Mostra Da zero a cento
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Mostra Da zero a cento
Un’idea e una produzione della Fondazione Marino Golinelli in collaborazione con La Triennale di Milano BOLOGNA Palazzo Re Enzo 2_12 febbraio 2012 MILANO Triennale di Milano 21 febbraio_ 1 aprile 2012 DaZeroaCento Con il Patrocinio di Con il contributo di Concept allestimento Fotografie e filmati Si ringraziano Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna Iosa Ghini Associati Raccolte Museali Fratelli Alinari Gli artisti • I prestatori Un’idea e una produzione Fondazione Marino Golinelli in collaborazione con La Triennale di Milano Ministero per i Beni e le Attività Culturali Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca /USR Emilia-Romagna le nuove età della vita Un progetto di Giovanni Carrada Scienza a cura di Giovanni Carrada con la collaborazione di Mauro Mennuni Arte a cura di Cristiana Perrella con la collaborazione di Alessandra Troncone Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca /USR Lombardia Regione Emilia-Romagna Provincia di Bologna Comune di Bologna Comune di Milano Accademia Nazionale dei Lincei Alma Mater Studiorum Università di Bologna Città e siti italiani/Patrimonio Mondiale Unesco Istituto Mario Negri di Milano Rai Segretariato Sociale Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Bologna Politecnico di Milano Con il sostegno di Alfa Wassermann IMA MARPOSS Coop Adriatica Unindustria Bologna Philips Confcommercio Ascom - Provincia di Bologna Banca Popolare dell’Emilia Romagna Progetto e testi exhibit Giovanni Carrada Mauro Mennuni Documentazione iconografica Manuela Fugenzi Realizzazione allestimento Genius Progetti Progetto grafico della mostra, delle videografiche e della comunicazione Raffaella Ottaviani Maria Teresa Pizzetti con la collaborazione di Marcello Rossi Matteo Brogi videografiche: voce Riccardo Mei animazione Roberto Baldassari montaggio Roberto di Tanna musiche Paolo Modugno Marco Rosano post-produzione audio oasi studio Ufficio Stampa Delos servizi per la cultura Milano Catalogo MINISTERO PER I BENI E L E AT T I V I T à C U LT U R A L I testi Giovanni Carrada Cristiana Perrella con interventi di Marino Golinelli Gilberto Corbellini progetto grafico Raffaella Ottaviani Teresa Pizzetti coordinamento Fiorella Buffignani redazione e schede opere Alessandra Troncone Fototeca Storica Nazionale Ando Gilardi Museo demologico dell’economia, del lavoro e della storia sociale silana di San Giovanni in Fiore Stato Maggiore Esercito Ufficio Storico Archivio Fotografico Archivi Alinari Archivio Scala Archivio Storico Luce Contrasto Dino Fracchia Getty Images Photoservice Electa Publifoto-Olycom Sintesi Maurizio Valdarnini Un ringraziamento particolare Comune di Bologna per la collaborazione ed il concreto sostegno Fondazione Corriere della Sera per la collaborazione nella realizzazione a Milano degli incontri collegati alla mostra Iosa Ghini Associati Massimo Minini, Valentina Costa - Galleria Massimo Minini, Brescia • Andrew Richards, Brian Loftus, Catherine Belloy, Rose Lord - Marian Goodman Gallery, New York • Rowena Chiu Hauser & Wirth, London • Rob Eagle - Martin Creed Studio, London • Francesca Pennone, Antonella Berruti, Roberta Garufi - Pinksummer, Genova • Raffaella Cortese - Galleria Raffaella Cortese, Milano • Louise O.Kelly, Johann Bournot - Alison Jacques Gallery, London • Lodovica Busiri Vici, Paola Potena - Galleria Lia Rumma, Napoli/Milano • Cornelia Grassi, Edwige Cochois - greengrassi, London • Karsten Löckemann, Nina Holm - Sammlung Goetz, München Tom Heman - Metro Picture, New York • Pepi Marchetti - Gagosian Gallery, Roma • Francesca Kaufmann, Beatrice Girelli, Bianca Baroni - Kaufmann Repetto, Milano • Nicole Klagsbrun, Taylor Trabulus - Nicole Klagsbrun Gallery, New York • Masha Facchini, Cindy Lu - FaMa Gallery, Verona • Renata Knes - Fondazione Orsi, Segrate Milano • Francesco Pantaleone Francesco Pantaleone Arte Contemporanea, Palermo • Annette Hofmann - Lisson Gallery, Milano • Marc Alain Ryan McGinley Studios, LLC e tutti i prestatori che hanno preferito restare anonimi Si ringraziano Gapminder.org Vespa Club Bologna Fondazione Marino Golinelli Marino Golinelli Presidente Consiglio d’Amministrazione Marino Golinelli Gianpaolo Girotti Piero Gnudi Stefano Golinelli Stefano Golinelli Jr Lanfranco Masotti Andrea Zanotti Collegio dei Revisori Alberto Caltabiano Sergio Parenti Sergio Marchese Direttore Generale Antonio Danieli Area Progetti Speciali Fiorella Buffignani Area Formazione ed Educazione Giorgia Bellentani Area Comunicazione e Relazioni esterne Sara Mattioli Area Amministrazione Daniele Vandelli Segreteria generale e organizzativa Jessica Di Donato Pier Francesco Bellomaria Alessandra Cataneo Ufficio stampa Annalisa Perrone Responsabile per la sicurezza Marcello Verrocchio Life Learning Center Divisione formativa e didattica Scuole Secondarie Responsabile scientifico alle attività educative e didattiche Lanfranco Masotti Responsabile del laboratorio e delle attività didattiche Raffaella Spagnuolo Didattica e rapporti con le scuole Patrizia Zambonelli Segreteria didattica Stefania Barbieri Tutor di laboratorio Senior Maria Chiara Pascerini Giuliano Matteo Carrara Tutor di laboratorio Junior Sara Bernardi Alessandro Saracino Start Laboratorio di Culture Creative • Divisione educativa scuole primarie e dell’infanzia Responsabile Antonio Danieli Coordinamento operativo Giorgia Bellentani Segreteria didattica ed organizzativa Lucia Tarantino Supervisione scientifica area 2/5 anni Servizi educativi Comune di Bologna Fondazione La Triennale di Milano Consiglio d’Amministrazione Claudio De Albertis Presidente Mario Giuseppe Abis Giulio Ballio Renato Besana Ennio Brion Flavio Caroli Angelo Lorenzo Crespi Carlotta de Bevilacqua Alessandro Pasquarelli Collegio dei Revisori dei conti Emanuele Giuseppe Maria Gavazzi Presidente Alessandro Danovi Salvatore Percuoco Direttore Generale Andrea Cancellato Comitato scientifico Aldo Bonomi industria, artigianato, società Francesco Casetti nuovi media, comunicazione e tecnologia Germano Celant arte e architettura Severino Salvemini economia della cultura Settore Affari Generali Maria Eugenia Notarbartolo Maria Pina Poledda Franco Romeo Settore Biblioteca, Documentazione, Archivio Tommaso Tofanetti Claudia Di Martino Elvia Redaelli Settore Iniziative Laura Agnesi Roberta Sommariva Laura Maeran Chiara Spangaro Violante Spinelli Barrile Ufficio Servizi Tecnici Pierantonio Ramaioli Franco Olivucci Alessandro Cammarata Xhezair Pulaj Ufficio Servizi Amministrativi Giuseppina Di Vito Paola Monti Marina Tuveri Ufficio Stampa e Comunicazione Antonella La Seta Catamancio Alice Angossini Marco Martello Fondazione Museo del Design Consiglio d’Amministrazione Arturo Dell’Acqua Bellavitis Presidente Mario Artali Gianluca Bocchi Flavio Caroli Maria Antonietta Crippa Carlo Alberto Panigo Direttore Generale Andrea Cancellato Triennale di Milano Servizi Srl Consiglio d’Amministrazione Mario Giuseppe Abis Presidente Claudio De Albertis Andrea Cancellato Consigliere Delegato Collegio dei Revisori dei conti Francesco Perli Presidente Domenico Salerno Maurizio Scazzina Ufficio Servizi Tecnici Marina Gerosa Nick Bellora Ufficio Servizi Amministrativi Anna Maria D’Ignoti Marina Cimino Isabella Micieli Ufficio Marketing Valentina Barzaghi Olivia Ponzanelli Caterina Concone Collegio Sindacale Salvatore Percuoco Presidente Maria Rosa Festari Andrea Vestita Direttore Silvana Annicchiarico Producer attività museo Roberto Giusti Collezioni e ricerche museali Marilia Pederbelli Archivio del Design Italiano Giorgio Galleani Ufficio iniziative Carla Morogallo Ufficio stampa e Comunicazione Damiano Gullì Attività Triennale DesignMuseum Kids Michele Corna Web designer Cristina Chiappini Triennale Design Museum Studio Camuffo Triennale Design Museum Kids Logistica Giuseppe Utano Laboratorio di Restauro, Ricerca e Conservazione Barbara Ferriani, coordinamento Alessandra Guarascio Rafaela Trevisan LA CULTURA NUTRE IL PIANETA Marino Golinelli Da molti secoli si è prodotta una frattura profonda tra le scienze della natura e le scienze dell’uomo, come tradizionalmente venivano definite. Non c’è dubbio che negli ultimi anni si siano privilegiate in maniera evidente le seconde, coniugate – per la prima volta in maniera così efficiente nella storia dell’uomo – con tecnologie molto sviluppate e potenti. Le cosiddette humanities sono così divenute figlie di un dio minore, nelle quali investire meno risorse ed energie perché non direttamente produttive. E se è innegabile che il procedere delle tecno-scienze abbia innalzato la qualità della vita materiale dell’uomo, va tuttavia colto e non sottovalutato un certo smarrimento della sua dimensione esistenziale, legata ad una progressiva incapacità di elaborare categorie di pensiero forti per un nuovo paradigma dell’umano. Oggi cominciamo ad avvertire il peso e le conseguenze di questa separazione, che va recuperata promuovendo una nuova unità nella visione di ciò che chiamiamo cultura. È oramai chiaro, infatti, come non ci possa essere un vero progresso delle attività umane laddove esse non siano supportate da un quadro di civiltà che si faccia carico non solo dell’avanzamento delle future possibilità tecno-economiche, ma anche di un adeguato sostegno al pieno ed armonioso sviluppo delle attività dell’uomo nel loro complesso. Il solo moltiplicarsi delle nostre potenzialità operative non sarà sufficiente a fornire all’uomo – così potente e fragile ad un tempo – tutte le risposte di cui esso ha bisogno. Viceversa, solo una cultura in grado di ricucire l’unità di saperi oggi così frammentati potrà far comprendere il valore della salute lungo tutto l’arco dell’esistenza, incrementando una qualità della vita che deve nutrirsi di stili adeguati ed essere sostenuto da un’equa distribuzione della ricchezza in grado di promuovere politiche di welfare entro un orizzonte economico ristabilito e sostenibile, coerente alla visione prospettica a lungo termine. Ci piace viceversa immaginare che una conquistata ricomposizione della conoscenza umana possa nutrire un’esistenza piena e cosciente, in grado di farci assumere una responsabilità libera e consapevole verso noi stessi e verso gli altri. Anche quest’idea di responsabilità varia con le stagioni dell’uomo, e conosce gradazioni ed intensità diverse nelle varie età che attraversiamo: da quelle più leggere che contraddistinguono i primi anni della giovinezza a quelle più gravi che segnano l’età della piena maturità, a quelle dense di esperienza che contraddistinguono gli anni che preludono la nostra uscita di scena. è dall’assunzione di questo paradigma di responsabilità che dipende il prosperare di una civiltà e di una socialità equilibrate, in grado di garantire una partecipazione alla vita comune di persone di ogni età, facendo dell’idea di democrazia non una vuota utopia ma una realtà da perseguire e da costruire giorno per giorno. Il nostro attraversare il tempo, infatti, modifica le nostre percezioni e le nostre idee: rendendoci più capaci di penetrare le ragioni degli altri; di capire, proprio attraverso uno scambio continuo con la realtà, le diversità dalle quali siamo circondati. In questo senso la conoscenza contribuisce in maniera decisiva al superamento dei conflitti anche nella loro dimensione sociale: ed in questo senso una società fondata sulla conoscenza custodisce la speranza concreta di fondare un futuro possibile per un pianeta popolato ormai da sette miliardi di esseri umani. In verità, una sintesi che recuperi la divisione in comparti della conoscenza è già presente nel nostro cervello, essendo la ripartizione e la classificazione delle scienze non un prodotto della struttura per così dire fisica del nostro pensiero, ma il frutto di una evoluzione scandita dalla capacità analitica dell’uomo e dalla sua necessità, per definire un sapere, di distinguere e classificare i fenomeni. Nella complessità bio-neuronale che guida la nostra mente non c’è posto per la distinzione tra ciò che appartiene alle scienze dell’uomo e ciò che appartiene alle scienze della natura. Ogni atto creativo, sia che spieghi la propria potenza nell’ambito delle tecno-scienze, sia che segni una novità creativa nell’ambito artistico o del pensiero, affonda le proprie radici nella capacità del nostro cervello di scoprire almeno una parte di quegli infiniti mondi in attesa di essere scoperti dall’uomo. Così non c’è alcuna differenza tra l’illuminazione che suggerisce improvvisamente a Giotto di dipingere i cieli del blu che appare ai nostri occhi invece che laminarli d’oro come voleva la tradizione corrente, ed il sogno ad occhi desti di Isaac Newton nel quale il mondo gli si disvela nei suoi rapporti geometrico-matematici in seguito alla caduta di una mela sulla propria testa. Entrambi questi momenti creativi – ancora inspiegati ed inspiegabili nella loro genesi e nel loro sviluppo – segnano il cammino della nostra civiltà. L’arte e la scienza, dunque, sono due facce di una stessa medaglia che non possiamo dividere, ma che, viceversa, dobbiamo ricondurre ad un’unità perduta. è dunque la nostra identità, sia collettiva che soggettiva, a determinare l’evoluzione della nostra civiltà, che si nutre della diversità che ognuno di noi porta scolpita nel proprio dna di provenienza. Guai se i sogni smisurati di grandezza dell’uomo dovessero conoscere, nel loro avverarsi, il sacrificio delle diversità che da sempre alimentano l’evoluzione della vita e del pensiero. Questo pericolo esiste ed è reale: e proprio l’affermazione della sacralità inscindibile dei processi creativi umani – scientifici o artistici che siano – rappresenta una linea di resistenza al dominio della semplice ragione tecnica. In questa prospettiva, la diversità rappresenta un valore irrinunciabile: e niente di grande che l’uomo abbia concepito e realizzato sin qui nella storia prescinde da una appartenenza ad una terra e ad una tradizione. La diversità rappresenta la ricchezza dell’umanità nel suo complesso e, nello stesso tempo, la ricchezza di ognuno di noi, che nelle diverse stagioni della nostra esistenza, trova la via per emergere ed affermarsi. Ecco dunque colto, sia pure in poche battute, il senso profondo di questa mostra che abbiamo fortemente voluto. La cultura nutre il pianeta in tutte le età dell’uomo, la creatività è lo spirito che ci tiene vivi e che contribuisce - attraverso la linfa di una cultura che tutti insieme siamo chiamati ad elaborare - ad alimentare il pianeta, dotando di senso, allo stesso tempo, le nostre stesse esistenze. La nostra vita è solo un gioco? Sì, un gioco che va giocato fino alla fine del suo tempo. L’ottimismo della storia Gilberto Corbellini Viviamo una stagione segnata da un diffuso pessimismo nostalgico. La crisi economica genera ansia per il futuro, soprattutto nei paesi che, come l’Italia, nei decenni scorsi non hanno investito in capitale cognitivo e cultura civica. Cioè negli unici strumenti di cui si sa per via empirica che sono capaci di inventare un futuro individuale e sociale che porti miglioramenti rispetto al passato. Il pessimismo nostalgico immagina il presente e il futuro peggiori del passato, ed è il risultato di un errore di giudizio ben descritto dagli psicologi cognitivi, cioè la “retrospezione rosea”. Errore già noto agli antichi, i quali sapevano che memoria praeteritorum bonorum (il passato viene sempre ricordato migliore). Il pessimismo nostalgico è la conseguenza di un modo di ragionare verosimilmente utile ai nostri antenati cacciatori-raccoglitori, che traevano vantaggio dall’esser conservatori. Ma oggi può costituire un forte freno, personale e culturale, rispetto alla possibilità di intraprendere cambiamenti in grado di ridare concreta speranza per il futuro. L’idea che il passato fosse migliore del presente è un errore facilmente confutabile. Nel corso delle ultime 15-20 generazioni, cioè negli ultimi trecento anni, e in modo particolarmente accentuato nel corso delle ultime 3-4 generazioni, cioè negli ultimi sessant’anni, nel mondo sono accadute novità su cui raramente ci si sofferma a riflettere. E si dovrebbe essere ben coscienti di cosa è cambiato e come, proprio per fare previsioni e prendere decisioni riguardanti il presente e il futuro sulla base di informazioni più corrette. Nei paesi che per primi hanno conosciuto l’industrializzazione, l’aspettativa di vita alla nascita è più che raddoppiata – da circa trent’anni a oltre settanta in media – e questo è accaduto perché è migliorata in modo straordinario la qualità della vita in generale. Le generazioni vissute nel mondo industrializzato hanno visto diminuire le cause di malattia e migliorare la salute (cioè potenzialità fisio- logiche individuali), e hanno goduto progressivamente di un incremento del reddito medio pro-capite da poche centinaia di dollari ad alcune decine di migliaia; nonché di una continua, benché incostante, riduzione della diseguaglianza economica. Questi stessi miglioramenti si stanno verificando in numerosi paesi in via di sviluppo. Senza dimenticare che là dove sono avvenuti tali cambiamenti si è sviluppata anche la democrazia nel senso moderno e sempre più pieno del termine: l’organizzazione politica si è evoluta in un numero crescente di paesi in senso liberale, basando l’impianto istituzionale sullo stato di diritto, e sono cadute molte discriminazioni sociali fondate su ingiustificati pregiudizi culturali. Che cosa ha consentito e consente la creazione e diffusione del benessere economico, sociale e sanitario a livello praticamente dell’insieme della specie umana? La ricerca storica si è finora concentrata quasi solo sulle cause prossime di questo processo, ignorando le cause remote o evolutive. La nostra biologia, cioè il bagaglio genetico con cui ogni individuo inizia la sua storia di vita e da cui dipende l’assemblaggio delle sue caratteristiche anatomiche e funzionali, è sostanzialmente rimasto identico a quello dei nostri antenati vissuti per centinaia di migliaia di anni allo stato di cacciatori-raccoglitori. Ora, gli antropologi hanno dimostrato che la transizione all’agricoltura non ha comportato, sotto quasi nessun punto di vista, un miglioramento delle condizioni di vita. Anzi, l’aspettativa di vita, a partire da diecimila anni fa, è diminuita, e solo nell’età classica è tornata mediamente ai livelli del Paleolitico, mentre la salute è peggiorata e la convivenza sociale, benché sia diventata progressivamente meno violenta, è stata governata per millenni da logiche gerarchiche di dominanza (dal totalitarismo, per usare un termine politico). Questi iniziali cambiamenti peggiorativi sono stati la conseguenza del “mismatch”, cioè della dissonanza tra le predisposizioni biologiche evolute dai nostri antenati per sopravvivere e riprodursi nell’ambiente dell’adattamento, e le nuove condizioni di vita nell’ambiente fisico e sociale creato dall’attività agricola. Dato che l’evoluzione biologica è governata dalle dinamiche della selezione naturale e che la nostra genetica è rimasta praticamente immutata, quali fattori e meccanismi hanno agito per consentire di abbattere gli effetti del mismatch? E perché siamo cambiati anche somaticamente negli ultimi tre secoli, dato che mediamente siamo diventati più alti, pesiamo di più, abbiamo acquisito un aspetto esteticamente più proporzionato e migliorato alcune capacità che caratterizzano l’intelligenza? Si possono formulare diverse ipotesi sulle origini di tali miglioramenti, e di certo non va sottovalutato il processo di “evoluzione tecno-fisiologica” teorizzato nel 1997 dal Nobel per l’economia Robert W. Fogel e da Dora L. Costa. Secondo Fogel e Costa è stato soprattutto il miglioramento dello “status nutrizionale”, a partire dagli inizi del Settecento, a innescare il processo evolutivo in senso migliorativo delle società umane. I progressi tecnologici, che cominciarono a interessare l’agricoltura e il settore manifatturiero, consentirono l’accesso ad alimenti tali, per quantità e qualità, da cominciare a incrementare la disponibilità di energia metabolica per tutte le fasi della vita umana. In modo particolare cominciarono a garantire un livello nutrizionale alle madri gravide adeguato a far nascere feti sempre meno sottopeso, e quindi anche meno predisposti a danni causati da diversi fattori di malattia. In questo modo, si innescò un aumento della durata della vita che consentì di lavorare più a lungo e in modo più efficiente, quindi di far avanzare le conoscenze e le tecnologie utili a ridurre ulteriormente l’impatto delle malattie e a migliorare gli standard di vita, nonché a determinare, grazie alla logica del libero scambio, una più equa distribuzione del reddito. Col passare delle generazioni, aumentando la ricchezza, insieme alla durata della vita, si cominciavano a pianificare le scelte riproduttive e così gli standard di vita incrementavano ulteriormente, insieme a quei tratti somatici, prima ricordati, che sono indicativi di un aumentato benessere. I cambiamenti introdotti dalla modernità hanno consentito di recuperare e contrastare gli effetti del mismatch, sviluppando una serie di tecniche (produttive, di cura e prevenzioni, istituzionali, etc.) che hanno sia risolti i problemi creati dall’allontanamento dallo “stato di natura”, sia potenziate predisposizioni umane, soprattutto sul piano cognitivo e morale, già presenti nei nostri antenati del Paleolitico. In questo modo si è arrivati ad avere il meglio, sia rispetto alla vita paleolitica sia rispetto al mondo premoderno. Un meglio che non è di certo assoluto, ma ancora perfezionabile e da perfezionare. In particolare il mismatch continua a causare problemi perché persistono dissonanze tra alcuni aspetti dell’ambiente o gli stili di vita moderni, e le predisposizioni o i vincoli fisiologici imposti dalla nostra genetica pleistocenica. In ogni caso, la modernità, tanto vituperata dai filosofi nichilisti e da certi integralismi ideologici, ci ha fatto guadagnare un benessere che non ha confronti nel passato. Sotto qualunque punto di vista. Il concetto di “evoluzione tecno-fisiologica” sottovaluta forse il fatto che senza l’invenzione della scienza moderna, nei due secoli che precedettero l’inizio dei cambiamenti fisiologici e sociali appena descritti, non sarebbe stato possibile disporre delle conoscenze e degli strumenti cognitivi per innovare le tecnologie e creare opportunità di scelta che ci hanno resi anche più liberi. La scienza ha messo a disposizione dell’uomo un metodo, finalmente non ideologico, in grado di spiegare e valutare empiricamente e in modo trasparente le conseguenze delle scelte e dei processi economici, sociali e culturali in corso, e in questo modo ci ha anche migliorati sul piano morale. Grazie a questo metodo e al senso di responsabilità personale e civile che esso genera si possono continuare a studiare i problemi ancora irrisolti e quelli imprevisti, e cercare pacificamente soluzioni efficaci che non mettano a rischio le conquiste fatte e che, magari, apportino ulteriori avanzamenti alla qualità della vita e dell’ambiente. Ci sono quindi molte ragioni per preferire l’ottimismo razionale al pessimismo nostalgico. La mostra pensata da Giovanni Carrada e prodotta dalla Fondazione Marino Golinelli illustra i cambiamenti che sono intervenuti nella fisiologia umana, lavorando sulle predisposizioni e la flessibilità permessa dalla selezione naturale al nostro corpo e al nostro comportamento. E dimostra anche il ruolo che la scienza ha svolto nella vicenda. Di fatto, propone una rilettura artistica delle età dell’uomo, che ai tempi di Hans Baldung Grien, di Giorgione e di Tiziano (inizi del Cinquecento), ma ancora in pieno Seicento quando le rappresentava Anton van Dick, erano ferme a “tre”. Mentre oggi sono fisiologicamente distinguibili in un numero maggiore, e la qualità di ognuna di queste età può essere collegata funzionalmente alla qualità di quella precedente. Si tratta di una mostra originale e intellettualmente stimolante, perché in tempi di pessimismo nostalgico invita a riflettere sulle potenzialità umane, cioè sulle nostre formidabili capacità adattative. L’ottimismo razionale può trovare efficaci argomenti e stimoli proprio in un dialogo creativo tra scienza e arte, su un tema dove l’intuizione e il sentimento comunicati attraverso le opere d’arte possono aiutare a superare e abbandonare quelle zavorre cognitive ed emotive che dobbiamo alla nostra storia evolutiva, ma che in questa fase rischiano di tarparci le ali. Non abbiamo ancora scoperto tutto il nostro potenziale Giovanni Carrada C’è una grande distorsione di prospettiva, tanto profonda quanto difficile da percepire, quando prendiamo in considerazione l’impatto che la tecnologia basata sulla scienza ha avuto e avrà sulla nostra vita. Siamo infatti abituati a pensare che abbia cambiato il mondo, il che naturalmente è vero: basta guardarsi intorno. Non ci siamo invece resi conto di come abbia cambiato anche noi stessi, cioè il nostro corpo e la nostra mente. In altre parole, la condizione umana nel senso più personale e profondo. Né ci rendiamo conto di come abbia cambiato aspetti della nostra vita come ad esempio l’eguaglianza delle opportunità. E fatichiamo a renderci conto che molte delle conoscenze su noi stessi che la scienza continua a produrre possano aiutarci a scegliere di migliorare la nostra vita. In ogni sua fase. Quando pensiamo al passato, diamo per scontato che uomini e donne ci assomigliassero. Le testimonianze dell’arte, d’altra parte, sembrano confermarlo. Ma quei quadri e quelle statue rappresentano in realtà i ritratti – spesso peraltro idealizzati – di pochi privilegiati. Se non vogliamo addentrarci nei racconti degli storici o nelle statistiche che dalla metà del secolo hanno cominciato a essere raccolte, basta infatti guardare le testimonianze fotografiche delle classi popolari dell’Ottocento, che rappresentavano allora la stragrande maggioranza della popolazione, per rendersi conto che la realtà era molto diversa. In passato, chi era abbastanza fortunato da sopravvivere ai primi anni di vita (quando l’Italia fu unificata, un bambino su quattro moriva ancora prima del suo quinto compleanno) aveva in genere il fisico minato dalle malattie e dalla cattiva nutrizione cronica, era più basso, si poteva aspettare una vita più breve ed era – diciamolo – anche più brutto. Quello che è avvenuto nel corso delle ultime generazioni è che le condizioni medie della popolazione sono enormemente migliorate. In altre parole, oggi quasi tutti pos- sono godere di una salute, una statura, un aspetto fisico e un’aspettativa di vita riservati una volta a pochissimi. In genere ricchi, qualche volta semplicemente fortunati. Che cos’è accaduto? La nostra eredità genetica, codificata nelle molecole di DNA conservate all’interno delle nostre cellule, è rimasta naturalmente la stessa, ma l’ambiente in cui questa si esprime è radicalmente cambiato e ne ha “tirato fuori” uomini e donne diversi. Un’alimentazione migliore, la protezione da molte malattie, case più pulite e riscaldate, lavori molto meno gravosi hanno indirizzato il nostro sviluppo in una direzione nuova. C’è dell’ironia nel fatto che da tanto tempo sogniamo (o temiamo) che scienza e tecnologia possano migliorare le prestazioni del nostro corpo o del nostro cervello, e di volta in volta affidiamo speranze e paure alla genetica, alla farmacologia o alla bionica. In realtà, miglioramenti straordinari sono già avvenuti e continuano ad avvenire, ma gradualmente, dentro e intorno a noi, e quasi non ce ne siamo accorti. Uno dei sogni dell’umanità è sempre stato un elisir di lunga vita. Bene, l’abbiamo trovato: da un secolo a questa parte la durata media della nostra vita è raddoppiata. E la ricetta si è rivelata straordinariamente semplice: una vita migliore. Anche se a volte ci sembra che abbia qualcosa di speciale rispetto al resto del nostro organismo, in realtà il cervello è un organo come tutti gli altri, e ha beneficiato anch’esso del fatto di potersi sviluppare in un ambiente diverso rispetto al passato. Una delle scoperte più singolari è infatti stata quella del cosiddetto “effetto Flynn”, dal nome dello studioso neozelandese che per primo se ne è reso conto: nel corso del Novecento, nei paesi sviluppati, l’intelligenza media misurata con diversi tipi di test è aumentata di circa il 3% ogni dieci anni. Questo significa che generazione dopo generazione i figli sono stati in media più intelligenti dei loro genitori. In parte, questo può dipendere dall’alimentazione migliore: il cervello rappresenta il 5% del nostro peso, ma consuma il 20% dell’energia disponibile. Il vero merito però è probabilmente del fatto che il cervello si può sviluppare in un ambiente molto più ricco di stimoli (che sono un vero e proprio “cibo” per la mente) grazie al numero crescente di anni passati a scuola, alla diffusione dei media e alla possibilità di muoversi e conoscere nuovi luoghi e nuove persone. Una vita più lunga vuol dire inoltre che una persona riesce ad accumulare molte più conoscenze e abilità, con le quali a sua volta può produrne di nuove, contribuendo così all’ulteriore miglioramento delle condizioni di vita per tutti. Altri effetti di un ambiente diverso sono stati più indiretti. La fine della scarsità del cibo e dell’energia ha reso più semplice la possibilità che ciascuno possa avere ciò di cui ha bisogno, accelerando l’affermazione concreta dei principi di eguaglianza sociale. Basti pensare ad esempio all’effetto sulla condizione femminile della diminuzione del numero dei figli (grazie al crollo della mortalità infantile), della riduzione del carico di lavoro domestico (grazie agli elettrodomestici e alla disponibilità di energia per farli funzionare) e del cambiamento delle condizioni di lavoro (se il cervello sostituisce i muscoli, uomini e donne hanno la stessa produttività). Sempre più persone hanno quindi potuto scegliere quale vita fare – un altro privilegio un tempo riservato a pochissimi – contribuendo anche all’espansione delle opportunità per tutti, ad esempio partecipando alla produzione di nuove conoscenze. Tutti questi miglioramenti sono stati delle conseguenze inaspettate e quindi non scelte. Altri miglioramenti possono dipendere invece dalle nuove conoscenze su noi stessi che oggi abbiamo. Soprattutto nel corso degli ultimi anni, infatti, la scienza ha rivoluzionato quello che pensavamo di sapere sulle età della vita, sconfessando vecchi cliché o al contrario dando nuova sostanza a intuizioni della migliore saggezza della storia. Abbiamo scoperto quali ipoteche alcune condizioni di una donna incinta possono mettere sulla salute del nascituro quando sarà grande. Cominciamo a conoscere meglio gli effetti dell’ambiente e dell’educazione sullo sviluppo della mente durante l’infanzia e – sviluppo ancora più recente – durante i cruciali anni dell’adolescenza. Sappiamo abbastanza bene, ormai anche in notevole dettaglio, quale influenza hanno gli stili di vita (alimentazione, attività fisica, relazioni sociali e affettive) e le condizioni della vita sociale sulla possibilità di mantenere una vitalità e una salute quasi giovanili negli anni della maturità e anche oltre. Sta quindi a noi scegliere. Il risultato di tutto questo è una nuova consapevolezza delle potenzialità che ogni età della vita può, e quindi dovrebbe esprimere in ciascuno di noi. Ma anche una nuova comprensione delle minacce, nuove o prima nascoste, che ne possono compromettere l’espressione. A livello individuale come a livello familiare o sociale. La lezione della storia degli ultimi due secoli, e soprattutto degli ultimi decenni, è che molto del potenziale che nelle generazioni precedenti non aveva potuto esprimersi è stato tirato fuori, e che probabilmente altro potenziale resta ancora da esprimere. Grazie al nuovo ambiente che ci siamo costruiti, siamo diventati diversi non diventando qualcun altro, ma al contrario diventando finalmente davvero noi stessi. Questo nuovo ritratto dell’esistenza umana e delle sue potenzialità è il risultato di conoscenze provenienti dalle discipline più disparate – neuroscienze, medicina, biologia evoluzionistica, genetica, fisiologia, epidemiologia, antropologia, ma anche economia, demografia, storia sociale – che raramente arrivano al grande pubblico, e che ancor più raramente vengono presentate in forma semplice e soprattutto in modo tale da formare un quadro organico e coerente. Da Zero a Cento, le nuove età della vita è una mostra che cerca di far “cristallizzare” questo nuovo ritratto dell’esistenza umana, grazie alle scoperte della scienza ma anche alle intuizioni degli artisti che per una strada diversa, quella della loro sensibilità, hanno saputo cogliere le stesse trasformazioni. Il visitatore potrà così riconoscere queste trasformazioni e queste scoperte nella sua vita e in quella delle persone che gli vivono accanto, riportando a casa una nuova consapevolezza del potenziale di ogni età e una nuova conoscenza su come svilupparlo. E riconoscerà anche nella scienza e nella tecnologia dei fattori di emancipazione ben più profondi di quanto finora sospettato, ricordando tutto questo grazie al forte impatto emotivo delle opere d’arte associate. Muovendosi nelle sale della mostra, il visitatore potrà insomma vivere una straordinaria esperienza di “corto circuito” fra gli stimoli emotivi suscitati dai lavori degli artisti, gli stimoli intellettuali forniti dagli exhibit che raccontano cambiamenti e scoperte scientifiche sull’età, e naturalmente le proprie esperienze autobiografiche. In questo modo arte e scienza, due modi diversi e complementari di conoscere, tornano a fondersi nel luogo che è loro più proprio: la nostra mente. Le sei età della vita Cristiana Perrella La raffigurazione dell’essere umano è da sempre uno dei campi d’indagine privilegiati dell’arte, che quindi, attraverso la sua storia, ci permette facilmente di osservare come siamo cambiati nel corso dei secoli, con il mutare delle condizioni economiche, sociali e culturali. Specchio in cui si sono riflesse le nostre trasformazioni, la storia dell’arte nel suo procedere ci mostra anche però come la parabola esistenziale di uomini e donne, nonostante l’innegabile evoluzione, sia rimasta sostanzialmente immutata nel tempo - scandita nei canonici tre momenti, infanzia, maturità, vecchiaia - fino ad anni relativamente recenti. Le rappresentazioni allegoriche della vita, da Le tre età dell’uomo di Giorgione del 1500-1501, a Nus Masculins di Picasso, dipinto nel 1942, sono in questo senso molto eloquenti, risultando tutte sostanzialmente simili. Dobbiamo arrivare agli anni Sessanta perché nell’arte (e nella vita delle persone) si affermi una concezione più articolata del tempo dell’esistenza umana, con la fase adulta che si sdoppia in gioventù e maturità, e la prima di queste che prende uno spazio inedito nell’immaginario, imponendo il suo stile di vita, i suoi consumi, la sua spinta verso il cambiamento. Oggi, complice l’allungamento della vita stessa, le fasi che possiamo riconoscere all’interno di un’esistenza sono almeno sei. La scoperta dell’importanza degli scambi tra il feto e l’ambiente esterno ha messo l’accento sulla fase prenatale; l’adolescenza, momento di transizione fondamentale, segue l’infanzia. Di gioventù e maturità si è già detto, mentre la terza età non è più la vecchiaia di una volta, simbolo della decadenza fisica, ma occasione per godere dei risultati raggiunti, forti dell’esperienza e saggezza acquisite. L’arte ha reagito ai cambiamenti della condizione umana, scoprendo le molteplici sfaccettature di ogni singola età; proprio l’adolescenza, prima non rappresentata, è diventata un campo di ricerca ricco di possibilità per raccontare le trasformazioni della società attuale, prestandosi a fare da tema per mostre specifiche (vedi Il quarto sesso. Il territorio estremo dell’adolescenza, a cura di Francesco Bonami, Firenze 2003). Ecco quindi che la mostra Da zero a cento. Le nuove età della vita, formulata sul dialogo tra arte e scienza, si propone di ampliare lo sguardo sulle tappe della vita dell’uomo, includendo le “nuove età” prima non considerate. La scelta delle opere, almeno due per ogni sezione, è caduta su lavori dalla grande capacità comunicativa che però, nonostante l’immediatezza, non mancano di sottolineare la complessità degli argomenti trattati, rivelando una potenza metaforica e una stratificazione di significati. La mostra si apre all’insegna di 100 years di Hans-Peter Feldmann, un monumentale ritratto delle età della vita umana che si fa introduzione ideale e chiave di accesso ai contenuti affrontati lungo tutto il percorso espositivo. Cento e uno scatti fotografici mostrano lo svolgersi della vita ritraendo persone che si trovano in un particolare momento della propria, mettendo in scena così un dialogo tra condizione universale e storie individuali. La vita comincia ancor prima di venire al mondo, come raccontano le opere, fortemente evocative, di Gabriel Orozco e Anish Kapoor: la forma sferica di una pancia in dolce attesa suggerisce un luogo di passaggio, dove avvengono trasformazioni fondamentali per la vita che sarà. Il gioco e l’educazione sono i due elementi che caratterizzano l’infanzia, raccontati rispettivamente da Martin Creed e Guy Ben-Ner. Il primo con le sue Balls di ogni taglia e colore ci invita a tornare bambini, a fruire dell’opera in modo ludico esplorando le diverse relazioni spaziali che vengono a crearsi, di volta in volta, ad ogni nuovo assetto. L’israeliano Ben-Ner riadatta invece nel suo video Wild Boy il film di Truffaut L’enfant sauvage, mettendosi nei panni di un padre che educa il proprio figlio e lo accompagna nella scoperta del mondo. Un video che si presenta particolarmente significativo nel raccontarci anche il nascere di nuove dinamiche familiari, dove il padre, prima assente, è coinvolto e partecipe della formazione del figlio così come la madre. L’adolescenza, fase turbolenta e di scoperta di se stessi, emerge nelle sue diverse sfaccettature nelle opere di Marcello Maloberti, Ryan Mc Ginley e Evan Baden. La performance di Maloberti e gli scatti di Mc Ginley insistono entrambi sul suo essere uno stadio di transizione, tra ribellione, spaesamento e il crescere di una consapevolezza che presto sfocerà nell’età adulta. Evan Baden racconta invece un aspetto ancor più attuale, ovvero il rapporto dei giovanissimi con le nuove tecnologie; se, da una parte, gli apparecchi digitali accelerano il processo di crescita, costituendo una fonte inesauribile di informazioni, dall’altra possono portare alla creazione di rapporti interpersonali che nascono e si esauriscono sul piano esclusivamente virtuale, come sembra succedere ai ragazzi ritratti nella serie The Illuminati. Il delinearsi di nuovi tipi di approccio relazionale si ripresenta in fase più adulta, momento che segna la scelta del partner e l’avvio alla costituzione di una propria famiglia. Mentre infatti Ottonella Mocellin e Nicola Pellegrini, confrontandosi con episodi della propria vita privata, raccontano lo sviluppo di una storia d’amore che matura fino all’arrivo del primo figlio, Frances Stark riporta l’attenzione sulla natura dei rapporti sentimentali e sessuali nell’era della tecnologia e della comunicazione virtuale, dove il partner può essere scelto in una video chat room. La maturità, rappresentata in mostra dalle opere di Adrian Paci e Cindy Sherman, si presenta anch’essa una fase complessa che vede il concretizzarsi delle proprie aspettative lavorative e sociali ma, allo stesso tempo, l’avvicinarsi della vecchiaia. Nel video Turn on, Paci sembra alludere al potenziale inespresso che è l’energia umana, di cui una delle attuazioni possibili è proprio l’impegno lavorativo. Ritraendo donne agiate di mezza età, la Sherman rivela invece come la celebrazione del proprio status sociale non impedisca il declino fisico ormai iniziato, messo a nudo dallo sguardo impietoso della macchina fotografica. Infine, la vecchiaia; terza età secondo la tripartizione classica, oggi sesta, o forse addirittura settima, tappa della vita. Le opere presenti in questa sezione mettono ben in luce un aspetto fondamentale di questo momento, prima considerato inevitabilmente apice di un percorso, oggi possibile occasione per ridisegnare la propria vita e per viverla ancora intensamente. Il protagonista del video Frolic and Detour di John Pilson, preso dai suoi ritmi lavorativi quotidiani, ignora la morte che batte la mano sulla sua spalla; le giovani donne scelte da Miwa Yanagi, poi trasformate e ritratte come donne anziane, immaginano una vecchiaia in piena attività; i personaggi del film di Stefania Galegati Shines riscoprono l’amore (anche quello fisico), a distanza di quasi cinquant’anni. Questi esempi sembrano dire che un’aspettativa di vita più lunga è sicuramente presa di coscienza dei propri limiti ma anche delle proprie potenzialità ancora inespresse. Le opere presenti in mostra divengono in questo modo prova di una concezione della vita umana che è cambiata e va cambiando ancora, in relazione agli stimoli esterni ma anche alla capacità di immaginare e realizzare se stessi che sempre si rinnova. Nel ritrarre e raccontare gli infiniti aspetti della vita umana l’arte guarda alle tappe attraverso le quali essa si sviluppa e fa da sismografo, registrandone i movimenti e le implicazioni sociali con sguardo talvolta ironico, talvolta critico, ma sempre pronto a coglierne gli aspetti più indicativi e a trasformarli in immagini dense di significati. scienza Prima di nascere Perché la salute di tutta la vita si può decidere già nella pancia della mamma? Infanzia Perché coltivare il cervello dei bambini è il migliore investimento che possiamo fare? Adolescenza A che cosa serve in realtà l’adolescenza, e perché sta diventando sempre più lunga? Gioventù Perché nella coppia è cambiato tutto, tranne i comportamenti legati alla sessualità? Maturità Perché possiamo scegliere se la nostra maturità può assomigliare alla gioventù? Vecchiaia Perché neanche la terza età è più quella di una volta? Prima di nascere Molti studi stanno mostrando che quello che accade durante i nove mesi della gravidanza può influenzare il nascituro per tutta la vita. Alcuni caratteri che prima venivano attribuiti all’eredità genetica si sono rivelati in realtà dovuti all’influenza del primo ambiente nel quale ci siamo sviluppati, e dunque modificabili. Durante la vita prenatale infatti, nel tentativo di prepararsi a ciò che potrebbe trovare una volta fuori della pancia della madre, l’organismo regola alcuni “settaggi” fondamentali che condizioneranno la sua fisiologia per i decenni a venire. La disponibilità di cibo percepita attraverso la quantità e la qualità dei nutrienti ricevuti attraverso la placenta influenza ad esempio la richiesta energetica dell’organismo e l’appetito per i cibi più ricchi di energia. Se quindi la madre non si nutre bene, una volta adulto il figlio rischia di essere più vulnerabile a obesità, diabete e malattie cardiovascolari. Se invece la madre vive in condizioni di stress, a causa ad esempio del lavoro o di altri motivi di insicurezza, il figlio sarà più vulnerabile agli stimoli stressanti e quindi, a causa di precisi meccanismi fisiologici, anche al rischio di ammalarsi di più e invecchiare più in fretta. Sta quindi diventando sempre più chiaro che la tutela della salute e la promozione delle opportunità che si avranno nella vita cominciano già al momento del concepimento. E che è anche a causa delle migliori condizioni delle madri in gravidanza, grazie ad esempio ai congedi per maternità e a una maggior attenzione anche in famiglia, che si deve un migliore avvio nella vita per le ultime generazioni. Infanzia La nostra idea dell’infanzia come di un’età in cui si è già persone, che meritano anzi un’attenzione e una protezione speciali e ai quali è concessa una maggiore possibilità di esprimersi, è in larga misura una novità degli ultimi decenni. Prima, i bambini erano spesso considerati poco più che braccia da mettere al lavoro il più presto possibile. Il merito è innanzitutto del crollo della mortalità infantile dovuto al miglioramento delle condizioni di vita e alla sconfitta delle principali malattie infettive. In passato, infatti, la maggior parte dei figli moriva già nei primi anni di vita. Si tendeva quindi a metterne al mondo molti, spesso senza affezionarcisi troppo, nella speranza che almeno qualcuno potesse sopravvivere. Nelle ultime generazioni invece il numero dei figli per coppia è crollato, e questo ha reso possibile dedicare a ciascuno maggiore attenzione e maggiori risorse. La seconda grande fortuna di chi è nato negli ultimi decenni è stata la possibilità di andare a scuola per molti anni e di vivere in una società molto più ricca di stimoli dovuti alla possibilità di viaggiare, ma soprattutto alla presenza dei media. Oggi sappiamo infatti quanto sono preziosi gli anni dell’infanzia per lo sviluppo del cervello, il più plastico dei nostri organi. Più esperienze si fanno da bambini, più abilità riescono a svilupparsi e più ricca sarà la mente per tutto il resto della vita. Per questo, per la famiglia come per la società, “coltivare” i bambini è davvero l’investimento migliore che possiamo fare per garantirci un futuro migliore. Adolescenza Per quasi tutta la nostra storia, gli anni dopo la pubertà sono stati considerati solo una breve parentesi per consentire a un bambino o una bambina di maturare sessualmente e crescere fino alle dimensioni di un adulto. Oggi sappiamo invece che l’adolescenza è una fase fondamentale della vita nel corso della quale le cose più interessanti avvengono nel cervello. Trasformare una mente bambina in una adulta richiede infatti un complesso e lungo rimaneggiamento delle connessioni fra le cellule nervose che culmina con la maturazione dei lobi prefrontali, la sede di tutte quelle abilità che possiamo riassumere con la parola “maturità”. L’adolescenza è insomma una seconda opportunità, dopo l’infanzia, per permettere alla mente di imparare tutto quello che c’è da sapere per vivere in società complesse come quelle umane, nelle quali occorre saper gestire moltissimi rapporti sociali e acquisire competenze specializzate. Nel corso degli ultimi decenni, questa fase della vita si è trasformata profondamente perché non si lavora ma si studia, continuando a dipendere dalla famiglia. E soprattutto si è allungata. Da una parte, le migliori condizioni di vita hanno anticipato la maturazione sessuale, soprattutto nelle bambine. Dall’altra, l’aumento degli anni di studio e il posticipo del momento in cui si assumono responsabilità adulte hanno spostato in avanti la maturazione psicosociale. Questo allungamento si porta spesso dietro dei problemi, ma offre anche ai giovani la straordinaria opportunità di sperimentare e di crescere di più, quindi di affrontare poi la vita adulta con una mente molto meglio attrezzata. Gioventù L’inizio dell’età adulta non è solo il momento della maggiore forma fisica e, per molti aspetti, della maggiore acutezza mentale, ma svolge anche un ruolo biologico fondamentale perché è il momento in cui si sceglie un partner e si mettono al mondo dei figli. L’impronta della nostra eredità genetica sui comportamenti legati alla scelta di un partner sessuale, plasmata per innumerevoli generazioni dalla selezione naturale allo scopo di assicurarci a tutti i costi la discendenza più numerosa, è molto forte. Per questo motivo, tuttavia, la gioventù è anche l’età della vita che con la modernità è cambiata di meno. Negli ultimi anni, studi effettuati in società molto diverse di ogni parte del mondo hanno infatti rivelato che tutti gli uomini, come tutte le donne, condividono molte delle stesse preferenze: quelle che, almeno nel corso della nostra storia evolutiva, ci hanno consentito di trovare partner fertili, dotati di buoni geni e disposti a prendersi cura dei piccoli. Nessuno di noi naturalmente se ne rende conto, ma nei rapporti con l’altro sesso il primo istinto è in genere quello di seguirle. Gli uomini, ad esempio, tendono a preferire le donne più giovani perché più fertili. E le donne, gli uomini disposti a dedicare le loro risorse ai loro figli. Nonostante siano già piuttosto variegate le possibilità offerte dalla nostra eredità genetica, e infinite le variazioni che la cultura vi ha costruito sopra, possiamo infatti riconoscerci benissimo nei ritratti che dell’amore hanno creato artisti e poeti di ogni tempo. Maturità In passato, l’inizio della quarta decade della vita è sempre stata segnata dall’inizio del deterioramento fisico per la maggior parte degli uomini e delle donne, tanto che un secolo fa l’età media non superava i quarant’anni. Oggi, invece, si arriva all’età in cui i meccanismi naturali di riparazione dell’organismo cominciano a funzionare peggio di prima in condizioni molto migliori, e la maturità è vissuta da un numero sempre più grande di persone quasi come un prolungamento della gioventù. Un quasi-vecchio di qualche generazione fa, insomma, può essere oggi un quasi-giovane. Il merito è del miglioramento delle condizioni di vita: meno malattie, un ambiente più sano, un’alimentazione migliore e lavori molto meno gravosi rispetto al passato. Non tutti, però, ne approfittano nella stessa misura. Questa è anzi l’età in cui i destini delle persone cominciano a dividersi, per due motivi. Il primo riguarda le singole persone, e riguarda lo stile di vita. Il fumo, un’alimentazione sbagliata e una vita troppo sedentaria possono moltiplicare ad esempio il rischio di malattie cardiovascolari, che nei paesi sviluppati sono diventati la prima causa di morte. Una causa, quindi, in larga misura evitabile. Il secondo riguarda invece la società. Le diseguaglianze sociali si sono infatti rivelate un determinante insospettato ma fondamentale della salute, poiché ci possono rendere più o meno vulnerabili alle cause di malattia. La possibilità di mettere davvero a frutto l’età in cui l’esperienza si somma all’energia è insomma nelle nostre mani. Vecchiaia L’età della vita che più è cambiata nel corso degli ultimi cento anni è forse l’ultima. La lunghezza media della vita è raddoppiata, regalando a ciascuno di noi una vita in più, per così dire. Sempre più persone, infatti, raggiungono età alle quali un tempo arrivavano solo pochi fortunati. E ci arrivano in condizioni fisiche nettamente migliori: la vita attiva di un anziano di oggi sarebbe irriconoscibile per una persona del passato. Gli studi più recenti sull’invecchiamento ci hanno rivelato che nonostante con il procedere degli anni ogni parte dell’organismo accumuli sempre più danni nelle sue cellule, e quindi tenda a fornire prestazioni via via peggiori, non esiste un programma biologico per l’invecchiamento, e il nostro organismo conserva sempre delle capacità di recupero. Migliori sono quindi le condizioni nelle quali si arriva alla terza età, e migliore è lo stile di vita, più in salute verrà vissuta l’ultima parte della vita. Anche il cervello invecchia, ma non è detto che per questo funzioni peggio di prima. Una vita ricca di stimoli intellettuali, sociali e affettivi consente infatti alla mente di immagazzinare soluzioni, che lo aiuteranno a risolvere problemi simili più facilmente che in passato. Ogni tipo di problema: nell’arte, nella scienza, nella politica, nella gestione aziendale, nei rapporti fra le persone. Non a caso si dice che la cultura è ciò che rimane dopo aver dimenticato quello che abbiamo imparato. E che vecchiaia è sinonimo di saggezza. Anche per questo si vive in età avanzata di ciò che è stato accumulato nella prima parte della vita. ARTE EVAN BADEN GUY BEN-NER MARTIN CREED HANS-PETER FELDMANN STEFANIA GALEGATI SHINES ANISH KAPOOR MARCELLO MALOBERTI RYAN McGINLEY OTTONELLA MOCELLIN e NICOLA PELLEGRINI GABRIEL OROZCO ADRIAN PACI JOHN PILSON CINDY SHERMAN FRANCES STARK MIWA YANAGI Hans-Peter Feldmann 100 Years, 2001 veduta dell’installazione Detail: Werner, 57 years Silver print, cm 40 x 30 (senza cornice) Collezione Declerck, Belgio Courtesy galleria Massimo Minini, Brescia Hans-Peter Feldmann Dalla fine degli anni Sessanta, Hans-Peter Feldmann (Hilden, Germania, 1941; vive a Düsseldorf) colleziona immagini di ogni genere, realizzando collages e raccogliendo fotografie, ritagli di giornale, cartoline – tutte sullo stesso tema – in piccoli libri o opuscoli con copertine di cartone e compensato. Tutta l’opera dell’artista è caratterizzata da un lavoro di archiviazione e catalogazione, grazie al quale Feldmann documenta tutti gli aspetti della vita quotidiana, con un’attenzione a ciò che differenzia i singoli elementi all’interno di una stessa categoria. 100 Years, esposto per la prima volta al PS1 di New York nel 2004, è un monumentale ritratto delle età della vita umana. Ognuno dei 101 scatti fotografici che compongono la serie ritrae una persona (un amico, un conoscente o un membro della famiglia dell’artista), di età com- presa tra gli 8 mesi e i 100 anni. Ogni foto si fa racconto in diretta di una tappa della vita, frammento di una storia individuale ma, al tempo stesso, parte di un’esperienza collettiva. Feldmann si confronta e costringe a confrontarsi con il passare del tempo, mostrandoci come siamo stati, come siamo e come potremmo essere. Ispirandosi alle istantanee di tipo amatoriale, l’artista ritrae i suoi soggetti nella loro quotidianità, raccontando lo svolgersi della vita in tutte le sue forme e i suoi luoghi. La semplicità delle singole immagini riporta l’attenzione sul concetto della serie, attraverso cui l’artista ci mette davanti al percorso della vita. Nel suo proporci una panoramica delle diverse età dell’uomo, l’opera di Feldmann si fa così ideale introduzione al percorso suggerito in questa mostra. GABRIEL OROZCO Poliedrico, giocoso, ironico, il lavoro di Gabriel Orozco (Jalapa, Veracruz, Messico, 1962; vive a New York, Parigi e Città del Messico) si caratterizza per la rielaborazione di oggetti trovati, reinterpretati dall’artista in forme sempre diverse. Costante della sua ricerca è la presentazione di oggetti tratti dalla vita quotidiana e ben riconoscibili, che hanno subìto però un processo di alterazione; attraverso questi, l’artista invita a guardare con altri occhi e secondo altre prospettive ciò che più ci è familiare. Tra le sue opere più celebri vi sono la DS (1993), una Citröen di colore argento che l’artista ha diviso in tre parti e poi ricomposto senza quella centrale, e Carambole with Pendulum (1996), tavolo da biliardo ovale e senza buche con la palla da colpire che ondeggia sospesa ad un filo invisibile. Orozco lavora molto anche con la fotografia, cogliendo situazioni insolite o presentando oggetti secondo inediti punti di vista; immagini che, nella loro semplicità, si rivelano sorprendenti e suggestive. La isla de Simon del 2005 fa parte di questa serie di lavori; ciò che a primo impatto può sembrare un uovo immerso nell’acqua è in realtà il ventre gravido della moglie dell’artista, in attesa del figlio Simon. Il senso di sospensione suggerito dal galleggiamento si fa metafora della transizione dalla protezione del corpo materno all’imminente venuta al mondo, passaggio che l’artista racconta in un’immagine ambigua, poetica e fortemente evocativa. Gabriel Orozco La isla de Simon, 2005 C-print a colori, cm 40.6 x 50.8. Edizione di 6. Courtesy Marian Goodman Gallery, New York Anish Kapoor Esponente di spicco della New British Sculpture e protagonista indiscusso della scena artistica contemporanea, Anish Kapoor (Bombay, 1954; vive a Londra) crea, attraverso i suoi lavori, intensi dialoghi tra forma e spazio, sperimentando materiali sempre diversi: pigmenti, arenaria, marmo di Carrara, gomma, cera, con una fascinazione particolare per le superfici riflettenti, come l’acciaio, le resine, gli specchi. Sin dalle prime opere l’artista rivolge la sua ricerca alla visualizzazione di polarità fisiche: pieno e vuoto, interno ed esterno, tangibile e immateriale attraverso l’elaborazione di forme che sono insieme astratte e organiche. Temi come la sessualità, la dicotomia maschile-femminile, la spiritualità, il rapporto tra la cultura orientale e quella occidentale, sono alla base di tutta la sua produzione, che comprende opere monumentali - così imponenti da risucchiare quasi lo spettatore al loro interno - ed altre dalle dimensioni contenute dove la vertigine provata da chi le osserva è più mentale che fisica. Sculture che spesso presentano un’apertura, una fenditura, una cavità: Kapoor, attraverso la materia, esalta il valore del vuoto, dell’infinito, del mistero e della trascendenza. Untitled del 2001 consiste in un cubo massiccio di materiale plastico trasparente con al suo interno una bolla d’aria, massa informe che allude ad uno stato embrionale, a una possibilità di vita che modifica, nel suo farsi forma, l’inerzia del materiale. Come per altri lavori, Kapoor insiste qui sulla potenzialità degli oggetti di diventare qualcos’altro, mettendo in atto ancora una volta il dialogo tra pieno e vuoto. Anish Kapoor Untitled, 2001 Perspex, cm 46x46x46. Collezione privata MARTIN CREED Vincitore del prestigioso Turner Prize nel 2001, Martin Creed (Wakefield, 1968; vive a Londra) è tra gli artisti più noti della scena britannica e internazionale. Il suo lavoro si caratterizza per una forte ascendenza concettuale, declinata però con un’attenzione alla forma e attraversata da una sottile vena ironica. Altra costante della ricerca di Creed è il processo di riduzione ad elementi primari, che si riscontra sia nelle tele e nei wall-drawings, sia nelle installazioni, sia nelle scritte al neon, parole e frasi che, nella loro immediatezza, suggeriscono molteplici rimandi. Leggerezza, attenzione alle forme e ai colori, studio delle proporzioni e delle interazioni spaziali sono tutti elementi che si ritrovano anche nel lavoro Balls, presentato per la prima volta nel 2004 e poi riproposto in varie combinazioni sempre in rapporto al luogo espositivo. Ogni palla che compone l’installazione è diversa dalle altre, per dimensioni, peso o colore, e rimanda ad una diversa funzione. L’aspetto ludico dell’opera è rinsaldato dalla possibilità, per lo spettatore, di interagire fisicamente con le palle, cambiando in continuazione il loro assetto ed esplorando così le differenti relazioni che vengono a crearsi tra queste e lo spazio circostante. La leggerezza con la quale Creed invita ad esperire l’opera ci riporta ad una condizione infantile, dove il gioco diventa lo strumento attraverso il quale scoprire i rapporti tra le cose e il loro nesso con la realtà che viviamo. Martin Creed Work No. 370. Balls, 2004 Palle di diverse tipologie, dimensione complessiva variabile Courtesy l’artista e Hauser & Wirth, London Photo: Hugo Glendinning Guy Ben-Ner Sin dall’inizio degli anni Novanta Guy Ben-Ner (Ramat Gan, Israele, 1969; vive a Tel Aviv) sceglie il video come proprio mezzo espressivo, riprendendo se stesso e membri della sua famiglia nell’intimità dell’abitazione domestica. Il suo percorso artistico lo ha portato nel 2005 a rappresentare Israele alla Biennale di Venezia. Ad ispirare l’artista è il cinema d’autore, in particolare quello muto, di cui Ben-Ner rielabora l’impostazione narrativa classica per metterla in rapporto alla propria ricerca sulle relazioni umane e i rapporti familiari. In Wild Boy (2004) l’artista riadatta il film di François Truffaut L’enfant sauvage del 1970, a sua volta tratto dalla storia vera di un ragazzo selvaggio, trovato solo nella campagna francese alla fine del XVIII secolo. Nel film di Truffaut, il regista stesso interpreta la parte di un giovane medico cui spetta il compito di insegnare al ragazzo le norme di comportamento civile. Nel video di Ben-Ner, la storia originale è riportata all’interno delle pareti domestiche, dove l’artista interpreta la parte del padre che educa il figlio alla vita. Tra esperimenti e lezioni, alcune chiaramente ispirate al film di Truffaut, il rapporto genitore-figlio è raccontato alla luce delle trasformazioni della società attuale; il padre assume infatti un ruolo importante quanto quello materno nelle fasi di educazione, mostrandosi coinvolto e partecipe ed accompagnando il figlio alla scoperta delle difficoltà e delle gioie della vita. Guy Ben-Ner, Wild Boy, 2004 Video monocanale, 17 min. Stills da video Courtesy pinksummer, Genova; postmasters, New York; Konrad Fischer, Düsseldorf e l’artista Marcello Maloberti Marcello Maloberti (Codogno, Lodi, 1966; vive a Milano) lavora muovendosi tra diversi piani espressivi e utilizzando diversi linguaggi, dalla fotografia al video, dalla performance agli interventi pubblici. Caratteristica della sua ricerca è l’indagine sugli aspetti apparentemente più banali della quotidianità che si caricano di significati altri, in relazione al contesto in cui vengono portati alla luce. Ogni elemento si fa così pretesto per uno sguardo sulla realtà attuale, scandagliata in tutte le sue sfaccettature. In occasione di questa mostra, e solo nella sede della Triennale di Milano, Maloberti presenta una performance che riprende quella già realizzata nel 2003 al Museion di Bolzano dal titolo Un certo presentimento. Un adolescente cinese, seduto a terra, ritaglia da libri e riviste patinate immagini di montagne, abbandonandole man mano al suolo. I frammenti invadono lo spazio, il passaggio del pubblico muove in continuazione i ritagli dando vita a configurazioni paesaggistiche sempre diverse. L’azione pone così l’accento sul contrasto tra il fluire lentissimo dei tempi geologici e la brevità della vita umana, in particolare in una fase cruciale e densa di trasformazioni come appunto l’adolescenza. Allo stesso tempo, il ritagliare immagini della realtà porta simbolicamente il ragazzo ad appropriarsene; l’azione ludica diviene il tramite attraverso cui il giovane disegna il proprio mondo, destinato a trasformarsi in continuazione al passaggio di nuovi visitatori. Marcello Maloberti Un certo presentimento, 2005 performance, Collection Lambert, Avignon. Lambda print, cm 100 x 120 Courtesy Collection Lambert, Avignon e Galleria Raffaella Cortese, Milano Ryan McGinley Tom (Queen Ann’s Lace), 2011 C-print, cm 182.9 x 121.9 (senza cornice) cm 186.5 x 125.5 cm (con cornice) Jessica (TLC), 2011 C-print, cm 72 x 110 (senza cornice) cm 74 x 114 (con cornice) Courtesy l’artista e Alison Jacques Gallery, London Ryan McGinley Tra i fotografi più noti della scena newyorkese, Ryan McGinley (Ramsey, Stati Uniti, 1977; vive a New York) ha esordito giovanissimo, ottenendo la prima personale al Whitney Museum all’età di soli 26 anni. Sin dagli inizi della sua carriera McGinley rivolge l’attenzione al popolo giovanile, fotografando amici (musicisti, artisti, skateboarders) con la macchina polaroid, e costellando con queste immagini le pareti del suo appartamento. Se i primi lavori sono scatti rubati in contesti urbani, che documentano il dinamismo e gli eccessi della vita metropolitana, nel corso degli anni McGinley costruisce sempre più le sue immagini, firmando anche prestigiose campagne pubblicitarie (Wrangler, Levi’s e Puma). Tratto distintivo della sua ricerca è la scelta dei soggetti, ragazzi e ragazze in età adolescenziale che ostentano con naturalezza la propria nudità davanti all’obiettivo fotografico. Spesso le ambientazioni scelte sono paesaggi incontaminati, dove i giovani sembrano vivere momenti d’estasi a contatto con l’immensità della natura. Altri scatti raccontano invece i rituali quotidiani della cultura giovanile contemporanea, dove la voglia di ribellarsi, trasgredire e mettersi alla prova fa da protagonista. Nei ritratti in primo piano, lo sguardo dei soggetti giovanissimi trasmette il senso di stupore e straniamento profondamente legato ad uno stadio della vita dove è grande l’incertezza, ma al tempo stesso tutto è da scoprire. McGinley documenta così, con immagini vitali e affascinanti, l’ottimismo spensierato della giovane età. Ryan McGinley Amanda (Hawk), 2011 C-print, cm 182.9 x 121.9 (senza cornice) cm 186.5 x 125.5 cm (con cornice) Courtesy l’artista e Alison Jacques Gallery, London Evan Baden Evan Baden The Illuminati: • Lila with Nintendo DS, 2007 • Neil with PC, 2007 • Katie with LG Chocolate, 2007 • Alicia with IPhone, 2007 (pagina a destra) C-print su plexiglass, cm 101 x 76 circa Courtesy l’artista Giovane talento già insignito di importanti riconoscimenti, Evan Baden (Arabia Saudita, 1985; vive a St. Paul, MN, USA) ha scelto la fotografia per guardare ai fenomeni della contemporaneità, e in particolare al rapporto con le tecnologie digitali. Lo stesso artista si definisce appartenente alla generazione dei cosiddetti “nativi digitali”, bambini e ragazzi cresciuti navigando su internet e utilizzando i più sofisticati apparecchi elettronici. Tra le prime serie fotografiche dell’artista vi è Technically intimate, che guarda al fenomeno di esibirsi utilizzando la rete; giovani ragazze si riprendono, nell’intimità della loro stanza, atteggiate in pose sessuali, ammiccando alla macchina fotografica come fossero su un set di moda. La serie The Illuminati insiste invece sul rapporto che gli adolescenti intrattengono con i dispositivi digitali (computer portatili, telefonini, Ipod, Playstation, Smartphone); le fotografie di Baden li ritraggono illuminati solo dai display, intenti a giocare, scrivere, comunicare con i loro amici connessi. Il loro sguardo ci è negato, così come ciò che accade sugli schermi dei loro apparecchi; le espressioni non lasciano trapelare emozioni e sentimenti, anestetizzati nel rapporto con l’interfaccia tecnologica. L’artista utilizza inoltre come unica fonte luminosa proprio quella fredda e cianotica degli schermi, giocando sui contrasti e citando gli effetti chiaroscurali della grande pittura seicentesca. L’illuminazione così studiata contribuisce alla sensazione di immergersi in un mondo digitale, dove le relazioni interpersonali avvengono solo sul piano virtuale. Ottonella Mocellin - Nicola Pellegrini Quella sensazione di eterna felicità che si trova alla fine delle favole senza fine, 2005 Stampa lambda, cm 100 x 135 Courtesy Galleria Lia Rumma, Napoli/Milano Something in the way, 2002 2 stampe lambda sotto perspex, cm 98 x 75 ognuna Courtesy Galleria Lia Rumma, Napoli/Milano Ottonella Mocellin Nicola Pellegrini Ottonella Mocellin e Nicola Pellegrini (Milano, 1966 e 1962; vivono a Milano) lavorano dagli anni Ottanta sia individualmente che a progetti a quattro mani. La loro ricerca si caratterizza per un’attenzione costante alle dinamiche sociali e relazionali, analizzate in diversi contesti e attraverso vari mezzi espressivi (fotografia, video, installazione, performance). Il testo, in versione scritta o parlata, accompagna molti dei loro lavori, facendosi ulteriore strumento per raccontare storie ed esperienze personali. Something in the way (2002), Quella sensazione di eterna felicità che si trova alla fine delle favole senza fine (2005) con E adesso che sei arrivata tu la nostra prospettiva si è nuovamente capovolta (2010) sono state presentate nel 2010 alla Fondazione Merz di Torino nell’ambito del progetto Messico famigliare (in un gioco di parole che richiama il libro di Natalia Ginzburg, Lessico famigliare). Qui i due artisti si confrontano con un episodio della loro vita privata, l’adozione della piccola Rosa Dao, che si fa punto di partenza per un’indagine sulla famiglia “mista” e sul concetto di diversità. Le fotografie raccontano il passaggio ideale dalla vita di coppia (con i due artisti stesi sul prato a leggere lo stesso libro) alla costituzione del nucleo familiare, con l’arrivo di una bambina che “capovolge la prospettiva”, rivoluzionando le precedenti abitudini. Il raggiungimento di un equilibrio e l’intensità emotiva del cambiamento rafforzano i legami affettivi, facendosi occasione per una riflessione sulle relazioni interne al contesto familiare. Ottonella Mocellin - Nicola Pellegrini E adesso che sei arrivata tu la nostra prospettiva si è nuovamente capovolta, 2010 Stampa lambda, cm 100 x 70. Courtesy Galleria Lia Rumma, Napoli/Milano Frances Stark Frances Stark (Newport Beach, 1967; vive a Los Angeles) ha fatto del rapporto tra parola e immagine il tema portante della sua ricerca. Le sue opere (disegni, dipinti, video, sculture, installazioni ambientali), spesso costellate di riferimenti letterari, raccontano la tensione tra l’esperienza emotiva personale e le relazioni con l’esterno, motivo per cui la stessa pratica artistica sembra farsi strumento per una confessione a sfondo terapeutico. My Best Thing, presentato dall’artista in occasione dell’ultima Biennale di Venezia all’interno della mostra internazionale ILLUMInazioni, diviene esempio emblematico dell’operare di Stark; il video racconta la relazione tra due avatar, le cui azioni e i cui dialoghi sono costruiti sulla base della storia d’amore nata, in via esclusivamente virtuale, tra l’artista e un regista italiano, Marcello, conosciuto in una video chat room. Prende vita così una soap opera erotica, dove le conversazioni tra i due personaggi sono quasi esclusivamente a sfondo sessuale; le voci originali dell’artista e di Marcello (registrate dalla Stark durante i loro incontri virtuali) sono computerizzate, rendendo il dialogo tra i due pupazzetti ancor più surreale. L’opera invita così a riflettere sulla scelta del partner e sulla natura dei rapporti sentimentali e sessuali nell’era della tecnologia e della comunicazione virtuale; pur ponendoci di fronte ad una simulazione, My Best Thing si fa specchio delle nuove strade apertesi nel campo delle relazioni interpersonali e affettive. Frances Stark My Best Thing, 2011 Video digitale su flash-drive, 1h40 min. circa Courtesy l’artista, Marc Foxx, Los Angeles, Gavin Brown’s Enterprise, New York, Greengrassi, London e Daniel Buchholz, Berlin. Adrian Paci Attraverso l’utilizzo di diversi mezzi espressivi (pittura, scultura, fotografia, video e istallazione), Adrian Paci (Shkoder, Albania, 1969; vive a Milano) lavora sulla memoria e sullo sradicamento, sull’identità individuale e collettiva. Molte delle sue opere sono dedicate alla sua terra d’origine, l’Albania; attraverso i propri ricordi personali, l’artista dà vita a storie che divengono simbolo di una condizione esistenziale generalizzata, dove non esistono più confini geografici o razziali. Il tema delle radici si ritrova anche nei lavori ambientati in interni privati, dove il processo di definizione della propria identità passa attraverso l’appartenenza al proprio contesto familiare. Il video Turn on, girato nella città natale di Paci, racconta il rito giornaliero di una ventina di uomini, tutti disoccupati, che siedono sui gradini in una piazza della città e offrono silenziosamente la propria forza lavoro a chi vorrà utilizzarla. La telecamera indugia sullo sguardo di ognuno di loro, con il viso che si fa espressione delle sofferenze subite ma anche di una energia a lungo custodita e pronta ad uscire allo scoperto. Ognuno degli uomini accende poi un generatore elettrico al quale è collegata una lampadina; la scena finale, allargata a tutto campo, mostra una costellazione di luci che corrisponde ad altrettanta energia umana, pronta a concretizzarsi nella vita reale attraverso il lavoro. Un’immagine poetica che allude al potenziale inespresso e alle infinità possibilità che esso ha di affermarsi. Adrian Paci Turn on, 2004 Film su DVD, 3’33’’ Courtesy l’artista e galleria Kaufmann Repetto, Milano Cindy Sherman Cindy Sherman (Glen Ridge, USA, 1954; vive a New York) è tra le figure più autorevoli del panorama artistico contemporaneo. Dalla metà degli anni Settanta lavora sul tema dell’identità, interpretando diversi ruoli e costruendo ambientazioni specifiche. La serie fotografica che ha sancito il successo della sua carriera è Untitled Film Stills (1977-1980), 69 fotografie in bianco e nero di piccolo formato che evocano l’atmosfera dei film noir anni Cinquanta con la Sherman a fare da attrice principale, incarnando lo stereotipo femminile nel contesto cinematografico americano. Oltre ad apparire come modella, l’artista lavora sui suoi set come regista, scenografa, costumista, truccatrice, contribuendo in prima persona alle sue trasformazioni e seguendo tutte le fasi che portano alla realizzazione del lavoro. In questo ciclo del 2008 la Sherman rappresenta e interpreta donne agiate di mezza età, all’apice del potere sociale ma già soggette al declino fisico. Lo sguardo impietoso della macchina fotografica ne mette a nudo ogni difetto ma, al tempo stesso, ne celebra lo status sociale. Gli abiti eleganti, i gioielli, le acconciature ricercate, nonché le ambientazioni, suggeriscono una posizione di potere, un benessere economico e una condizione privilegiata. Nonostante ciò, l’esasperazione dell’artificialità che sembra regnare in questi scatti riporta l’attenzione sull’impossibilità di fermare il tempo che passa. L’indagine sull’identità femminile, in questo caso su una specifica tipologia di donne, guarda alla doppia valenza insita nell’età matura: da una parte il concretizzarsi delle proprie aspettative, dall’altra l’avvicinarsi della vecchiaia. Cindy Sherman Untitled #465, 2008 Fotografia a colori, cm 162 x 145,5 Courtesy Sammlung Goetz, München Miwa Yanagi My Grandmothers: Mika, 2001 Stampa digitale su dibond, cm 150 x 180. Courtesy FaMa Gallery, Verona Miwa Yanagi La contemporaneità giapponese e l’identità femminile sono i temi portanti della ricerca di Miwa Yanagi (Kobe City, 1967; vive a Kyoto), indagati attraverso l’uso del medium fotografico e video. La raffigurazione di soggetti femminili, catturati nei contesti più diversi, si fa motivo di una riflessione sul ruolo della donna nella società moderna in rapporto alle tradizioni del Giappone ma anche all’influenza dei modelli occidentali. Lo sguardo è dunque rivolto alla percezione che la società ha della donna e quella che la donna ha di se stessa in relazione alle trasformazioni culturali e sociali. Tra le sue serie fotografiche più famose vi sono Elevator Girls e Fairy Tale, dove il confronto tra giovinezza e vecchiaia diviene occasione per un’indagine sul rapporto tra generazioni diverse. Lo stesso tema è alla base anche della serie My Grandmo- Miwa Yanagi My Grandmothers: Ai, 2003 Stampa digitale su dibond, cm 180 x 240. Collezione privata, Verona. Courtesy FaMa Gallery, Verona thers; qui Yanagi ha chiesto ad alcune modelle giovanissime di immaginarsi a distanza di cinquant’anni. Sulla base delle loro aspettative, l’artista ha costruito dei set nei quali le stesse modelle compaiono come donne anziane, invecchiate grazie ad un intenso lavoro di make-up e di post-produzione. Ogni foto è accompagnata da un testo ispirato o tratto dalle interviste di partenza, cui spetta il compito di illustrare la scena. Dalle suggestioni più ironiche a quelle più fantasiose, l’artista restituisce un quadro dove le finte vecchiette vivono una seconda giovinezza, in compagnia o in solitudine, in piena attività o in meditazione. L’utilizzo di una forte luminosità e di accesi contrasti contribuisce alla sensazione di trovarsi in una dimensione onirica, dove i singoli racconti appaiono come sogni estemporanei. Miwa Yanagi My Grandmothers: Hiroko, 2001 Stampa cromogenica su plexiglas, cm 120 x 144 Edizione 6/7 Courtesy FaMa Gallery, Verona Frolic and Detour, 2010 Frolic and Detour, 2010 John Pilson Frolic and Detour, 2010 Video digitale (a colori, senza sonoro), 13 min. Courtesy Nicole Klagsbrun Gallery, New York John Pilson Attraverso i suoi video, John Pilson (New York, 1968; vive a New York) esplora la condizione alienante del lavoro moderno, rivolgendo la sua attenzione in particolar modo ai grandi uffici americani. Monotonia, ripetizione, ritualità dei gesti caratterizzano i protagonisti dei suoi lavori, ripresi nell’atto di svolgere le più comuni azioni quotidiane. Lo sguardo alla dimensione lavorativa si fa pretesto per un’indagine sui rapporti sociali, spesso limitati al minimo in funzione del più alto rendimento lavorativo possibile. Frolic and Detour del 2010 si presenta in linea con altri lavori che condividono la stessa attenzione al contesto di lavoro, quali Mr Pickup e Sunday Scenario. Ad alcune immagini che vedono uomini e donne impegnati nel proprio ufficio, si alterna la storia frammentata di un uomo di età avanzata che svolge il suo rituale quotidiano (dalla sveglia, alla colazione, all’arrivo in ufficio) accompagnato dalla personificazione della morte che lo segue nei suoi spostamenti. Nonostante tale presenza inquietante, il protagonista del video si mostra attivo e padrone dei suoi movimenti, incurante di quello che potrebbe essere un presagio nefasto. L’uomo ostenta così il suo attivismo e la sua sicurezza, rafforzata dall’essere ormai all’apice della carriera e dall’avere una vita sentimentale soddisfacente. L’avanzare degli anni non sembra scalfirlo, al punto da ignorare la morte che batte la mano sulla sua spalla. Stefania Galegati Shines Pittura, fotografia, video, installazione sono i media che Stefania Galegati Shines (Bagnacavallo, Ravenna, 1973; vive a Palermo) utilizza di volta in volta per la sua ricerca. Avvalendosi di diverse modalità espressive, l’artista si interroga sul rapporto ambiguo tra la realtà e la sua rappresentazione, rifacendosi tanto a cliché cinematografici quanto ad episodi reali. Il tempo diviene elemento centrale, modulato in modo da suggerire diversi ritmi narrativi e, in alcuni casi, parte integrante della stessa opera, come nella storia di Elda e Garibaldi su cui è costruito il film Passeggiata in paradiso, girato in pellicola 35 mm, nel quale il racconto di una vicenda privata si intreccia con la storia dei moti partigiani del nostro Paese. Il racconto prende avvio nell’intimità delle pareti domestiche, dove una donna anziana, Elda, assiste all’intervista ad un ex-partigiano, Garibaldi, con cui ha condiviso gli anni della guerra e della Resistenza. Elda si mette dunque sulle tracce dell’uomo, arrivando nel piccolo paese dove vive; i due, ritrovatisi a distanza di più di cinquant’anni, riscoprono i propri sentimenti l’uno per l’altra, ballando insieme e poi finendo con il fare l’amore. Galegati racconta un incontro d’amore tra due persone della cui storia, dei cui anni passati senza vedersi, non sappiamo nulla; nonostante ciò, la narrazione lascia intuire un’intesa e una tensione in grado di preservarsi nel tempo, che si esplicitano nel rapporto fisico. L’artista sembra così affermare che, a dispetto dell’età e degli avvenimenti della vita, non è mai tardi per trovare (o riscoprire) il vero amore e per viverlo intensamente. Stefania Galegati Shines Passeggiata in paradiso, 2002 Film 35 mm, 12 min. con Franca Maresa e Leo Pantaleo Courtesy Francesco Pantaleone Arte Contemporanea, Palermo; Pinksummer, Genova Stampa Selegrafica 80 Finito di stampare gennaio 2012