platania COLLEZIONE DI LAME
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platania COLLEZIONE DI LAME
platania COLLEZIONE DI LAME Antologia degli scritti apparsi su www.lamerotanti.com (maggio 2007 – maggio 2008) 1 2 Il presente volume raccoglie una selezione degli scritti che platania ha firmato su Lame Rotanti (www.lamerotanti.com) tra il maggio del 2007 e il maggio del 2008, ovvero nel suo primo anno di collaborazione a questo blog. Lame Rotanti nasce nel 2004 su iniziativa di Fabrizio Venerandi. Nel corso degli anni vi hanno partecipato diversi autori, tra cui Antonio Koch, Simone Bedetti, Federico Blò, Paul Demeriano e Mauro Mazzetti. 3 4 * (asterisco) 5 6 Per tre giorni abbiamo vissuto di niente, come pesci in un acquario, senza neanche alzare le serrande. La mattina del terzo giorno è salito da noi Righetti con una busta di latte fresco e un pezzo di dolce preparato dalla moglie. «Questo ve lo manda Franca – ha detto Righetti quasi scusandosi – è da lunedì che non vi abbiamo visto uscire di casa. Se vi serve qualcosa…». La frase è rimasta sospesa per qualche secondo, dandomi il tempo di pensare al serbatoio elastico ed inerte dei polmoni di Righetti, coppia di sacchi che si gonfiano e si sgonfiano sotto il maglioncino grigio da diciannove euro e cinquanta, comprato ai magazzini Oviesse dove anche io mi rifornisco abitualmente. Poi mi sono concentrato sulla trachea di Righetti, tubo di carico e scarico sovrastato dalla saracinesca della laringe. Ho indugiato a lungo nel figurarmi la struttura di quest’organo: l’anello della cartilagine cricoide nel cui castone trova sede lo scudo rinascimentale della tiroide. Quindi la cerniera dei due corni inferiori e le due leve dei corni superiori. Infine le cartilagini aritenoidi nelle quali si innestano i labbri prismatici delle corde vocali di Righetti. Ho dunque cercato di visualizzare la massa d’aria salita dal mantice dei polmoni verso la cavità orale. Il passaggio nella cassa di risonanza della laringe dove i gruppi di armoniche acquistano per la prima volta robustezza. E la catastrofe. Lo schianto contro il basso velo palatino che dirotta il flusso vocale verso le anguste cavità del naso, il sistema di risonanza che impazzisce, la frequenza delle formanti che si scompagina, la nascita imprevista di nuovi gruppi di armoniche. Ed infine l’emissione della sgradevole voce nasale di Righetti. Alla domanda incompiuta ho risposto «No», facendo percorrere alla mia voce un percorso simile a quello contemplato poco prima, pur dedicando ad esso un’attenzione pressoché nulla, pronunciando così la prima parola dopo quasi tre giorni. Ho chiuso la porta e sono stato tentato di tornare in camera da letto per chiedere a Cleo cosa avesse sognato. Da tre giorni non tenevamo traccia delle sue esperienze notturne. Non era mai accaduto che lasciassimo passare così tanto tempo, prima. Sono passato in cucina per sbarazzarmi del tentativo di colazione ordito dalla moglie di Righetti e poi ho deviato per il soggiorno. Ho fatto scorrere il dito indice della mia mano destra lungo i dorsi delle copertine dei dischi, come la tacca triangolare che sbatte contro i pioli delle ruote colorate nei quiz televisivi. Mi sono fermato più o meno a caso e ho estratto un disco. Ho spalancato la copertina a due risvolti, ho tirato fuori la busta interna con i testi ed infine ho avuto tra le mani il vinile. L’ho adagiato sul piatto dello stereo, ho messo in azione il meccanismo del braccio. La cinghia ha iniziato a girare, lenta e perfetta, come una creatura ridestatasi dopo un sortilegio di ipnosi. La puntina è atterrata sul vinile con programmata delicatezza e si è assestata nel binario del microsolco. Spinta lungo le asperità trasversali del solco la puntina ha proceduto scandagliandone le deformazioni. Diversi anni prima, gli artisti muniti di microfono avevano affidato l’espressione del loro talento ad un modulatore elettrico. Un bulino, collegato ad esso, aveva trasformato suoni e rumori in minuscoli graffi decifrabili incisi su una superficie di lacca. Un bagno in una soluzione elettrolitica aveva prodotto la matrice di nichel. Quindi era stata realizzata la matrice definitiva da cui erano nate le migliaia di copie da distribuire. Una di queste stava girando sul piatto del mio impianto stereo. Ho immaginato di farmi piccolo come un granello di polvere e di osservare da vicino il disco. Ho contemplato il nero sterminato paesaggio di cloruro di polivinile, l’aridità chimica delle sue gole, la perfezione dei suoi dislivelli. Ho ammirato atterrito il mostruoso, gigantesco cuneo della puntina che incedeva nel canyon, la vibrazione trasmessa allo stilo di cristallo, il processo di riconversione elettromagnetica per trasformare in vibrazioni elettriche le oscillazioni meccaniche tracciate da un bulino tanti anni prima in chissà quale studio di registrazione. Seduto sul divano, ho iniziato l’ascolto, come sempre, ad occhi chiusi, per poi aprirli di scatto al primo elemento destante della musica: l’inizio del canto, un colpo di cimbalo, l’intervento di un 7 8 Cominciamo Italia, un giorno qualunque del 1999. nuovo strumento. Piccoli giochi con la meraviglia. Il brano che stavo ascoltando cominciava con un arpeggio di chitarra. Dopo quattro misure entravano contemporaneamente le tastiere, il basso e la batteria. Al termine dell’arpeggio ho spalancato le palpebre e anziché trovarmi di fronte la libreria e la lampada a stelo, come era logico aspettarsi, ho visto Cleo. Era entrata in stanza silenziosamente, mentre io, ad occhi chiusi, ero ancora perso nella geografia del vinile. «Ho sognato Asterisco – mi ha detto – è da tre notti che lo sogno. Credo di avere capito dov’è». Verso macchine lontanissime da noi Italia, un giorno qualunque del 1999 Ho seguito Cleo nel ripostiglio che avevamo adibito a studio. Né a lei né a me è venuto in mente di aprire finalmente le finestre, dopo i tre giorni di smarrimento e silenzio appena trascorsi. Non abbiamo acceso neanche la luce, a dire il vero. Cleo si è seduta alla scrivania e ha fatto partire il computer. Io sono rimasto in piedi accanto a lei. «Chiediamo qualche altro giorno di ferie – ha detto Cleo – non sarà così facile trovare Asterisco». Ho fatto cenno di sì con la testa e sono andato verso il telefono, sempre al buio. Appena ho sollevato il cordless dalla base, il tastierino numerico si è illuminato. Nel frattempo anche il computer si è avviato e tutto nella stanza, Cleo e me compresi, ha riverberato di un gelido bagliore azzurro. Ho comunicato alla segreteria del mio ufficio che non sarei tornato prima del prossimo lunedì. Poi ho passato il telefono a Cleo affinché chiamasse a sua volta. Sono tornato in cucina mentre Cleo ripeteva le mie stesse parole ad un’altra segretaria in un altro ufficio di un’altra azienda della città. Ho preso la busta del latte che mi aveva portato Righetti e l’ho completamente svuotata del suo contenuto. Il latte è scivolato nella vaschetta del lavandino. Per pochi istanti ha disegnato contorni di isole immaginarie e infiorescenze luminose, poi è stato completamente inghiottito dal buco nero dello scarico. Con un coltello ho separato la base della busta di cartone dal resto della confezione in modo da ottenere un piccolo cubo privo 9 della faccia superiore. Ho aperto il terzo cassetto del mobile e l’ho aggiunto ai dieci o dodici cubi di cartone che già avevamo. «Stai preparando la colazione?», ha chiesto Cleo quando mi ha visto tornare nello studio-ripostiglio. «Hai fame?», ho domandato io. Cleo ha fatto una smorfia con la bocca insieme ad una lievissima inclinazione del collo che poteva voler dire “perché no?”. Così sono tornato in cucina e ho messo a bollire un po’ di acqua per il tè. Poi ho afferrato una manciata di biscotti dalla scatola di latta e li ho sistemati in un piattino di carta, troppo piccolo per la quantità che avevo preso. Sono tornato nuovamente nello studio-ripostiglio e ho appoggiato il piattino con i biscotti vicino al mouse. Cleo aveva già aperto quattro o cinque sessioni internet e si stava collegando con i principali motori di ricerca. Seduto vicino a lei, ho chiuso gli occhi e ho cercato di vedere quello che stava accadendo. Gli indirizzi internet digitati da Cleo venivano convertiti in indirizzi di protocollo. Il nostro computer (acquistato a rate e ancora non completamente pagato) iniziava a trasmettere impulsi sulla linea telefonica. Il flusso di informazioni veniva smembrato in minuscoli pacchetti di dati. I pacchetti si sparpagliavano nella grande rete come una banda di teppisti sorpresa dalla polizia. Alcuni pacchetti seguivano gli instradamenti più battuti, altri venivano sparati nell’etere dai satelliti, altri ancora affrontavano il lungo viaggio dentro i cavi sottomarini della dorsale oceanica. Acceleravano, rallentavano, si perdevano, si confondevano insieme a miriadi di altri pacchetti di altri flussi di comunicazioni di altri computer, con tutta probabilità acquistati a rate, come il nostro. I pacchetti si incrociavano, si annusavano, come formiche provenienti da formicai differenti sfregavano le antennine sensorie dei loro byte di intestazione, capivano di quale flusso di comunicazione facevano parte, da dove provenivano, dove stavano andando. Qualche pacchetto, più fortunato di altri, veniva preso da un router collegato direttamente ad un nodo intercontinentale che lo spediva senza troppi problemi verso macchine lontanissime da noi. Altri pacchetti compivano l’estrema esperienza di dissoluzione sul binario morto di un sito non più attivo. Nel giro di pochi secondi eravamo collegati con Google, Virgilio, HotBot, Yahoo, Lycos e altri motori di ricerca. Ho visto la barra in fondo al monitor brulicare di sessioni. 10 Cleo si è girata verso di me, con un sorriso compassionevole. «Hai qualche idea su come cominciare?», mi ha chiesto. «Non so… ho suggerito io – cos’altro accadeva nel tuo sogno?». «Ora te lo racconto». Ci sono delle cose eppure io non riesco a vederle Italia, un giorno qualunque del 1999 In realtà Cleo non sognava. Non aveva mai sognato. Una volta ne parlammo anche con Asterisco il quale ci raccontò di aver letto qualcosa a proposito di una patologia psicologica chiamata alessitimia, ovvero l’incapacità di esprimere le proprie emozioni, l’incapacità di ammettere di provare emozioni. Cleo sostenne che si trattava di una diagnosi eccessiva, ma tra i sintomi dell’alessitimia c’è proprio la rimozione inconsapevole dell’attività onirica. Non ho mai approfondito questo punto. Dopotutto, non ho mai dubitato della sincerità delle emozioni di Cleo. Ma sono anche certo del fatto che Cleo non sogna – o meglio che non ricorda i suoi sogni – e che se vuole raccontarli a qualcuno è costretta ad inventarli. Cleo mi confessò questa sua particolarità dopo diversi mesi che ci eravamo messi insieme, quando era già diventato un rito della nostra quotidianità il racconto mattutino delle sue esperienze oniriche notturne. Ogni mattina, quando era ancora immersa nel viscoso chiaroscuro del dormiveglia, Cleo componeva i suoi sogni. Più tardi, completamente lucida, li rifiniva ed infine me li offriva confezionati come racconti insieme al primo bacio del risveglio. Cleo non aveva mai conosciuto la realtà inafferrabile che viviamo nei sogni, i contorni impastati degli oggetti, l’imprevedibilità nella successione delle scene, la casuale assegnazione di volti ed individui. Però si era documentata. Aveva letto molti libri e ascoltava con estrema attenzione il racconto dei sogni delle persone che conosceva e che aveva conosciuto. Nel corso del tempo era riuscita a costruire dei sogni perfettamente plausibili, dei sogni che, paradossalmente, potevano definirsi sogni reali. Non ho mai chiesto a Cleo il motivo per cui per lei sia così importante aver comunque dei sogni da raccontare, per quanto 11 artificiali. «Io so di sognare mentre dormo – mi ha spiegato un giorno – ma al risveglio non ricordo più nulla. Ci sono delle cose eppure io non riesco a vederle. È come se fossi cieca. È come se per la parte dormiente della mia vita io fossi cieca». Ma c’è dell’altro. Pur sapendo entrambi che si tratta di sogni completamente inventati, io e Cleo cediamo spesso alla debolezza comune a molti: scorgiamo in questi sogni elementi premonitori, li usiamo come chiavi di lettura oscure e preziose per decifrare lo stato della nostra relazione e dei nostri rapporti con il mondo. «Che c’è di male? – ha detto un giorno Cleo – c’è chi si affida anche all’inconscio per sapere di più su se stesso. Io, invece, ho solo il mio io cosciente per studiare la mia vita. Sono in parte cieca, è vero, ma sempre e costantemente lucida». Colui che è sempre da un’altra parte Italia, un giorno qualunque del 1999 Prima di ascoltare il sogno di Cleo ho chiuso tutte le sessioni Internet che avevamo attivato e mi sono disconnesso. Cleo ha obiettato che non era necessario, ma io le ho ricordato la bolletta che avremmo dovuto pagare il prossimo mese. Abbiamo sorseggiato entrambi il tè, poi Cleo ha iniziato a raccontare il sogno che aveva fatto poche ore prima. «Ero sull’autobus. Non c’era molta gente. Io ero seduta sul lato sinistro, all’altezza delle porte centrali. Da quella posizione non potevo vedere il volto dell’autista, ma ero quasi sicura che fossi tu. Ad un certo punto una donna che era seduta dietro di me si è alzata per prepararsi a scendere. In quel momento tu… cioè l’autista ha frenato di colpo e la donna che si era appena alzata ha perso l’equilibrio. Istintivamente l’ho afferrata per non farla cadere, ma il braccio della donna mi si è sbriciolato tra le mani come una fetta biscottata. Io sono rimasta atterrita, ma la donna mi è sembrata più indispettita che altro. Mi ha guardato come volesse dirmi: ‘’potevi stare più attenta…'’. E mentre la donna priva del suo braccio scendeva dall’autobus e io me ne stavo lì senza parole con quelle briciole raccapriccianti tra le mani ho visto Asterisco dentro un negozio, lungo la via. Allora sono scesa anch’io, di corsa. L’autobus 12 non è ripartito subito. Anzi, mi è sembrato di sentire l’autista che mi urlava qualcosa contro, non so se per l’incidente del braccio o se per il fatto che fossi scesa di colpo. Comunque, sono entrata nel negozio e Asterisco non c’era più. Mi sono guardata intorno, cercando meglio, quando mi sono accorta che Asterisco era in un altro negozio dall’altra parte della via. Come aveva fatto a spostarsi da un negozio all’altro così velocemente? Allora sono uscita di corsa per raggiungere il nuovo negozio e lì si è ripetuta la stessa scena. Asterisco non era più lì. Dalla vetrina ho potuto vedere che stava contrattando con un marocchino che vendeva occhiali da sole vicino alla fermata dell’autobus. Raggiungo il lenzuolo del marocchino, ricoperto di lenti colorate, ma Asterisco è di nuovo scomparso. Alzo gli occhi e lo vedo entrare in un altro negozio. E’ impossibile raggiungerlo. È sempre da un’altra parte. E qui il sogno finisce». «Asterisco – ho commentato, quasi parlando solo con me stesso – colui che è sempre da un’altra parte. Mi sembra una buona definizione». Ma era chiaro che la metafora costruita da Cleo alludeva a qualcosa di più preciso: la via piena di luoghi in cui si entrava e si usciva istantaneamente, oltrepassando la fisicità dell’atto, era Internet. Io e Cleo, ormai ne ero certo, eravamo arrivati alla stessa identica conclusione, per quanto assurda potesse sembrarci: Asterisco si era dissolto nella Rete. ASTERISCO – È il tuo lavoro? ATLAS UFO RIMBAUD – Già. ASTERISCO – Io ti ho chiesto cosa fai nella vita e tu mi hai risposto con il tuo lavoro. Non trovi deprimente il fatto di identificare la propria vita con il proprio lavoro? ATLAS UFO RIMBAUD – Boh… Ma, scusa, tu cosa fai nella vita? ASTERISCO – Penso. ATLAS UFO RIMBAUD – Seee. E fai solo quello? ASTERISCO – È sicuramente la cosa che faccio più spesso nel corso della giornata. Mi auguro che tu possa dire altrettanto di te. ATLAS UFO RIMBAUD – Ma come fai a mantenerti? Voglio dire: pagare le bollette, fare la spesa… ASTERISCO – Prendo i soldi da sotto il materasso. ATLAS UFO RIMBAUD – E che farai quando finiranno? ASTERISCO – Non finiranno. ATLAS UFO RIMBAUD – Beato te :-)) ASTERISCO – Sai una cosa? ATLAS UFO RIMBAUD – Cosa? ASTERISCO – Abbiamo appena recitato un pezzo del copione di un film. ATLAS UFO RIMBAUD – Eh? ASTERISCO – Sì, più o meno da “come fai a mantenerti” fino a “beato te”. Abbiamo recitato una parte di “Sesso, bugie e videotapes”. ATLAS UFO RIMBAUD – Non l’ho visto. Metodo della Piattaforma Singola Estratto dal logfile di Yahoo! Chat del ###-###-1999 ore ###:###. Room: Tempo Libero | Chiacchiere varie | ###. Scambio di PM tra User ATLAS UFO RIMBAUD (Dati anagrafici registrati – Nome: Daniele; Cognome: ###; Residenza: ###; Data di nascita: ###-###-1971) e User ASTERISCO (Dati anagrafici registrati – Nome: Ma###; Cognome: ###; Residenza: ###; Data di nascita: ###-###-1971). ASTERISCO – Non è importante. Il bello è che tu hai detto le battute esatte senza conoscerle. Strana la vita, eh? Te lo saresti aspettato che nella tua mediocre giornata di mediocre programmatore avresti fatto anche l’attore? ATLAS UFO RIMBAUD – Mediocre?! :-PPP ASTERISCO – Beh, riconoscilo: un “ottimo” programmerebbe al meglio delle sue perderebbe tutto questo tempo in chat… programmatore capacità, non ATLAS UFO RIMBAUD – Stavo semplicemente facendo un attimo di pausa. ASTERISCO – Bene, allora ti racconto una barzelletta. ###llora, ti va? ATLAS UFO RIMBAUD – No. ATLAS UFO RIMBAUD – Ok. ASTERISCO – Come no? ASTERISCO – Cosa fai nella vita? ATLAS UFO RIMBAUD – Il programmatore. 13 ATLAS UFO RIMBAUD – Non sopporto le barzellette. Non mi fanno ridere. 14 ASTERISCO – Un individuo a cui non fanno ridere le barzellette. Per essere un mediocre programmatore hai delle caratteristiche abbastanza originali. ATLAS UFO RIMBAUD – Ciao. Torno in public. ASTERISCO – Ma dico davvero! Per esempio, un’altra cosa positiva che ho notato di te è che quando chatti usi comunque una punteggiatura corretta, le maiuscole e tutto il resto. Gli altri, in genere, scrivono tutto di seguito a lettere minuscole utilizzando abominevoli abbreviazioni. Io li detesto quelli che usano Internet come alibi per le loro trasandatezze grammaticali. E ora la barzelletta. ATLAS UFO RIMBAUD – Va bene, purché sia breve. ASTERISCO – Non ti preoccupare. Dunque, c’è uno scienziato ad una conferenza davanti ad un pubblico numeroso di altri scienziati. Sul tavolo davanti a lui c’è una piccola formica. Lo scienziato dice “Sto per dimostrare la mia ultima scoperta zoologica”. Poi si rivolge alla formica e le dice “Salta!” e la formica salta. Prende la formica, le stacca una zampetta e le dice “salta!” e la formica salta, anche se con un po’ di fatica. Ci sei? ATLAS UFO RIMBAUD – Sì, ci sono. Fino a qui mi sembra pietosa. ASTERISCO – Aspetta. Lo scienziato stacca un’altra zampetta alla formica e le dice “Salta!”. E la formica salta con molta difficoltà. Insomma, una dopo l’altra lo scienziato stacca alla formica tutte le zampette. Quando la formica è ormai ridotta ad un puntino nero lo scienziato le dice “salta!” e la formica, ovviamente, non salta. Allora lo scienziato si rivolge alla platea e dice “Ecco: ho dimostrato che gli organi uditivi della formica risiedono nelle zampe. Rimosse tutte le zampe, la formica diventa sorda”. Eh? Che dici? ATLAS UFO RIMBAUD – Dico che raccontare le barzellette non è il tuo forte. ASTERISCO – Può darsi. Ora senti quest’altra. L’esperimento va avanti e dopo un po’ il topo, per non ritrovarsi zuppo, non dorme più. Ci sei? ATLAS UFO RIMBAUD – Sì, ci sono e sono anche un po’ disgustato. ASTERISCO – A furia di non dormire il topo diventa intrattabile. Comincia a diventare sempre più aggressivo, sempre più fragile. Allora lo scienziato va nel suo studio e scrive: “ci sono fondati motivi per ritenere che il sonno sia fondamentale per l’equilibrio dell’organismo”. ATLAS UFO RIMBAUD – Finita? ASTERISCO – Finita. ATLAS UFO RIMBAUD – Fa schifo. Peggio dell’altra. ASTERISCO – Sai qual è la cosa assurda? ATLAS UFO RIMBAUD – Dimmi. ASTERISCO – Questa che ti ho appena raccontato non è una barzelletta. ATLAS UFO RIMBAUD – Cosa? ASTERISCO – Proprio così. È materiale scientifico. L’ho appena letto su un sito di neuroetologia. ATLAS UFO RIMBAUD – Roba da matti. ASTERISCO – Già. Si chiama Metodo della Piattaforma Singola. Sembra che ci sia anche il Metodo della piattaforma Multipla. Tante piattaforme, tanti topi, tanto stress. ATL### Restiamo in ascolto Un luogo e un tempo non meglio precisati, probabilmente il 1999. ASTERISCO – C’è un altro scienziato. Questo però fa esperimenti sui topi. Lo scienziato mette il topo su una piccola piattaforma galleggiante sull’acqua. La piattaforma è fatta in modo che se il topo non si regge bene scivola dentro l’acqua. E’ chiaro che, non appena il topo si addormenta, la tensione muscolare si allenta e il topo si ritrova a mollo, svegliandosi di colpo. Interno di un seminterrato. La luce che filtra dalle finestrelle vicino al soffitto potrebbe essere sufficiente a illuminare l’ambiente. Tuttavia, gli otto neon di cui è dotato il locale sono tutti accesi. Uno sfarfalla in continuazione. Un uomo, V1, è seduto di fronte a un rack con apparecchiature elettroniche di varia dimensione e aspetto. Alla sua destra un portatile acceso, i cui cavi si perdono da qualche parte nel sottopavimento. Sullo schermo l’homepage di Google.V1 indossa una tuta bianca e un paio di scarpe di cuoio marrone. Sull’attaccapanni, vicino a una grossa porta blindata sulla sinistra, è appesa una giacca marrone. 15 16 ATLAS UFO RIMBAUD – No, basta, pietà. ASTERISCO – Ti prego, ti prego. Solo quest’altra. È ancora più corta, te l’assicuro. ATLAS UFO RIMBAUD – Ok, sbrigati. Entra V2, in tutto e per tutto simile a V1, tranne per il fatto che ha un pagello che ancora si dimena sotto l’ascella destra. Anche V2 è vestito come V1: tuta bianca, giacca marrone, scarpe di cuoio marrone. V2 appende la giacca all’attaccapanni e sbatte il pagello, ormai praticamente morto, su un tavolo. V1: (senza girarsi) Mi sa che stasera il bastardo spiffera tutto. V2: Uh? V1: Ma### V2: Il nostro Asteronzo ha rialzato la testa? (Ridacchia) Ih ih! (V1 si gira e guarda V2 con aria torva) V2: (Tornando serio) Ok, cos’abbiamo? (Si siede accanto a V1) V1: Senti qua. L’ho beccata una mezz’ora fa. (Spinge un paio di tasti su una unità audio di fronte a lui, stacca il jack delle cuffie. Dagli altoparlanti parte la registrazione). V2: Ma chi è quello che parla? V1: Daniele. V2: Uh? V1: Dai, Daniele e Cleo. Quella coppia di fichetti che ha fatto amicizia col nostro. V2: Ah sì. (tira fuori da un cassetto accanto al rack un tagliere di legno e un bocho affilatissimo. Sbatte il pagello sul tagliere e comincia a pulirlo). V1: Merda. Ma perché non ti porti un panino come tutti? V2: (Senza fare caso all’ultima battuta di V1) Vabbe’, ma che ne sai che proprio stasera vuota il sacco? V1: Non lo so. È un po’ che gli sto dietro e c’ho un brutto presentimento. (V2 butta gli scarti del pagello in un secchio sotto al tavolo su cui è appoggiato il portatile e comincia a lavorare di bocho sui filetti puliti eseguendo un perfetto taglio usu zukuri). wasabi, lo apre, ci intinge il dito dentro e comincia a spalmare la pasta verde sui filetti di pagello). V1: Non lo so, non ho niente per richiedere un L3 al comando centrale. Per ora restiamo in ascolto. Poi vediamo. (V2 comincia a mangiare i pezzi di pagello facendo molto rumore con la bocca. V1 lo guarda male. V2 se ne accorge). V2: Oh, senti, mica è colpa mia se qui intorno è più facile trovare pesce fresco che un panino col prosciutto… (V1 tira fuori, da una busta di plastica sotto la sua sedia, un tramezzino al tonno e un’insalata di scampi). V2: Senti un po’… V1: Che c’è? V2: Quella canzone che stava ascoltando Daniele quando Asterisco gli ha telefonato… V1: (concitatamente) Pensi che possa essere una traccia, qualcosa su cui lavorare? V2: Sai che canzone era? V1: No. Possiamo fare qualche ricerca, identificazione di pattern, riconoscimento delle linee melodiche. Abbiamo tutto qui. Qual è la tua tesi? V2: Quale tesi? V1: Perché pensi che la canzone sia importante? V2: Io non penso che la canzone sia importante. (Silenzio di V1) V1: Allora perché mi hai chiesto se la conoscevo? V2: Perché era fica. Me la volevo scaricare. (Silenzio di V1) V1: Ma vaffanculo va’. (Addenta il tramezzino al tonno) V2: Che vuoi fare? Avvertire la centrale? Fargli lo stesso servizietto che abbiamo fatto a Scotty? (Torna verso l’attaccapanni, fruga nella tasca destra della sua giacca, tira fuori un vasetto di 17 18 Un intero mondo, un’intera logica «The first word in this song is “discorporate”. It means: “to leave your body”» (Frank Zappa, “Absolutely Free”) Italia, un giorno qualunque del 1999. Entro breve i succhi gastrici avrebbero attaccato il cibo, ridotto in pezzi dai miei denti selvaggi. Ghiandole dislocate lungo tutto il canale digerente avrebbero prodotto muco, vari enzimi sui quali ora facevo fatica a concentrarmi, e quantità ingenti di acido cloridrico (questo invece riuscivo a visualizzarlo benissimo: il perfetto equilibrio delle sue molecole di iodio, carbonio e idrogeno, un prodigio della chimica, il primo acido minerale forte mai sintetizzato dagli alchimisti facendo reagire salgemma e vetriolo verde). A tutto questo pensavo a mano a mano che i movimenti peristaltici del mio tubo digerente facevano scendere i pezzi di pollo nello sheol del mio stomaco, mentre Cleo e Asterisco, invece, sgranocchiavano crostini e paté di fegato d’oca, parlando dei vecchi videogiochi del Commodore Vic 20. «Vi prego di riflettere su questa cosa, davvero – disse a un tratto Asterisco alzandosi dal tavolo e raggiungendo il PC al lato opposto del salone – guardate qua». Anche io e Cleo ci alzammo. Asterisco aveva già aperto Word e digitato un punto. Poi aveva salvato il file, senza neanche dargli un nome. Era andato su Gestione Risorse e ci aveva mostrato quanto pesava quel file. «Guardate se dico bugie: quasi 24K Incredibile, no?». «Cosa incredibile?», avevo detto io. Avevo fretta di tornare al mio pollo arrosto. Cleo rideva, aveva messo su uno sguardo di quelli vispi dei suoi, quasi ci tenesse a far vedere che stava seguendo il filo dei discorsi di Asterisco, quando invece, secondo me, anche lei non aveva capito nulla. «Voglio dire – continuò Asterisco – 24 K, kilobytes signori, 24K per memorizzare un singolo segno di punteggiatura, un puntolino, su questo computer, l’ultimo ritrovato in fatto di tecnologia domestica. Ora pensate di prendere questo punto, questo puntino che voglio ricordarvelo pesa ben 24K, e immaginate di tagliarlo come una torta». «Una torta?», aveva detto Cleo ridendo. 19 «Sì, una torta – aveva detto Asterisco – pensate di possedere un meraviglioso coltello affetta-pixel con il quale si possono tagliare i caratteri sullo schermo, fatevi piccoli come un font corpo 12, entrate nello schermo e… attenti al bagliore del foglio bianco di word, può essere accecante le prime volte che lo si vede stando dall’altro lato del monitor!». Parlava come se le facesse davvero quelle cose lì. «Insomma», dissi io, per chiudere la faccenda. A quel punto accadde qualcosa di strano, qualcosa che avrei ricordato per molto tempo. Asterisco appoggiò la sua mano sul monitor e io vidi qualcosa che chiaramente non era possibile. Guardai meglio. Quell’effetto, chiamiamolo così, durò pochi secondi. Mi girai di scatto verso Cleo per cercare di capire se anche lei avesse visto la stessa cosa. Ma Cleo continuava a sorridere esattamente come prima e quando guardai di nuovo la mano di Asterisco sul monitor tutto era di nuovo normale. «Insomma – proseguì Asterisco – con questo immaginario coltello tagliapixel fate otto fette del puntolino che pesa 24K. Quanto pesa ogni singola fetta?». «3K», rispose subito Cleo. «Risposta esatta – disse Asterisco – ebbene: è esistito un tempo, ve lo ricordate anche voi, in cui in 3K, in soli 3K di memoria, entravano giochi con suoni, colori, animazioni. In una fettina invisibile di quel punto che adesso è lì sullo schermo entrava un intero mondo, un’intera logica». «Stai parlando del Commodore Vic-20 – dissi io – 3K era la memoria del Vic, più o meno». «Radar Rat Race, Annihilator… - disse Cleo guardando in basso – è vero, ve li ricordate quei giochi?». «Ma non capisco, dove vuoi arrivare? – dissi io. Eravamo ora tornati al tavolo e stavamo riprendendo a mangiare – Non ha senso fare un paragone di questo tipo. Il Vic aveva un hardware diverso, c’era una ROM diversa dietro. Non puoi paragonare i 3K di un Vic 20 degli anni 80 ai 3K di un PC di adesso». «Appunto…», disse Asterisco con un sorriso misterioso. Stava incasinando la discussione. Lo odiavo quando faceva così. Molte ore più tardi, nel cuore della notte, mi accorsi che Cleo era sveglia come me. «Senti…», dissi. «Sì?», fece lei. «Lo so che è assurdo, ma…», continuai io. «Cosa?». 20 «Ma niente, lasciamo perdere», dissi. Mi girai dall’altra parte. «Dimmi», insistette lei. «Ok, non prendermi per matto, ma stasera, quando Asterisco ha appoggiato la mano sul monitor…» «Me ne sono accorta anche io – disse Cleo – la sua mano è scomparsa per qualche secondo». L’uomo avrà quarant’anni. Ha appena chiuso la portiera della sua auto, non importa che auto è. Si avvia guardando in terra verso l’entrata principale del palazzo bianco. Accartoccia la confezione di cracker di gambero che ha appena finito di mangiare e la butta al vento. L’involucro di plastica e stagnola fluttua un po’ sopra gli sterpi, ma è troppo pesante e ricade subito giù. L’uomo si pulisce l’unto delle mani sulla sua tuta bianca e pensa: non ne posso più di questi surrogati. Voglio gamberi pescati di fresco e li voglio ora. Il portone centrale è aperto come sempre. Dà un’occhiata spenta alla targa in plexiglas opaco. HookSoftware S.r.l. c’è scritto in grande. E sotto, più piccolo, “Games & Applications for your computer”. Sale al primo piano. Anche questa porta, come sempre, è aperta. Sta per entrare nell’ufficio di Tombarello quando vede la porta aprirsi e un giovane che esce, piccola valigetta di pelle, maglioncino e cravatta, la faccia di uno che dorme poco e – sicuramente – non mangia pesce fresco da mesi. Dietro il giovane la voce di Tombarello. «Massimo due, tre settimane le faremo sapere qualcosa». Non ha la voce ferma che ha di solito. Il giovane saluta di nuovo, si volta, vede Aguglia che lo guarda e saluta anche lui, automaticamente. Aguglia dice «Arrivederci», piano piano. Aguglia entra. Tombarello sta fissando un punto vuoto della sua scrivania. Sembra turbato. «Chi era quello?», chiede Aguglia. «Oh sei tu», fa Tombarello. Si è accorto della presenza dell’altro solo in questo momento. «Vieni, vieni qui – dice – che è tutta da ridere». Aguglia si avvicina al 1701 acceso e attaccato al Commodore 64 di Tombarello. Sullo schermo ci sono alcuni sprite monocromatici che si muovono con una certa difficoltà. La musica in sottofondo è abbastanza noiosa. Tombarello afferra il joystick e comincia a farsi strada tra i nemici. Che te ne pare?», chiede. «Boh – fa Aguglia – abbiamo appena messo in circolazione roba tipo Saucers Attack, Zaxxon. Questo qui non è male, ma è un po’ rozzo. Sembra un passo indietro, a Forbidden Forest per capirci». «È incredibile», dice Tombarello mentre guizza con la sua navetta tra i colpi di laser degli avversari. Sembra quasi non aver sentito le parole di Aguglia. «Ripeto – dice Aguglia un po’ seccato – non mi fa impazzire. Cos’è? Alla centrale hanno deciso di rallentare il ritmo delle meraviglie che stiamo propinando ai babbei?». Tombarello si gira verso l’altro. L’astronave si schianta contro un asteroide di pixel. Sullo schermo appare la scritta “Play again (Y/N)?”. «Tu non capisci – dice all’altro – questa non è roba nostra». Aguglia sta zitto qualche secondo. Fissa il monitor. «Che significa “non è roba nostra”?», chiede. «Non è roba nostra – fa Tombarello alzando la voce – l’ha fatta quel ragazzo che hai visto uscire prima». «Ma come? Come può averla fatta?! Non ha mica…». «Linguaggio macchina», dice Tombarello. Scoppiano a ridere tutti e due. «Cosa?! – fa Aguglia – cioè, c’è qualcuno che davvero si è preso la briga di…». «Guarda», dice Tombarello interrompendolo. Gli mostra una risma di modulo continuo piena di valori esadecimali in sequenza. «Ma il linguaggio macchina è una cosa finta! – esclama Aguglia – è una… voglio dire, è una cosa che ci siamo inventati noi per giustificare scientificamente tutto questo». «Già, però è un’invenzione coerente e plausibile. Tanto che c’è qualcuno che riesce a usarla e farci qualcosa che poi funziona davvero». «Pazzesco – dice Aguglia scorrendo il codice stampato su carta – pensa quante ore di lavoro deve essergli costato tutto questo». 21 22 Questa non è roba nostra Italia, un giorno qualunque del… 1999, direte voi. E invece no, stavolta siamo a metà degli anni ’80, periferia di una città italiana di media grandezza. Palazzone bianco, in mezzo a un campo di sterpi secchi oltre la tangenziale. Nella stanza c’è silenzio per qualche secondo. Si sente solo la musichetta metallica che esce fuori dal corpo grigio del Commodore, una musichetta terribilmente dozzinale. Il giovanotto ha fatto un buon lavoro, ma non ha sfruttato più di tanto le potenzialità del chip SID-6581. «Voglio dirti una cosa – dice Tombarello di colpo – avevo sentito dire che negli Stati Uniti, in Inghilterra, c’erano ragazzotti pazzi chiusi dentro i garage che buttavano le notti a… programmare questi affari. Ma non volevo crederci. Non c’ho mai creduto, fino a quando quel tipo non è entrato nel nostro ufficio oggi». «Cosa comporterà, secondo te, tutto questo», chiede Aguglia sollevando gli occhi dal listato, dopo una lunga pausa di silenzio. «Voglio dire, è un bene o un male». «Scherzi? – fa Tombarello – per il Piano è una benedizione». Indica lo schermo. «Pensaci bene – prosegue – questa roba qua è… umana al 100%! È un alibi, capisci. Semmai a qualcuno venisse voglia di vederci più chiaro…». «Speriamo bene», fa Aguglia. Poi, cambiando completamente voce: «Senti, io ho una fame lupa. Scegliamoci un ristorantino dove andare a farci un’abbuffata di pesce come si deve». Tombarello fa segno di sì con la testa. Spinge un tastino nascosto sotto la scocca del Commodore 64. La schermata del videogioco scompare dal monitor e al suo posto appare un bianco accecante. Al centro la scritta Google in caratteri colorati e un campo testo da riempire. Tombarello digita “ristoranti + pesce” e preme il tasto [RETURN]. «Ma ci pensi – dice sorridendo – ci pensi quando tutti avranno questo?». «Mancano ancora almeno dieci anni secondo il Piano», risponde Aguglia scorrendo voracemente l’elenco dei ristoranti sullo schermo. Lui preferiva che lo chiamassimo Asterisco (Domanda incomprensibile dell’intervistatore) CLEO: No, va bene così. Grazie. (Domanda incomprensibile dell’intervistatore) 23 CLEO: Preferisco cominciare subito. (Domanda incomprensibile dell’intervistatore) CLEO: L’idea dell’aspettativa è stata sua e fors… (Domanda incomprensibile dell’intervistatore) CLEO: …di Daniele, sì. (Frase incomprensibile dell’intervistatore) CLEO: Dicevo, l’idea di prendere un’aspettativa dal lavoro è stata di Daniele e io mi sono lasciata convincere. Lui diceva che questa cosa di Asterisco era troppo importante e non potevamo farla nei ritagli di tempo. (Domanda incomprensibile dell’intervistatore) CLEO: Un anno e mezzo fa, più o meno. (Domanda incomprensibile dell’intervistatore) CLEO: Abbiamo cominciato a cercare informazioni in rete, tutto quello che riguardava i computer della Commodore, della Spectrum, le software house che nascevano in Italia tra gli anni ottanta e novanta. (Domanda incomprensibile dell’intervistatore) CLEO: L’Italia, non lo so perché proprio l’Italia, perché viviamo in Italia, siamo italiani, ci sembrava più comodo partire da qui. (Domanda incomprensibile dell’intervistatore) CLEO: Non c’era una strategia precisa, non sapevamo neanche cosa cercare. Alla fine è uscito fuori questo nome. (Domanda incomprensibile dell’intervistatore) CLEO: Fer… (risposta di Cleo parzialmente incomprensibile). (Domanda incomprensibile dell’intervistatore) CLEO: L’abbiamo beccato al primo colpo. Fa il consulente finanziario adesso. Sposato, due figli. Ma all’epoca avev… (Domanda incomprensibile dell’intervistatore) CLEO: il 1991 (Frase incomprensibile dell’intervistatore) CLEO: Nel 1991, dicevo, aveva programmato un videogioco per il Commodore 64. Mister Master si chiamava. (Domanda incomprensibile dell’intervistatore) CLEO: Un videogioco di fantascienza come un altro, ma con una grafica portentosa per quella macchina. (Domanda incomprensibile dell’intervistatore) 24 CLEO: Ci siamo presentati come redattori di una rivista di retrocomputing, per non insospettirlo. E lui è stato molto contento di raccontarci tutto. Siamo partiti alla lontana, ma alla fine abbiamo posto la domanda, l’unica domanda per cui eravamo arrivati fino a lui: come diavolo faceva un videogioco spettacolare come il suo a girare su una macchina con 38K di memoria? (Domanda incomprensibile dell’intervistatore) CLEO: lui ci ha spiegato che per svilupparlo aveva collegato tra loro quattro Commodore 64 in cascata. Praticamente aveva creato un super-64, una specie di mostro di Frankenstein, con saldature, schede penzolanti, cavetti fatti in casa. Si era costruito da solo una sorta di ambiente di sviluppo, test e produzione. (Domanda incomprensibile dell’intervistatore) CLEO: Daniele sembrava quasi esserci rimasto male. Quello che ci stava raccontando Fer… (risposta di Cleo parzialmente incomprensibile) per quanto bizzarro aveva una sua logica. Cioè, voglio dire, era una spiegazione scientifica. E dunque confutava la teoria di Ma… (risposta di Cleo parzialmente incomprensibile) (Domanda incomprensibile dell’intervistatore) CLEO: Ma… (risposta di Cleo parzialmente incomprensibile) era… è?… il vero nome di Asterisco. (Domanda incomprensibile dell’intervistatore) CLEO: Dipende. A volta lo chiamavamo Ma… (risposta di Cleo parzialmente incomprensibile) altre volte lo chiamavamo Asterisco (Domanda incomprensibile dell’intervistatore) CLEO: Lui preferiva che lo chiamassimo Asterisco (Frase incomprensibile dell’intervistatore) CLEO: Dicevo, era una spiegazione che confutava la tesi di Asterisco. (Domanda incomprensibile dell’intervistatore) CLEO: Beh, non c’era niente di risolto invece. Prima di scovare il programmatore di Mister Master avevamo trovato un altro contatto, uno che all’epoca doveva avere non più di diciotto anni e aveva sviluppato un adventure testuale per il Vic 20. Così, visto che il contatto era preso, abbiamo deciso di sentire comunque anche lui, per scrupolo. (Domanda incomprensibile dell’intervistatore) CLEO: (Lunga pausa). Comincio a essere un po’ stanca. Se fosse possibile, preferirei continuare domani. (Frase incomprensibile dell’intervistatore) CLEO: Grazie. (Lunga pausa). Posso fare io una domanda adesso? (Frase incomprensibile dell’intervistatore) CLEO: Quella lì sul soffitto è una videocamera, vero? 25 26 Plin plon plan (notturno delle tre) Poi mi sveglio alle tre di notte come ogni notte. Ho sonno crepo di sonno ma già so che non mi addormenterò. È tutto buio intorno a me si sente solo il suono del respiro di Cleo. Qualche volta ma non tutte le notti si sente il verso di un cane o di un rapace. Mi dico come è possibile che non riesco a riaddormentarmi? Perché sono così nervoso? Ho forse paura? Di cosa? Forse non ho paura forse voglio [parola incomprensibile] alzarmi e mettere a fare cose. Invece no sono davvero inquieto e ho paura. Mi dico forse se ragiono a fondo sulla mia paura riesco a tranquillizzarmi e riprendo sonno ma non ci riesco mai. Come è possibile che usando il cervello la ragione uno non riesca a risolvere i suoi problemi? Ci dicono il cervello è una macchina meravigliosa invece non è vero. Il cervello è una macchina sì ma funziona male. È come un [parola incomprensibile] come quei pianoforti per bambini con cinque tasti colorati dove puoi suonare plin plon plan ma che non hanno niente a che fare con i pianoforti veri. Il cervello non è una vera meraviglia per questo ragionando non troviamo mai vere soluzioni. Non esiste la meraviglia forse c’è da qualche altra parte ma non su questa terra. Su questa terra è tutto molto normale e triste anche i cosiddetti capolavori immortali del genere umano anche quelli se ci pensate bene sono cose normali e tristi. Non c’è niente di immortale nelle grandi sinfonie nei grandi dipinti nella grande letteratura nelle grandi invenzioni. Tutto prima o poi finirà tornerà polvere. È già polvere solo in un altro ordine. Poi neanche la polvere. [frase cancellata. La matita ha calcato così forte sul foglio che la carta è lacerata]. Ammesso che esista il vuoto. Ma se c’è o no il vuoto non me ne frega niente. Non è mica questo che mi mette paura non è mica questo quello a cui penso quando mi sveglio alle tre di notte morto di sonno e non riesco più a dormire. Perché non approfitti di questa mia indulgenza? Cleo è seduta con la schiena leggermente inclinata in avanti. Ha le braccia appoggiate sul tavolo di fronte a lei. Le maniche della sua casacca bianca sono tirate giù fino al palmo delle mani. Cleo tiene l’estremità di ogni manica stretta nel pugno. Lui non può vederla, perché la stanza è completamente buia, ma immagina la donna che ha di fronte e non può fare a meno di trovarla irresistibile. Sa che la casacca è bianca, anche se non può vederla, perché è stato lui a darla a Cleo affinché la indossasse. Sa che Cleo è seduta di fronte a lui, e che un tavolo li separa, perché è stato lui a predisporre quella stanza con le luci spente e loro due in quella posizione. «Riprendiamo», dice lui. Cleo alza la testa, i lunghi capelli neri si dispongono in modo disordinato intorno al viso. «Riprendiamo», dice. «Parlami del disco volante», dice lui. «Non era un vero e proprio disco volante, era una specie di stella a otto punte. O sei. Non ricordo se erano otto e sei punte. E’ importante?». «Per te è importante?». «No». «Benissimo - dice lui - continuiamo». Lei sospira, i pugni sempre stretti intorno agli orli delle maniche. «Una stella bianca, un piccolo astro», dice. «Piccola stella, piccolo astro, asterisco, piccolo astro», dice lui con una voce così dolce che sembra stia cantando. Lei fa un sorriso piccolissimo che se ne va via subito. «E poi?», la incalza lui. «Poi è apparso Asterisco e ha cominciato la lezione. Tema, oggi, il test di Rorschach, ha detto». «Il Test di Rorschach? - chiede lui - interessante». «Già - fa Cleo - secondo lui le macchie non…». «Quando ti sei accorta che ti piaceva Asterisco?». Cleo non risponde. 27 «Riesci a ricordare il giorno, il momento esatto, in cui hai pensato: lui mi piace, potrei innamorarmi di lui?». «Non capisco…», chiede Cleo. «Eppure dovresti apprezzare questa mia mossa. Non ti ho chiesto: ci hai scopato? Da quanto andate a letto insieme? No. Ho avuto più tatto, non trovi? Perché non approfitti di questa mia indulgenza?». Cleo si butta indietro con la schiena, libera finalmente le maniche dalla stretta dei pugni e lascia andare le braccia lungo i fianchi. «No, no, un momento, che sta succedendo?», dice piano. «E lui? Quando ha cominciato a farti capire che ci stava, che ricambiava i tuoi sentimenti?». «Non ho intenzione di seguirti su questa cosa - dice Cleo con la voce molto alterata - questo è un interrogatorio su Asterisco, sul Piano, sul disco volante da cui tutta questa merda è cominciata. Non è assolutamente, assolutamente dico, un interrogatorio sulla mia vita privata». «La tua vita privata?», dice lui ridendo, calcando bene la voce su “tua”. «E se ti dicessi che ci sono delle registrazioni? - continua delle prove?». «Ok basta - dice Cleo - chiuso. Questa storia finisce qui. Voglio parlare con un avvocato». Lui scoppia a ridere, poi sospira, triste. La luce si accende di colpo. Cleo vede Daniele seduto di fronte a lei, dall’altra parte del tavolo. «Voglio parlare con un avvocato - dice lui ripetendo le parole di lei - Cristo santo Cleo!», dice. Le pareti della stanza sono bianche, accecano. «Anni passati a educarti - dice lui - anni di pazienza, di lavoro su di te e adesso te ne esci con questa frase fatta: voglio parlare con un avvocato. Ma come ti viene in mente, Cleo? Eh? Come ti viene in mente?». Cleo lo fissa per qualche secondo, poi la bocca le comincia a tremare. Piange. «Basta Dado - dice piangendo - non ce la faccio più, basta. Voglio uscire da qui». «Uscire da qui?», chiede lui. Fa viaggiare lo sguardo intorno alla stanza. Lei fa lo stesso. Vede le pareti bianche, intorno, sopra, 28 sotto. Non ci sono porte, non ci sono finestre. E’ un cubo bianco senza nessuna via di uscita. E loro stanno dentro. «Uscire da qui - ripete lui piano, come se valutasse la fattibilità della cosa - non si può mica». Magari siete anche convinti di aver visto qualcuna di queste famose macchie… «Vogliono farti un Rorschach», ha detto Asterisco. Sono rimasto in silenzio. «Un cosa?», ho chiesto. «È un test psicologico», ha risposto lui. «Ma tu come fai a…», ho iniziato a dire. Poi ho sbuffato, mi sono passato una mano sulla fronte. Cleo, dall’altra parte del letto, non diceva nulla. «Va bene, va bene – ho detto respirando forte – cosa devo fare?». «Dobbiamo vederci – ha detto lui – ti devo spiegare alcune cose». Ho guardato l’orologio. Era quasi mezzanotte. «Mi ci vorrà un po’ di tempo, devo raccogliere del materiale», ha detto Asterisco. Mi è scappata una risatina. Continuavo a girare per la stanza con il cordless attaccato all’orecchio. «Ma che significa un po’ di tempo?! È mezzanotte! Tra qualche ora i membri dell’Ordine mi interrogheranno», ho detto. Asterisco, all’altro capo della linea, è stato in silenzio per qualche secondo. «Cerco di sbrigarmi», ha detto poi. E ha agganciato. Mi sono buttato sul letto e ho rispento la luce. «Che succede?», mi ha chiesto Cleo. Le ho spiegato brevemente la faccenda. Questa storia stava andando oltre i limiti. Cleo mi ha consigliato di riposare, ci avrebbe pensato lei a fare entrare Asterisco. Volevo fare una battuta cattiva su quest’ultima frase, ma ero così nervoso che non ho detto nulla. Mi sono rigirato un po’ tra le lenzuola. Non mi ero neanche spogliato. A l’una e mezza di notte mi sono addormentato. Alle tre e un quarto ho sentito il citofono. Mi sono alzato di colpo. Cleo era già in piedi. Mi sentivo la faccia che mi tirava. Ho respirato forte, quasi un soffio. «Sì?», ha detto Cleo al citofono. L’ho vista spingere il tasto bianco e poi lasciare la porta d’ingresso accostata. Io sono andato a sedermi al tavolo della cucina. 29 Asterisco si è affacciato nella stanza dopo pochi secondi. Si è tolto il cappello e l’ha appoggiato sul lavandino. Sotto braccio aveva un mazzo di fogli. «Questa cosa del Rorschach ha sorpreso anche me – ha detto – meno male che lo abbiamo saputo per tempo». Si è sistemato comodo sulla sedia e ha rassettato il mazzo di fogli davanti a sé, poggiandolo sul tavolo. Ho chiuso gli occhi e li ho riaperti. «Ma come cazzo fai a essere sempre così in forma? - ho detto – ma non sei mai stanco?». «Tu lo sai cos’è il Rorschach?», mi ha chiesto lui guardandomi fisso. «È quel test che ti fanno vedere le macchie, no?», ha detto Cleo. Asterisco si è schiarito la voce. Ha attaccato a parlare come se non avesse sentito la risposta. «Alcuni – ha detto – sostengono che il Rorschach non andrebbe proprio fatto. È un test ormai superato e del tutto inattendibile». Ho guardato Asterisco senza dire nulla. «In un’altra occasione – ha proseguito lui – ti avrei proprio suggerito di rifiutarti. La legge lo consente. Ma attireremmo i loro sospetti. Quindi ti tocca». «Magari c’è un’altra soluzione», ho detto io. Mi sono retto la testa con le mani, cominciava a farmi male. «Tipo?», ha chiesto Cleo. «Tipo… – ho detto – potremmo dire che conosco quel test, che ho letto libri sul test di Rorschach e quindi so come rispondere. Il test sarebbe invalido, no?». Asterisco ha sorriso. «Tu prima hai detto che avevi sentito parlare del test di Rorschach vero?», ha chiesto Asterisco a Cleo. Lei ha fatto segno di sì con la testa. «Chi non lo conosce! - ho esclamato anch’io, ridendo. «Magari siete anche convinti di aver visto qualcuna di queste famose macchie che si usano per il test…», ha detto Asterisco. «Ma certo! - ho detto io – dai, sono quelle macchie di inchiostro simmetriche, è una cosa che prima o poi abbiamo visto tutti…». «Le macchie di Rorschach sono coperte da segreto professionale. A meno che tu non sia uno psicoterapeuta è difficile che tu ne abbia vista veramente una». «Ma piantala!», ho detto io. «Sono sicura di aver visto delle macchie di Rorschach in un film o in una storia a fumetti», ha fatto Cleo. Asterisco ha riso. «Tutte quelle che circolano sono inventate, sono semplicemente simili alle vere macchie di Rorschach, ma non fanno veramente parte del set di dieci macchie che Hermann Rorschach mise a punto nel 1920. Perfino quelle che compaiono 30 sull’Enciclopedia Britannica sono fasulle!». Ho guardato Asterisco senza dire nulla. «Dunque, – ha proseguito lui – se tu dici a loro che conosci il test di Rorschach dovrai poi giustificare questa tua conoscenza. E la tua posizione si complicherebbe». Mi sono grattato i capelli appena sopra la nuca. «Non c’è altra soluzione – ha detto Asterisco – devi fare il test e devi farlo in modo da non farti fregare». «Ma come facciamo?», ho chiesto io. «Ci prepariamo. Adesso», ha risposto Asterisco. E ha picchiettato sul mazzo di fogli davanti a sé. Ho guardato la risma per qualche secondo. «Vuoi dire che lì hai…». Asterisco ha completato la mia frase: «…le dieci autentiche macchie di Rorschach». «Ma come…?», ha iniziato a dire Cleo. «Non perdiamo tempo – ha detto Asterisco – cominciamo». «Dicevo: quello che che chi viene esaminato non sa, quando chiede se può girare il foglio, è che ogni volta che ruoterà la macchia l’esaminatore registrerà la rotazione con un simbolo particolare sul suo taccuino. Ma soprattutto che è ritenuto “anormale” chi non chieda di ruotare le macchie ed esprima la sua interpretazione guardando il foglio nello stesso verso in cui gli è stato presentato. Dunque…». «Dunque: la prima volta chiederò se posso ruotare i fogli – ho risposto io – l’esaminatore mi dirà di sì. E poi, ruoterò i fogli fino al decimo». «No, non tutti. Sarebbe esagerato. Limitati a farlo per i primi tre o quattro». Le anime morte Ti verrà spontaneo chiedere se puoi ruotare il foglio DEEPTHROAT – Once, at a gathering, Liddy put his hand over a candle. And he kept it there. He kept it right in the flame until his flesh seared. A woman who was watching asked, “What’s the trick?” And he replied. “The trick is not minding.” «Il test di Rorschach si svolge secondo regole ben precise e la prima cosa che devi sapere è questa: non fidarti mai di ciò che ti dirà l’esaminatore, chiaro?». «Ok», ho detto io. «Quando Rorschach ha definito il suo test non ha solo preparato le macchie, ma ha anche stabilito tutta una serie di cose che si possono dire o non dire alle persone che vengono sottoposte al test. Ad esempio: ti verrà spontaneo chiedere se puoi ruotare il foglio con la macchia che ti hanno appena presentato. Bene, Rorschach ha previsto questa domanda e ha stabilito che l’esaminatore deve rispondere “ruoti pure il foglio, se vuole”. È una risposta incoraggiante, data in modo cordiale. Quello che chi viene esaminato non sa è che…». Asterisco si è interrotto. «Che succede?», ho chiesto io. «Stavo pensando: non dovresti prendere degli appunti?». Ho tirato su col naso. «Ma scusa, quando avrei tempo di rileggerli. Loro saranno qui tra poco», ho detto. Asterisco ci ha pensato un po’ su. «Hai ragione, cerca di fare bene attenzione, allora». Ho fatto segno di sì con la testa. Cleo aveva messo su il caffè e la stanza era piena di quell’odore caldo. Così, a bruciapelo, direi Manhattan. È senza dubbio Manhattan e quello che ho davanti è uno dei suoi grattacieli. Ma non uno di quelli famosi che si trovano nei libri fotografici dedicati ai più celebri grattacieli di New York, no. Questo che è davanti è un grattacielo qualunque, per così dire. Io non so esattamente dove sono. So che sono lì, mi sembra quasi di essere sospeso a mezz’aria, più vicino alla cima del grattacielo che alla sua base. Come se fossi su un elicottero. Oppure a bordo di un piccolo aereo che svicola tra le cime degli edifici. Ma non ho paura, sono abbastanza tranquillo. Ci sono due cose, però, che mi mettono un po’ a disagio. La prima è che sembra non esserci nessuno. Se non fossi sicuro di essere sveglio e vivo e realmente qui a bordo di questo oggetto volante non identificato potrei pensare di stare sognando oppure di trovarmi in uno di quegli ambienti virtuali realizzati in computergrafica 3D, ma non una di quelle cose spettacolari che si 31 32 (William Goldman, “All The President’s Men”) vedono al cinema, no, sembra un esercizio fatto con un vecchio computer, qualcosa dell’epoca Amiga o giù di lì. Eppure, nonostante la semplicità, la rozzezza quasi, di quello che vedo, questo luogo è troppo vero per essere finto. Il vento, la sensazione del movimento, la profondità di campo. No, no, sono sicuramente in volo tra i grattacieli di New York. E gli uomini hanno abbandonato la città. Assurdo, ma è così. La seconda cosa che mi mette un po’ a disagio è che il mio velivolo, qualunque cosa sia, sta puntando dritto verso un grattacielo, non solo, un grattacielo in fiamme. Non un grande incendio, anzi, così a occhio direi che può essere qualche foglio di carta che ha preso fuoco dentro un cestino dei rifiuti, ma la stanza è già piena di fumo e fiamme, più che altro fumo. È ormai troppo tardi per intervenire con un estintore, ammesso che ci sia qualcuno con un estintore in questa New York deserta. La finestra dell’ufficio in fiamme si avvicina sempre di più. Una volta ho visto dei filmati che dimostravano in quanto poco tempo si sviluppa un incendio all’interno di un locale chiuso. In un ufficio arredato a norma, con pannelli divisori tra i vari cubicoli degli open space e arredi ad hoc, un pezzo di carta in fiamme dentro un cestino impiega sei o sette minuti prima di attaccare le pareti e far arrivare le fiamme al soffitto. Hai comunque il tempo di prendere un estintore e soffocare il principio d’incendio. In una casa è tutta un’altra storia. Bastano 40 secondi. Fa paura a vederlo. Le nostre case con divani in stoffa o in pelle, librerie, tavoli di legno, cavi ovunque e tende, sono praticamente delle torce pronte all’uso. Basta una scintilla. Un cortocircuito alle lucette dell’albero di Natale e devi abbandonare la tua casa prima che la lancetta dei minuti batta sulla tacca successiva. Una molotov. La finestra è vicinissima ora. Altro che realtà virtuale. Sento già la puzza del fumo e l’aria che si fa pesante. Vorrei guardare giù. Ho paura di guardare giù. Cerco di capire se questa cosa su cui sono si può pilotare in qualche modo ma non faccio in tempo ad abbassare gli occhi sulle mie mani che appare un pompiere alla finestra. What are you doing here?, mi chiede. Si appoggia al davanzale come se non fosse preoccupato del fatto che sto andando a sbattere contro il palazzo, e dunque contro di lui, né del fatto che alle sue spalle ci sia un incendio. Get away!, mi dice, get away! Allora io provo a spiegargli, col mio inglese così così, che non so come fermarmi. Why are you trying to get here?, mi chiede il pompiere americano. Che razza di domanda. Perché sto cercando di andare lì? Io non sto cercando di andare lì, ci sto semplicemente andando. Non so come non andarci. Ma il pompiere cerca di dissuadermi, è incredibile questo. Mica cerca di trovare una soluzione per salvare, non dico me, ma almeno se stesso, no, lui cerca di convincermi che non vale la pena andare lì. Everything is out there!, mi grida contro. Ormai sono così vicino che riesco a vedere bene la sua faccia nera di fumo. Everything!, dice. Poi dice in italiano: “tutto è là fuori”. All the rattlesnakes are out there!, continua il pompiere, all the honey bears! All the bells and the stones! And the curtains laced with diamonds are out there for you!, grida, sembra un invasato. Io ormai sono così vicino che gli leggo il nome sulla targhetta, Lewis A. Reed, c’è scritto. There’s nothing for you, here! Mi grida lui come ultimo ammonimento, All the roman noblemen are out there for you! And melting ice cap mountains there for you! All the knights in flaming silver robes are out there for you! Ormai sono entrato nell’ufficio in fiamme. Il pompiere Reed, a questo punto, si allontana dal davanzale per farmi entrare e se ne va con la tranquillità di uno che si alza dal divano per andare a prendere qualcosa da bere in frigo. Io invece sono dentro le fiamme e brucio. È tutto là fuori, ripenso mentre ardo senza dolore, mentre il mio corpo si consuma nel fuoco, è tutto là fuori, ha ragione il pompiere Reed, cosa ci sono venuto a fare qui dentro? Eppure mi sembra di non essermi mai sentito così bene come ora, in questo ufficio in fiamme al centro di Manhattan, all’ennesimo piano di chissà quale grattacielo. Tutto è la fuori per me, ma dovevo attraversare il fuoco per capirlo. Tutto è una quantità?, mi chiedo mentre le fiamme mi anneriscono le ossa. Carne e pelle e tessuti e organi sono solo un ricordo ormai. C’è rimasto solo il mio mucchietto d’ossa seduto tra le lamiere di quel trabiccolo che mi ha portato qui. Quanto è “tutto”?, mi chiedo mentre vado alla fermata del treno. Cielo fresco oggi, il vento mi fa il solletichino sulla pelle. Quanto è tutto? L’iPod manda “Transimission” dei Joy Division nelle orecchie. Tutto è un bel po’, penso. Come quel tipo, l’altra sera, in enoteca. Doveva essere uno che il gestore conosceva bene, perché appena è entrato l’ha salutato con grande confidenza. Cosa vuoi?, gli ha chiesto il gestore. E il tipo ha risposto: voglio bere tanto. Uno chiede “cosa” e gli rispondono “quanto”. La quantità per 33 34 la qualità, ho pensato. Mica ha detto “Riesling”, il tipo, oppure “Refosco dal penducolo rosso”, no, ha detto “tanto”. Tutto è qua fuori, non si direbbe mica. Arrivo alla stazione giusto in tempo per perdere il treno delle otto e zerocinque che dovrebbe portarmi al luogo detto dell’Ufficio. Ma non mi importa. Non mi importa, anche perché l’iPod adesso manda “Dead souls”, sempre dei Joy Division. E questo è bello. Così faccio come ho cominciato a fare da un po’ di tempo a queste parte. Sorrido. Esprimo senza mezzi termini la mia felicità. Sto lì, sulla banchina. Il vento del convoglio appena passato ancora infuria sulla doppia cicatrice dei binari, ma io sto lì, con “Dead souls” nell’orecchie e nel cuore e sorrido apertamente a quelli della banchina di fronte. Devo avere proprio una faccia da coglione, qui nel freddo. Ho perso il treno e rido. Inizio a cantare ad alta voce il ritornello. They keep calling me! Keep on calling me! E rido, rido di cuore. Quelli mi guardano. Alcuni imbarazzati distolgono lo sguardo. Ma gli altri, e sono un bel po’ gli altri, stanno impazzendo. È normale, è così: il mio sorriso invincibile li sta conducendo alla disperazione. Una piccola disperazione che inizia come una scintilla sulla banchina di questa stazione qualunque ed esploderà come incendio stasera quando torneranno nelle loro case di anime morte senza speranza. Proprio così: la loro disperazione inizia qui, adesso, perché io gli sorrido senza vergogna davanti. Perché – e lo sappiamo tutti – da sempre l’uomo trova insopportabile la felicità del suo prossimo. «Ci pensate che nessun essere umano riuscirà mai a vedere il suo cuore? Da vivo, dico. Non parlo di radiografie o tac o sonde con microcamera. Parlo di vedere il proprio cuore così come io sto vedendo questo boccale di birra qui davanti a me». È la prima volta che Daniele e Cleo escono con Diamanda, quella che per comodità già chiamano “la ragazza di Asterisco”. Per questa prima uscita a quattro hanno deciso di provare un nuovo pub, un po’ fuori mano: “Il leprecauno”. L’idea del locale è che gli spinatori della birra sono truccati. Ogni tot spinate a frequenza casuale, la pompetta interna fa uno switch su un barile secondario che non contiene birra, ma una mistura a base di acqua, colorante, aroma di cereali e una quantità non indifferente di apomorfina. L’aspetto e l’odore sono quelli di una normalissima chiara lager con tanto di spuma in cima, ma l’apomorfina agisce direttamente sul sistema nervoso centrale, provocando vomito immediato. Quelli del “Leprecauno” lo chiamano: il “colostro dello gnomo”. C’è anche tutta una linea di gadget in tema. Se sei lo sfigato che bevendo dal suo boccale si accorge di aver beccato una pinta di colostro passerai i minuti successivi a vomitare (basta un sorso per scatenare l’effetto emetico), in compenso tutte le ordinazioni di quel giro al tuo tavolo sono offerte dal locale. Quando entri al “Leprecauno” devi sperare che il colostro arrivi al tuo tavolo, ma non a te. Devi sperare che un tuo amico si senta male, così avrai bevuto una birra gratis. «Mi piacerebbe vedere come si consumano i miei organi interni nel corso del tempo – dice Diamanda – secondo me ogni cosa che facciamo, anche bella, ci consuma dentro». Hanno già tutti finito la loro spina media e nessuno ha beccato il colostro. Asterisco paga il primo giro e fa segno alla cameriera di portare altre quattro pinte. «Io mi sento consumata sempre, quando lavoro, quando ballo, quando faccio sesso». La parola “sesso” risveglia Daniele. Una biondina al tavolo in fondo alla sala si volta di scatto e vomita per terra. I suoi compagni di bevute esultano. Cleo si ricorda di quella volta che Asterisco gli ha raccontato dell’esistenza di siti porno in cui ci sono foto e filmati di ragazze che vomitano. Esistono territori della pornografia, gli aveva detto Asterisco, che non hanno praticamente nulla a che fare con il sesso. Da quel giorno Cleo aveva desiderato conoscere quei territori, ma non sapeva come arrivarci e si vergognava a chiederlo. Daniele cerca di immaginare Diamanda che gli fa un pompino, l’espressione del viso di lei, il ritmo. Terrebbe gli occhi chiusi o aperti? Sarebbe nuda o vestita? E soprattutto: in che modo lui la condurrebbe a quella situazione formidabile? «Qual è il tuo vero nome?», chiede Cleo a Diamanda. Che domanda del cazzo, pensa “la ragazza di Asterisco”, soprattutto se rivolta da una il cui vero nome è Cleo. «Che importanza ha? – risponde – chiamatemi Diamanda e basta». La cameriera arriva al tavolo e posa quattro boccali di fronte a loro. Ha una maglietta nera con il logo del “Leprecauno ” e, sotto, il disegno del tamburo di una pistola. Nei fori, al posto dei proiettili ci sono boccali di birra. Sotto, la scritta «A chi tocca?». 35 36 Introducing Diamanda «Chiamate Asterisco il mio Mar*** e non potete chiamare me Diamanda? - dice la ragazza – il nickname basta e avanza». «Nick name, nick name, such a silly game…», canticchia Asterisco sulle note di una canzone che Cleo è sicura di conoscere. Gliel’ha fatta sentire lui? E l’ha composta lui o l’ha presa da qualche punto della grande rete? Quanto di quello che fa e dice Asterisco è una sua invenzione, si chiede Cleo, e quanto invece esiste davvero nella realtà? Daniele continua a pensare a scene di sesso con Diamanda. Non è assurdo? Ormai sa tutto del complotto dei Programmatori Neri, della situazione di pericolo in cui si trova il mondo, e anziché preoccuparsi pensa a scopare. Ma dopotutto Asterisco gli ha detto che ogni cosa si compirà a tempo debito. Ed è Asterisco che decide la strategia, e sa lui cosa fare e quando farlo. Di Asterisco bisogna fidarsi, è uno che fa magie. Del resto, Daniele ha ancora i brividi se ripensa al trip dell’altro giorno, quando si è ritrovato in volo su Manhattan per poi attraversare il fuoco e arrivare a uno stato di scintillante autostima, quasi un orgasmo, senza capire se era reale o no quello che stava vivendo. Scoparsi Diamanda. Ci potrebbe provare davvero, pensa Daniele. Un modo di vendicarsi di Cleo. E di Asterisco. No? «Ci preoccupiamo di essere presentabili fuori – dice Diamanda. – le rughe, i capelli, i denti…». Nessuno ha ancora toccato il secondo giro di birre. «Ma dentro… dentro com’è che siamo adesso? Pensate ai nostri polmoni quando siamo nati. Quei due sacchetti nuovi di zecca che si gonfiavano per la prima volta. E adesso? Come saranno? Non li vedremo mai. E il fegato? Il nostro fegato…». Daniele sorride e manda giù un sorso. Ma nel suo boccale non c’è birra. È una robusta sorsata di “colostro dello gnomo” quella che gli scende nello stomaco. Tossisce. L’apomorfina svolge in fretta la sua azione: un ammasso caldo di chimo e bolo gli risale velocemente l’esofago e Daniele, anche se vorrebbe proprio, non riesce a fermare il vomito. «Merda», dice contemplando la chiazza gialla sul pavimento. «E vai!», fa Asterisco stracciando lo scontrino. Diamanda ride, lo fa apposta in modo esageratamente sguaiato. Poi, quando è sicura che tutti la stanno guardando, prende il boccale di Daniele e trangugia con calma la pinta di colostro, in un unico sorso. Gli altri al tavolo sono senza parole, solo Asterisco sembra abbastanza tranquillo. «Ma come hai fatto?», chiede Daniele ancora tossendo. Cleo ride. «Diamanda!? – dice – Ci sarà stata non so quanta apomorfina in quel boccale! Come hai fatto a non vomitare? Qual è il trucco?». «Il trucco… – fa Diamanda sorridendo – siete proprio strani voi. Quando non riuscite a spiegare qualcosa con la ragione pensate subito che c’è un “trucco”. È per questo che siete ancora così indietro». Asterisco attacca con tranquillità la sua chiara. Cleo non dice nulla. Pensa, soprattutto, a chi si riferisce Diamanda quando dice “voi”. 37 38 LA MIA VITA NELLA SELVA DEI FANTASMI (Alla faccia di David Byrne, Brian Eno e Amos Tutuola) 39 40 E il bello era che durante la notte, quando come tutte le notti alle tre di notte mi ero alzato per andare in bagno a fare la pipì, mica me ne ero reso conto che non ero a casa mia. Lo realizzavo solo al momento del risveglio definitivo, quando cercando il cellulare sul comodino alla mia destra, come faccio tutte le mattine per vedere che ora è, mi accorgevo che alla mia destra non c’era nessun comodino. Allora mi tiravo su di scatto in quello che, a un primo esame superficiale, si rivelava essere un divano letto ancora chiuso. Avevo dormito sui cuscinoni a fiori, coperto di una coperta gialla, infeltrita e odorosa di canfora. Finalmente in piedi, perlustravo l’appartamento sconosciuto. Piccolo, piuttosto disordinato. Il bagno si raggiungeva – per paradosso – secondo lo stesso percorso automatico che compio ogni notte al buio nel mio appartamento e, più precisamente, giù dal letto dal lato destro, poi sempre dritto, poi a destra, poi di nuovo a destra. Tirando dritto rispetto al bagno si apriva invece il salone male illuminato. Non senza una certa sorpresa scoprivo su un tavolinetto basso una cornice con dorso di cartone compatto e protezione frontale in plastica stirenica, a occhio e croce una Nyttja proveniente da Ikea. Dentro, una foto di Marcovaldo. Al suo fianco, ma tagliato fuori dall’inquadratura, il posteriore di una bestia pelosa e nera, a occhio e croce un cane. Dunque mi trovavo a casa di Marcovaldo, come c’ero finito non era dato saperlo, non così presto almeno. L’altro problema era che io risiedevo a Milano mentre Marcovaldo abitava in Sicilia, non ricordavo esattamente dove, ma c’era comunque di mezzo un viaggio di qualche centinaio di chilometri di cui io, ahimè, non avevo alcuna memoria. Decidevo quindi di farmi un caffè e mettermi a riflettere su questa strana faccenda. La cosa, in fondo, aveva un suo lato affascinante. Riesumata la caffettiera nella credenzina in formica (difficoltà: facile) e reperiti i complementari fondamentali (polvere di caffè + zucchero, difficoltà: media) sbrigavo la pratica con disinvoltura. La questione “uscire e indagare” presentava invece una criticità a prima vista insormontabile. Non avendo infatti (né essendo riuscito a trovare) le chiavi dell’appartamento, delle due l’una: o uscire lasciando la porta aperta/socchiusa per poter rientrare in seguito a mio piacimento (potenziali scenari conseguenti: ingresso di ladri, ira di Marcovaldo, etc.) oppure uscire chiudendomi la porta alle spalle (pro: salvaguardia dell’abitazione; contro: impossibilità di rientrare). Considerandomi tipo da bruciarsi i ponti alle spalle, optavo per la seconda e mi ritrovavo in strada. L’aria era collosa e fiacca. Un vento caldo sollevava gracchianti mulinelli di cartacce sull’asfalto grigio. Anche le persone incontrate presentavano un aspetto malato. Mi guardavo i piedi e con un palpito di ilarità scoprivo che ero scalzo. Come nei sogni, pensavo, se non fosse che quello, miei gentili amici, era un incubo. Il caso voleva che un mercatino dell’usato si aprisse in una delle piazze che attraversavo in quella mia camminata mattutina. Cercavo, trovandola subito, una bancarella di scarpe. Nelle tasche reperivo un biglietto da cinquanta euro. Dovevo considerarlo l’intero ammontare delle mie finanze, fino a quando non avessi capito meglio cosa stava succedendo. Il paio di scarpe che costava di meno richiedeva un investimento, non indifferente, di venti euro (alternative valutate: continuare a camminare scalzo, acquistare ciabatte di basso lignaggio. Entrambe rigettate per motivi che qui non interessano). «Il caso vuole che sia uscito di casa scalzo e non abbia le chiavi per rientrare», dicevo al panciuto scarpivendolo. Questi mi guardava le estremità nude e sorrideva, fiatando sporco. «L’omu senza furtuna va sempri a la peduna», diceva poi guardandosi le unghie. «Prenderei queste», proponevo io soppesando di tra le mani le due cioce col costo più basso. «Voi applicate sconti o ribassi di sorta?», proponevo al fine. L’uomo mi guardava e mi riguardava e alla fine proponeva il suo enigmatico patto, con il dialetto che lasciava luogo all’italiano: «Ve le do gratis, a condizione che accettiate questo fogliettino di carta». 41 42 1. Tirava poi fuori dalla tasca un cartoncino bianco ben ripiegato. Accettavo di buon grado, non vedendo lati negativi nell’accordo. Ben felice, uscivo dal mercato con i piedi finalmente calzati e i miei cinquanta euro ancora intonsi nelle tasche. C’era quasi da festeggiare trincando un negroni al primo bar che avrei incrociato, quando la curiosità mi colse come una febbre formicolosa sulla nuca. Prendevo il cartoncino, lo dispiegavo e, con l’orrore che mi faceva tremare i denti, ne leggevo il simbolo nero tracciato da una mano spietata sulla carta: un asterisco. Tutta la mia vita, allora, mi tornava di prepotenza nelle carni e nello spirito e io sapevo chi ero. Tutto ricordavo e non mi piaceva, miei gentili amici, non mi piaceva proprio. e si guardava intorno. Così vede le cose Boccanima, diceva Cuoredigomma. Boccanima era un nostro amico, qualunque cosa significhi questa parola, e forse era vero: aveva una visione davvero piccola del mondo e della vita. Allora io e Cuoredigomma ce ne stavamo lì in macchina, con la mano chiusa a occhei sull’occhio destro, e vedevamo il mondo attraverso quel forellino tra le dita. Vedevamo il mondo come lo vedeva Boccanima. Era davvero triste vedere il mondo così piccolo, per noi abituati a vederlo nella sua terrificante grandezza. 3. 2. «Questo non è il Kansas, Toto» Marcovaldo, come chiunque avrà già capito, non si chiamava davvero Marcovaldo. Nessuno potrebbe avere un nome così bislacco. Marcovaldo infatti era il soprannome del mio amico, il cui vero nome era Cuoredigomma. Io mi ricordo ad esempio certe serate tristi in cui io e il mio amico Cuoredigomma, famoso imbianchino, ce ne stavamo seduti nella sua Peugeot 205 a contemplare Palazzo della Civiltà del Lavoro oppure Piramide, serate passate a chiacchierare senza aver assunto né alcol né droghe. A meno che non si consideri droga la piena consapevolezza di essere vivi su questa Terra. In quelle serate lì, il mio amico Cuoredigomma diceva che ogni uomo ha una differente apertura mentale, che ci sono uomini che vedono in formato panoramico, tridimensionale e globale, che quando considerano una questione ne vedono immediatamente ogni profondità e ogni dettaglio, uomini che hanno una specie di grandangolo mentale. E ci sono uomini che invece, non è colpa loro, ma hanno una visione delle cose ristretta, che vedono tutto come attraverso un buco della serratura. Boccanima, diceva Cuoredigomma, Boccanima è uno che ha una visione delle cose così. E così dicendo faceva il segno dell’occhei con la mano destra, l’unghia dell’indice premuta contro il polpastrello del pollice e le restanti tre dita a raggiera, come una cresta di gallo. E si metteva la mano sull’occhio destro, l’altro chiuso, 43 (Dorothy al suo cane, appena arrivati nella terra di Oz) E due. Anche stamattina mi sveglio in un posto che non conosco. L’ultima volta era successo qualche settimana fa, mi ero svegliato a casa di Marcovaldo in Sicilia, io che abito a Milano. Poi, non ricordo come, ero tornato alla mia vita di sempre. Il mio lavoro, le mie cose, le care vecchie persone di ogni giorno. Stamattina, di nuovo, non sono più a casa mia. È il telefono a svegliarmi. Una voce inglese dice «Hello, mister …?». Dice un cognome che lì per lì non capisco. «Yes?», rispondo io in automatico dopo aver sollevato la cornetta, senza neanche chiedermi come mai sto parlando in inglese. «I’m sorry but it’s 2 pm. dice la voce, molto dolcemente - According to the hotel policy, you should check out at noon». «Ok, thank you», faccio io e aggancio. Mi guardo intorno e non c’è niente che io riconosca, né un oggetto né un vestito. Non ci sono valige nella stanza, non ci sono documenti. Apro l’armadio: c’è un completo grigio scuro, una camicia e un paio di scarpe comode. Io sono nudo. Indosso tutto e corro alla reception. Nei corridoi rivestiti di moquette persone pigre mi incrociano senza guardarmi, gli inservienti governano con calma il ronzio degli aspirapolvere. 44 Alla reception, una bella ragazza africana mi chiede il numero della stanza. Guardo la tesserina magnetica che ho in tasca. «Eight four - five», dico con aria incerta. La ragazza digita qualcosa, recupera la chiave e mi passa un foglio da firmare dicendo «May I have your credit card, please?». Guardo nel mio portafoglio, prendo la mia carta di credito. Almeno quella è la stessa di sempre. La ragazza fa strisciare la carta. «Ok», dice. Tiro un sospiro di sollievo. Almeno le mie finanze on line funzionano. Mi passa uno scontrino e mi riconsegna il passaporto. Firmo lo scontrino. Apro il passaporto. C’è una faccia nella foto. è la mia faccia. C’è un nome: Talpa Fieradinoce. Non è il mio nome. Dico «Thank you» ed esco. Ma dove vado? Fuori fa caldo, ma non troppo. Non riesco assolutamente a capire dove sono. Potrebbe essere un paese dell’estremo oriente, viste la facce in giro, ma molte scritte sono inglese. Sembra una chinatown qualunque in una metropoli americana. La cosa più semplice da fare sarebbe quella di fermare qualcuno e chiedere: mi scusi, che posto è questo? Ma non riesco a farlo, non voglio farlo. Farlo significherebbe ammettere che questa follia esiste e io ci sono dentro. Va bene, per la seconda volta mi sono svegliato in un letto che non è il letto in cui sono andato a dormire ieri sera. Può succedere, non so come, ma può succedere. Per ora, cerchiamo di tornare a casa. Quella mia, quella vera. Decido di esplorare la stanza che ho appena lasciato. Magari se cerco bene là dentro trovo qualcosa che mi farà capire di più. Rientro nell’hotel, nella totale indifferenza del personale alla reception. Prendo uno dei quattro ascensori che si aprono sulla sinistra dell’enorme hall. Premo il tasto ‘8′. L’ascensore parte. Non è un sogno, allora. Nei miei sogni, gli ascensori su cui salgo si muovono sempre in orizzontale. Questo invece va dritto su, velocemente. Le porte si aprono. Il cartello mi dice che le stanze da 801 a 825 sono a sinistra, quelle da 826 a 850 a destra. Vado a destra. La porta della stanza che ho appena lasciato è socchiusa. Entro. Porcogiuda. Sul letto c’è già qualcuno. Un uomo bianco dai capelli lunghi e biondi, completamente nudo. Tre donne, altrettanto nude, gli sono intorno. Una, nera, gli ha sollevato il cazzo, davvero gigantesco, e se lo sta per portare in bocca. L’uomo mi guarda e ride. Le donne neanche si accorgono della mia presenza. Esco dalla stanza dicendo «I’m sorry». Sono di nuovo nel corridoio. Fanno in fretta ad assegnare le stanze in questo hotel, penso, quando alle mie spalle una voce, che conosco bene e che non sentivo più da tanto tempo, parla. «Talpa! Il solito vecchio porco», dice. Mi giro. è… ma com’è possibile? Stellare. è Stellare. «Stellare le dico - tu qui?». «Ti piace guardare quelli che si fanno fare i pompini, eh?», mi dice la ragazza. Stellare. Erano anni che non la vedevo. E la incontro di nuovo qui, qualunque cosa significhi “qui”. «Io… - inizio a dire - mi spiace, sono sparito. Avrei voluto chiamarti, credimi, sentire come stavi, ma poi… ogni volta…». Stellare ride. «Ma che ti frega?», mi dice. «Dai, andiamo adesso». Inizia a camminare. La seguo, convincendomi che almeno lei sappia qual è l’uscita da questo incubo. Attraversiamo di nuovo la hall dell’albergo e siamo fuori. Mi rendo conto che non so che ora è. Guardo il cielo. Sembra tardo pomeriggio, un bel tardopomeriggio estivo, eppure quando mi hanno svegliato al telefono mi hanno detto che erano solo le due. «Vieni, vieni», mi dice Stellare. La gente intorno a noi schiamazza. Motorini e taxi passano in continuazione. Non è facile parlare, anche se Stellare è vicina. «Stellare», la chiamo. Non mi sente. «Stellare, ma tu che ci fai qui? Dove stiamo andando?». Ma lei non risponde. Arriviamo in una specie di agenzia di viaggi. Un grande stanzone con manifesti alle pareti. Cifre e nomi, non ne conosco neanche uno. Ci sono varie casse di fronte alle quali si sono formate alcune file. «Cosa devo fare ora?», chiedo a Stellare, ma lei è sparita. Mi guardo intorno, la cerco con gli occhi, ma niente da fare. Non c’è già più. «Lei è in fila?», mi chiede uno alle mie spalle. Mi giro. «è italiano?», faccio io. Gli occhi mi si illuminano. «Sì - risponde lui adesso non è che perché due italiani si incontrano all’estero devono per forza fare amicizia», dice con una voce secca. Lo guardo sbarrando gli occhi. «è incredibile! - esclamo - è quello che ho sempre pensato anch’io. Ma vede, ora per me, la situazione è completamente diversa. Vede, io non so…». Quello mi interrompe. «Senta, non mi interessa nulla di cosa sa e di cosa non sa lei. Io ho già capito che tipo è lei. Lei è uno di quelli che quando vanno all’estero parlano di calcio con i tassisti, che cercano un ristorante italiano perché schifano qualunque altro tipo di cibo e che per quanto viaggino in lungo e in largo per il mondo sono convinti che l’Italia sia il posto più bello del mondo, così, per puro pregiudizio nazionalista». 45 46 Sorrido, sono eccitato. «Io sono ammirato - dico all’uomo che ha appena finito di urlarmi contro - mi creda, sono ammirato, lei ha fatto un ritratto dell’italiano medio, proprio del tipo di italiano che io odio e che io stesso non avrei saputo descrivere meglio». Vorrei abbracciarlo, felice come sono di aver trovato un mio simile, ma quello mi scansa con una manata e guadagna il posto davanti al botteghino. Dice un nome assurdo, poi tira fuori monete mai viste e riceve dall’omino dietro al vetro un bigliettino rosa. «Come si chiama il posto in cui va?», faccio io. «Le prego, lo dica anche a me, così ci vado anch’io…». L’uomo mi guarda, sempre storto. «Ma dove vuole andare, lei?! Villaggi Valtur, patetica animazione e schifosi buffet internazionali. Questo si meritano quelli come lei». E se ne va lasciandomi solo col mio smarrimento. Esco dall’agenzia. Un taxi si ferma davanti a me. Il tassista si sporge verso il lato del passeggero dicendo una parola strana. «Come?», faccio io. Il tassista ride. «A-ah! Italleeano?! - dice - Fo-zzah Totte! Fo-zzah Be-lluscone!». Mi apre lo sportello. Decido di salire. Dove vado adesso? Dove gli chiedo di portarmi? Poi l’illuminazione. «To the airport - dico - take me to the airport please». Gli aeroporti, i grandi stargate del nostro tempo. Dovunque sono, prendo il primo volo verso l’Italia, anche solo verso l’Europa, e in un modo o nell’altro torno a casa. Ma il tassista mi guarda come se non avesse capito. «Airport - ripeto - Aeroporto!». «A-ah! - fa quello - Aerroporte. E pa-lla comme mangia, no?». Mi accorgo solo in quel momento che non sono solo sul sedile posteriore del taxi. Accanto a me c’è una donna completamente ricoperta con il burqa. «Good evening», dico sommessamente. La donna abbassa il capo in segno di saluto. Tutto questo è totalmente assurdo, ma ormai è inutile starci a riflettere. Il taxi nel frattempo si è già lasciato alle spalle il centro della città e ha raggiunto una lunga strada rettilinea a quattro corsie. A un certo punto la macchina su cui ci troviamo supera qualcosa sul ciglio della strada. Qualcosa che ha proprio l’aspetto di un canguro. Mi giro verso la donna, ma è impossibile capire se l’ha visto anche lei e, se sì, quale reazione ha avuto. Il tassista è totalmente assorto nella guida. Il traffico aumenta. Dobbiamo praticamente fermarci. L’autista sbuffa e mette in folle. Sento picchiettare sul fianco esterno della portiera accanto a me. Mi giro verso il finestrino e faccio un salto di lato urlando. Il tassista si gira pacifico, vede la stessa cosa che ho visto io e ridacchia. «Ppaura ppaura ita-lleano - caccasotte, ih ih ih». A fianco del taxi c’è un animale mostruoso, una bestia con il corpo di canguro e anche la testa di canguro, se è per questo, ma la dentatura non è certo quella di un canguro. Non so esattamente che tipo di dentatura ha un canguro, ma di sicuro non questa. Questo animale che vedo dal finestrino ha i denti di un predatore, di un coccodrillo, di uno squalo, di qualunque altra cosa ma non di un canguro. Sembra il mostro di Donnie Darko, sembra Lugaru. Lo so, lo so, questi erano conigli, non canguri, ma il senso di terrore che trasmettono è lo stesso. Mi avvicino alla donna velata. «Talpa! - dice questa - allora dice bene il tassista che sei un cacasotto». La guardo incredulo. Lei si toglie il velo dal viso. «Stellare! - dico - ma come…». La mia vecchia amica ride e si toglie tutto il Burqua, con grande eleganza. Sotto è vestita da togliere il fiato. Toppino bianco, minigonna aderente di pelle, collant. Uno schianto. Il tassista la guarda dallo specchio retrovisore e fischia. Intorno a noi i mostrocanguri sciamano attraversando la grande strada a quattro corsie che porta, così almeno credo, all’aeroporto. Saltano e digrignano i denti verso gli autisti. Guardo le facce degli altri passeggeri nelle altre macchine e mi rendo conto di essere l’unico a essere spaventato da questi animali. Quando il branco di mostri saltellanti è passato, sparendo nella boscaglia che si apre sui due lati, il traffico si sblocca e ripartiamo. «Finalmente», dice Stellare. Poi mi guarda, mi sorride. Io non so più cosa pensare. «Allora ciccio? - mi chiede la mia vecchia amica sei pronto per la grande festa?». 47 48 CHINA NOOK TO 49 50 In loving memory of John Coltrane Parte prima Acknowledgement Uno dei giorni più importanti della mia vita è iniziato alle quattro del mattino, mentre intorno a me risuonava un martellante segnale d’allarme. Era il periodo in cui vivevo a Manchester, tirando avanti come cameriere in un pub dall’improbabile nome di “Godot Wine Bar”, dalle parti di Chorlton-cum-Hardy, e quel giorno lì, anzi quell’alba lì, era l’alba che precedeva uno dei miei day-off. Il day off sarebbe il giorno di riposo. Dunque è giusto dire che uno dei giorni più importanti della mia vita è stato un giorno di riposo. Dire perché quel giorno lì sia stato uno dei più importanti della mia vita è qualcosa che adesso non mi va di fare. Né starò, qui e ora – e di questo potete esser certi – a raccontarvi per filo e per segno, come si suol dire, cosa è accaduto in quel giorno (giorno che resta tuttavia uno dei più importanti della mia vita), no davvero. Mi sembra fondamentale, invece, dichiarare, qui e ora, che dopo quella fase solita, in cui il sogno e la veglia si mischiano, mi svegliavo definitivamente per rendermi conto, non senza una certa irritazione, che erano appena le quattro del mattino e che, conoscendomi bene, di sicuro non mi sarei riaddormentato. Mi affacciavo, allora, all’unica finestra della mia stanza in affitto, quella che dava sul vicoletto di Chuzzlewitt Mews e da lì mi godevo lo spettacolo notevole dell’opaca alba che soffocava i 51 sobborghi di Manchester. Il martellìo proveniva dall’allarme antincendio di uno dei negozi del vicolo. Immediatamente provai un senso di gratitudine nei confronti di quel rumore. Anziché maledirlo, perché mi aveva svegliato all’alba dell’unico giorno della settimana in cui potevo dormire fino a tardi, gli fui grato. Cercherò di spiegare perché. Il fatto che all’epoca vivessi in Inghilterra, mi portava più frequentemente del solito a pensare con parole inglesi. E così, mentre guardavo con amore il segnale di allarme, mi si formava nella testa la parola acknowledgement. La mia testa fumosa, ancora persa nelle nebbie del sogno (non vi dirò mai – e di questo potete esser certi – cosa sognai la notte, o meglio l’alba, precedente uno dei giorni più importanti della mia vita. Mai), era tuttavia riuscita a sintetizzare in quell’unica perfetta parola inglese tutti i concetti di gratitudine, riconoscimento e conferma che provavo al massimo grado. Una possente e chiara consapevolezza della mia condizione, a questo mi aveva portato il deng deng deng dell’allarme antincendio di Chuzzlewitt Mews. Ci sono stati periodi della mia vita in cui anche le più comuni attività fisiologiche, quali ad esempio la defecazione e il sesso in ogni sua forma, hanno costituito per me un problema. Periodi in cui la tensione verso qualcosa (più raramente verso qualcuno) era tale che anche l’atto del respirare doveva essere gestito con controllo e pazienza. Dovevo, in altre parole, richiamarmi ogni istante a me stesso per ricordarmi di vivere. Ma tutto questo, che qui e ora scrivo in modo così chiaro e consapevole, mi era del tutto ignoto in quei periodi lì. In pratica c’era un mio me stesso chiuso in questa trappola cianotica, il mio me stesso più autentico vorrei dire, e un altro mio me stesso, inconsapevole della sua condizione di afflitto, che continuava a vivere come se nulla fosse. Il segnale d’allarme, in quell’alba di Manchester, fu dunque catartico. Improvvisamente – ecco l’acknowledgement, la rivelazione fulminea – io capii finalmente con tutto il mio corpo e il mio spirito che ero un individuo in uno stato di allarme, che tutto ciò che riguardava la mia vita era allarmante, che ero in pericolo, in emergenza. E che dovevo salvarmi da tutto questo. Rinvigorito da questa poderosa nuova consapevolezza, mi lavai e vestii con le prime cose che trovai sulla sedia accanto al letto e 52 uscii pieno di rinnovata energia verso quello che – ancora non lo sapevo – sarebbe stato uno dei giorni più importanti della mia vita. Aprii la porta della mia abitazione. Dal pianterreno salivano i bagliori delle fiamme. Le scale erano invase dal fumo. Parte seconda Resolution Ci sono momenti in cui le dissertazioni filosofiche appaiono in tutta la loro poderosa marginalità. Ad esempio, quell’alba lì, l’alba di uno dei giorni più importanti della mia vita, l’aver ragionato a fondo sulla rivelazione fulminea della mia condizione di uomo in allarme era qualcosa di totalmente secondario rispetto al fatto di trovarmi intrappolato tra le fiamme nel mio appartamento di Manchester. Bisognava agire, dunque. Ero un po’ a disagio. Sono sempre stato più bravo a pensare che a fare. Starmene seduto a fumare e a pensare. Probabilmente la cosa che mi riesce meglio nella vita. Quella volta lì, invece, mi toccava proprio trovare una soluzione, cioè muovermi, fare cose. Non è che uno può starsene così, barricato in una stanza in un palazzo in fiamme ad aspettare il fuoco e la morte. Morire proprio ora che avevo raggiunto una così chiara consapevolezza del me. Che smacco. Morire proprio ora che mi trovavo all’alba di uno dei giorni più importanti della mia vita (questo però ancora non potevo saperlo. A posteriori posso comunque ben dire “che smacco”, però). No, dovevo fare qualcosa. Escogitare un piano di fuga e, attenzione signori, metterlo in atto. Dio mio, ne sarei stato capace? L’azione! Come diceva quel filosofo che avevo conosciuto tanti anni prima? “Un cervello non serve a pensare, serve ad agire!”. L’avevo scritta con la vernice sul muro della mia casa natia, a Düsseldorf. Una frase chiave, senza dubbio una delle frasi più importanti che io abbia mai letto in vita mia, fonte di ispirazione di non so più quanti pensieri e – va tuttavia detto – di poche, pochissime azioni. Poi ho pensato che anche fumare era un’azione, in fondo. E così ho estratto una paglia dal pacchetto e ho cercato l’accendino sul tavolinetto in formica che mi faceva da comodino. Poi mi sono detto: “quando mi capita più un’occasione del genere?”. Ho allora aperto la porta del mio appartamentino di 53 Manchester. Le fiamme ormai avevano divorato già il pianerottolo di fronte alla mia porta di ingresso. L’ambiente era pericolosamente invaso dal fumo e io respiravo a fatica. Il corno più ampio di una fiamma crollava vicino al campanello della mia porta di ingresso. «Che storia, se ora suonasse», pensai per qualche secondo. Poi mi decisi. Avvicinai la paglia che avevo tra le dita alle fiamme e l’accesi. Accendersi la sigaretta con un incendio. Non capita tutti i giorni. Cominciai a canticchiare una vecchia canzone che adoravo, storpiando un po’ le parole. «Ti piace fumare? / E io ti metto su un incendio per accendino / tu-ttu-tu / ti lascio immaginare / cosa succederebbe / se tu volessi nuotare / tu-tu-ttu». In quel momento sentii un rumore nella stanza da letto. Tornai indietro. L’estremità superiore di una scala estensibile aveva arpionato il mio davanzale. Mi aspettavo di veder sbucare l’elmetto di un pompiere. E invece vidi la visiera di un poliziotto. «Mr. Koch?», chiese quello. Koch. Da quanto tempo non sentivo più quel nome. Mi ero ribattezzato China Nook To. E tutti qui a Manchester mi chiamavano così. E tuttavia «sì», dissi, «sono io». «Mr. Koch – proseguì il poliziotto – lei è in arresto per incendio doloso. Ci segua in centrale». Non erano neanche le cinque del mattino. Parte terza Pursuance Le immagini riprese dalle videocamere di sorveglianza in Chuzzlewitt Mews mostravano il vicolo inquadrato dall’alto. L’orologio visualizzato in sovrimpressione dichiarava che quelle riprese risalivano alle 3:29 di quella mattina. Quando il timer segnò le 3:31 un giovane uomo apparve nell’inquadratura. Indossava solo boxer e maglietta e un paio di ciabatte infradito. Nella mano destra teneva quella che sembrava proprio una tanica di benzina. Il giovane uomo, dopo aver sparso il liquido sui portoni del vicolo, prendeva l’accendino che aveva nell’altra mano e gli dava fuoco. Poi spariva dall’inquadratura. 54 «Riconosce quel giovane?», mi chiese il commissario dopo aver premuto il tasto STOP. «Che domande! – dissi senza staccare gli occhi dai monitor – certo che lo riconosco. Sono io». Eravamo alla stazione di polizia di Longsight, al numero 2 di Grindlow street. Ci eravamo arrivati in un lampo, lungo le strade sgombre di traffico. Manchester, a quanto potevo giudicare guardando dal finestrino, doveva ancora svegliarsi. «Dunque lei ammette di aver appiccato un incendio alle abitazioni di Chuzzlewitt Mews?». «Beh, questo è un modo di vedere la cosa». «Ah, ci sarebbe dunque un altro modo?», chiese il commissario. «C’è sempre un altro modo». «E sarebbe?». Mi guardai intorno, mi tastai la tasca del giubbetto. «Posso fumare?», chiesi. «Direi di no». «Capisco». Ci fu un lungo silenzio. Il monitor che fino a quel momento era stato in pausa sull’ultimo fotogramma della registrazione del vicolo andò automaticamente in stop. Il riverbero delle fiamme verdastre immortalate sul nastro brillò ancora per qualche istante sul nero del monitor. «Ha preso in considerazione l’ipotesi del… sonnambulismo?», azzardai io. «Sonnambulismo?». «Sì, attività automatiche compiute durante il sonno in totale stato di incoscienza». Il commissario si sistemò meglio sulla sedia. Proseguii con il tono della voce più sicuro. «Ecco – dissi – sarebbe proprio questo l’altro modo di vedere la cosa. Da un lato è vero che io ho appiccato l’incendio di Chuzzlewitt Mews. Dall’altro lato è altrettanto vero che quando ho compiuto quel gesto mi trovavo in un totale stato di incoscienza». Il commissario mi guardò. Non riuscivo minimamente a capire se aveva abboccato oppure no. «Lei può dimostrare di soffrire di questa patologia, di questo disturbo del sonno?». «Beh… no». Il commissario sbuffò ridendo. Capii di aver commesso un passo falso. «Mr. Koch – disse lui – temo proprio che la sua posizione si stia complicando». «È strano, perché invece io ho una sensazione diametralmente opposta». «Non capisco». Mi schiarii la voce. «Ecco vede – dissi – è da stamattina all’alba che mi sento… come dire? Bene. Proprio bene. Mi sembra di avere una visione più chiara delle cose. E se non fosse per questo piccolo incidente dell’incendio…». «Piccolo?». «Mi lasci finire, la prego. Stavo dicendo: io sono convinto che al termine di questa giornata la mia vita diventerà decisamente migliore e più parlo con lei più mi persuado del fatto che anche lei, signor commissario, avrà un ruolo in tutto questo». «Mr Koch. Lei è il piromane più strano con cui io abbia mai avuto a che fare». «Non sono un piromane, signor commissario, sono solo un giovane innocente in vacca». «In vacca?». «È un modo dire». Il commissario corrucciò lo sguardo. «I’m a young innocent guy fucked up», dissi. «Capisco». «Ma mi creda, signor commissario, al termine di questa conversazione io sarò un uomo nuovo. E glielo ripeto: lei avrà un ruolo in tutto questo». 55 56 Parte quarta Psalm «Da quanto tempo è residente a Manchester?». «Un paio di anni circa». «Occupazione?». «Lavoro come cameriere al “Godot Wine Bar”». Il commissario mi guardò con le palpebre strette a fessura. «Godot Wine Bar?», chiese. «Proprio così, il pub in Stationery Shop Street». Il commissario si colpì la fronte con la mano. Credevo che gesti simili li facessero solo nei film. «Ma certo! – disse – ci ho mangiato qualche volta. Fanno una spettacolare tagliata di bisonte canadese». «Può dirlo forte, signor commissario». «Vede, Mr. Koch – disse il commissario – lei mi sembra un bravo ragazzo, in fondo. Ma c’è quel filmato che la inchioda. Io non posso fare finta di niente. Lei ha appiccato un incendio. E io devo applicare la legge». In quel momento un agente entrò portando due grosse tazze di caffè. Le posò sul tavolo, una di fronte a me e l’altra di fronte al commissario e uscì. «Senta – dissi io – sono intenzionato ad andare fino in fondo a questa conversazione e ad accettare il mio destino, qualunque esso sia. Ma ora io devo a-s-s-o-l-u-t-a-m-e-n-t-e fumare. La prego, mi permetta di accendermi una sigaretta». Il commissario mi guardò a lungo, poi si alzò, chiuse a chiave la porta della stanza in cui ci trovavamo e si mise seduto. «Prego – disse – ma non la tiri per le lunghe». Lo ringraziai con un cenno del capo. Estrassi una ciospa dal pacchettino che avevo nella tasca anteriore del giubetto e la infiammai. Tirai una lunga boccata e poi fiatai fuori una fumata bianca. «Ecco – iniziai – questa mattina ho avuto quella che non riesco a definire in altro modo se non come una visione interiore. E così, ora, io ho la chiara consapevolezza di trovarmi di fronte a una svolta della mia vita. Una svolta che inizierà proprio oggi. Da oggi, se le cose andranno come mi auguro, la mia vita sarà diversa e migliore. Ma prima…». Il commissario mi fissò con il mento verso l’alto. Avevo completamente catturato la sua attenzione. «Ma prima… - continuai – …prima ho bisogno di un segno». «Un segno?». «Proprio così. Un segno». «Che tipo di segno?», chiese il commissario, quasi sottovoce. «Voglio avere la prova che l’amore gratuito esiste». Il commissario continuò a fissarmi. Avrei potuto giurare che neanche una cellula del suo corpo avesse compiuto il minimo movimento. «Vede, signor commissario. Siamo qui, io e lei, soli in questa stanza. Qualunque cosa lei deciderà, sarà legge. Io sono colpevole, lo riconosco. E lei è la legge. Lei è Dio, signor commissario, qui dentro lei è Dio. Ora, io chiedo a Dio il perdono. Chiedo a Dio di dimostrarmi che è davero capace di perdono e di clemenza. Voglio essere il destinatario di un gesto di amore gratuito e supremo. Mi lasci libero, signor commissario, mi lasci andare». «E così io sarei Dio?», chiese il commissario, con una smorfia di riso impercettibile. Non risposi nulla. «E lei vorrebbe una prova da Dio». Di nuovo non dissi niente. «Lei dovrebbe sapere, Mr. Koch, che è un peccato tentare il Signore». Tirai una nuova lunga boccata di fumo. «Ma io non sto tentando il Signore, signor commissario. Io non sono Satana. Io sono un peccatore. E ho bisogno di salvezza». Ci fronteggiammo per qualche secondo in silenzio. Quel discorso ci aveva portato entrambi oltre la frontiera della nostra umanità. «Ci pensi bene, signor commissario – ripresi io – in questo momento, lei ha due possibilità. Applicare ciecamente la legge, mettermi in arresto, fare il suo dovere insomma. Oppure cancellare le prove, lasciarmi libero e permettermi di iniziare la mia nuova vita. Come ripeto, signor commissario, per me, lei, in questo momento, è Dio. E io non posso fare altro che rimettermi alla sua volontà». Spensi la cicca sotto il tacco delle mie Dr. Martens viola. Il commissario si alzò. Girò intorno al tavolo con le mani dietro alla schiena. Anche nell’eccezionalità del momento non potevo fare a meno di notare come questo commissario assumesse sempre atteggiamenti stereotipati, da film. Si girò verso di me, mi fissò negli occhi. Ricambiai quello sguardo. Il commissario, allora, estrasse il nastro dal videolettore e lo buttò nel cestino metallico, poi prese il modulo che aveva davanti, lo appallottolò e lo gettò nello stesso contenitore. «Mi dia l’accendino», 57 58 disse. Gli porsi il mio zippo. Il commissario lo innescò e diede fuoco al contenuto del cestino dei rifiuti. «Lei è libero, Mr. Koch – mi disse guardando il nastro e la carta che ardevano – lei è libero». Mi incamminai con le mani in tasca lungo Grindlow Street. A quanto potevo giudicare, guardando il cielo, il tempo sarebbe stato sereno per tutto il giorno. Quel giorno lì era uno dei giorni più importanti della mia vita. Anzi, ormai posso dirlo, era il giorno più importante della mia vita. E non erano neanche le sette del mattino. 59 60 POESIE 61 62 IN QUESTO SPAZIO DISASTRATO E INFORMATICO NOI PRODUCIAMO BELLEZZA SPRECO ENERGETICO Avete dato fuoco alle caserme Per la morte di un tifoso Bravi, vi cingo il capo di alloro Ma dove sono i cantieri in fiamme Per i morti sul lavoro? 63 In questo spazio disastrato E informatico Noi produciamo bellezza Siamo il giardino e il seme Siamo la lama che spezza La radice profonda Del male automatico Dell’uomo ammaestrato Ridiamo e insieme Crepiamo di pianto Nella rete che affonda In carne viva e accarezza Il senso alfabetico Di queste miserie supreme Lo schianto Generiamo e uno strato Di sollievo e una brezza Di niente per andare in onda Siamo il sonno e l’anestetico La veglia e il rimpianto che sfonda. 64 MA, ALMENO TU, L’AVEVI CAPITO CHE SAREBBE STATA QUESTA LA VIBRAZIONE DEL MITO? Ma, almeno tu, l’avevi capito Che sarebbe stata questa La vibrazione del mito? Io per conto mio non c’ero arrivato Pensavo al rumore della tempesta, A un grido, a un ruggito. Invece un sibilo è stato Quello che ci ha umiliato l’udito E poi è sceso sulla foresta Un silenzio che resta Mi sa che significa che tutto è finito e che il bis non è dato. QUELLO CHE NOI VOGLIAMO È QUESTO Quello che noi vogliamo è questo: che le finestre, se serve, diventino oblò. Non ci ferma neanche il peggiore dei guai. Adesso si fa presto: Ce li inventiamo, gli sbocchi. Eppure la nostra adolescenza Non fu che un pretesto: Imparare l’assenza Aspettare un Godot (Che poi è arrivato, lo sai?) (E qualche altra scemenza: Atlas Ufo Robot Sbucciarsi i ginocchi Cantare Boys Don’t Cry Con le lacrime agli occhi) 65 66 SOGGETTO PER UNA POESIA CONTRO I GIOVANI ora per voi ci sono due possibilità: la prima, diventare davvero ricchi e famosi molto improbabile, praticamente impossibile, ma se sarete ricchi e famosi, avete ragione voi, Montale non vi servirà a niente la seconda, diventare persone normali molto probabile, anzi praticamente sicuro, e allora sappiate che c’è una differenza enorme tra una persona normale e una persona normale in grado di riconoscere la bellezza una differenza così grande che voi non siete ora in grado di capirla e ancora di più io non sono in grado di spiegarvela». dico soggetto perché ho solo il contenuto in testa, ma non la forma. cose che mi sono venute in mente quando venerandi raccontava degli studenti che anziché cercare di capire le poesie di Montale preferivano fare aeroplanini di carta pensavo che io al posto di venerandi avrei detto loro voi pensate che la ciccia del mondo sia da tutt’altra parte e non nelle poesie di Montale e magari avete anche ragione, non dico di no voi volete i soldi dei calciatori volete la fica dei calciatori voi volete i miliardi di dollari di Paris Hilton e magari vi accontentereste anche dei milioni di euro dell’ultima velina ma il punto è un altro il punto è che voi non sarete mai calciatori o veline sarete persone qualunque con un quantità tale di merda quotidiana da spalare che l’idea di aver sognato un giorno un futuro di lusso e celebrità vi farà stare così male ma così male che l’unica soluzione saranno le droghe e l’alcol ammesso che avrete abbastanza soldi per permetterveli o più semplicemente la depressione che non costa nulla «ora per voi ci sono due possibilità - così direi ai miei studenti se fossi al posto di venerandi ma appunto non sono al suo posto e questi sono solo appunti per una poesia che non scriverò mai - Ma a questo punto quasi mi rendo conto che questo soggetto di poesia forse non è contro i giovani, come pensavo all’inizio o forse sì, non lo so il punto è che gli adolescenti di oggi, ci piaccia o no, sono quelli che guideranno il mondo di domani ma se gli adolescenti di oggi, come cantano i baustelle, si sfondano di paroxetina e mdma allora il mondo di domani andrà a sbattere. Insomma, questo mi piacerebbe scrivere in una poesia contro i giovani ma non saprei come fare ci vorrebbe un poeta vero tipo venerandi. 67 68 TESTI SPARSI 69 70 LA VITA DOPO Il corpo della vecchia uscì dal furgoncino bianco scortato da tre donne e un uomo. Dal sacco di plastica trasparente, percorso ovunque da gocce ghiacciate, sbucava la testa della donna, ricoperta da uno zucchetto di lana blu, anche questo fradicio di brina. Io ero un po’ di lato rispetto al gruppo, sul retro del palco messo su per l’occasione e abbagliato da due grandi riflettori che impedivano di vedere il pubblico, che pure c’era, affogato nel buio della platea all’aperto. Immaginavo, non potendole vedere, sedie di plastica e teste che si sporgevano per cercare di capire cosa stesse accadendo là dietro e quando sarebbe cominciato il tutto. Intorno a noi l’aria della notte raffreddava in nuvole bianche il nostro respiro. Solo dalla bocca della vecchia morta non usciva nulla. Gli occhi aperti mi fissavano senza vedermi. L’uomo fece un gesto alle tre donne che lo accompagnavano e così, in quattro, fecero uscire la salma dal sacco ghiacciato e la portarono su una barella. Erano tutti vestiti in modo misero, giaccotti blu, scarpe nere e comode, le tre donne con un cappellino di lana, l’uomo a capo scoperto. Io pensavo che la scena mi avrebbe disgustato, invece anche io, alla fine e come gli altri, volevo solo vedere il miracolo. Mi chiedevo pure se per caso dovevo dare una mano ai quattro, ma non feci in tempo a prendere una decisione che il gruppo aveva già portato la barella sul palco. Allora salii anch’io, fermandomi in una zona d’ombra. L’uomo fece un altro cenno alle tre donne e tutti insieme presero a sbloccare gli arti della vecchia, contratti nel rigor mortis. Le ossa, ridistendendosi, facevano un rumore secco. Non doveva essere 71 granché, pensai, riprendere a vivere con le braccia e le gambe spezzate. Quando il corpo fu di nuovo disteso completamente, la vecchia si alzò da sola, senza dire nulla. I suoi arti sembrava non avessero subito alcun trauma. L’uomo e le tre donne erano ora allineati a fianco a lei e fissavano tutti la folla di fronte, già esplosa in grida di entusiasmo e applausi. La vecchia, resuscitata, aveva un’espressione circospetta, ma non sembrava spaesata. I quattro accanto a lei erano, invece, seri e basta. «Ecco la vita dopo!», disse l’uomo alzando il braccio della vecchia che teneva per mano, in segno di trionfo. Solo in quel momento mi resi conto che sul palco, accanto a loro, c’era anche un prete. Sorrideva pure lui, ma si vedeva chiaramente che era in imbarazzo. Perché mica è questa, la vita dopo. STAREMO BENE TUTTI Sento le loro voci già dall’ingresso, tutte le loro voci tranne una. È tardo pomeriggio e sono appena tornato dalla palestra. Appoggio il borsone in corridoio. Ci penserò poi a svuotarlo nella lavatrice. La luce della cucina è accesa. È lì che stanno parlando. Mia nonna mi saluta e vedo loro tre seduti intorno al tavolo, vicino a lei. «La casa è così grande e ci sono bagni e stanze per tutti», dice mia nonna. Appoggia la tazzina di caffè sul piattino azzurro di fronte a lei. Siete più voi di noi», dice poi mia nonna, ridendo. Sono in quattro intorno al tavolo e ci sono solo tre tazzine di caffè. C’è mia nonna, c’è una ragazza con i capelli raccolti a coda di cavallo, un uomo massiccio dalla faccia buona e poi c’è lui. Non avevo visto male: il ragazzo seduto di fianco all’uomo è proprio senza testa. Ha una canottiera blu, la pelle abbronzata ed è senza testa. In mezzo alle spalle, là dove dovrebbe esserci il collo, c’è una cicatrice a forma di croce. Una parte del mio cervello dice che un uomo non può vivere se non ha la testa. L’altra parte del cervello è costretta ad ammettere che lì, davanti a me, c’è un ragazzo senza testa vivo. 72 «Oh, ecco Daniele», fa mia nonna vedendomi apparire nello specchio della porta. «Come stai bello di nonna?». Sorrido, saluto. Mia nonna dice a bassa voce agli altri «Sta sempre in palestra, guardate quanto è bello». Gli altri sorridono e mi guardano, la ragazza mi guarda e sorride. Sorridono e mi guardano tutti meno che il ragazzo senza testa, che non mi può vedere e non può sorridere. Mi chiedo: come si fa a vivere senza vedere, parlare e ascoltare? Come si fa a vivere senza mangiare? Ma il ragazzo senza testa vive. E si tiene anche lui in forma a giudicare dal suo fisico. «Anche ad Alessio piace molto andare in palestra», dice la ragazza accarezzando un braccio del ragazzo senza testa. «Loro sono i nostri nuovi coinquilini», dice mia nonna. E ripete: «La casa è così grande, staremo bene tutti». L’uomo massiccio sorride e fa “sì” con la testa senza dire nulla. Il ragazzo senza testa, non avendo la testa, non può fare “sì”. Come si vive tutta la vita nel buio e nel silenzio? Un solo senso, il tatto, è tutto quello che ha il ragazzo senza testa. La ragazza mi guarda e dice: «Magari tu e Alessio potete andare in palestra insieme qualche volta». Io dico «volentieri» e sento un brivido. Faccio per andarmene, recuperare la borsa in corridoio, svuotarla in lavatrice, chiudermi in camera mia. «Ciao», dico a tutti. Tutti mi salutano. La ragazza sfiora in un certo modo il braccio del ragazzo senza testa e il ragazzo senza testa alza un braccio e mi saluta. Me ne vado senza dire nulla. Mi chiudo in stanza. L’anno scorso c’erano i due senegalesi, poi c’è stata Roberta, sei mesi fa lo studente di Taranto e la tipa che faceva la consulente per la Vodafone. Adesso ci sono l’uomo massiccio, la ragazza con la coda di cavallo e il ragazzo senza testa. Adesso c’è il ragazzo senza testa. Sarà lui che incrocerò in corridoio la mattina quando mi alzo per prepararmi il caffè, sarà lui che vedrò uscire dal bagno con un asciugamano sulla spalla. Adesso c’è il ragazzo senza testa, sarà lui quello con cui dovrò convivere nei prossimi mesi. G.S.C. – LA RECENSIONE Se è vero che gli Stati Uniti sono ancora un melting pot, allora il Canada, che gli sta sopra, ne costituisce il coperchio tremante di bollore. Lo scopriamo, non senza sorpresa, leggendo questa antologia di giovani surrealisti canadesi messa insieme da Fabrizio Venerandi per i tipi delle edizioni I Figli Belli e venduta attraverso lulu.com. La nuova corrente letteraria d’oltreoceano, a giudicare da questi veloci racconti, è la schiuma ineffabile del post-contemporaneo. Si va dai relitti di HTML che affiorano nella prosa di Murter Moric al glaciale umorismo di Ben Miller in Limone, alle ripetizioni, come un’eco impazzita, in Inconcludenze di Peter S. Saly. Va detto subito che il totale di questo progetto è ben superiore alla somma dei suoi singoli racconti (bisogna arrivare alla fine per trovare il pezzo migliore, L’incidente di Anders E. Johansen). Venerandi muove una regia discreta nell’ombra, si intuiscono certe sue preferenze (i racconti erotici firmati da donne), ma alla fine il volume è compatto (a proposito: che peccato che non ci siano le note bio-bliografiche dei giovani scrittori) e restituisce bene il sugo filosofico che bolle in pentola. E il sugo è ben condensato nella frase «Ad un certo punto non successe niente» che appare a bruciapelo nel racconto di Gregorio Facile. Già, qui si confina a settentrione con una eterea ma feroce ultraemotività. Con questi canadesi siamo oltre. Non c’è più quel cinismo che certa narrativa occidentale aveva lavorato fino a consumarne le trame. No, qui il dolore e il piacere sono stati valutati e scartati, in quanto merce che non interessa. Qui siamo nel regno sublime dell’estetica dell’indifferenza, anzi, siamo già un passo oltre questo regno. Qualcuno ha detto che la narrativa contemporanea ha spento la luce nel mondo. Ebbene, questi giovani canadesi sembrano proprio aver imparato a vedere al buio. (SENZA TITOLO #1) così adesso c’è qdos vai su qdos.com ti registri inserisci tutti gli indirizzi web che gestisci direttamente i tuoi siti i tuoi blog i tuoi spazi di community e qdos calcola quanto pesi in rete quanto conti è una specie di indice di popolarità anzi è proprio un indice di 73 74 popolarità però relativo esclusivamente alla web-popolarità così sono andato su qdos mi sono registrato ho inserito tutti gli indirizzi web che gestisco direttamente i miei siti i miei blog i miei spazi di community e qdos ha calcolato quanto peso in rete quanto conto e così sono venute fuori cose strane nel senso che secondo qdos io nella categoria scrittori sono più popolare di joanne harris quella di chocolate sempre limitatamente al pubblico del web si intende ma mi sembra comunque una cazzata e nella categoria artisti in senso lato me la batto per una manciata di punti con milo manara chiaramente queste cose funzionano meglio al crescere dei dati raccolti è chiaro che in una classifica con me milo manara e pinco pallino io me la batto con manara mentre pallino mangia la polvere e comunque questo non giustificherebbe il fatto che sono più popolare della harris comunque sia qdos è lì per dirmi quanto peso in rete mentre quanto peso davvero l’ho scoperto amaramente questa mattina quando la bilancia elettronica mi ha comunicato che sono ingrassato di ben tre chili rispetto al minimo storico che avevo toccato quest’estate al termine per così di quella grande parabola discendente del mio peso corporeo che chiamo la grande dieta proprio per distinguerla da tutte le altre diete più breve e meno efficaci che ho fatto nel corso della mia vita due anni fa infatti ero diventato di nuovo un ciccione dopo fasi alterne di magro grasso più grasso che magro poi invece in concomitanza con l’uscita del mio primo libro e dell’insediamento di prodi al governo veleggiavo verso un dimagrimento invidiabile così nel corso di un numero dignitoso di mesi facendo una dieta seria ma in fondo neanche insopportabile avevo perso qualcosa come quindici venti chili ma non mi pesava neanche più di tanto tutto contento come ero col mio primo libro in libreria e i convegni beckettiani in tutta italia e un sacco di altre cose belle tipo ascoltare frank zappa insomma con tutte queste cose che mi davano soddisfazione mangiare non mi sembrava più una cosa fondamentale come prima anzi la cosa bella era che poi quando andavo a cena fuori o organizzavo una seria cena a casa mia una volta ogni tanto magari anche una volta a settimana mi sembrava molto bello mangiare mi gustavo di più il cibo rispetto a prima quando il cibo era una specie di fissazione praticamente io passavo l’intero fine settimana a fare la spesa cucinare mangiare e riordinare la cucina mia moglie era ovviamente contentissima perché io cucino bene me lo dicono tutti non sto qui a vantarmi però a forza di fare la spesa cucinare mangiare stavo diventando un cicciabomba così poi basta dieta tutti un bel periodo dormivo meglio mi muovevo meglio mi gustavo più il cibo serio quando capitava e tutti a dirmi sei un figurino stai benissimo ma come hai fatto complimenti eccetera e così avanti fino a questo periodo qua dove invece mi tocca registrare una pericolosa inversione di tendenza e cioè tre chili in più sopra il minimo storico toccato quest’estate niente di preoccupante è chiaro ma mi sembra che a partire da quel periodo in cui il mio primo libro era in libreria e prodi era al governo ad oggi che il mio secondo libro sta per arrivare in libreria e il governo prodi è caduto ecco mi sembra che ci sia una specie di alfa e omega di un periodo di magrezza che ora si sta concludendo con esiti devastanti per il mio aspetto fisico e per la mia salute praticamente l’inversione pericolosa di tendenza è iniziata come spesso accade in questi casi sotto natale e così se io sono ingrassato di tre chili in diciamo un mese alla fine di quest’anno sarò ingrassato di trentasei chili fra dieci anni peserò oltre quattrocento chili e così via prima della mia morte il mio corpo potrebbe arrivare a pesare quanto la massa di Plutone e io potrei non essere più in grado di muovermi e allora a quel punto diventerei come una montagna come una parte geologica del pianeta il sole le nuvole mi passerebbero sopra non potrei neanche girare la testa per seguirle con lo sguardo 75 76 (SENZA TITOLO #2) cosi’ arrivo al novotel di lisbona perche’ questo fine settimana lo passo in portogallo alloggio sempre nei novotel mi conviene ho dei buoni sconti i novotel sono come gli starbucks come tutte le catene della grande globalizzazione come gli apple store tutti i novotel sono uguali sono stato al novotel di kuala lumpur al novotel di shanghai al novotel di new york e anche al novotel di lamezia terme per dire sono tutti uguali sai cosa ti devi aspettare una qualita’ minima garantita servizi minimi garantiti arriviamo con il volo delle nove di sera facciamo l’accettazione al novotel adesso dobbiamo uscire e fare il classico primo tour perlustrativo della citta’ che si fa appena arrivi in una citta’ da turista non abbiamo alcuna voglia di fare il primo giro perlustrativo della citta’ molto meglio buttarsi nella lounge del novotel a bere cocktail e navigare gratis nell’internet point che c’e’ in tutte le hall dei novotel allora ordiniamo in inglese alla cameriera portoghese un manhattan e una birra piccola e la cameriera portoghese capisce la birra piccola ma non il manhattan allora chiama un altro cameriere che mi chiede cosa voglio esattamente e il problema e’ che io non ricordo quali sono gli alcolici base che compongono il manhattan e nel frattempo e’ gia’ arrivata la birra piccola per serena che mi guarda come a dire non potevi ordinare una birra piccola pure tu cosi’ a quest’ora eravamo gia’ connessi gratisi ai due prodigiosi iMac nella prodigiosa hall del novotel e io invece mi impunto e voglio il mio cocktail e allora chiedo in inglese al cameriere portoghese mi porti il menu e quello mi porta il menu e io vedo che hanno solo tre cocktail che sono la capirinha il gin lemon e un altro che gia’ non mi ricordo piu’ allora gli dico mi porti una capirinha quello va e prepara mentre serena mi chiede cosa c’e’ nella capirinha io non me lo ricordo allora dico com’e’ la tua birra e lei mi risponde e’ un po’ aspretta e ripenso ai cocktail che abbiamo bevuto nella lounge del novotel di monaco di baviera e li’ c’erano barman moooolto piu’ in gamba che se tu gli dicevi dei cocktail assurdi tipo sidecar tipo negroni sbagliato quelli partivano mescevano e servivano con la ciliega candita infilzata sullo stecchino allora comincio a pensare che forse non e’ vero che tutti i novotel sono uguali forse ci sono delle piccole differenze tra novotel e novotel per esempio ora che ci penso e’ la prima volta che sono in un novotel dove nell’internet point gratuito della hall ci sono dei prodigiosi iMac nuovi di zecca e allora io e serena ci spostiamo nella hall e cominciamo a navigare e’ tutto uguale come sempre una finestra di un browser caratteri che scintillano in uno schermo bianco come ogni giorno in ufficio come ogni giorno a casa mia come ogni novotel in ogni punto del mondo in cui sono stato e vedo che stanno per scadere i 20 min di connessione gratuita domani andremo a vedere l’oceano penso B3CK3TT = M0CC14 PLATANIA: Insomma… poi alla fine anche Moccia, no? Voglio dire… Perché ci sono due anime in Moccia. C’è quella del… più commerciale… KOCH: Sì… quello che volevo dire io è che comunque questa raccolta che è uscita, che raccoglie queste prose brevi, no?... Finora 77 inedite… Io non son riuscito a leggerla alla fine… Ho cominciato no?... Dalla prima... “Compagnia”… Poi però… quando dice… “Tu finirai così come ora sei”… mi sono bloccato PLATANIA: Secondo me… Federico Moccia più che sui romanzi infatti… tipo.. “Scusa se ti chiamo amore”… queste cose qua… è proprio sulle cose brevi che viene fuori… su… su “Compagnia” Moccia è imbattibile secondo me… KOCH: Sì sì sicuramente… una forza… una potenza… una potenza che ti dico mi ha scoraggiato proprio da… dal continuarne la lettura… perché ho intuito dove mi avrebbe portato capisci? … Ai confini estremi della lingua stessa… PLATANIA: Ma il Moccia poeta lo conosci? KOCH: Sì… Sì… PLATANIA: Queste poesie brevi in francese in inglese sono abbastanza… KOCH: Sì… purtroppo… adesso… sto approfondendo adesso la mia conoscenza del francese per poterlo leggere appunto… PLATANIA: Sì perché Moccia va letto in… (scoppia a ridere fragorosamente) KOCH: (risata fragorosa) PLATANIA: (singhiozzando dalle gran risa) Moccia va letto in originale KOCH: (ridendo) Sì… sì… sicuramente… in francese… ma in inglese l’ho letto perché comunque in inglese sono riuscito… sono abbastanza in grado… ma in francese… purtroppo… in francese… in francese no… (ride ancora) PLATANIA: (sghignazza) KOCH: (a mezza voce, scimmiottando il dialetto romanesco) me manca… PLATANIA: Poi c’è il Moccia… oh… il teatro di Moccia (ride) KOCH: (ridendo) Fantastico! … Rimane un mio sogno… Anzi vorrei lanciare… PLATANIA: Mettere in scena tutto Moccia… KOCH: Sì… Sì… Vorrei lanciare un appello… approfittare di questa… di questa diretta per lanciare un appello appunto… a… a chi volesse… a chi… PLATANIA: A chi ha i mezzi per farlo… KOCH: A chi ha i mezzi per farlo e soprattutto… la voglia (ride) … la voglia di cimentarsi con questo grande autore… ecco sì… 78 PLATANIA: Perché poi ci sono… KOCH: Mi piacerebbe poter mettere in scena… PLATANIA: A parte i grandi capolavori tipo “Aspettando Godot” o “Finale di partita”… secondo me il teatro di Federico Moccia viene fuori anche sulle pièce più brevi… KOCH: L’”atto senza parole”! PLATANIA: L’”Atto senza parole” di Moccia… KOCH: Fantastico! PLATANIA: …è spettacolare secondo me… forse lì è proprio il massimo… KOCH: Ecco… Sì sì… Io mi ricordo ancora quello che vidi al festival di Avignone… nel lontano 1984… che era geniale perché lo misero in scena… questa compagnia francese di cui non ricordo il nome… PLATANIA: Non era Peter Brook il regista, no? KOCH: No no… Non era Peter Brook… e… l’”Atto senza parole” come tu ben sai è un atto senza parole… c’è una persona… un attore… che fa delle cose… e questo lo mise in scena… fermo… dicendolo tutto a voce… tutto l’”Atto senza parole”… PLATANIA: Ah quindi proprio proclamando… leggendo le indicazioni di regia… sì sì… (pausa) comunque insomma… è uno dei grandi del Novecento, insomma, insieme a… poi infatti, no? Joyce Kafka Moccia Musil Pessoa… insomma… Pirandello…. So’ questi insomma… i nomi che vengono fuori… KOCH: Sì… ed è scandaloso che non si riescano a trovare… tuttora… PLATANIA: La Trilogia! La Trilogia di Moccia è introvabile! (ride) KOCH: (ridendo) Almeno quella… almeno quella… eh sì… purtroppo… PLATANIA: Eh! KOCH: Purtroppo sai… le cose che vendono son sempre… PLATANIA: Sempre le stesse… Sempre le stesse… KOCH: Le solite… sempre le solite… Beckett… Robaccia così… PLATANIA: Sì… 79 GIORNONOTTE Quindi la sequenza del giorno. Durante il giorno scrive per rendere sopportabile l’attesa. Quindi la sequenza della notte. Durante la notte cammina nella città delle ombre insieme ai morti. La sequenza del giorno. Prima di scrivere si costringe a pensare. Non sognare. Sognare fa parte della sequenza della notte. Prima di scrivere si costringe a pensare e quando ha pensato a sufficienza scrive. Almeno fino a quando una delle voci non lo distrae. Scrive storie di uomini che desiderano la salvezza. Scrive poesie contro i giovani. Poi arriva la voce. La voce dice: «Sei bravo. Scrivi bene. Vogliamo fare un film con le cose che scrivi». La voce dice anche: «Riceverai aggiornamenti in proposito». Poi la voce non parla più. Gli aggiornamenti in proposito non vengono ricevuti. Allora continua a pensare e a scrivere. Con una difficoltà maggiore. Scrive la storia di Buddy Holly che precipita in aereo. Scrive un romanzo sulle origini sataniche del capitalismo. Poi arriva la voce. Un’altra voce. La voce dice: «Sei bravo. Scrivi bene. Vogliamo farti pubblicare con un editore più importante». La voce dice anche: «Riceverai aggiornamenti in proposito». Poi la voce non parla più. Gli aggiornamenti in proposito non vengono ricevuti. Allora continua a pensare e a scrivere. Con una difficoltà maggiore. Scrive la storia di un complotto informatico. Scrive una preghiera che celebra la bellezza dei grandi deserti e delle foreste. Pensa che gli piacerebbe sognare le foreste durante la sequenza della notte. Ma durante la sequenza della notte sogna solo la città delle ombre dove cammina insieme ai morti. La sequenza della notte. All’inizio di ogni sequenza cade nel sonno senza fatica. La fatica arriva dopo. Quando i morti lo costringono a camminare nella città delle ombre insieme a loro. Per tutta la durata della notte. Fino a quando l’inizio della sequenza del giorno non lo libera. Conosce tutti i morti che incontra e tutti i morti che incontra lo conoscono. Allora cammina insieme a loro. Nella sequenza della notte non ci sono voci. A differenza della sequenza del giorno non ci sono voci. Nessuno dice: «Sei bravo». Nessuno dice: «Riceverai aggiornamenti». Allora continua a camminare. Con una difficoltà maggiore. La città delle ombre è come una città qualunque. 80 Ci sono case e negozi. Ci sono strade e automobili. Ma nella città delle ombre camminano i morti. A differenza di una città qualunque camminano i morti. Allora continua a camminare. Con una difficoltà maggiore. Pensa che gli piacerebbe potersi fermare. Pensa che gli piacerebbe potersi fermare e scrivere. Ma non può. Scrivere fa parte della sequenza del giorno. Quindi la sequenza del giorno. Di nuovo. Quindi la sequenza della notte. Di nuovo. Fino a quando non più la sequenza del giorno. Fino a quando non più la sequenza della notte. Solo la città delle ombre dove cammina insieme ai morti. 81 82 NOTE AI TESTI 83 84 * (ASTERISCO) Apparsa a puntate su lamerotanti.com tra il 17 maggio del 2007 e il 21 gennaio del 2008, * (asterisco) è a oggi l’opera più corposa, sebbene incompiuta, che platania ha proposto sul blog. La saga è stata portava avanti, oltre che da platania, anche da Fabrizio Venerandi, Antonio Koch, Mauro Mazzetti e Federico Blò, per un totale di circa 65 capitoli. In questo volume sono raccolti solo i capitoli firmati da platania. La trama, in sintesi, è la seguente: l’informatica non è una conoscenza sviluppata dagli uomini, ma uno strumento ideato da una forma di vita aliena e superiore a quella umana per dominare la Terra. La diffusione dei cosiddetti home computer (i computer “domestici” come il Commodore 64 o lo Spectrum) che si è avuta negli anni ’80 è dunque una strategia per soggiogare gli umani. Non a caso la grande popolarità dei primi computer ha fatto da base al lancio di internet che, con i suoi molteplici servizi interattivi (youTube, aNobii, Flickr, etc.), ha di fatto eliminato la privacy degli individui. Ma un umano, che sceglie per sé il soprannome di Asterisco, scopre il grande complotto cosmico e cerca di contrastarlo. La prima puntata di * (asterisco) apparve su lamerotanti.com il 17 maggio del 2007. Circa una settimana prima (11 maggio 2007) platania aveva postato il seguente testo su lamerotanti.com, quasi ad annunciare a tutti i lettori del blog la grande epopea che stava per avviare: «Io lo so, lo so che oggi è il giorno giusto per iniziare a scrivere una specie di storia a puntate che mi gira in testa da qualche tempo a questa parte. Oggi è uno di quei giorni che non c’è proprio niente da fare e quando non c’è niente da fare è terribile, perché è vero che non ci sono le cose brutte da fare ma è vero pure che non hai voglia di fare quelle belle. Allora è il giorno giusto per fare una cosa né bella né brutta, ad esempio buttare giù la prima puntata di questa storia e magari poi mandarla a lamerotanti per farla pubblicare. Il problema è che lamerotanti non c’è più, è stato chiuso per colpa di Antonio Koch. Antonio Koch – uno scrittore le cui iniziali corrispondono alla sigla di un mitragliatore – un giorno ha deciso di non postare più su lamerotanti e anzi, un po’ come il protagonista di Auto da fé di Elias Canetti, ha distrutto tutto quello che ha scritto. Però il protagonista del romanzo di Canetti dà fuoco ai libri della sua biblioteca (che non ha mica scritto lui) e ci muore dentro. Antonio Koch, invece, cancella tutti i suoi post da lamerotanti (che ha scritto lui) e non muore. Qualcosa di ingiusto c’è. Sia come sia, Fabrizio Venerandi – uno scrittore le cui iniziali non corrispondono a un cazzo – dice basta, così non si può andare avanti e chiude lamerotanti, un blog collettivo che aveva senso solo se ci scrivevano con frequenza tutti quelli che lo avevano messo su, tipo lui, Koch e altri di cui ora non ricordo bene il nome. Nessuno ci scriveva più. Così lui chiude il blog, dice basta, comments off. Allora tutti i lettori di lamerotanti si disperano, dicono non è giusto, a noi non pensate? È una cosa che ricorda un po’ Misery non deve morire, dove il lettore cattura e tortura il suo scrittore preferito perché questi ha deciso di far morire il personaggio di un suo ciclo di romanzi. E anche questa è una similitudine sbagliata, perché nessuno dei lettori di lamerotanti ha catturato e torturato Venerandi, il quale del resto non ha deciso di far morire il personaggio di un suo ciclo di romanzi, ma si è limitato a chiudere un blog. Blog che poi è risorto da un’altra parte, nella fattispecie nel blog personale del Venerandi stesso, dove di nuovo arriva Koch che dice che il locale è triste e poi te lo ritrovi sempre qui, che dice che scrivere non ha senso e poi tira giù delle schidionate di parole da stendere anche i lettori di Balzac. Ma la mia storia a puntate non c’entra niente con tutto questo. La mia storia a puntate parla di#MISSING_LINK#». L’epopea di * (asterisco) fu condotta dapprima con grande entusiasmo dai principali autori del blog (oltre a platania, dunque, anche Fabrizio Venerandi, Antonio Koch, Mauro Mazzetti e Federico Blò). Verso la fine del 2007 il server su cui risiede lamerotanti.com presentò una serie di gravissimi malfunzionamenti al punto tale da rendere quasi impossibile non solo la prosecuzione della stesura di * (asterisco), bensì la partecipazione al blog in generale. 85 Il 10 dicembre 2007 platania riuscì tuttavia a postare sull’ormai disastrato blog il seguente post: «catastrofe dal greco katastrophè rivolgimento riuscita fine e questo da katastrèpho rivolgo capovolgo composto di katà giù sotto e strèpho volgo cangiamento ordinariamente in peggio rapido e definitivo nelle condizioni fisiche e morali di una persona grande sconvolgimento della natura rovescio in arte conclusione del poema epico scioglimento dell’intreccio nel fine del dramma o della tragedia è vero si può ancora postare su lame e allora signori si continua». In effetti era ancora possibile postare, anche se con qualche difficoltà. Pochi giorni dopo il server venne riparato e tutto tornò a filare liscio, ma ormai l’entusiasmo per la saga si era estinto. Gli ultimi due capitoli firmati da platania, comunque, (“Le anime morte” e “Introducing Diamanda”) sono di buon livello. De “Le anime morte” platania girò addirittura una versione video (visibile su YouTube all’indirizzo http://www.youtube.com/watch?v=qt3F-MLC35c). Nel gennaio del 2008, pochi giorni prima che la stesura della saga di * (asterisco) si perdesse nel nulla, platania, Venerandi, Koch e Mazzetti realizzarono uno spassosissimo “making of” del progetto (visibile su YouTube all’indirizzo http://www.youtube.com/watch?v=eg-NaOMNOvo). Il 21 gennaio 2008, platania firmò, con il capitolo intitolato “Introducing Diamanda” l’ultima puntata della grande saga incompiuta di * (asterisco). Il post era preceduto dalla seguente nota: «Il testo che segue contiene le parole “sesso”, “pompino” e “scopare”. L’autore si augura, tuttavia, che venga letto anche per altri motivi». LA MIA VITA NELLA SELVA DEI FANTASMI (ALLA FACCIA DI DAVID BYRNE, BRIAN ENO E AMOS TUTUOLA) Altra saga incompiuta, stavolta non collettiva, ma firmata dal solo platania, apparsa su lamerotanti.com tra il 27 febbraio 2008 e il 31 marzo 2008. Si tratta, come scrisse l’autore in una nota apparsa in calce alla pubblicazione del terzo capitolo, della «storia di un uomo e dei suoi sensi di colpa perché nel corso del tempo ha abbandonato, senza motivo, tutti i suoi vecchi amici». Il titolo della saga è lo stesso del romanzo scritto dallo scrittore nigeriano Amos Tutuola nel 1954, nonché di un disco di musica elettronica composto nel 1981 da David Byrne e Brian Eno. I nomi di questi tre artisti sono dunque citati nel sottotitolo. Nel post in cui apparve il secondo capitolo della saga, l’autore pubblicò anche la seguente nota in calce: «P.S.: è ancora presto per parlare di ‘conceptual continuity’, ma tutto lascia presagire che questa nuova cosa, con Cuoredigomma eccetera, sia una specie di deriva imprevista della grande saga di Asterisco, di cui non si hanno più notizie. Si tornerà a parlare di Asterisco? Si svilupperà una nuova saga? Chi può dirlo? Su niente, noi, abbiamo il controllo». CHINA NOOK TO Racconto in quattro parti apparso su lamerotanti.com tra il 28 aprile e il 1° maggio del 2008. La quattro sezioni che compongono lo scritto prendono il titolo dagli altrettanti movimenti di “A love supreme” di John Coltrane, una delle più celebri composizioni jazz di tutti i tempi. Il personaggio del protagonista è modellato su Antonio Koch, uno degli scrittori che partecipano a lamerotanti.com (China Nook To è l’anagramma del suo nome). Eccettuati alcuni dettagli che il personaggio ha in comune con il vero Koch, la narrazione è di pura fantasia e non ha nulla a che fare con lui. 86 POESIE TESTI SPARSI Spreco energetico La vita dopo Brevissimo componimento poetico apparso su lamerotanti.com il 15 novembre 2007, in riferimento ai disordini nella capitale accaduti dopo l’uccisione da parte di un agente di polizia del tifoso Gabriele Sandri. Racconto apparso su lamerotanti.com il 23 ottobre 2007. Staremo bene tutti In questo spazio disastrato e informatico noi produciamo bellezza Poesia apparsa su lamerotanti.com il 12 gennaio 2008. Insieme alle due successive avrebbe voluto concorrere alla formazione di una raccolta, poi rimasta incompiuta, intitolata “Rime Rotanti”. Le poesie di questa silloge ipotetica avevano in comune l’interrogarsi sul ruolo della letteratura in rete e più in particolare dello stesso blog lamerotanti.com Sul blog la poesia venne pubblicata insieme a un’immagine tratta dalla performance artistica di Joseph Beuys «Come spiegare la cultura a una lepre morta» (1965). Racconto apparso su lamerotanti.com il 16 gennaio 2008. G.S.C. – La recensione Recensione del volume antologico «Giovani Surrealisti Canadesi» (I Figli Belli, 2008), curato da Fabrizio Venerandi. Apparsa su lamerotanti.com il 18 gennaio 2008. (Senza titolo #1) Ma, almeno tu, l’avevi capito che sarebbe stata questa la vibrazione del mito? Poesia apparsa su lamerotanti.com il 15 gennaio 2008. Insieme alla precedente e alla successiva avrebbe voluto concorrere alla formazione di una raccolta, poi rimasta incompiuta, intitolata “Rime Rotanti”. Le poesie di questa silloge ipotetica avevano in comune l’interrogarsi sul ruolo della letteratura in rete e più in particolare dello stesso blog lamerotanti.com Sul blog la poesia venne pubblicata insieme a un’immagine tratta dal film di Bas Jan Ander «Broken Fall (Organic)» (1971). Testo apparso su lamerotanti.com il 30 gennaio 2008. (Senza titolo #2) Testo apparso su lamerotanti.com 7 marzo 2008. Scritto realmente nell’internet point della hall del Novotel di Lisbona e pubblicato sul blog direttamente da lì. B3ck3tt = M0cc14 Quello che noi vogliamo è questo Poesia apparsa su lamerotanti.com il 4 febbraio 2008. Il titolo si rifà a una rubrica del blog (“Quello che voi volete, eccolo”) in cui vengono impietosamente elencate le chiavi inserite nei più comuni motori di ricerca attraverso cui i visitatori approdano a lamerotanti.com. Insieme ai due componimenti precedenti, questa poesia avrebbe voluto concorrere alla formazione di una raccolta, poi rimasta incompiuta, intitolata “Rime Rotanti”. Le poesie di questa silloge ipotetica avevano in comune l’interrogarsi sul ruolo della letteratura in rete e più in particolare dello stesso blog lamerotanti.com Sul blog la poesia venne pubblicata insieme a un’immagine tratta dal film di Steve McQueen «Deadpan» (1997). Trascrizione del testo della videoperformance realizzata il 22 aprile 2008 da platania – di passaggio a Bologna – e Antonio Koch. La location del video è la mitica mansarda di Koch (per questo motivo il video fu pubblicato su lamerotanti.com sotto il titolo “Platania & Koch live from the penthouse”). Il video è visibile su YouTube all’indirizzo http://www.youtube.com/watch?v=pP1RcuOqG20 Giornonotte Trascrizione del file audio pubblicato su lamerotanti.com il 22 maggio 2008. Il file in formato mp3 può essere ascoltato al seguente indirizzo: http://www.samuelbeckett.it/nobeckett/giornonotte.mp3 Soggetto per una poesia contro i giovani Poesia apparsa su lamerotanti.com il 12 maggio 2008. 87 88 INDICE PAG. 3 Introduzione PAG. 5 * (ASTERISCO) PAG. 39 LA MIA VITA NELLA SELVA DEI FANTASMI (ALLA FACCIA DI DAVID BYRNE, BRIAN ENO E AMOS TUTUOLA) PAG. 49 CHINA NOOK TO POESIE PAG. 63 Spreco energetico PAG. 64 In questo spazio disastrato e informatico noi produciamo bellezza PAG. 65 Ma, almeno tu, l’avevi capito che sarebbe stata questa la vibrazione del mito? PAG. 66 Quello che noi vogliamo è questo PAG. 67 Soggetto per una poesia contro i giovani TESTI SPARSI PAG. 71 La vita dopo PAG. 72 Staremo bene tutti PAG. 74 G.S.C. – La recensione PAG. 74 (Senza titolo #1) PAG. 76 (Senza titolo #2) PAG. 77 B3ck3tt = M0cc14 PAG. 80 Giornonotte PAG. 83 Note ai testi 89