futuro individuale
e sociale che porti miglioramenti rispetto al passato. Il pessimismo nostalgico immagina il presente e il futuro peggiori del passato, ed è il risultato di un errore di giudizio
ben descritto dagli psicologi cognitivi, cioè la “retrospezione rosea”. Errore già noto
agli antichi, i quali sapevano che memoria praeteritorum bonorum (il passato viene
sempre ricordato migliore). Il pessimismo nostalgico è la conseguenza di un modo di
ragionare verosimilmente utile ai nostri antenati cacciatori-raccoglitori, che traevano
vantaggio dall’esser conservatori. Ma oggi può costituire un forte freno, personale
e culturale, rispetto alla possibilità di intraprendere cambiamenti in grado di ridare
concreta speranza per il futuro.
L’idea che il passato fosse migliore del presente è un errore facilmente confutabile.
Nel corso delle ultime 15-20 generazioni, cioè negli ultimi trecento anni, e in modo
particolarmente accentuato nel corso delle ultime 3-4 generazioni, cioè negli ultimi
sessant’anni, nel mondo sono accadute novità su cui raramente ci si sofferma a riflettere. E si dovrebbe essere ben coscienti di cosa è cambiato e come, proprio per
fare previsioni e prendere decisioni riguardanti il presente e il futuro sulla base di informazioni più corrette. Nei paesi che per primi hanno conosciuto l’industrializzazione,
l’aspettativa di vita alla nascita è più che raddoppiata – da circa trent’anni a oltre
settanta in media – e questo è accaduto perché è migliorata in modo straordinario la qualità della vita in generale. Le generazioni vissute nel mondo industrializzato
hanno visto diminuire le cause di malattia e migliorare la salute (cioè potenzialità fisio-
logiche individuali), e hanno goduto progressivamente di un incremento del reddito
medio pro-capite da poche centinaia di dollari ad alcune decine di migliaia; nonché di
una continua, benché incostante, riduzione della diseguaglianza economica. Questi
stessi miglioramenti si stanno verificando in numerosi paesi in via di sviluppo. Senza
dimenticare che là dove sono avvenuti tali cambiamenti si è sviluppata anche la democrazia nel senso moderno e sempre più pieno del termine: l’organizzazione politica si è evoluta in un numero crescente di paesi in senso liberale, basando l’impianto
istituzionale sullo stato di diritto, e sono cadute molte discriminazioni sociali fondate
su ingiustificati pregiudizi culturali.
Che cosa ha consentito e consente la creazione e diffusione del benessere economico, sociale e sanitario a livello praticamente dell’insieme della specie umana? La
ricerca storica si è finora concentrata quasi solo sulle cause prossime di questo processo, ignorando le cause remote o evolutive. La nostra biologia, cioè il bagaglio
genetico con cui ogni individuo inizia la sua storia di vita e da cui dipende l’assemblaggio delle sue caratteristiche anatomiche e funzionali, è sostanzialmente rimasto
identico a quello dei nostri antenati vissuti per centinaia di migliaia di anni allo stato
di cacciatori-raccoglitori. Ora, gli antropologi hanno dimostrato che la transizione
all’agricoltura non ha comportato, sotto quasi nessun punto di vista, un miglioramento delle condizioni di vita. Anzi, l’aspettativa di vita, a partire da diecimila anni
fa, è diminuita, e solo nell’età classica è tornata mediamente ai livelli del Paleolitico,
mentre la salute è peggiorata e la convivenza sociale, benché sia diventata progressivamente meno violenta, è stata governata per millenni da logiche gerarchiche di dominanza (dal totalitarismo, per usare un termine politico). Questi iniziali cambiamenti
peggiorativi sono stati la conseguenza del “mismatch”, cioè della dissonanza tra le
predisposizioni biologiche evolute dai nostri antenati per sopravvivere e riprodursi
nell’ambiente dell’adattamento, e le nuove condizioni di vita nell’ambiente fisico e
sociale creato dall’attività agricola. Dato che l’evoluzione biologica è governata dalle
dinamiche della selezione naturale e che la nostra genetica è rimasta praticamente
immutata, quali fattori e meccanismi hanno agito per consentire di abbattere gli effetti
del mismatch? E perché siamo cambiati anche somaticamente negli ultimi tre secoli,
dato che mediamente siamo diventati più alti, pesiamo di più, abbiamo acquisito un
aspetto esteticamente più proporzionato e migliorato alcune capacità che caratterizzano l’intelligenza?
Si possono formulare diverse ipotesi sulle origini di tali miglioramenti, e di certo non
va sottovalutato il processo di “evoluzione tecno-fisiologica” teorizzato nel 1997 dal
Nobel per l’economia Robert W. Fogel e da Dora L. Costa. Secondo Fogel e Costa
è stato soprattutto il miglioramento dello “status nutrizionale”, a partire dagli inizi del
Settecento, a innescare il processo evolutivo in senso migliorativo delle società umane. I progressi tecnologici, che cominciarono a interessare l’agricoltura e il settore
manifatturiero, consentirono l’accesso ad alimenti tali, per quantità e qualità, da cominciare a incrementare la disponibilità di energia metabolica per tutte le fasi della vita
umana. In modo particolare cominciarono a garantire un livello nutrizionale alle madri
gravide adeguato a far nascere feti sempre meno sottopeso, e quindi anche meno
predisposti a danni causati da diversi fattori di malattia. In questo modo, si innescò
un aumento della durata della vita che consentì di lavorare più a lungo e in modo più
efficiente, quindi di far avanzare le conoscenze e le tecnologie utili a ridurre ulteriormente l’impatto delle malattie e a migliorare gli standard di vita, nonché a determinare, grazie alla logica del libero scambio, una più equa distribuzione del reddito. Col
passare delle generazioni, aumentando la ricchezza, insieme alla durata della vita, si
cominciavano a pianificare le scelte riproduttive e così gli standard di vita incrementavano ulteriormente, insieme a quei tratti somatici, prima ricordati, che sono indicativi
di un aumentato benessere.
I cambiamenti introdotti dalla modernità hanno consentito di recuperare e contrastare gli effetti del mismatch, sviluppando una serie di tecniche (produttive, di cura
e prevenzioni, istituzionali, etc.) che hanno sia risolti i problemi creati dall’allontanamento dallo “stato di natura”, sia potenziate predisposizioni umane, soprattutto sul
piano cognitivo e morale, già presenti nei nostri antenati del Paleolitico. In questo
modo si è arrivati ad avere il meglio, sia rispetto alla vita paleolitica sia rispetto al
mondo premoderno. Un meglio che non è di certo assoluto, ma ancora perfezionabile e da perfezionare. In particolare il mismatch continua a causare problemi perché
persistono dissonanze tra alcuni aspetti dell’ambiente o gli stili di vita moderni, e le
predisposizioni o i vincoli fisiologici imposti dalla nostra genetica pleistocenica. In
ogni caso, la modernità, tanto vituperata dai filosofi nichilisti e da certi integralismi
ideologici, ci ha fatto guadagnare un benessere che non ha confronti nel passato.
Sotto qualunque punto di vista.
Il concetto di “evoluzione tecno-fisiologica” sottovaluta forse il fatto che senza l’invenzione della scienza moderna, nei due secoli che precedettero l’inizio dei cambiamenti fisiologici e sociali appena descritti, non sarebbe stato possibile disporre
delle conoscenze e degli strumenti cognitivi per innovare le tecnologie e creare
opportunità di scelta che ci hanno resi anche più liberi. La scienza ha messo a
disposizione dell’uomo un metodo, finalmente non ideologico, in grado di spiegare
e valutare empiricamente e in modo trasparente le conseguenze delle scelte e dei
processi economici, sociali e culturali in corso, e in questo modo ci ha anche migliorati sul piano morale.
Grazie a questo metodo e al senso di responsabilità personale e civile che esso
genera si possono continuare a studiare i problemi ancora irrisolti e quelli imprevisti, e cercare pacificamente soluzioni efficaci che non mettano a rischio le conquiste fatte e che, magari, apportino ulteriori avanzamenti alla qualità della vita e
dell’ambiente. Ci sono quindi molte ragioni per preferire l’ottimismo razionale al
pessimismo nostalgico.
La mostra pensata da Giovanni Carrada e prodotta dalla Fondazione Marino Golinelli illustra i cambiamenti che sono intervenuti nella fisiologia umana, lavorando sulle
predisposizioni e la flessibilità permessa dalla selezione naturale al nostro corpo e
al nostro comportamento. E dimostra anche il ruolo che la scienza ha svolto nella
vicenda. Di fatto, propone una rilettura artistica delle età dell’uomo, che ai tempi di
Hans Baldung Grien, di Giorgione e di Tiziano (inizi del Cinquecento), ma ancora in
pieno Seicento quando le rappresentava Anton van Dick, erano ferme a “tre”. Mentre
oggi sono fisiologicamente distinguibili in un numero maggiore, e la qualità di ognuna
di queste età può essere collegata funzionalmente alla qualità di quella precedente. Si tratta di una mostra originale e intellettualmente stimolante, perché in tempi di
pessimismo nostalgico invita a riflettere sulle potenzialità umane, cioè sulle nostre
formidabili capacità adattative. L’ottimismo razionale può trovare efficaci argomenti
e stimoli proprio in un dialogo creativo tra scienza e arte, su un tema dove l’intuizione
e il sentimento comunicati attraverso le opere d’arte possono aiutare a superare e
abbandonare quelle zavorre cognitive ed emotive che dobbiamo alla nostra storia
evolutiva, ma che in questa fase rischiano di tarparci le ali.
Non abbiamo
ancora scoperto tutto
il nostro potenziale
Giovanni Carrada
C’è una grande distorsione di prospettiva, tanto profonda quanto difficile da percepire, quando prendiamo in considerazione l’impatto che la tecnologia basata sulla
scienza ha avuto e avrà sulla nostra vita. Siamo infatti abituati a pensare che abbia
cambiato il mondo, il che naturalmente è vero: basta guardarsi intorno. Non ci siamo
invece resi conto di come abbia cambiato anche noi stessi, cioè il nostro corpo e la
nostra mente. In altre parole, la condizione umana nel senso più personale e profondo. Né ci rendiamo conto di come abbia cambiato aspetti della nostra vita come ad
esempio l’eguaglianza delle opportunità. E fatichiamo a renderci conto che molte
delle conoscenze su noi stessi che la scienza continua a produrre possano aiutarci a
scegliere di migliorare la nostra vita. In ogni sua fase.
Quando pensiamo al passato, diamo per scontato che uomini e donne ci assomigliassero. Le testimonianze dell’arte, d’altra parte, sembrano confermarlo. Ma quei
quadri e quelle statue rappresentano in realtà i ritratti – spesso peraltro idealizzati
– di pochi privilegiati. Se non vogliamo addentrarci nei racconti degli storici o nelle
statistiche che dalla metà del secolo hanno cominciato a essere raccolte, basta infatti guardare le testimonianze fotografiche delle classi popolari dell’Ottocento, che
rappresentavano allora la stragrande maggioranza della popolazione, per rendersi
conto che la realtà era molto diversa. In passato, chi era abbastanza fortunato da
sopravvivere ai primi anni di vita (quando l’Italia fu unificata, un bambino su quattro
moriva ancora prima del suo quinto compleanno) aveva in genere il fisico minato dalle
malattie e dalla cattiva nutrizione cronica, era più basso, si poteva aspettare una vita
più breve ed era – diciamolo – anche più brutto.
Quello che è avvenuto nel corso delle ultime generazioni è che le condizioni medie
della popolazione sono enormemente migliorate. In altre parole, oggi quasi tutti pos-
sono godere di una salute, una statura, un aspetto fisico e un’aspettativa di vita riservati una volta a pochissimi. In genere ricchi, qualche volta semplicemente fortunati.
Che cos’è accaduto?
La nostra eredità genetica, codificata nelle molecole di DNA conservate all’interno
delle nostre cellule, è rimasta naturalmente la stessa, ma l’ambiente in cui questa si
esprime è radicalmente cambiato e ne ha “tirato fuori” uomini e donne diversi. Un’alimentazione migliore, la protezione da molte malattie, case più pulite e riscaldate,
lavori molto meno gravosi hanno indirizzato il nostro sviluppo in una direzione nuova.
C’è dell’ironia nel fatto che da tanto tempo sogniamo (o temiamo) che scienza e tecnologia possano migliorare le prestazioni del nostro corpo o del nostro cervello, e di
volta in volta affidiamo speranze e paure alla genetica, alla farmacologia o alla bionica. In realtà, miglioramenti straordinari sono già avvenuti e continuano ad avvenire,
ma gradualmente, dentro e intorno a noi, e quasi non ce ne siamo accorti.
Uno dei sogni dell’umanità è sempre stato un elisir di lunga vita. Bene, l’abbiamo
trovato: da un secolo a questa parte la durata media della nostra vita è raddoppiata.
E la ricetta si è rivelata straordinariamente semplice: una vita migliore.
Anche se a volte ci sembra che abbia qualcosa di speciale rispetto al resto del nostro organismo, in realtà il cervello è un organo come tutti gli altri, e ha beneficiato
anch’esso del fatto di potersi sviluppare in un ambiente diverso rispetto al passato.
Una delle scoperte più singolari è infatti stata quella del cosiddetto “effetto Flynn”, dal
nome dello studioso neozelandese che per primo se ne è reso conto: nel corso del
Novecento, nei paesi sviluppati, l’intelligenza media misurata con diversi tipi di test
è aumentata di circa il 3% ogni dieci anni.
Questo significa che generazione dopo generazione i figli sono stati in media più
intelligenti dei loro genitori. In parte, questo può dipendere dall’alimentazione migliore: il cervello rappresenta il 5% del nostro peso, ma consuma il 20% dell’energia
disponibile. Il vero merito però è probabilmente del fatto che il cervello si può sviluppare in un ambiente molto più ricco di stimoli (che sono un vero e proprio “cibo”
per la mente) grazie al numero crescente di anni passati a scuola, alla diffusione
dei media e alla possibilità di muoversi e conoscere nuovi luoghi e nuove persone.
Una vita più lunga vuol dire inoltre che una persona riesce ad accumulare molte più
conoscenze e abilità, con le quali a sua volta può produrne di nuove, contribuendo
così all’ulteriore miglioramento delle condizioni di vita per tutti.
Altri effetti di un ambiente diverso sono stati più indiretti.
La fine della scarsità del cibo e dell’energia ha reso più semplice la possibilità che
ciascuno possa avere ciò di cui ha bisogno, accelerando l’affermazione concreta
dei principi di eguaglianza sociale. Basti pensare ad esempio all’effetto sulla condizione femminile della diminuzione del numero dei figli (grazie al crollo della mortalità
infantile), della riduzione del carico di lavoro domestico (grazie agli elettrodomestici
e alla disponibilità di energia per farli funzionare) e del cambiamento delle condizioni di lavoro (se il cervello sostituisce i muscoli, uomini e donne hanno la stessa
produttività). Sempre più persone hanno quindi potuto scegliere quale vita fare –
un altro privilegio un tempo riservato a pochissimi – contribuendo anche all’espansione delle opportunità per tutti, ad esempio partecipando alla produzione di nuove
conoscenze. Tutti questi miglioramenti sono stati delle conseguenze inaspettate e
quindi non scelte. Altri miglioramenti possono dipendere invece dalle nuove conoscenze su noi stessi che oggi abbiamo.
Soprattutto nel corso degli ultimi anni, infatti, la scienza ha rivoluzionato quello che
pensavamo di sapere sulle età della vita, sconfessando vecchi cliché o al contrario
dando nuova sostanza a intuizioni della migliore saggezza della storia.
Abbiamo scoperto quali ipoteche alcune condizioni di una donna incinta possono
mettere sulla salute del nascituro quando sarà grande. Cominciamo a conoscere
meglio gli effetti dell’ambiente e dell’educazione sullo sviluppo della mente durante
l’infanzia e – sviluppo ancora più recente – durante i cruciali anni dell’adolescenza. Sappiamo abbastanza bene, ormai anche in notevole dettaglio, quale influenza
hanno gli stili di vita (alimentazione, attività fisica, relazioni sociali e affettive) e le
condizioni della vita sociale sulla possibilità di mantenere una vitalità e una salute
quasi giovanili negli anni della maturità e anche oltre.
Sta quindi a noi scegliere. Il risultato di tutto questo è una nuova consapevolezza
delle potenzialità che ogni età della vita può, e quindi dovrebbe esprimere in ciascuno di noi. Ma anche una nuova comprensione delle minacce, nuove o prima
nascoste, che ne possono compromettere l’espressione. A livello individuale come
a livello familiare o sociale. La lezione della storia degli ultimi due secoli, e soprattutto degli ultimi decenni, è che molto del potenziale che nelle generazioni precedenti
non aveva potuto esprimersi è stato tirato fuori, e che probabilmente altro potenziale resta ancora da esprimere.
Grazie al nuovo ambiente che ci siamo costruiti, siamo diventati diversi non diventando qualcun altro, ma al contrario diventando finalmente davvero noi stessi.
Questo nuovo ritratto dell’esistenza umana e delle sue potenzialità è il risultato di
conoscenze provenienti dalle discipline più disparate – neuroscienze, medicina,
biologia evoluzionistica, genetica, fisiologia, epidemiologia, antropologia, ma anche economia, demografia, storia sociale – che raramente arrivano al grande pubblico, e che ancor più raramente vengono presentate in forma semplice e soprattutto in modo tale da formare un quadro organico e coerente.
Da Zero a Cento, le nuove età della vita è una mostra che cerca di far “cristallizzare”
questo nuovo ritratto dell’esistenza umana, grazie alle scoperte della scienza ma
anche alle intuizioni degli artisti che per una strada diversa, quella della loro sensibilità, hanno saputo cogliere le stesse trasformazioni.
Il visitatore potrà così riconoscere queste trasformazioni e queste scoperte nella
sua vita e in quella delle persone che gli vivono accanto, riportando a casa una
nuova consapevolezza del potenziale di ogni età e una nuova conoscenza su come
svilupparlo. E riconoscerà anche nella scienza e nella tecnologia dei fattori di emancipazione ben più profondi di quanto finora sospettato, ricordando tutto questo
grazie al forte impatto emotivo delle opere d’arte associate.
Muovendosi nelle sale della mostra, il visitatore potrà insomma vivere una straordinaria esperienza di “corto circuito” fra gli stimoli emotivi suscitati dai lavori degli
artisti, gli stimoli intellettuali forniti dagli exhibit che raccontano cambiamenti e scoperte scientifiche sull’età, e naturalmente le proprie esperienze autobiografiche.
In questo modo arte e scienza, due modi diversi e complementari di conoscere,
tornano a fondersi nel luogo che è loro più proprio: la nostra mente.
Le sei età della vita
Cristiana Perrella
La raffigurazione dell’essere umano è da sempre uno dei campi d’indagine privilegiati dell’arte, che quindi, attraverso la sua storia, ci permette facilmente di osservare
come siamo cambiati nel corso dei secoli, con il mutare delle condizioni economiche,
sociali e culturali. Specchio in cui si sono riflesse le nostre trasformazioni, la storia
dell’arte nel suo procedere ci mostra anche però come la parabola esistenziale di
uomini e donne, nonostante l’innegabile evoluzione, sia rimasta sostanzialmente immutata nel tempo - scandita nei canonici tre momenti, infanzia, maturità, vecchiaia
- fino ad anni relativamente recenti.
Le rappresentazioni allegoriche della vita, da Le tre età dell’uomo di Giorgione del
1500-1501, a Nus Masculins di Picasso, dipinto nel 1942, sono in questo senso molto
eloquenti, risultando tutte sostanzialmente simili. Dobbiamo arrivare agli anni Sessanta perché nell’arte (e nella vita delle persone) si affermi una concezione più articolata del tempo dell’esistenza umana, con la fase adulta che si sdoppia in gioventù e
maturità, e la prima di queste che prende uno spazio inedito nell’immaginario, imponendo il suo stile di vita, i suoi consumi, la sua spinta verso il cambiamento.
Oggi, complice l’allungamento della vita stessa, le fasi che possiamo riconoscere
all’interno di un’esistenza sono almeno sei. La scoperta dell’importanza degli scambi
tra il feto e l’ambiente esterno ha messo l’accento sulla fase prenatale; l’adolescenza,
momento di transizione fondamentale, segue l’infanzia. Di gioventù e maturità si è
già detto, mentre la terza età non è più la vecchiaia di una volta, simbolo della decadenza fisica, ma occasione per godere dei risultati raggiunti, forti dell’esperienza e
saggezza acquisite.
L’arte ha reagito ai cambiamenti della condizione umana, scoprendo le molteplici
sfaccettature di ogni singola età; proprio l’adolescenza, prima non rappresentata,
è diventata un campo di ricerca ricco di possibilità per raccontare le trasformazioni
della società attuale, prestandosi a fare da tema per mostre specifiche (vedi Il quarto
sesso. Il territorio estremo dell’adolescenza, a cura di Francesco Bonami, Firenze
2003). Ecco quindi che la mostra Da zero a cento. Le nuove età della vita, formulata
sul dialogo tra arte e scienza, si propone di ampliare lo sguardo sulle tappe della vita
dell’uomo, includendo le “nuove età” prima non considerate. La scelta delle opere,
almeno due per ogni sezione, è caduta su lavori dalla grande capacità comunicativa
che però, nonostante l’immediatezza, non mancano di sottolineare la complessità
degli argomenti trattati, rivelando una potenza metaforica e una stratificazione di significati.
La mostra si apre all’insegna di 100 years di Hans-Peter Feldmann, un monumentale
ritratto delle età della vita umana che si fa introduzione ideale e chiave di accesso ai
contenuti affrontati lungo tutto il percorso espositivo. Cento e uno scatti fotografici
mostrano lo svolgersi della vita ritraendo persone che si trovano in un particolare momento della propria, mettendo in scena così un dialogo tra condizione universale e
storie individuali. La vita comincia ancor prima di venire al mondo, come raccontano
le opere, fortemente evocative, di Gabriel Orozco e Anish Kapoor: la forma sferica
di una pancia in dolce attesa suggerisce un luogo di passaggio, dove avvengono
trasformazioni fondamentali per la vita che sarà.
Il gioco e l’educazione sono i due elementi che caratterizzano l’infanzia, raccontati
rispettivamente da Martin Creed e Guy Ben-Ner. Il primo con le sue Balls di ogni taglia
e colore ci invita a tornare bambini, a fruire dell’opera in modo ludico esplorando le diverse relazioni spaziali che vengono a crearsi, di volta in volta, ad ogni nuovo assetto.
L’israeliano Ben-Ner riadatta invece nel suo video Wild Boy il film di Truffaut L’enfant
sauvage, mettendosi nei panni di un padre che educa il proprio figlio e lo accompagna nella scoperta del mondo. Un video che si presenta particolarmente significativo
nel raccontarci anche il nascere di nuove dinamiche familiari, dove il padre, prima
assente, è coinvolto e partecipe della formazione del figlio così come la madre.
L’adolescenza, fase turbolenta e di scoperta di se stessi, emerge nelle sue diverse
sfaccettature nelle opere di Marcello Maloberti, Ryan Mc Ginley e Evan Baden.
La performance di Maloberti e gli scatti di Mc Ginley insistono entrambi sul suo essere uno stadio di transizione, tra ribellione, spaesamento e il crescere di una consapevolezza che presto sfocerà nell’età adulta.
Evan Baden racconta invece un aspetto ancor più attuale, ovvero il rapporto dei giovanissimi con le nuove tecnologie; se, da una parte, gli apparecchi digitali accelerano
il processo di crescita, costituendo una fonte inesauribile di informazioni, dall’altra
possono portare alla creazione di rapporti interpersonali che nascono e si esauriscono sul piano esclusivamente virtuale, come sembra succedere ai ragazzi ritratti nella
serie The Illuminati.
Il delinearsi di nuovi tipi di approccio relazionale si ripresenta in fase più adulta, momento che segna la scelta del partner e l’avvio alla costituzione di una propria famiglia. Mentre infatti Ottonella Mocellin e Nicola Pellegrini, confrontandosi con episodi
della propria vita privata, raccontano lo sviluppo di una storia d’amore che matura
fino all’arrivo del primo figlio, Frances Stark riporta l’attenzione sulla natura dei rapporti sentimentali e sessuali nell’era della tecnologia e della comunicazione virtuale,
dove il partner può essere scelto in una video chat room.
La maturità, rappresentata in mostra dalle opere di Adrian Paci e Cindy Sherman,
si presenta anch’essa una fase complessa che vede il concretizzarsi delle proprie
aspettative lavorative e sociali ma, allo stesso tempo, l’avvicinarsi della vecchiaia. Nel
video Turn on, Paci sembra alludere al potenziale inespresso che è l’energia umana,
di cui una delle attuazioni possibili è proprio l’impegno lavorativo. Ritraendo donne
agiate di mezza età, la Sherman rivela invece come la celebrazione del proprio status
sociale non impedisca il declino fisico ormai iniziato, messo a nudo dallo sguardo
impietoso della macchina fotografica. Infine, la vecchiaia; terza età secondo la tripartizione classica, oggi sesta, o forse addirittura settima, tappa della vita. Le opere
presenti in questa sezione mettono ben in luce un aspetto fondamentale di questo
momento, prima considerato inevitabilmente apice di un percorso, oggi possibile occasione per ridisegnare la propria vita e per viverla ancora intensamente. Il protagonista del video Frolic and Detour di John Pilson, preso dai suoi ritmi lavorativi quotidiani,
ignora la morte che batte la mano sulla sua spalla; le giovani donne scelte da Miwa
Yanagi, poi trasformate e ritratte come donne anziane, immaginano una vecchiaia
in piena attività; i personaggi del film di Stefania Galegati Shines riscoprono l’amore
(anche quello fisico), a distanza di quasi cinquant’anni.
Questi esempi sembrano dire che un’aspettativa di vita più lunga è sicuramente presa
di coscienza dei propri limiti ma anche delle proprie potenzialità ancora inespresse.
Le opere presenti in mostra divengono in questo modo prova di una concezione della
vita umana che è cambiata e va cambiando ancora, in relazione agli stimoli esterni
ma anche alla capacità di immaginare e realizzare se stessi che sempre si rinnova.
Nel ritrarre e raccontare gli infiniti aspetti della vita umana l’arte guarda alle tappe
attraverso le quali essa si sviluppa e fa da sismografo, registrandone i movimenti e le
implicazioni sociali con sguardo talvolta ironico, talvolta critico, ma sempre pronto a
coglierne gli aspetti più indicativi e a trasformarli in immagini dense di significati.
scienza
Prima di nascere
Perché la salute di tutta la vita si può decidere
già nella pancia della mamma?
Infanzia
Perché coltivare il cervello dei bambini è il migliore
investimento che possiamo fare?
Adolescenza
A che cosa serve in realtà l’adolescenza, e perché sta
diventando sempre più lunga?
Gioventù
Perché nella coppia è cambiato tutto, tranne i
comportamenti legati alla sessualità?
Maturità
Perché possiamo scegliere se la nostra maturità può
assomigliare alla gioventù?
Vecchiaia
Perché neanche la terza età è più quella di una volta?
Prima di nascere
Molti studi stanno mostrando che quello che accade durante i nove mesi della
gravidanza può influenzare il nascituro per tutta la vita. Alcuni caratteri che prima
venivano attribuiti all’eredità genetica si sono rivelati in realtà dovuti all’influenza
del primo ambiente nel quale ci siamo sviluppati, e dunque modificabili.
Durante la vita prenatale infatti, nel tentativo di prepararsi a ciò che potrebbe
trovare una volta fuori della pancia della madre, l’organismo regola alcuni “settaggi”
fondamentali che condizioneranno la sua fisiologia per i decenni a venire.
La disponibilità di cibo percepita attraverso la quantità e la qualità dei nutrienti
ricevuti attraverso la placenta influenza ad esempio la richiesta energetica
dell’organismo e l’appetito per i cibi più ricchi di energia.
Se quindi la madre non si nutre bene, una volta adulto il figlio rischia di essere più
vulnerabile a obesità, diabete e malattie cardiovascolari.
Se invece la madre vive in condizioni di stress, a causa ad esempio del lavoro
o di altri motivi di insicurezza, il figlio sarà più vulnerabile agli stimoli stressanti e
quindi, a causa di precisi meccanismi fisiologici, anche al rischio di ammalarsi di
più e invecchiare più in fretta.
Sta quindi diventando sempre più chiaro che la tutela della salute e la promozione
delle opportunità che si avranno nella vita cominciano già al momento del
concepimento. E che è anche a causa delle migliori condizioni delle madri in
gravidanza, grazie ad esempio ai congedi per maternità e a una maggior attenzione
anche in famiglia, che si deve un migliore avvio nella vita per le ultime generazioni.
Infanzia
La nostra idea dell’infanzia come di un’età in cui si è già persone, che meritano
anzi un’attenzione e una protezione speciali e ai quali è concessa una maggiore
possibilità di esprimersi, è in larga misura una novità degli ultimi decenni. Prima,
i bambini erano spesso considerati poco più che braccia da mettere al lavoro il
più presto possibile.
Il merito è innanzitutto del crollo della mortalità infantile dovuto al miglioramento
delle condizioni di vita e alla sconfitta delle principali malattie infettive. In passato,
infatti, la maggior parte dei figli moriva già nei primi anni di vita.
Si tendeva quindi a metterne al mondo molti, spesso senza affezionarcisi troppo,
nella speranza che almeno qualcuno potesse sopravvivere.
Nelle ultime generazioni invece il numero dei figli per coppia è crollato, e questo
ha reso possibile dedicare a ciascuno maggiore attenzione e maggiori risorse.
La seconda grande fortuna di chi è nato negli ultimi decenni è stata la possibilità
di andare a scuola per molti anni e di vivere in una società molto più ricca di stimoli dovuti alla possibilità di viaggiare, ma soprattutto alla presenza dei media.
Oggi sappiamo infatti quanto sono preziosi gli anni dell’infanzia per lo sviluppo
del cervello, il più plastico dei nostri organi.
Più esperienze si fanno da bambini, più abilità riescono a svilupparsi e più ricca
sarà la mente per tutto il resto della vita.
Per questo, per la famiglia come per la società, “coltivare” i bambini è davvero
l’investimento migliore che possiamo fare per garantirci un futuro migliore.
Adolescenza
Per quasi tutta la nostra storia, gli anni dopo la pubertà sono stati considerati solo una
breve parentesi per consentire a un bambino o una bambina di maturare sessualmente e crescere fino alle dimensioni di un adulto.
Oggi sappiamo invece che l’adolescenza è una fase fondamentale della vita nel corso
della quale le cose più interessanti avvengono nel cervello. Trasformare una mente
bambina in una adulta richiede infatti un complesso e lungo rimaneggiamento delle
connessioni fra le cellule nervose che culmina con la maturazione dei lobi prefrontali,
la sede di tutte quelle abilità che possiamo riassumere con la parola “maturità”.
L’adolescenza è insomma una seconda opportunità, dopo l’infanzia, per permettere
alla mente di imparare tutto quello che c’è da sapere per vivere in società complesse
come quelle umane, nelle quali occorre saper gestire moltissimi rapporti sociali e acquisire competenze specializzate.
Nel corso degli ultimi decenni, questa fase della vita si è trasformata profondamente
perché non si lavora ma si studia, continuando a dipendere dalla famiglia. E soprattutto si è allungata. Da una parte, le migliori condizioni di vita hanno anticipato la
maturazione sessuale, soprattutto nelle bambine. Dall’altra, l’aumento degli anni di
studio e il posticipo del momento in cui si assumono responsabilità adulte hanno
spostato in avanti la maturazione psicosociale. Questo allungamento si porta spesso
dietro dei problemi, ma offre anche ai giovani la straordinaria opportunità di sperimentare e di crescere di più, quindi di affrontare poi la vita adulta con una mente
molto meglio attrezzata.
Gioventù
L’inizio dell’età adulta non è solo il momento della maggiore forma fisica e, per
molti aspetti, della maggiore acutezza mentale, ma svolge anche un ruolo biologico fondamentale perché è il momento in cui si sceglie un partner e si mettono
al mondo dei figli.
L’impronta della nostra eredità genetica sui comportamenti legati alla scelta di
un partner sessuale, plasmata per innumerevoli generazioni dalla selezione naturale allo scopo di assicurarci a tutti i costi la discendenza più numerosa, è molto
forte. Per questo motivo, tuttavia, la gioventù è anche l’età della vita che con la
modernità è cambiata di meno.
Negli ultimi anni, studi effettuati in società molto diverse di ogni parte del mondo
hanno infatti rivelato che tutti gli uomini, come tutte le donne, condividono molte
delle stesse preferenze: quelle che, almeno nel corso della nostra storia evolutiva, ci hanno consentito di trovare partner fertili, dotati di buoni geni e disposti a
prendersi cura dei piccoli. Nessuno di noi naturalmente se ne rende conto, ma
nei rapporti con l’altro sesso il primo istinto è in genere quello di seguirle.
Gli uomini, ad esempio, tendono a preferire le donne più giovani perché più fertili.
E le donne, gli uomini disposti a dedicare le loro risorse ai loro figli.
Nonostante siano già piuttosto variegate le possibilità offerte dalla nostra eredità
genetica, e infinite le variazioni che la cultura vi ha costruito sopra, possiamo infatti riconoscerci benissimo nei ritratti che dell’amore hanno creato artisti e poeti
di ogni tempo.
Maturità
In passato, l’inizio della quarta decade della vita è sempre stata segnata dall’inizio
del deterioramento fisico per la maggior parte degli uomini e delle donne, tanto che
un secolo fa l’età media non superava i quarant’anni.
Oggi, invece, si arriva all’età in cui i meccanismi naturali di riparazione dell’organismo cominciano a funzionare peggio di prima in condizioni molto migliori, e la
maturità è vissuta da un numero sempre più grande di persone quasi come un prolungamento della gioventù. Un quasi-vecchio di qualche generazione fa, insomma,
può essere oggi un quasi-giovane. Il merito è del miglioramento delle condizioni di
vita: meno malattie, un ambiente più sano, un’alimentazione migliore e lavori molto meno gravosi rispetto al passato. Non tutti, però, ne approfittano nella stessa
misura. Questa è anzi l’età in cui i destini delle persone cominciano a dividersi, per
due motivi. Il primo riguarda le singole persone, e riguarda lo stile di vita. Il fumo,
un’alimentazione sbagliata e una vita troppo sedentaria possono moltiplicare ad
esempio il rischio di malattie cardiovascolari, che nei paesi sviluppati sono diventati
la prima causa di morte. Una causa, quindi, in larga misura evitabile.
Il secondo riguarda invece la società. Le diseguaglianze sociali si sono infatti rivelate un determinante insospettato ma fondamentale della salute, poiché ci possono
rendere più o meno vulnerabili alle cause di malattia.
La possibilità di mettere davvero a frutto l’età in cui l’esperienza si somma all’energia è insomma nelle nostre mani.
Vecchiaia
L’età della vita che più è cambiata nel corso degli ultimi cento anni è forse l’ultima.
La lunghezza media della vita è raddoppiata, regalando a ciascuno di noi una vita in
più, per così dire. Sempre più persone, infatti, raggiungono età alle quali un tempo arrivavano solo pochi fortunati. E ci arrivano in condizioni fisiche nettamente migliori: la
vita attiva di un anziano di oggi sarebbe irriconoscibile per una persona del passato.
Gli studi più recenti sull’invecchiamento ci hanno rivelato che nonostante con il procedere degli anni ogni parte dell’organismo accumuli sempre più danni nelle sue cellule, e quindi tenda a fornire prestazioni via via peggiori, non esiste un programma
biologico per l’invecchiamento, e il nostro organismo conserva sempre delle capacità di recupero. Migliori sono quindi le condizioni nelle quali si arriva alla terza età, e
migliore è lo stile di vita, più in salute verrà vissuta l’ultima parte della vita.
Anche il cervello invecchia, ma non è detto che per questo funzioni peggio di prima.
Una vita ricca di stimoli intellettuali, sociali e affettivi consente infatti alla mente di immagazzinare soluzioni, che lo aiuteranno a risolvere problemi simili più facilmente che
in passato. Ogni tipo di problema: nell’arte, nella scienza, nella politica, nella gestione
aziendale, nei rapporti fra le persone. Non a caso si dice che la cultura è ciò che rimane dopo aver dimenticato quello che abbiamo imparato. E che vecchiaia è sinonimo
di saggezza.
Anche per questo si vive in età avanzata di ciò che è stato accumulato nella prima
parte della vita.
ARTE
EVAN BADEN
GUY BEN-NER
MARTIN CREED
HANS-PETER FELDMANN
STEFANIA GALEGATI SHINES
ANISH KAPOOR
MARCELLO MALOBERTI
RYAN McGINLEY
OTTONELLA MOCELLIN e NICOLA PELLEGRINI
GABRIEL OROZCO
ADRIAN PACI
JOHN PILSON
CINDY SHERMAN
FRANCES STARK
MIWA YANAGI
Hans-Peter Feldmann 100 Years, 2001
veduta dell’installazione
Detail: Werner, 57 years
Silver print, cm 40 x 30 (senza cornice)
Collezione Declerck, Belgio
Courtesy galleria Massimo Minini, Brescia
Hans-Peter Feldmann
Dalla fine degli anni Sessanta, Hans-Peter Feldmann (Hilden, Germania, 1941;
vive a Düsseldorf) colleziona immagini di ogni genere, realizzando collages e raccogliendo fotografie, ritagli di giornale, cartoline – tutte sullo stesso tema – in
piccoli libri o opuscoli con copertine di cartone e compensato.
Tutta l’opera dell’artista è caratterizzata da un lavoro di archiviazione e catalogazione, grazie al quale Feldmann documenta tutti gli aspetti della vita quotidiana,
con un’attenzione a ciò che differenzia i singoli elementi all’interno di una stessa
categoria. 100 Years, esposto per la prima volta al PS1 di New York nel 2004, è
un monumentale ritratto delle età della vita umana.
Ognuno dei 101 scatti fotografici che compongono la serie ritrae una persona
(un amico, un conoscente o un membro della famiglia dell’artista), di età com-
presa tra gli 8 mesi e i 100 anni. Ogni foto si fa racconto in diretta di una tappa
della vita, frammento di una storia individuale ma, al tempo stesso, parte di un’esperienza collettiva.
Feldmann si confronta e costringe a confrontarsi con il passare del tempo, mostrandoci come siamo stati, come siamo e come potremmo essere.
Ispirandosi alle istantanee di tipo amatoriale, l’artista ritrae i suoi soggetti nella
loro quotidianità, raccontando lo svolgersi della vita in tutte le sue forme e i suoi
luoghi. La semplicità delle singole immagini riporta l’attenzione sul concetto della serie, attraverso cui l’artista ci mette davanti al percorso della vita.
Nel suo proporci una panoramica delle diverse età dell’uomo, l’opera di Feldmann si fa così ideale introduzione al percorso suggerito in questa mostra.
GABRIEL OROZCO
Poliedrico, giocoso, ironico, il lavoro di Gabriel Orozco (Jalapa, Veracruz, Messico,
1962; vive a New York, Parigi e Città del Messico) si caratterizza per la rielaborazione
di oggetti trovati, reinterpretati dall’artista in forme sempre diverse. Costante della
sua ricerca è la presentazione di oggetti tratti dalla vita quotidiana e ben riconoscibili,
che hanno subìto però un processo di alterazione; attraverso questi, l’artista invita a
guardare con altri occhi e secondo altre prospettive ciò che più ci è familiare.
Tra le sue opere più celebri vi sono la DS (1993), una Citröen di colore argento che
l’artista ha diviso in tre parti e poi ricomposto senza quella centrale, e Carambole with
Pendulum (1996), tavolo da biliardo ovale e senza buche con la palla da colpire che
ondeggia sospesa ad un filo invisibile. Orozco lavora molto anche con la fotografia,
cogliendo situazioni insolite o presentando oggetti secondo inediti punti di vista; immagini che, nella loro semplicità, si rivelano sorprendenti e suggestive.
La isla de Simon del 2005 fa parte di questa serie di lavori; ciò che a primo impatto
può sembrare un uovo immerso nell’acqua è in realtà il ventre gravido della moglie
dell’artista, in attesa del figlio Simon. Il senso di sospensione suggerito dal galleggiamento si fa metafora della transizione dalla protezione del corpo materno all’imminente venuta al mondo, passaggio che l’artista racconta in un’immagine ambigua,
poetica e fortemente evocativa.
Gabriel Orozco La isla de Simon, 2005
C-print a colori, cm 40.6 x 50.8. Edizione di 6. Courtesy Marian Goodman Gallery, New York
Anish Kapoor
Esponente di spicco della New British Sculpture e protagonista indiscusso della
scena artistica contemporanea, Anish Kapoor (Bombay, 1954; vive a Londra) crea,
attraverso i suoi lavori, intensi dialoghi tra forma e spazio, sperimentando materiali
sempre diversi: pigmenti, arenaria, marmo di Carrara, gomma, cera, con una fascinazione particolare per le superfici riflettenti, come l’acciaio, le resine, gli specchi. Sin
dalle prime opere l’artista rivolge la sua ricerca alla visualizzazione di polarità fisiche:
pieno e vuoto, interno ed esterno, tangibile e immateriale attraverso l’elaborazione
di forme che sono insieme astratte e organiche. Temi come la sessualità, la dicotomia maschile-femminile, la spiritualità, il rapporto tra la cultura orientale e quella
occidentale, sono alla base di tutta la sua produzione, che comprende opere monumentali - così imponenti da risucchiare quasi lo spettatore al loro interno - ed altre
dalle dimensioni contenute dove la vertigine provata da chi le osserva è più mentale
che fisica. Sculture che spesso presentano un’apertura, una fenditura, una cavità:
Kapoor, attraverso la materia, esalta il valore del vuoto, dell’infinito, del mistero e della
trascendenza.
Untitled del 2001 consiste in un cubo massiccio di materiale plastico trasparente
con al suo interno una bolla d’aria, massa informe che allude ad uno stato embrionale, a una possibilità di vita che modifica, nel suo farsi forma, l’inerzia del materiale.
Come per altri lavori, Kapoor insiste qui sulla potenzialità degli oggetti di diventare
qualcos’altro, mettendo in atto ancora una volta il dialogo tra pieno e vuoto.
Anish Kapoor Untitled, 2001
Perspex, cm 46x46x46. Collezione privata
MARTIN CREED
Vincitore del prestigioso Turner Prize nel 2001, Martin
Creed (Wakefield, 1968; vive a Londra) è tra gli artisti più
noti della scena britannica e internazionale. Il suo lavoro
si caratterizza per una forte ascendenza concettuale, declinata però con un’attenzione alla forma e attraversata
da una sottile vena ironica. Altra costante della ricerca di
Creed è il processo di riduzione ad elementi primari, che si
riscontra sia nelle tele e nei wall-drawings, sia nelle installazioni, sia nelle scritte al neon, parole e frasi che, nella loro
immediatezza, suggeriscono molteplici rimandi.
Leggerezza, attenzione alle forme e ai colori, studio delle
proporzioni e delle interazioni spaziali sono tutti elementi
che si ritrovano anche nel lavoro Balls, presentato per la
prima volta nel 2004 e poi riproposto in varie combinazioni
sempre in rapporto al luogo espositivo.
Ogni palla che compone l’installazione è diversa dalle
altre, per dimensioni, peso o colore, e rimanda ad una
diversa funzione. L’aspetto ludico dell’opera è rinsaldato
dalla possibilità, per lo spettatore, di interagire fisicamente
con le palle, cambiando in continuazione il loro assetto ed
esplorando così le differenti relazioni che vengono a crearsi tra queste e lo spazio circostante.
La leggerezza con la quale Creed invita ad esperire l’opera
ci riporta ad una condizione infantile, dove il gioco diventa lo strumento attraverso il quale scoprire i rapporti tra le
cose e il loro nesso con la realtà che viviamo.
Martin Creed Work No. 370. Balls, 2004
Palle di diverse tipologie,
dimensione complessiva variabile
Courtesy l’artista e Hauser & Wirth, London
Photo: Hugo Glendinning
Guy Ben-Ner
Sin dall’inizio degli anni Novanta Guy Ben-Ner (Ramat Gan, Israele, 1969; vive a Tel
Aviv) sceglie il video come proprio mezzo espressivo, riprendendo se stesso e membri della sua famiglia nell’intimità dell’abitazione domestica.
Il suo percorso artistico lo ha portato nel 2005 a rappresentare Israele alla Biennale
di Venezia. Ad ispirare l’artista è il cinema d’autore, in particolare quello muto, di cui
Ben-Ner rielabora l’impostazione narrativa classica per metterla in rapporto alla propria ricerca sulle relazioni umane e i rapporti familiari.
In Wild Boy (2004) l’artista riadatta il film di François Truffaut L’enfant sauvage
del 1970, a sua volta tratto dalla storia vera di un ragazzo selvaggio, trovato solo
nella campagna francese alla fine del XVIII secolo. Nel film di Truffaut, il regista stesso
interpreta la parte di un giovane medico cui spetta il compito di insegnare al ragazzo
le norme di comportamento civile. Nel video di Ben-Ner, la storia originale è riportata all’interno delle pareti domestiche, dove l’artista interpreta la parte del padre che
educa il figlio alla vita. Tra esperimenti e lezioni, alcune chiaramente ispirate al film di
Truffaut, il rapporto genitore-figlio è raccontato alla luce delle trasformazioni della società attuale; il padre assume infatti un ruolo importante quanto quello materno nelle
fasi di educazione, mostrandosi coinvolto e partecipe ed accompagnando il figlio alla
scoperta delle difficoltà e delle gioie della vita.
Guy Ben-Ner, Wild Boy, 2004
Video monocanale, 17 min. Stills da video
Courtesy pinksummer, Genova; postmasters, New York;
Konrad Fischer, Düsseldorf e l’artista
Marcello Maloberti
Marcello Maloberti (Codogno, Lodi, 1966; vive a Milano) lavora muovendosi tra diversi piani espressivi e utilizzando diversi linguaggi, dalla fotografia al video, dalla
performance agli interventi pubblici. Caratteristica della sua ricerca è l’indagine sugli
aspetti apparentemente più banali della quotidianità che si caricano di significati altri,
in relazione al contesto in cui vengono portati alla luce. Ogni elemento si fa così pretesto per uno sguardo sulla realtà attuale, scandagliata in tutte le sue sfaccettature.
In occasione di questa mostra, e solo nella sede della Triennale di Milano, Maloberti
presenta una performance che riprende quella già realizzata nel 2003 al Museion di
Bolzano dal titolo Un certo presentimento. Un adolescente cinese, seduto a terra,
ritaglia da libri e riviste patinate immagini di montagne, abbandonandole man mano
al suolo. I frammenti invadono lo spazio, il passaggio del pubblico muove in continuazione i ritagli dando vita a configurazioni paesaggistiche sempre diverse.
L’azione pone così l’accento sul contrasto tra il fluire lentissimo dei tempi geologici
e la brevità della vita umana, in particolare in una fase cruciale e densa di trasformazioni come appunto l’adolescenza. Allo stesso tempo, il ritagliare immagini della
realtà porta simbolicamente il ragazzo ad appropriarsene; l’azione ludica diviene il
tramite attraverso cui il giovane disegna il proprio mondo, destinato a trasformarsi
in continuazione al passaggio di nuovi visitatori.
Marcello Maloberti Un certo presentimento, 2005
performance, Collection Lambert, Avignon. Lambda print, cm 100 x 120
Courtesy Collection Lambert, Avignon e Galleria Raffaella Cortese, Milano
Ryan McGinley
Tom (Queen Ann’s Lace), 2011
C-print, cm 182.9 x 121.9 (senza cornice)
cm 186.5 x 125.5 cm (con cornice)
Jessica (TLC), 2011
C-print, cm 72 x 110 (senza cornice)
cm 74 x 114 (con cornice)
Courtesy l’artista e Alison Jacques Gallery, London
Ryan McGinley
Tra i fotografi più noti della scena newyorkese, Ryan McGinley (Ramsey, Stati Uniti,
1977; vive a New York) ha esordito giovanissimo, ottenendo la prima personale al
Whitney Museum all’età di soli 26 anni.
Sin dagli inizi della sua carriera McGinley rivolge l’attenzione al popolo giovanile,
fotografando amici (musicisti, artisti, skateboarders) con la macchina polaroid, e
costellando con queste immagini le pareti del suo appartamento. Se i primi lavori
sono scatti rubati in contesti urbani, che documentano il dinamismo e gli eccessi
della vita metropolitana, nel corso degli anni McGinley costruisce sempre più le sue
immagini, firmando anche prestigiose campagne pubblicitarie (Wrangler, Levi’s e
Puma). Tratto distintivo della sua ricerca è la scelta dei soggetti, ragazzi e ragazze
in età adolescenziale che ostentano con naturalezza la propria nudità davanti all’obiettivo fotografico. Spesso le ambientazioni scelte sono paesaggi incontaminati,
dove i giovani sembrano vivere momenti d’estasi a contatto con l’immensità della
natura. Altri scatti raccontano invece i rituali quotidiani della cultura giovanile contemporanea, dove la voglia di ribellarsi, trasgredire e mettersi alla prova fa da protagonista. Nei ritratti in primo piano, lo sguardo dei soggetti giovanissimi trasmette
il senso di stupore e straniamento profondamente legato ad uno stadio della vita
dove è grande l’incertezza, ma al tempo stesso tutto è da scoprire.
McGinley documenta così, con immagini vitali e affascinanti, l’ottimismo spensierato della giovane età.
Ryan McGinley
Amanda (Hawk), 2011
C-print, cm 182.9 x 121.9 (senza cornice)
cm 186.5 x 125.5 cm (con cornice)
Courtesy l’artista
e Alison Jacques Gallery, London
Evan Baden
Evan Baden The Illuminati:
• Lila with Nintendo DS, 2007
• Neil with PC, 2007
• Katie with LG Chocolate, 2007
• Alicia with IPhone, 2007
(pagina a destra)
C-print su plexiglass, cm 101 x 76 circa
Courtesy l’artista
Giovane talento già insignito di importanti riconoscimenti, Evan Baden (Arabia Saudita, 1985; vive a St. Paul,
MN, USA) ha scelto la fotografia per guardare ai fenomeni della contemporaneità, e in particolare al rapporto
con le tecnologie digitali. Lo stesso artista si definisce
appartenente alla generazione dei cosiddetti “nativi digitali”, bambini e ragazzi cresciuti navigando su internet e
utilizzando i più sofisticati apparecchi elettronici.
Tra le prime serie fotografiche dell’artista vi è Technically intimate, che guarda al fenomeno di esibirsi utilizzando la rete; giovani ragazze si riprendono, nell’intimità della loro stanza, atteggiate in pose sessuali,
ammiccando alla macchina fotografica come fossero
su un set di moda.
La serie The Illuminati insiste invece sul rapporto che gli
adolescenti intrattengono con i dispositivi digitali (computer portatili, telefonini, Ipod, Playstation, Smartphone);
le fotografie di Baden li ritraggono illuminati solo dai display, intenti a giocare, scrivere, comunicare con i loro
amici connessi. Il loro sguardo ci è negato, così come
ciò che accade sugli schermi dei loro apparecchi; le
espressioni non lasciano trapelare emozioni e sentimenti, anestetizzati nel rapporto con l’interfaccia tecnologica. L’artista utilizza inoltre come unica fonte luminosa
proprio quella fredda e cianotica degli schermi, giocando sui contrasti e citando gli effetti chiaroscurali della
grande pittura seicentesca. L’illuminazione così studiata
contribuisce alla sensazione di immergersi in un mondo
digitale, dove le relazioni interpersonali avvengono solo
sul piano virtuale.
Ottonella Mocellin - Nicola Pellegrini
Quella sensazione di eterna felicità che si trova
alla fine delle favole senza fine, 2005
Stampa lambda, cm 100 x 135
Courtesy Galleria Lia Rumma, Napoli/Milano
Something in the way, 2002
2 stampe lambda sotto perspex, cm 98 x 75 ognuna
Courtesy Galleria Lia Rumma, Napoli/Milano
Ottonella Mocellin Nicola Pellegrini
Ottonella Mocellin e Nicola Pellegrini (Milano, 1966 e 1962; vivono a Milano) lavorano
dagli anni Ottanta sia individualmente che a progetti a quattro mani. La loro ricerca si
caratterizza per un’attenzione costante alle dinamiche sociali e relazionali, analizzate
in diversi contesti e attraverso vari mezzi espressivi (fotografia, video, installazione,
performance). Il testo, in versione scritta o parlata, accompagna molti dei loro lavori,
facendosi ulteriore strumento per raccontare storie ed esperienze personali.
Something in the way (2002), Quella sensazione di eterna felicità che si trova
alla fine delle favole senza fine (2005) con E adesso che sei arrivata tu la nostra
prospettiva si è nuovamente capovolta (2010) sono state presentate nel 2010 alla
Fondazione Merz di Torino nell’ambito del progetto Messico famigliare (in un gioco
di parole che richiama il libro di Natalia Ginzburg, Lessico famigliare). Qui i due artisti
si confrontano con un episodio della loro vita privata, l’adozione della piccola Rosa
Dao, che si fa punto di partenza per un’indagine sulla famiglia “mista” e sul concetto
di diversità. Le fotografie raccontano il passaggio ideale dalla vita di coppia (con i due
artisti stesi sul prato a leggere lo stesso libro) alla costituzione del nucleo familiare,
con l’arrivo di una bambina che “capovolge la prospettiva”, rivoluzionando le precedenti abitudini. Il raggiungimento di un equilibrio e l’intensità emotiva del cambiamento rafforzano i legami affettivi, facendosi occasione per una riflessione sulle relazioni
interne al contesto familiare.
Ottonella Mocellin - Nicola Pellegrini
E adesso che sei arrivata tu la nostra prospettiva si è nuovamente capovolta, 2010
Stampa lambda, cm 100 x 70. Courtesy Galleria Lia Rumma, Napoli/Milano
Frances Stark
Frances Stark (Newport Beach, 1967; vive a Los Angeles) ha fatto del rapporto tra
parola e immagine il tema portante della sua ricerca. Le sue opere (disegni, dipinti,
video, sculture, installazioni ambientali), spesso costellate di riferimenti letterari, raccontano la tensione tra l’esperienza emotiva personale e le relazioni con l’esterno,
motivo per cui la stessa pratica artistica sembra farsi strumento per una confessione
a sfondo terapeutico.
My Best Thing, presentato dall’artista in occasione dell’ultima Biennale di Venezia
all’interno della mostra internazionale ILLUMInazioni, diviene esempio emblematico
dell’operare di Stark; il video racconta la relazione tra due avatar, le cui azioni e i cui
dialoghi sono costruiti sulla base della storia d’amore nata, in via esclusivamente virtuale, tra l’artista e un regista italiano, Marcello, conosciuto in una video chat room.
Prende vita così una soap opera erotica, dove le conversazioni tra i due personaggi
sono quasi esclusivamente a sfondo sessuale; le voci originali dell’artista e di Marcello (registrate dalla Stark durante i loro incontri virtuali) sono computerizzate, rendendo il dialogo tra i due pupazzetti ancor più surreale.
L’opera invita così a riflettere sulla scelta del partner e sulla natura dei rapporti sentimentali e sessuali nell’era della tecnologia e della comunicazione virtuale; pur ponendoci di fronte ad una simulazione, My Best Thing si fa specchio delle nuove strade
apertesi nel campo delle relazioni interpersonali e affettive.
Frances Stark My Best Thing, 2011
Video digitale su flash-drive, 1h40 min. circa
Courtesy l’artista, Marc Foxx, Los Angeles,
Gavin Brown’s Enterprise, New York,
Greengrassi, London e Daniel Buchholz, Berlin.
Adrian Paci
Attraverso l’utilizzo di diversi mezzi espressivi (pittura, scultura, fotografia, video e
istallazione), Adrian Paci (Shkoder, Albania, 1969; vive a Milano) lavora sulla memoria
e sullo sradicamento, sull’identità individuale e collettiva. Molte delle sue opere sono
dedicate alla sua terra d’origine, l’Albania; attraverso i propri ricordi personali, l’artista
dà vita a storie che divengono simbolo di una condizione esistenziale generalizzata,
dove non esistono più confini geografici o razziali. Il tema delle radici si ritrova anche
nei lavori ambientati in interni privati, dove il processo di definizione della propria identità passa attraverso l’appartenenza al proprio contesto familiare. Il video Turn on,
girato nella città natale di Paci, racconta il rito giornaliero di una ventina di uomini, tutti
disoccupati, che siedono sui gradini in una piazza della città e offrono silenziosamente la propria forza lavoro a chi vorrà utilizzarla. La telecamera indugia sullo sguardo di
ognuno di loro, con il viso che si fa espressione delle sofferenze subite ma anche di
una energia a lungo custodita e pronta ad uscire allo scoperto. Ognuno degli uomini accende poi un generatore elettrico al quale è collegata una lampadina; la scena
finale, allargata a tutto campo, mostra una costellazione di luci che corrisponde ad
altrettanta energia umana, pronta a concretizzarsi nella vita reale attraverso il lavoro.
Un’immagine poetica che allude al potenziale inespresso e alle infinità possibilità che
esso ha di affermarsi.
Adrian Paci Turn on, 2004
Film su DVD, 3’33’’
Courtesy l’artista e galleria Kaufmann Repetto, Milano
Cindy Sherman
Cindy Sherman (Glen Ridge, USA, 1954; vive a New York) è tra le figure più autorevoli del panorama artistico contemporaneo. Dalla metà degli anni Settanta lavora sul
tema dell’identità, interpretando diversi ruoli e costruendo ambientazioni specifiche.
La serie fotografica che ha sancito il successo della sua carriera è Untitled Film Stills
(1977-1980), 69 fotografie in bianco e nero di piccolo formato che evocano l’atmosfera dei film noir anni Cinquanta con la Sherman a fare da attrice principale, incarnando
lo stereotipo femminile nel contesto cinematografico americano. Oltre ad apparire
come modella, l’artista lavora sui suoi set come regista, scenografa, costumista,
truccatrice, contribuendo in prima persona alle sue trasformazioni e seguendo tutte
le fasi che portano alla realizzazione del lavoro.
In questo ciclo del 2008 la Sherman rappresenta e interpreta donne agiate di mezza
età, all’apice del potere sociale ma già soggette al declino fisico. Lo sguardo impietoso della macchina fotografica ne mette a nudo ogni difetto ma, al tempo stesso, ne
celebra lo status sociale.
Gli abiti eleganti, i gioielli, le acconciature ricercate, nonché le ambientazioni, suggeriscono una posizione di potere, un benessere economico e una condizione privilegiata. Nonostante ciò, l’esasperazione dell’artificialità che sembra regnare in questi
scatti riporta l’attenzione sull’impossibilità di fermare il tempo che passa.
L’indagine sull’identità femminile, in questo caso su una specifica tipologia di donne,
guarda alla doppia valenza insita nell’età matura: da una parte il concretizzarsi delle
proprie aspettative, dall’altra l’avvicinarsi della vecchiaia.
Cindy Sherman Untitled #465, 2008
Fotografia a colori, cm 162 x 145,5
Courtesy Sammlung Goetz, München
Miwa Yanagi My Grandmothers: Mika, 2001
Stampa digitale su dibond, cm 150 x 180. Courtesy FaMa Gallery, Verona
Miwa Yanagi
La contemporaneità giapponese e l’identità femminile sono i temi portanti della ricerca di Miwa Yanagi (Kobe City, 1967; vive a Kyoto), indagati attraverso l’uso del
medium fotografico e video.
La raffigurazione di soggetti femminili, catturati nei contesti più diversi, si fa motivo di
una riflessione sul ruolo della donna nella società moderna in rapporto alle tradizioni
del Giappone ma anche all’influenza dei modelli occidentali.
Lo sguardo è dunque rivolto alla percezione che la società ha della donna e quella
che la donna ha di se stessa in relazione alle trasformazioni culturali e sociali.
Tra le sue serie fotografiche più famose vi sono Elevator Girls e Fairy Tale, dove il
confronto tra giovinezza e vecchiaia diviene occasione per un’indagine sul rapporto
tra generazioni diverse. Lo stesso tema è alla base anche della serie My Grandmo-
Miwa Yanagi My Grandmothers: Ai, 2003
Stampa digitale su dibond, cm 180 x 240. Collezione privata, Verona. Courtesy FaMa Gallery, Verona
thers; qui Yanagi ha chiesto ad alcune modelle giovanissime di immaginarsi a distanza
di cinquant’anni. Sulla base delle loro aspettative, l’artista ha costruito dei set nei quali
le stesse modelle compaiono come donne anziane, invecchiate grazie ad un intenso
lavoro di make-up e di post-produzione.
Ogni foto è accompagnata da un testo ispirato o tratto dalle interviste di partenza, cui
spetta il compito di illustrare la scena.
Dalle suggestioni più ironiche a quelle più fantasiose, l’artista restituisce un quadro
dove le finte vecchiette vivono una seconda giovinezza, in compagnia o in solitudine,
in piena attività o in meditazione. L’utilizzo di una forte luminosità e di accesi contrasti
contribuisce alla sensazione di trovarsi in una dimensione onirica, dove i singoli racconti
appaiono come sogni estemporanei.
Miwa Yanagi
My Grandmothers:
Hiroko, 2001
Stampa cromogenica su
plexiglas, cm 120 x 144
Edizione 6/7
Courtesy FaMa Gallery, Verona
Frolic and Detour, 2010 Frolic and Detour, 2010
John Pilson Frolic and Detour, 2010
Video digitale (a colori, senza sonoro), 13 min. Courtesy Nicole Klagsbrun Gallery, New York
John Pilson
Attraverso i suoi video, John Pilson (New York, 1968; vive a New York) esplora la condizione alienante del lavoro moderno, rivolgendo la sua attenzione in particolar modo
ai grandi uffici americani. Monotonia, ripetizione, ritualità dei gesti caratterizzano i
protagonisti dei suoi lavori, ripresi nell’atto di svolgere le più comuni azioni quotidiane. Lo sguardo alla dimensione lavorativa si fa pretesto per un’indagine sui rapporti
sociali, spesso limitati al minimo in funzione del più alto rendimento lavorativo possibile. Frolic and Detour del 2010 si presenta in linea con altri lavori che condividono
la stessa attenzione al contesto di lavoro, quali Mr Pickup e Sunday Scenario. Ad
alcune immagini che vedono uomini e donne impegnati nel proprio ufficio, si alterna
la storia frammentata di un uomo di età avanzata che svolge il suo rituale quotidiano
(dalla sveglia, alla colazione, all’arrivo in ufficio) accompagnato dalla personificazione
della morte che lo segue nei suoi spostamenti. Nonostante tale presenza inquietante, il protagonista del video si mostra attivo e padrone dei suoi movimenti, incurante
di quello che potrebbe essere un presagio nefasto. L’uomo ostenta così il suo attivismo e la sua sicurezza, rafforzata dall’essere ormai all’apice della carriera e dall’avere
una vita sentimentale soddisfacente. L’avanzare degli anni non sembra scalfirlo, al
punto da ignorare la morte che batte la mano sulla sua spalla.
Stefania Galegati Shines
Pittura, fotografia, video, installazione sono i media che Stefania Galegati Shines (Bagnacavallo, Ravenna, 1973; vive a Palermo) utilizza di volta in volta per la sua ricerca.
Avvalendosi di diverse modalità espressive, l’artista si interroga sul rapporto ambiguo tra la realtà e la sua rappresentazione, rifacendosi tanto a cliché cinematografici
quanto ad episodi reali.
Il tempo diviene elemento centrale, modulato in modo da suggerire diversi ritmi narrativi e, in alcuni casi, parte integrante della stessa opera, come nella storia di Elda e
Garibaldi su cui è costruito il film Passeggiata in paradiso, girato in pellicola 35 mm,
nel quale il racconto di una vicenda privata si intreccia con la storia dei moti partigiani
del nostro Paese. Il racconto prende avvio nell’intimità delle pareti domestiche, dove
una donna anziana, Elda, assiste all’intervista ad un ex-partigiano, Garibaldi, con cui
ha condiviso gli anni della guerra e della Resistenza.
Elda si mette dunque sulle tracce dell’uomo, arrivando nel piccolo paese dove vive; i
due, ritrovatisi a distanza di più di cinquant’anni, riscoprono i propri sentimenti l’uno
per l’altra, ballando insieme e poi finendo con il fare l’amore. Galegati racconta un
incontro d’amore tra due persone della cui storia, dei cui anni passati senza vedersi,
non sappiamo nulla; nonostante ciò, la narrazione lascia intuire un’intesa e una tensione in grado di preservarsi nel tempo, che si esplicitano nel rapporto fisico.
L’artista sembra così affermare che, a dispetto dell’età e degli avvenimenti della vita,
non è mai tardi per trovare (o riscoprire) il vero amore e per viverlo intensamente.
Stefania Galegati Shines
Passeggiata in paradiso, 2002
Film 35 mm, 12 min. con Franca Maresa e Leo Pantaleo
Courtesy Francesco Pantaleone Arte Contemporanea,
Palermo; Pinksummer, Genova
Stampa Selegrafica 80
Finito di stampare gennaio 2012