platania COLLEZIONE DI LAME

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platania COLLEZIONE DI LAME
platania
COLLEZIONE DI LAME
Antologia degli scritti apparsi su www.lamerotanti.com
(maggio 2007 – maggio 2008)
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Il presente volume raccoglie una selezione degli scritti che platania ha
firmato su Lame Rotanti (www.lamerotanti.com) tra il maggio del 2007 e il
maggio del 2008, ovvero nel suo primo anno di collaborazione a questo blog.
Lame Rotanti nasce nel 2004 su iniziativa di Fabrizio Venerandi. Nel corso
degli anni vi hanno partecipato diversi autori, tra cui Antonio Koch, Simone
Bedetti, Federico Blò, Paul Demeriano e Mauro Mazzetti.
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*
(asterisco)
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Per tre giorni abbiamo vissuto di niente, come pesci in un
acquario, senza neanche alzare le serrande. La mattina del terzo
giorno è salito da noi Righetti con una busta di latte fresco e un pezzo
di dolce preparato dalla moglie. «Questo ve lo manda Franca – ha
detto Righetti quasi scusandosi – è da lunedì che non vi abbiamo
visto uscire di casa. Se vi serve qualcosa…».
La frase è rimasta sospesa per qualche secondo, dandomi il
tempo di pensare al serbatoio elastico ed inerte dei polmoni di
Righetti, coppia di sacchi che si gonfiano e si sgonfiano sotto il
maglioncino grigio da diciannove euro e cinquanta, comprato ai
magazzini Oviesse dove anche io mi rifornisco abitualmente.
Poi mi sono concentrato sulla trachea di Righetti, tubo di
carico e scarico sovrastato dalla saracinesca della laringe. Ho
indugiato a lungo nel figurarmi la struttura di quest’organo: l’anello
della cartilagine cricoide nel cui castone trova sede lo scudo
rinascimentale della tiroide. Quindi la cerniera dei due corni inferiori
e le due leve dei corni superiori. Infine le cartilagini aritenoidi nelle
quali si innestano i labbri prismatici delle corde vocali di Righetti.
Ho dunque cercato di visualizzare la massa d’aria salita dal
mantice dei polmoni verso la cavità orale. Il passaggio nella cassa di
risonanza della laringe dove i gruppi di armoniche acquistano per la
prima volta robustezza.
E la catastrofe. Lo schianto contro il basso velo palatino che
dirotta il flusso vocale verso le anguste cavità del naso, il sistema di
risonanza che impazzisce, la frequenza delle formanti che si
scompagina, la nascita imprevista di nuovi gruppi di armoniche. Ed
infine l’emissione della sgradevole voce nasale di Righetti.
Alla domanda incompiuta ho risposto «No», facendo
percorrere alla mia voce un percorso simile a quello contemplato
poco prima, pur dedicando ad esso un’attenzione pressoché nulla,
pronunciando così la prima parola dopo quasi tre giorni.
Ho chiuso la porta e sono stato tentato di tornare in camera da
letto per chiedere a Cleo cosa avesse sognato. Da tre giorni non
tenevamo traccia delle sue esperienze notturne. Non era mai
accaduto che lasciassimo passare così tanto tempo, prima.
Sono passato in cucina per sbarazzarmi del tentativo di
colazione ordito dalla moglie di Righetti e poi ho deviato per il
soggiorno. Ho fatto scorrere il dito indice della mia mano destra
lungo i dorsi delle copertine dei dischi, come la tacca triangolare che
sbatte contro i pioli delle ruote colorate nei quiz televisivi. Mi sono
fermato più o meno a caso e ho estratto un disco. Ho spalancato la
copertina a due risvolti, ho tirato fuori la busta interna con i testi ed
infine ho avuto tra le mani il vinile.
L’ho adagiato sul piatto dello stereo, ho messo in azione il
meccanismo del braccio. La cinghia ha iniziato a girare, lenta e
perfetta, come una creatura ridestatasi dopo un sortilegio di ipnosi.
La puntina è atterrata sul vinile con programmata delicatezza e si è
assestata nel binario del microsolco.
Spinta lungo le asperità trasversali del solco la puntina ha
proceduto scandagliandone le deformazioni. Diversi anni prima, gli
artisti muniti di microfono avevano affidato l’espressione del loro
talento ad un modulatore elettrico. Un bulino, collegato ad esso,
aveva trasformato suoni e rumori in minuscoli graffi decifrabili incisi
su una superficie di lacca. Un bagno in una soluzione elettrolitica
aveva prodotto la matrice di nichel. Quindi era stata realizzata la
matrice definitiva da cui erano nate le migliaia di copie da distribuire.
Una di queste stava girando sul piatto del mio impianto stereo.
Ho immaginato di farmi piccolo come un granello di polvere e
di osservare da vicino il disco. Ho contemplato il nero sterminato
paesaggio di cloruro di polivinile, l’aridità chimica delle sue gole, la
perfezione dei suoi dislivelli. Ho ammirato atterrito il mostruoso,
gigantesco cuneo della puntina che incedeva nel canyon, la
vibrazione trasmessa allo stilo di cristallo, il processo di riconversione
elettromagnetica per trasformare in vibrazioni elettriche le
oscillazioni meccaniche tracciate da un bulino tanti anni prima in
chissà quale studio di registrazione.
Seduto sul divano, ho iniziato l’ascolto, come sempre, ad occhi
chiusi, per poi aprirli di scatto al primo elemento destante della
musica: l’inizio del canto, un colpo di cimbalo, l’intervento di un
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Cominciamo
Italia, un giorno qualunque del 1999.
nuovo strumento. Piccoli giochi con la meraviglia. Il brano che stavo
ascoltando cominciava con un arpeggio di chitarra. Dopo quattro
misure entravano contemporaneamente le tastiere, il basso e la
batteria. Al termine dell’arpeggio ho spalancato le palpebre e anziché
trovarmi di fronte la libreria e la lampada a stelo, come era logico
aspettarsi, ho visto Cleo.
Era entrata in stanza silenziosamente, mentre io, ad occhi
chiusi, ero ancora perso nella geografia del vinile. «Ho sognato
Asterisco – mi ha detto – è da tre notti che lo sogno. Credo di avere
capito dov’è».
Verso macchine lontanissime da noi
Italia, un giorno qualunque del 1999
Ho seguito Cleo nel ripostiglio che avevamo adibito a studio.
Né a lei né a me è venuto in mente di aprire finalmente le finestre,
dopo i tre giorni di smarrimento e silenzio appena trascorsi. Non
abbiamo acceso neanche la luce, a dire il vero. Cleo si è seduta alla
scrivania e ha fatto partire il computer. Io sono rimasto in piedi
accanto a lei.
«Chiediamo qualche altro giorno di ferie – ha detto Cleo – non
sarà così facile trovare Asterisco». Ho fatto cenno di sì con la testa e
sono andato verso il telefono, sempre al buio. Appena ho sollevato il
cordless dalla base, il tastierino numerico si è illuminato. Nel
frattempo anche il computer si è avviato e tutto nella stanza, Cleo e
me compresi, ha riverberato di un gelido bagliore azzurro.
Ho comunicato alla segreteria del mio ufficio che non sarei
tornato prima del prossimo lunedì. Poi ho passato il telefono a Cleo
affinché chiamasse a sua volta. Sono tornato in cucina mentre Cleo
ripeteva le mie stesse parole ad un’altra segretaria in un altro ufficio
di un’altra azienda della città. Ho preso la busta del latte che mi
aveva portato Righetti e l’ho completamente svuotata del suo
contenuto. Il latte è scivolato nella vaschetta del lavandino. Per pochi
istanti ha disegnato contorni di isole immaginarie e infiorescenze
luminose, poi è stato completamente inghiottito dal buco nero dello
scarico. Con un coltello ho separato la base della busta di cartone dal
resto della confezione in modo da ottenere un piccolo cubo privo
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della faccia superiore. Ho aperto il terzo cassetto del mobile e l’ho
aggiunto ai dieci o dodici cubi di cartone che già avevamo.
«Stai preparando la colazione?», ha chiesto Cleo quando mi ha
visto tornare nello studio-ripostiglio. «Hai fame?», ho domandato io.
Cleo ha fatto una smorfia con la bocca insieme ad una lievissima
inclinazione del collo che poteva voler dire “perché no?”. Così sono
tornato in cucina e ho messo a bollire un po’ di acqua per il tè. Poi ho
afferrato una manciata di biscotti dalla scatola di latta e li ho sistemati
in un piattino di carta, troppo piccolo per la quantità che avevo preso.
Sono tornato nuovamente nello studio-ripostiglio e ho
appoggiato il piattino con i biscotti vicino al mouse. Cleo aveva già
aperto quattro o cinque sessioni internet e si stava collegando con i
principali motori di ricerca. Seduto vicino a lei, ho chiuso gli occhi e
ho cercato di vedere quello che stava accadendo.
Gli indirizzi internet digitati da Cleo venivano convertiti in
indirizzi di protocollo. Il nostro computer (acquistato a rate e ancora
non completamente pagato) iniziava a trasmettere impulsi sulla linea
telefonica.
Il flusso di informazioni veniva smembrato in minuscoli
pacchetti di dati. I pacchetti si sparpagliavano nella grande rete come
una banda di teppisti sorpresa dalla polizia. Alcuni pacchetti
seguivano gli instradamenti più battuti, altri venivano sparati
nell’etere dai satelliti, altri ancora affrontavano il lungo viaggio
dentro i cavi sottomarini della dorsale oceanica. Acceleravano,
rallentavano, si perdevano, si confondevano insieme a miriadi di altri
pacchetti di altri flussi di comunicazioni di altri computer, con tutta
probabilità acquistati a rate, come il nostro.
I pacchetti si incrociavano, si annusavano, come formiche
provenienti da formicai differenti sfregavano le antennine sensorie
dei loro byte di intestazione, capivano di quale flusso di
comunicazione facevano parte, da dove provenivano, dove stavano
andando.
Qualche pacchetto, più fortunato di altri, veniva preso da un
router collegato direttamente ad un nodo intercontinentale che lo
spediva senza troppi problemi verso macchine lontanissime da noi.
Altri pacchetti compivano l’estrema esperienza di dissoluzione sul
binario morto di un sito non più attivo.
Nel giro di pochi secondi eravamo collegati con Google,
Virgilio, HotBot, Yahoo, Lycos e altri motori di ricerca. Ho visto la
barra in fondo al monitor brulicare di sessioni.
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Cleo si è girata verso di me, con un sorriso compassionevole.
«Hai qualche idea su come cominciare?», mi ha chiesto. «Non so… ho suggerito io – cos’altro accadeva nel tuo sogno?».
«Ora te lo racconto».
Ci sono delle cose eppure io non riesco a vederle
Italia, un giorno qualunque del 1999
In realtà Cleo non sognava. Non aveva mai sognato. Una volta
ne parlammo anche con Asterisco il quale ci raccontò di aver letto
qualcosa a proposito di una patologia psicologica chiamata
alessitimia, ovvero l’incapacità di esprimere le proprie emozioni,
l’incapacità di ammettere di provare emozioni. Cleo sostenne che si
trattava di una diagnosi eccessiva, ma tra i sintomi dell’alessitimia c’è
proprio la rimozione inconsapevole dell’attività onirica.
Non ho mai approfondito questo punto. Dopotutto, non ho
mai dubitato della sincerità delle emozioni di Cleo. Ma sono anche
certo del fatto che Cleo non sogna – o meglio che non ricorda i suoi
sogni – e che se vuole raccontarli a qualcuno è costretta ad inventarli.
Cleo mi confessò questa sua particolarità dopo diversi mesi
che ci eravamo messi insieme, quando era già diventato un rito della
nostra quotidianità il racconto mattutino delle sue esperienze
oniriche notturne.
Ogni mattina, quando era ancora immersa nel viscoso
chiaroscuro del dormiveglia, Cleo componeva i suoi sogni. Più tardi,
completamente lucida, li rifiniva ed infine me li offriva confezionati
come racconti insieme al primo bacio del risveglio.
Cleo non aveva mai conosciuto la realtà inafferrabile che
viviamo nei sogni, i contorni impastati degli oggetti, l’imprevedibilità
nella successione delle scene, la casuale assegnazione di volti ed
individui. Però si era documentata. Aveva letto molti libri e ascoltava
con estrema attenzione il racconto dei sogni delle persone che
conosceva e che aveva conosciuto. Nel corso del tempo era riuscita a
costruire dei sogni perfettamente plausibili, dei sogni che,
paradossalmente, potevano definirsi sogni reali.
Non ho mai chiesto a Cleo il motivo per cui per lei sia così
importante aver comunque dei sogni da raccontare, per quanto
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artificiali. «Io so di sognare mentre dormo – mi ha spiegato un giorno
– ma al risveglio non ricordo più nulla. Ci sono delle cose eppure io
non riesco a vederle. È come se fossi cieca. È come se per la parte
dormiente della mia vita io fossi cieca».
Ma c’è dell’altro. Pur sapendo entrambi che si tratta di sogni
completamente inventati, io e Cleo cediamo spesso alla debolezza
comune a molti: scorgiamo in questi sogni elementi premonitori, li
usiamo come chiavi di lettura oscure e preziose per decifrare lo stato
della nostra relazione e dei nostri rapporti con il mondo. «Che c’è di
male? – ha detto un giorno Cleo – c’è chi si affida anche all’inconscio
per sapere di più su se stesso. Io, invece, ho solo il mio io cosciente
per studiare la mia vita. Sono in parte cieca, è vero, ma sempre e
costantemente lucida».
Colui che è sempre da un’altra parte
Italia, un giorno qualunque del 1999
Prima di ascoltare il sogno di Cleo ho chiuso tutte le sessioni
Internet che avevamo attivato e mi sono disconnesso. Cleo ha
obiettato che non era necessario, ma io le ho ricordato la bolletta che
avremmo dovuto pagare il prossimo mese. Abbiamo sorseggiato
entrambi il tè, poi Cleo ha iniziato a raccontare il sogno che aveva
fatto poche ore prima.
«Ero sull’autobus. Non c’era molta gente. Io ero seduta sul lato
sinistro, all’altezza delle porte centrali. Da quella posizione non
potevo vedere il volto dell’autista, ma ero quasi sicura che fossi tu.
Ad un certo punto una donna che era seduta dietro di me si è alzata
per prepararsi a scendere. In quel momento tu… cioè l’autista ha
frenato di colpo e la donna che si era appena alzata ha perso
l’equilibrio. Istintivamente l’ho afferrata per non farla cadere, ma il
braccio della donna mi si è sbriciolato tra le mani come una fetta
biscottata. Io sono rimasta atterrita, ma la donna mi è sembrata più
indispettita che altro. Mi ha guardato come volesse dirmi: ‘’potevi
stare più attenta…'’. E mentre la donna priva del suo braccio
scendeva dall’autobus e io me ne stavo lì senza parole con quelle
briciole raccapriccianti tra le mani ho visto Asterisco dentro un
negozio, lungo la via. Allora sono scesa anch’io, di corsa. L’autobus
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non è ripartito subito. Anzi, mi è sembrato di sentire l’autista che mi
urlava qualcosa contro, non so se per l’incidente del braccio o se per il
fatto che fossi scesa di colpo.
Comunque, sono entrata nel negozio e Asterisco non c’era più.
Mi sono guardata intorno, cercando meglio, quando mi sono accorta
che Asterisco era in un altro negozio dall’altra parte della via. Come
aveva fatto a spostarsi da un negozio all’altro così velocemente?
Allora sono uscita di corsa per raggiungere il nuovo negozio e lì si è
ripetuta la stessa scena. Asterisco non era più lì. Dalla vetrina ho
potuto vedere che stava contrattando con un marocchino che
vendeva occhiali da sole vicino alla fermata dell’autobus. Raggiungo
il lenzuolo del marocchino, ricoperto di lenti colorate, ma Asterisco è
di nuovo scomparso. Alzo gli occhi e lo vedo entrare in un altro
negozio. E’ impossibile raggiungerlo. È sempre da un’altra parte. E
qui il sogno finisce».
«Asterisco – ho commentato, quasi parlando solo con me
stesso – colui che è sempre da un’altra parte. Mi sembra una buona
definizione».
Ma era chiaro che la metafora costruita da Cleo alludeva a qualcosa
di più preciso: la via piena di luoghi in cui si entrava e si usciva
istantaneamente, oltrepassando la fisicità dell’atto, era Internet. Io e
Cleo, ormai ne ero certo, eravamo arrivati alla stessa identica
conclusione, per quanto assurda potesse sembrarci: Asterisco si era
dissolto nella Rete.
ASTERISCO – È il tuo lavoro?
ATLAS UFO RIMBAUD – Già.
ASTERISCO – Io ti ho chiesto cosa fai nella vita e tu mi hai risposto
con il tuo lavoro. Non trovi deprimente il fatto di identificare
la propria vita con il proprio lavoro?
ATLAS UFO RIMBAUD – Boh… Ma, scusa, tu cosa fai nella vita?
ASTERISCO – Penso.
ATLAS UFO RIMBAUD – Seee. E fai solo quello?
ASTERISCO – È sicuramente la cosa che faccio più spesso nel corso
della giornata. Mi auguro che tu possa dire altrettanto di te.
ATLAS UFO RIMBAUD – Ma come fai a mantenerti? Voglio dire:
pagare le bollette, fare la spesa…
ASTERISCO – Prendo i soldi da sotto il materasso.
ATLAS UFO RIMBAUD – E che farai quando finiranno?
ASTERISCO – Non finiranno.
ATLAS UFO RIMBAUD – Beato te :-))
ASTERISCO – Sai una cosa?
ATLAS UFO RIMBAUD – Cosa?
ASTERISCO – Abbiamo appena recitato un pezzo del copione di un
film.
ATLAS UFO RIMBAUD – Eh?
ASTERISCO – Sì, più o meno da “come fai a mantenerti” fino a
“beato te”. Abbiamo recitato una parte di “Sesso, bugie e
videotapes”.
ATLAS UFO RIMBAUD – Non l’ho visto.
Metodo della Piattaforma Singola
Estratto dal logfile di Yahoo! Chat del ###-###-1999 ore ###:###.
Room: Tempo Libero | Chiacchiere varie | ###. Scambio di PM tra User
ATLAS UFO RIMBAUD (Dati anagrafici registrati – Nome: Daniele;
Cognome: ###; Residenza: ###; Data di nascita: ###-###-1971) e User
ASTERISCO (Dati anagrafici registrati – Nome: Ma###; Cognome: ###;
Residenza: ###; Data di nascita: ###-###-1971).
ASTERISCO – Non è importante. Il bello è che tu hai detto le battute
esatte senza conoscerle. Strana la vita, eh? Te lo saresti
aspettato che nella tua mediocre giornata di mediocre
programmatore avresti fatto anche l’attore?
ATLAS UFO RIMBAUD – Mediocre?! :-PPP
ASTERISCO – Beh, riconoscilo: un “ottimo”
programmerebbe al meglio delle sue
perderebbe tutto questo tempo in chat…
programmatore
capacità, non
ATLAS UFO RIMBAUD – Stavo semplicemente facendo un attimo di
pausa.
ASTERISCO – Bene, allora ti racconto una barzelletta.
###llora, ti va?
ATLAS UFO RIMBAUD – No.
ATLAS UFO RIMBAUD – Ok.
ASTERISCO – Come no?
ASTERISCO – Cosa fai nella vita?
ATLAS UFO RIMBAUD – Il programmatore.
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ATLAS UFO RIMBAUD – Non sopporto le barzellette. Non mi fanno
ridere.
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ASTERISCO – Un individuo a cui non fanno ridere le barzellette. Per
essere un mediocre programmatore hai delle caratteristiche
abbastanza originali.
ATLAS UFO RIMBAUD – Ciao. Torno in public.
ASTERISCO – Ma dico davvero! Per esempio, un’altra cosa positiva
che ho notato di te è che quando chatti usi comunque una
punteggiatura corretta, le maiuscole e tutto il resto. Gli altri,
in genere, scrivono tutto di seguito a lettere minuscole
utilizzando abominevoli abbreviazioni. Io li detesto quelli che
usano Internet come alibi per le loro trasandatezze
grammaticali. E ora la barzelletta.
ATLAS UFO RIMBAUD – Va bene, purché sia breve.
ASTERISCO – Non ti preoccupare. Dunque, c’è uno scienziato ad
una conferenza davanti ad un pubblico numeroso di altri
scienziati. Sul tavolo davanti a lui c’è una piccola formica. Lo
scienziato dice “Sto per dimostrare la mia ultima scoperta
zoologica”. Poi si rivolge alla formica e le dice “Salta!” e la
formica salta. Prende la formica, le stacca una zampetta e le
dice “salta!” e la formica salta, anche se con un po’ di fatica.
Ci sei?
ATLAS UFO RIMBAUD – Sì, ci sono. Fino a qui mi sembra pietosa.
ASTERISCO – Aspetta. Lo scienziato stacca un’altra zampetta alla
formica e le dice “Salta!”. E la formica salta con molta
difficoltà. Insomma, una dopo l’altra lo scienziato stacca alla
formica tutte le zampette. Quando la formica è ormai ridotta
ad un puntino nero lo scienziato le dice “salta!” e la formica,
ovviamente, non salta. Allora lo scienziato si rivolge alla
platea e dice “Ecco: ho dimostrato che gli organi uditivi della
formica risiedono nelle zampe. Rimosse tutte le zampe, la
formica diventa sorda”. Eh? Che dici?
ATLAS UFO RIMBAUD – Dico che raccontare le barzellette non è il
tuo forte.
ASTERISCO – Può darsi. Ora senti quest’altra.
L’esperimento va avanti e dopo un po’ il topo, per non
ritrovarsi zuppo, non dorme più. Ci sei?
ATLAS UFO RIMBAUD – Sì, ci sono e sono anche un po’ disgustato.
ASTERISCO – A furia di non dormire il topo diventa intrattabile.
Comincia a diventare sempre più aggressivo, sempre più
fragile. Allora lo scienziato va nel suo studio e scrive: “ci sono
fondati motivi per ritenere che il sonno sia fondamentale per
l’equilibrio dell’organismo”.
ATLAS UFO RIMBAUD – Finita?
ASTERISCO – Finita.
ATLAS UFO RIMBAUD – Fa schifo. Peggio dell’altra.
ASTERISCO – Sai qual è la cosa assurda?
ATLAS UFO RIMBAUD – Dimmi.
ASTERISCO – Questa che ti ho appena raccontato non è una
barzelletta.
ATLAS UFO RIMBAUD – Cosa?
ASTERISCO – Proprio così. È materiale scientifico. L’ho appena letto
su un sito di neuroetologia.
ATLAS UFO RIMBAUD – Roba da matti.
ASTERISCO – Già. Si chiama Metodo della Piattaforma Singola.
Sembra che ci sia anche il Metodo della piattaforma Multipla.
Tante piattaforme, tanti topi, tanto stress.
ATL###
Restiamo in ascolto
Un luogo e un tempo non meglio precisati, probabilmente il 1999.
ASTERISCO – C’è un altro scienziato. Questo però fa esperimenti sui
topi. Lo scienziato mette il topo su una piccola piattaforma
galleggiante sull’acqua. La piattaforma è fatta in modo che se
il topo non si regge bene scivola dentro l’acqua. E’ chiaro che,
non appena il topo si addormenta, la tensione muscolare si
allenta e il topo si ritrova a mollo, svegliandosi di colpo.
Interno di un seminterrato. La luce che filtra dalle finestrelle
vicino al soffitto potrebbe essere sufficiente a illuminare l’ambiente.
Tuttavia, gli otto neon di cui è dotato il locale sono tutti accesi. Uno
sfarfalla in continuazione. Un uomo, V1, è seduto di fronte a un rack
con apparecchiature elettroniche di varia dimensione e aspetto. Alla
sua destra un portatile acceso, i cui cavi si perdono da qualche parte
nel sottopavimento. Sullo schermo l’homepage di Google.V1 indossa
una tuta bianca e un paio di scarpe di cuoio marrone.
Sull’attaccapanni, vicino a una grossa porta blindata sulla sinistra, è
appesa una giacca marrone.
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ATLAS UFO RIMBAUD – No, basta, pietà.
ASTERISCO – Ti prego, ti prego. Solo quest’altra. È ancora più corta,
te l’assicuro.
ATLAS UFO RIMBAUD – Ok, sbrigati.
Entra V2, in tutto e per tutto simile a V1, tranne per il fatto che
ha un pagello che ancora si dimena sotto l’ascella destra. Anche V2 è
vestito come V1: tuta bianca, giacca marrone, scarpe di cuoio
marrone. V2 appende la giacca all’attaccapanni e sbatte il pagello,
ormai praticamente morto, su un tavolo.
V1: (senza girarsi) Mi sa che stasera il bastardo spiffera tutto.
V2: Uh?
V1: Ma###
V2: Il nostro Asteronzo ha rialzato la testa? (Ridacchia) Ih ih!
(V1 si gira e guarda V2 con aria torva)
V2: (Tornando serio) Ok, cos’abbiamo? (Si siede accanto a V1)
V1: Senti qua. L’ho beccata una mezz’ora fa. (Spinge un paio di tasti
su una unità audio di fronte a lui, stacca il jack delle cuffie.
Dagli altoparlanti parte la registrazione).
V2: Ma chi è quello che parla?
V1: Daniele.
V2: Uh?
V1: Dai, Daniele e Cleo. Quella coppia di fichetti che ha fatto amicizia
col nostro.
V2: Ah sì. (tira fuori da un cassetto accanto al rack un tagliere di
legno e un bocho affilatissimo. Sbatte il pagello sul tagliere e
comincia a pulirlo).
V1: Merda. Ma perché non ti porti un panino come tutti?
V2: (Senza fare caso all’ultima battuta di V1) Vabbe’, ma che ne sai
che proprio stasera vuota il sacco?
V1: Non lo so. È un po’ che gli sto dietro e c’ho un brutto
presentimento.
(V2 butta gli scarti del pagello in un secchio sotto al tavolo su cui è
appoggiato il portatile e comincia a lavorare di bocho sui filetti puliti
eseguendo un perfetto taglio usu zukuri).
wasabi, lo apre, ci intinge il dito dentro e comincia a spalmare
la pasta verde sui filetti di pagello).
V1: Non lo so, non ho niente per richiedere un L3 al comando
centrale. Per ora restiamo in ascolto. Poi vediamo.
(V2 comincia a mangiare i pezzi di pagello facendo molto rumore con
la bocca. V1 lo guarda male. V2 se ne accorge).
V2: Oh, senti, mica è colpa mia se qui intorno è più facile trovare
pesce fresco che un panino col prosciutto…
(V1 tira fuori, da una busta di plastica sotto la sua sedia, un
tramezzino al tonno e un’insalata di scampi).
V2: Senti un po’…
V1: Che c’è?
V2: Quella canzone che stava ascoltando Daniele quando Asterisco
gli ha telefonato…
V1: (concitatamente) Pensi che possa essere una traccia, qualcosa su
cui lavorare?
V2: Sai che canzone era?
V1: No. Possiamo fare qualche ricerca, identificazione di pattern,
riconoscimento delle linee melodiche. Abbiamo tutto qui. Qual
è la tua tesi?
V2: Quale tesi?
V1: Perché pensi che la canzone sia importante?
V2: Io non penso che la canzone sia importante.
(Silenzio di V1)
V1: Allora perché mi hai chiesto se la conoscevo?
V2: Perché era fica. Me la volevo scaricare.
(Silenzio di V1)
V1: Ma vaffanculo va’. (Addenta il tramezzino al tonno)
V2: Che vuoi fare? Avvertire la centrale? Fargli lo stesso servizietto
che abbiamo fatto a Scotty? (Torna verso l’attaccapanni, fruga
nella tasca destra della sua giacca, tira fuori un vasetto di
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Un intero mondo, un’intera logica
«The first word in this song is “discorporate”.
It means: “to leave your body”»
(Frank Zappa, “Absolutely Free”)
Italia, un giorno qualunque del 1999.
Entro breve i succhi gastrici avrebbero attaccato il cibo, ridotto
in pezzi dai miei denti selvaggi. Ghiandole dislocate lungo tutto il
canale digerente avrebbero prodotto muco, vari enzimi sui quali ora
facevo fatica a concentrarmi, e quantità ingenti di acido cloridrico
(questo invece riuscivo a visualizzarlo benissimo: il perfetto
equilibrio delle sue molecole di iodio, carbonio e idrogeno, un
prodigio della chimica, il primo acido minerale forte mai sintetizzato
dagli alchimisti facendo reagire salgemma e vetriolo verde). A tutto
questo pensavo a mano a mano che i movimenti peristaltici del mio
tubo digerente facevano scendere i pezzi di pollo nello sheol del mio
stomaco, mentre Cleo e Asterisco, invece, sgranocchiavano crostini e
paté di fegato d’oca, parlando dei vecchi videogiochi del Commodore
Vic 20.
«Vi prego di riflettere su questa cosa, davvero – disse a un
tratto Asterisco alzandosi dal tavolo e raggiungendo il PC al lato
opposto del salone – guardate qua». Anche io e Cleo ci alzammo.
Asterisco aveva già aperto Word e digitato un punto. Poi aveva
salvato il file, senza neanche dargli un nome. Era andato su Gestione
Risorse e ci aveva mostrato quanto pesava quel file.
«Guardate se dico bugie: quasi 24K Incredibile, no?».
«Cosa incredibile?», avevo detto io. Avevo fretta di tornare al mio
pollo arrosto. Cleo rideva, aveva messo su uno sguardo di quelli vispi
dei suoi, quasi ci tenesse a far vedere che stava seguendo il filo dei
discorsi di Asterisco, quando invece, secondo me, anche lei non aveva
capito nulla.
«Voglio dire – continuò Asterisco – 24 K, kilobytes signori, 24K
per memorizzare un singolo segno di punteggiatura, un puntolino, su
questo computer, l’ultimo ritrovato in fatto di tecnologia domestica.
Ora pensate di prendere questo punto, questo puntino che voglio
ricordarvelo pesa ben 24K, e immaginate di tagliarlo come una torta».
«Una torta?», aveva detto Cleo ridendo.
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«Sì, una torta – aveva detto Asterisco – pensate di possedere
un meraviglioso coltello affetta-pixel con il quale si possono tagliare i
caratteri sullo schermo, fatevi piccoli come un font corpo 12, entrate
nello schermo e… attenti al bagliore del foglio bianco di word, può
essere accecante le prime volte che lo si vede stando dall’altro lato del
monitor!».
Parlava come se le facesse davvero quelle cose lì. «Insomma»,
dissi io, per chiudere la faccenda.
A quel punto accadde qualcosa di strano, qualcosa che avrei
ricordato per molto tempo. Asterisco appoggiò la sua mano sul
monitor e io vidi qualcosa che chiaramente non era possibile. Guardai
meglio. Quell’effetto, chiamiamolo così, durò pochi secondi. Mi girai
di scatto verso Cleo per cercare di capire se anche lei avesse visto la
stessa cosa. Ma Cleo continuava a sorridere esattamente come prima
e quando guardai di nuovo la mano di Asterisco sul monitor tutto era
di nuovo normale.
«Insomma – proseguì Asterisco – con questo immaginario
coltello tagliapixel fate otto fette del puntolino che pesa 24K. Quanto
pesa ogni singola fetta?».
«3K», rispose subito Cleo.
«Risposta esatta – disse Asterisco – ebbene: è esistito un tempo,
ve lo ricordate anche voi, in cui in 3K, in soli 3K di memoria,
entravano giochi con suoni, colori, animazioni. In una fettina
invisibile di quel punto che adesso è lì sullo schermo entrava un
intero mondo, un’intera logica».
«Stai parlando del Commodore Vic-20 – dissi io – 3K era la
memoria del Vic, più o meno».
«Radar Rat Race, Annihilator… - disse Cleo guardando in
basso – è vero, ve li ricordate quei giochi?».
«Ma non capisco, dove vuoi arrivare? – dissi io. Eravamo ora
tornati al tavolo e stavamo riprendendo a mangiare – Non ha senso
fare un paragone di questo tipo. Il Vic aveva un hardware diverso,
c’era una ROM diversa dietro. Non puoi paragonare i 3K di un Vic 20
degli anni 80 ai 3K di un PC di adesso».
«Appunto…», disse Asterisco con un sorriso misterioso. Stava
incasinando la discussione. Lo odiavo quando faceva così.
Molte ore più tardi, nel cuore della notte, mi accorsi che Cleo era
sveglia come me. «Senti…», dissi. «Sì?», fece lei. «Lo so che è assurdo,
ma…», continuai io.
«Cosa?».
20
«Ma niente, lasciamo perdere», dissi. Mi girai dall’altra parte.
«Dimmi», insistette lei.
«Ok, non prendermi per matto, ma stasera, quando Asterisco
ha appoggiato la mano sul monitor…»
«Me ne sono accorta anche io – disse Cleo – la sua mano è
scomparsa per qualche secondo».
L’uomo avrà quarant’anni. Ha appena chiuso la portiera della
sua auto, non importa che auto è. Si avvia guardando in terra verso
l’entrata principale del palazzo bianco. Accartoccia la confezione di
cracker di gambero che ha appena finito di mangiare e la butta al
vento. L’involucro di plastica e stagnola fluttua un po’ sopra gli
sterpi, ma è troppo pesante e ricade subito giù. L’uomo si pulisce
l’unto delle mani sulla sua tuta bianca e pensa: non ne posso più di
questi surrogati. Voglio gamberi pescati di fresco e li voglio ora.
Il portone centrale è aperto come sempre. Dà un’occhiata
spenta alla targa in plexiglas opaco. HookSoftware S.r.l. c’è scritto in
grande. E sotto, più piccolo, “Games & Applications for your
computer”. Sale al primo piano. Anche questa porta, come sempre, è
aperta.
Sta per entrare nell’ufficio di Tombarello quando vede la porta
aprirsi e un giovane che esce, piccola valigetta di pelle, maglioncino e
cravatta, la faccia di uno che dorme poco e – sicuramente – non
mangia pesce fresco da mesi. Dietro il giovane la voce di Tombarello.
«Massimo due, tre settimane le faremo sapere qualcosa». Non ha la
voce ferma che ha di solito. Il giovane saluta di nuovo, si volta, vede
Aguglia che lo guarda e saluta anche lui, automaticamente. Aguglia
dice «Arrivederci», piano piano.
Aguglia entra. Tombarello sta fissando un punto vuoto della
sua scrivania. Sembra turbato.
«Chi era quello?», chiede Aguglia.
«Oh sei tu», fa Tombarello. Si è accorto della presenza
dell’altro solo in questo momento. «Vieni, vieni qui – dice – che è
tutta da ridere».
Aguglia si avvicina al 1701 acceso e attaccato al Commodore
64 di Tombarello. Sullo schermo ci sono alcuni sprite monocromatici
che si muovono con una certa difficoltà. La musica in sottofondo è
abbastanza noiosa. Tombarello afferra il joystick e comincia a farsi
strada tra i nemici.
Che te ne pare?», chiede.
«Boh – fa Aguglia – abbiamo appena messo in circolazione
roba tipo Saucers Attack, Zaxxon. Questo qui non è male, ma è un po’
rozzo. Sembra un passo indietro, a Forbidden Forest per capirci».
«È incredibile», dice Tombarello mentre guizza con la sua
navetta tra i colpi di laser degli avversari. Sembra quasi non aver
sentito le parole di Aguglia.
«Ripeto – dice Aguglia un po’ seccato – non mi fa impazzire.
Cos’è? Alla centrale hanno deciso di rallentare il ritmo delle
meraviglie che stiamo propinando ai babbei?».
Tombarello si gira verso l’altro. L’astronave si schianta contro
un asteroide di pixel. Sullo schermo appare la scritta “Play again
(Y/N)?”. «Tu non capisci – dice all’altro – questa non è roba nostra».
Aguglia sta zitto qualche secondo. Fissa il monitor. «Che
significa “non è roba nostra”?», chiede.
«Non è roba nostra – fa Tombarello alzando la voce – l’ha fatta
quel ragazzo che hai visto uscire prima».
«Ma come? Come può averla fatta?! Non ha mica…».
«Linguaggio macchina», dice Tombarello. Scoppiano a ridere
tutti e due.
«Cosa?! – fa Aguglia – cioè, c’è qualcuno che davvero si è
preso la briga di…».
«Guarda», dice Tombarello interrompendolo. Gli mostra una
risma di modulo continuo piena di valori esadecimali in sequenza.
«Ma il linguaggio macchina è una cosa finta! – esclama
Aguglia – è una… voglio dire, è una cosa che ci siamo inventati noi
per giustificare scientificamente tutto questo».
«Già, però è un’invenzione coerente e plausibile. Tanto che c’è
qualcuno che riesce a usarla e farci qualcosa che poi funziona
davvero».
«Pazzesco – dice Aguglia scorrendo il codice stampato su carta
– pensa quante ore di lavoro deve essergli costato tutto questo».
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22
Questa non è roba nostra
Italia, un giorno qualunque del… 1999, direte voi. E invece no,
stavolta siamo a metà degli anni ’80, periferia di una città italiana di media
grandezza. Palazzone bianco, in mezzo a un campo di sterpi secchi oltre la
tangenziale.
Nella stanza c’è silenzio per qualche secondo. Si sente solo la
musichetta metallica che esce fuori dal corpo grigio del Commodore,
una musichetta terribilmente dozzinale. Il giovanotto ha fatto un
buon lavoro, ma non ha sfruttato più di tanto le potenzialità del chip
SID-6581.
«Voglio dirti una cosa – dice Tombarello di colpo – avevo
sentito dire che negli Stati Uniti, in Inghilterra, c’erano ragazzotti
pazzi chiusi dentro i garage che buttavano le notti a… programmare
questi affari. Ma non volevo crederci. Non c’ho mai creduto, fino a
quando quel tipo non è entrato nel nostro ufficio oggi».
«Cosa comporterà, secondo te, tutto questo», chiede Aguglia
sollevando gli occhi dal listato, dopo una lunga pausa di silenzio.
«Voglio dire, è un bene o un male».
«Scherzi? – fa Tombarello – per il Piano è una benedizione».
Indica lo schermo. «Pensaci bene – prosegue – questa roba qua è…
umana al 100%! È un alibi, capisci. Semmai a qualcuno venisse voglia
di vederci più chiaro…».
«Speriamo bene», fa Aguglia. Poi, cambiando completamente
voce: «Senti, io ho una fame lupa. Scegliamoci un ristorantino dove
andare a farci un’abbuffata di pesce come si deve».
Tombarello fa segno di sì con la testa. Spinge un tastino
nascosto sotto la scocca del Commodore 64. La schermata del
videogioco scompare dal monitor e al suo posto appare un bianco
accecante. Al centro la scritta Google in caratteri colorati e un campo
testo da riempire.
Tombarello digita “ristoranti + pesce” e preme il tasto
[RETURN].
«Ma ci pensi – dice sorridendo – ci pensi quando tutti avranno
questo?».
«Mancano ancora almeno dieci anni secondo il Piano»,
risponde Aguglia scorrendo voracemente l’elenco dei ristoranti sullo
schermo.
Lui preferiva che lo chiamassimo Asterisco
(Domanda incomprensibile dell’intervistatore)
CLEO: No, va bene così. Grazie.
(Domanda incomprensibile dell’intervistatore)
23
CLEO: Preferisco cominciare subito.
(Domanda incomprensibile dell’intervistatore)
CLEO: L’idea dell’aspettativa è stata sua e fors…
(Domanda incomprensibile dell’intervistatore)
CLEO: …di Daniele, sì.
(Frase incomprensibile dell’intervistatore)
CLEO: Dicevo, l’idea di prendere un’aspettativa dal lavoro è stata di
Daniele e io mi sono lasciata convincere. Lui diceva che questa
cosa di Asterisco era troppo importante e non potevamo farla
nei ritagli di tempo.
(Domanda incomprensibile dell’intervistatore)
CLEO: Un anno e mezzo fa, più o meno.
(Domanda incomprensibile dell’intervistatore)
CLEO: Abbiamo cominciato a cercare informazioni in rete, tutto
quello che riguardava i computer della Commodore, della
Spectrum, le software house che nascevano in Italia tra gli anni
ottanta e novanta.
(Domanda incomprensibile dell’intervistatore)
CLEO: L’Italia, non lo so perché proprio l’Italia, perché viviamo in
Italia, siamo italiani, ci sembrava più comodo partire da qui.
(Domanda incomprensibile dell’intervistatore)
CLEO: Non c’era una strategia precisa, non sapevamo neanche cosa
cercare. Alla fine è uscito fuori questo nome.
(Domanda incomprensibile dell’intervistatore)
CLEO: Fer… (risposta di Cleo parzialmente incomprensibile).
(Domanda incomprensibile dell’intervistatore)
CLEO: L’abbiamo beccato al primo colpo. Fa il consulente finanziario
adesso. Sposato, due figli. Ma all’epoca avev…
(Domanda incomprensibile dell’intervistatore)
CLEO: il 1991
(Frase incomprensibile dell’intervistatore)
CLEO: Nel 1991, dicevo, aveva programmato un videogioco per il
Commodore 64. Mister Master si chiamava.
(Domanda incomprensibile dell’intervistatore)
CLEO: Un videogioco di fantascienza come un altro, ma con una
grafica portentosa per quella macchina.
(Domanda incomprensibile dell’intervistatore)
24
CLEO: Ci siamo presentati come redattori di una rivista di
retrocomputing, per non insospettirlo. E lui è stato molto
contento di raccontarci tutto. Siamo partiti alla lontana, ma alla
fine abbiamo posto la domanda, l’unica domanda per cui
eravamo arrivati fino a lui: come diavolo faceva un videogioco
spettacolare come il suo a girare su una macchina con 38K di
memoria?
(Domanda incomprensibile dell’intervistatore)
CLEO: lui ci ha spiegato che per svilupparlo aveva collegato tra loro
quattro Commodore 64 in cascata. Praticamente aveva creato
un super-64, una specie di mostro di Frankenstein, con
saldature, schede penzolanti, cavetti fatti in casa. Si era
costruito da solo una sorta di ambiente di sviluppo, test e
produzione.
(Domanda incomprensibile dell’intervistatore)
CLEO: Daniele sembrava quasi esserci rimasto male. Quello che ci
stava raccontando Fer… (risposta di Cleo parzialmente
incomprensibile) per quanto bizzarro aveva una sua logica.
Cioè, voglio dire, era una spiegazione scientifica. E dunque
confutava la teoria di Ma… (risposta di Cleo parzialmente
incomprensibile)
(Domanda incomprensibile dell’intervistatore)
CLEO: Ma… (risposta di Cleo parzialmente incomprensibile) era…
è?… il vero nome di Asterisco.
(Domanda incomprensibile dell’intervistatore)
CLEO: Dipende. A volta lo chiamavamo Ma… (risposta di Cleo
parzialmente incomprensibile) altre volte lo chiamavamo
Asterisco
(Domanda incomprensibile dell’intervistatore)
CLEO: Lui preferiva che lo chiamassimo Asterisco
(Frase incomprensibile dell’intervistatore)
CLEO: Dicevo, era una spiegazione che confutava la tesi di Asterisco.
(Domanda incomprensibile dell’intervistatore)
CLEO: Beh, non c’era niente di risolto invece. Prima di scovare il
programmatore di Mister Master avevamo trovato un altro
contatto, uno che all’epoca doveva avere non più di diciotto
anni e aveva sviluppato un adventure testuale per il Vic 20.
Così, visto che il contatto era preso, abbiamo deciso di sentire
comunque anche lui, per scrupolo.
(Domanda incomprensibile dell’intervistatore)
CLEO: (Lunga pausa). Comincio a essere un po’ stanca. Se fosse
possibile, preferirei continuare domani.
(Frase incomprensibile dell’intervistatore)
CLEO: Grazie. (Lunga pausa). Posso fare io una domanda adesso?
(Frase incomprensibile dell’intervistatore)
CLEO: Quella lì sul soffitto è una videocamera, vero?
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Plin plon plan (notturno delle tre)
Poi mi sveglio alle tre di notte come ogni notte. Ho sonno
crepo di sonno ma già so che non mi addormenterò. È tutto buio
intorno a me si sente solo il suono del respiro di Cleo. Qualche volta
ma non tutte le notti si sente il verso di un cane o di un rapace.
Mi dico come è possibile che non riesco a riaddormentarmi?
Perché sono così nervoso? Ho forse paura? Di cosa? Forse non ho
paura forse voglio [parola incomprensibile] alzarmi e mettere a fare
cose. Invece no sono davvero inquieto e ho paura. Mi dico forse se
ragiono a fondo sulla mia paura riesco a tranquillizzarmi e riprendo
sonno ma non ci riesco mai. Come è possibile che usando il cervello la
ragione uno non riesca a risolvere i suoi problemi?
Ci dicono il cervello è una macchina meravigliosa invece non è
vero. Il cervello è una macchina sì ma funziona male. È come un
[parola incomprensibile] come quei pianoforti per bambini con
cinque tasti colorati dove puoi suonare plin plon plan ma che non
hanno niente a che fare con i pianoforti veri. Il cervello non è una
vera meraviglia per questo ragionando non troviamo mai vere
soluzioni. Non esiste la meraviglia forse c’è da qualche altra parte ma
non su questa terra.
Su questa terra è tutto molto normale e triste anche i cosiddetti
capolavori immortali del genere umano anche quelli se ci pensate
bene sono cose normali e tristi. Non c’è niente di immortale nelle
grandi sinfonie nei grandi dipinti nella grande letteratura nelle
grandi invenzioni. Tutto prima o poi finirà tornerà polvere. È già
polvere solo in un altro ordine.
Poi neanche la polvere. [frase cancellata. La matita ha calcato così
forte sul foglio che la carta è lacerata]. Ammesso che esista il vuoto. Ma
se c’è o no il vuoto non me ne frega niente. Non è mica questo che mi
mette paura non è mica questo quello a cui penso quando mi sveglio
alle tre di notte morto di sonno e non riesco più a dormire.
Perché non approfitti di questa mia indulgenza?
Cleo è seduta con la schiena leggermente inclinata in avanti.
Ha le braccia appoggiate sul tavolo di fronte a lei. Le maniche della
sua casacca bianca sono tirate giù fino al palmo delle mani. Cleo tiene
l’estremità di ogni manica stretta nel pugno. Lui non può vederla,
perché la stanza è completamente buia, ma immagina la donna che ha
di fronte e non può fare a meno di trovarla irresistibile.
Sa che la casacca è bianca, anche se non può vederla, perché è
stato lui a darla a Cleo affinché la indossasse. Sa che Cleo è seduta di
fronte a lui, e che un tavolo li separa, perché è stato lui a predisporre
quella stanza con le luci spente e loro due in quella posizione.
«Riprendiamo», dice lui.
Cleo alza la testa, i lunghi capelli neri si dispongono in modo
disordinato intorno al viso. «Riprendiamo», dice.
«Parlami del disco volante», dice lui.
«Non era un vero e proprio disco volante, era una specie di
stella a otto punte. O sei. Non ricordo se erano otto e sei punte. E’
importante?».
«Per te è importante?».
«No».
«Benissimo - dice lui - continuiamo».
Lei sospira, i pugni sempre stretti intorno agli orli delle
maniche.
«Una stella bianca, un piccolo astro», dice.
«Piccola stella, piccolo astro, asterisco, piccolo astro», dice lui
con una voce così dolce che sembra stia cantando.
Lei fa un sorriso piccolissimo che se ne va via subito.
«E poi?», la incalza lui.
«Poi è apparso Asterisco e ha cominciato la lezione. Tema,
oggi, il test di Rorschach, ha detto».
«Il Test di Rorschach? - chiede lui - interessante».
«Già - fa Cleo - secondo lui le macchie non…».
«Quando ti sei accorta che ti piaceva Asterisco?».
Cleo non risponde.
27
«Riesci a ricordare il giorno, il momento esatto, in cui hai
pensato: lui mi piace, potrei innamorarmi di lui?».
«Non capisco…», chiede Cleo.
«Eppure dovresti apprezzare questa mia mossa. Non ti ho
chiesto: ci hai scopato? Da quanto andate a letto insieme? No. Ho
avuto più tatto, non trovi? Perché non approfitti di questa mia
indulgenza?».
Cleo si butta indietro con la schiena, libera finalmente le
maniche dalla stretta dei pugni e lascia andare le braccia lungo i
fianchi.
«No, no, un momento, che sta succedendo?», dice piano.
«E lui? Quando ha cominciato a farti capire che ci stava, che
ricambiava i tuoi sentimenti?».
«Non ho intenzione di seguirti su questa cosa - dice Cleo con la
voce molto alterata - questo è un interrogatorio su Asterisco, sul
Piano, sul disco volante da cui tutta questa merda è cominciata. Non
è assolutamente, assolutamente dico, un interrogatorio sulla mia vita
privata».
«La tua vita privata?», dice lui ridendo, calcando bene la voce
su “tua”. «E se ti dicessi che ci sono delle registrazioni? - continua delle prove?».
«Ok basta - dice Cleo - chiuso. Questa storia finisce qui. Voglio
parlare con un avvocato».
Lui scoppia a ridere, poi sospira, triste. La luce si accende di
colpo. Cleo vede Daniele seduto di fronte a lei, dall’altra parte del
tavolo.
«Voglio parlare con un avvocato - dice lui ripetendo le parole
di lei - Cristo santo Cleo!», dice.
Le
pareti
della
stanza
sono
bianche,
accecano.
«Anni passati a educarti - dice lui - anni di pazienza, di lavoro su di te
e adesso te ne esci con questa frase fatta: voglio parlare con un
avvocato. Ma come ti viene in mente, Cleo? Eh? Come ti viene in
mente?».
Cleo lo fissa per qualche secondo, poi la bocca le comincia a
tremare. Piange.
«Basta Dado - dice piangendo - non ce la faccio più, basta.
Voglio uscire da qui».
«Uscire da qui?», chiede lui. Fa viaggiare lo sguardo intorno
alla stanza. Lei fa lo stesso. Vede le pareti bianche, intorno, sopra,
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sotto. Non ci sono porte, non ci sono finestre. E’ un cubo bianco senza
nessuna via di uscita. E loro stanno dentro.
«Uscire da qui - ripete lui piano, come se valutasse la fattibilità
della cosa - non si può mica».
Magari siete anche convinti di aver visto qualcuna di queste
famose macchie…
«Vogliono farti un Rorschach», ha detto Asterisco.
Sono rimasto in silenzio. «Un cosa?», ho chiesto. «È un test
psicologico», ha risposto lui.
«Ma tu come fai a…», ho iniziato a dire. Poi ho sbuffato, mi
sono passato una mano sulla fronte. Cleo, dall’altra parte del letto,
non diceva nulla. «Va bene, va bene – ho detto respirando forte – cosa
devo fare?».
«Dobbiamo vederci – ha detto lui – ti devo spiegare alcune
cose». Ho guardato l’orologio. Era quasi mezzanotte. «Mi ci vorrà un
po’ di tempo, devo raccogliere del materiale», ha detto Asterisco. Mi è
scappata una risatina. Continuavo a girare per la stanza con il
cordless attaccato all’orecchio. «Ma che significa un po’ di tempo?! È
mezzanotte! Tra qualche ora i membri dell’Ordine mi
interrogheranno», ho detto. Asterisco, all’altro capo della linea, è
stato in silenzio per qualche secondo. «Cerco di sbrigarmi», ha detto
poi. E ha agganciato.
Mi sono buttato sul letto e ho rispento la luce. «Che succede?»,
mi ha chiesto Cleo. Le ho spiegato brevemente la faccenda. Questa
storia stava andando oltre i limiti. Cleo mi ha consigliato di riposare,
ci avrebbe pensato lei a fare entrare Asterisco. Volevo fare una
battuta cattiva su quest’ultima frase, ma ero così nervoso che non ho
detto nulla. Mi sono rigirato un po’ tra le lenzuola. Non mi ero
neanche spogliato. A l’una e mezza di notte mi sono addormentato.
Alle tre e un quarto ho sentito il citofono.
Mi sono alzato di colpo. Cleo era già in piedi. Mi sentivo la
faccia che mi tirava. Ho respirato forte, quasi un soffio. «Sì?», ha detto
Cleo al citofono. L’ho vista spingere il tasto bianco e poi lasciare la
porta d’ingresso accostata. Io sono andato a sedermi al tavolo della
cucina.
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Asterisco si è affacciato nella stanza dopo pochi secondi. Si è
tolto il cappello e l’ha appoggiato sul lavandino. Sotto braccio aveva
un mazzo di fogli. «Questa cosa del Rorschach ha sorpreso anche me
– ha detto – meno male che lo abbiamo saputo per tempo». Si è
sistemato comodo sulla sedia e ha rassettato il mazzo di fogli davanti
a sé, poggiandolo sul tavolo. Ho chiuso gli occhi e li ho riaperti. «Ma
come cazzo fai a essere sempre così in forma? - ho detto – ma non sei
mai stanco?». «Tu lo sai cos’è il Rorschach?», mi ha chiesto lui
guardandomi fisso.
«È quel test che ti fanno vedere le macchie, no?», ha detto Cleo.
Asterisco si è schiarito la voce. Ha attaccato a parlare come se
non avesse sentito la risposta. «Alcuni – ha detto – sostengono che il
Rorschach non andrebbe proprio fatto. È un test ormai superato e del
tutto inattendibile». Ho guardato Asterisco senza dire nulla.
«In un’altra occasione – ha proseguito lui – ti avrei proprio
suggerito di rifiutarti. La legge lo consente. Ma attireremmo i loro
sospetti. Quindi ti tocca».
«Magari c’è un’altra soluzione», ho detto io. Mi sono retto la
testa con le mani, cominciava a farmi male.
«Tipo?», ha chiesto Cleo. «Tipo… – ho detto – potremmo dire
che conosco quel test, che ho letto libri sul test di Rorschach e quindi
so come rispondere. Il test sarebbe invalido, no?». Asterisco ha
sorriso.
«Tu prima hai detto che avevi sentito parlare del test di
Rorschach vero?», ha chiesto Asterisco a Cleo. Lei ha fatto segno di sì
con la testa. «Chi non lo conosce! - ho esclamato anch’io, ridendo.
«Magari siete anche convinti di aver visto qualcuna di queste
famose macchie che si usano per il test…», ha detto Asterisco. «Ma
certo! - ho detto io – dai, sono quelle macchie di inchiostro
simmetriche, è una cosa che prima o poi abbiamo visto tutti…».
«Le macchie di Rorschach sono coperte da segreto
professionale. A meno che tu non sia uno psicoterapeuta è difficile
che tu ne abbia vista veramente una».
«Ma piantala!», ho detto io. «Sono sicura di aver visto delle
macchie di Rorschach in un film o in una storia a fumetti», ha fatto
Cleo.
Asterisco ha riso. «Tutte quelle che circolano sono inventate,
sono semplicemente simili alle vere macchie di Rorschach, ma non
fanno veramente parte del set di dieci macchie che Hermann
Rorschach mise a punto nel 1920. Perfino quelle che compaiono
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sull’Enciclopedia Britannica sono fasulle!». Ho guardato Asterisco
senza dire nulla. «Dunque, – ha proseguito lui – se tu dici a loro che
conosci il test di Rorschach dovrai poi giustificare questa tua
conoscenza. E la tua posizione si complicherebbe».
Mi sono grattato i capelli appena sopra la nuca. «Non c’è altra
soluzione – ha detto Asterisco – devi fare il test e devi farlo in modo
da non farti fregare». «Ma come facciamo?», ho chiesto io. «Ci
prepariamo. Adesso», ha risposto Asterisco. E ha picchiettato sul
mazzo di fogli davanti a sé.
Ho guardato la risma per qualche secondo. «Vuoi dire che lì
hai…». Asterisco ha completato la mia frase: «…le dieci autentiche
macchie di Rorschach». «Ma come…?», ha iniziato a dire Cleo. «Non
perdiamo tempo – ha detto Asterisco – cominciamo».
«Dicevo: quello che che chi viene esaminato non sa, quando
chiede se può girare il foglio, è che ogni volta che ruoterà la macchia
l’esaminatore registrerà la rotazione con un simbolo particolare sul
suo taccuino. Ma soprattutto che è ritenuto “anormale” chi non
chieda di ruotare le macchie ed esprima la sua interpretazione
guardando il foglio nello stesso verso in cui gli è stato presentato.
Dunque…».
«Dunque: la prima volta chiederò se posso ruotare i fogli – ho
risposto io – l’esaminatore mi dirà di sì. E poi, ruoterò i fogli fino al
decimo».
«No, non tutti. Sarebbe esagerato. Limitati a farlo per i primi
tre o quattro».
Le anime morte
Ti verrà spontaneo chiedere se puoi ruotare il foglio
DEEPTHROAT – Once, at a gathering, Liddy
put his hand over a candle. And he kept it
there. He kept it right in the flame until his
flesh seared. A woman who was watching
asked, “What’s the trick?” And he replied.
“The trick is not minding.”
«Il test di Rorschach si svolge secondo regole ben precise e la
prima cosa che devi sapere è questa: non fidarti mai di ciò che ti dirà
l’esaminatore, chiaro?».
«Ok», ho detto io.
«Quando Rorschach ha definito il suo test non ha solo
preparato le macchie, ma ha anche stabilito tutta una serie di cose che
si possono dire o non dire alle persone che vengono sottoposte al test.
Ad esempio: ti verrà spontaneo chiedere se puoi ruotare il foglio con
la macchia che ti hanno appena presentato. Bene, Rorschach ha
previsto questa domanda e ha stabilito che l’esaminatore deve
rispondere “ruoti pure il foglio, se vuole”.
È una risposta incoraggiante, data in modo cordiale. Quello
che chi viene esaminato non sa è che…». Asterisco si è interrotto.
«Che succede?», ho chiesto io.
«Stavo pensando: non dovresti prendere degli appunti?».
Ho tirato su col naso. «Ma scusa, quando avrei tempo di
rileggerli.
Loro saranno qui tra poco», ho detto.
Asterisco ci ha pensato un po’ su. «Hai ragione, cerca di fare
bene attenzione, allora». Ho fatto segno di sì con la testa. Cleo aveva
messo su il caffè e la stanza era piena di quell’odore caldo.
Così, a bruciapelo, direi Manhattan. È senza dubbio
Manhattan e quello che ho davanti è uno dei suoi grattacieli. Ma non
uno di quelli famosi che si trovano nei libri fotografici dedicati ai più
celebri grattacieli di New York, no. Questo che è davanti è un
grattacielo qualunque, per così dire.
Io non so esattamente dove sono. So che sono lì, mi sembra
quasi di essere sospeso a mezz’aria, più vicino alla cima del
grattacielo che alla sua base. Come se fossi su un elicottero. Oppure a
bordo di un piccolo aereo che svicola tra le cime degli edifici. Ma non
ho paura, sono abbastanza tranquillo.
Ci sono due cose, però, che mi mettono un po’ a disagio.
La prima è che sembra non esserci nessuno. Se non fossi sicuro
di essere sveglio e vivo e realmente qui a bordo di questo oggetto
volante non identificato potrei pensare di stare sognando oppure di
trovarmi in uno di quegli ambienti virtuali realizzati in
computergrafica 3D, ma non una di quelle cose spettacolari che si
31
32
(William Goldman, “All The President’s Men”)
vedono al cinema, no, sembra un esercizio fatto con un vecchio
computer, qualcosa dell’epoca Amiga o giù di lì.
Eppure, nonostante la semplicità, la rozzezza quasi, di quello
che vedo, questo luogo è troppo vero per essere finto. Il vento, la
sensazione del movimento, la profondità di campo. No, no, sono
sicuramente in volo tra i grattacieli di New York. E gli uomini hanno
abbandonato la città. Assurdo, ma è così.
La seconda cosa che mi mette un po’ a disagio è che il mio
velivolo, qualunque cosa sia, sta puntando dritto verso un grattacielo,
non solo, un grattacielo in fiamme. Non un grande incendio, anzi,
così a occhio direi che può essere qualche foglio di carta che ha preso
fuoco dentro un cestino dei rifiuti, ma la stanza è già piena di fumo e
fiamme, più che altro fumo. È ormai troppo tardi per intervenire con
un estintore, ammesso che ci sia qualcuno con un estintore in questa
New York deserta. La finestra dell’ufficio in fiamme si avvicina
sempre di più.
Una volta ho visto dei filmati che dimostravano in quanto
poco tempo si sviluppa un incendio all’interno di un locale chiuso. In
un ufficio arredato a norma, con pannelli divisori tra i vari cubicoli
degli open space e arredi ad hoc, un pezzo di carta in fiamme dentro
un cestino impiega sei o sette minuti prima di attaccare le pareti e far
arrivare le fiamme al soffitto. Hai comunque il tempo di prendere un
estintore e soffocare il principio d’incendio.
In una casa è tutta un’altra storia. Bastano 40 secondi. Fa paura
a vederlo. Le nostre case con divani in stoffa o in pelle, librerie, tavoli
di legno, cavi ovunque e tende, sono praticamente delle torce pronte
all’uso. Basta una scintilla. Un cortocircuito alle lucette dell’albero di
Natale e devi abbandonare la tua casa prima che la lancetta dei
minuti batta sulla tacca successiva. Una molotov.
La finestra è vicinissima ora. Altro che realtà virtuale. Sento
già la puzza del fumo e l’aria che si fa pesante. Vorrei guardare giù.
Ho paura di guardare giù. Cerco di capire se questa cosa su cui sono
si può pilotare in qualche modo ma non faccio in tempo ad abbassare
gli occhi sulle mie mani che appare un pompiere alla finestra.
What are you doing here?, mi chiede. Si appoggia al davanzale
come se non fosse preoccupato del fatto che sto andando a sbattere
contro il palazzo, e dunque contro di lui, né del fatto che alle sue
spalle ci sia un incendio. Get away!, mi dice, get away! Allora io provo
a spiegargli, col mio inglese così così, che non so come fermarmi.
Why are you trying to get here?, mi chiede il pompiere
americano. Che razza di domanda. Perché sto cercando di andare lì?
Io non sto cercando di andare lì, ci sto semplicemente andando. Non
so come non andarci. Ma il pompiere cerca di dissuadermi, è
incredibile questo. Mica cerca di trovare una soluzione per salvare,
non dico me, ma almeno se stesso, no, lui cerca di convincermi che
non vale la pena andare lì.
Everything is out there!, mi grida contro. Ormai sono così vicino
che riesco a vedere bene la sua faccia nera di fumo. Everything!, dice.
Poi dice in italiano: “tutto è là fuori”. All the rattlesnakes are out there!,
continua il pompiere, all the honey bears! All the bells and the stones! And
the curtains laced with diamonds are out there for you!, grida, sembra un
invasato. Io ormai sono così vicino che gli leggo il nome sulla
targhetta, Lewis A. Reed, c’è scritto. There’s nothing for you, here! Mi
grida lui come ultimo ammonimento, All the roman noblemen are out
there for you! And melting ice cap mountains there for you! All the knights
in flaming silver robes are out there for you!
Ormai sono entrato nell’ufficio in fiamme. Il pompiere Reed, a
questo punto, si allontana dal davanzale per farmi entrare e se ne va
con la tranquillità di uno che si alza dal divano per andare a prendere
qualcosa da bere in frigo. Io invece sono dentro le fiamme e brucio.
È tutto là fuori, ripenso mentre ardo senza dolore, mentre il
mio corpo si consuma nel fuoco, è tutto là fuori, ha ragione il
pompiere Reed, cosa ci sono venuto a fare qui dentro? Eppure mi
sembra di non essermi mai sentito così bene come ora, in questo
ufficio in fiamme al centro di Manhattan, all’ennesimo piano di chissà
quale grattacielo. Tutto è la fuori per me, ma dovevo attraversare il
fuoco per capirlo.
Tutto è una quantità?, mi chiedo mentre le fiamme mi
anneriscono le ossa. Carne e pelle e tessuti e organi sono solo un
ricordo ormai. C’è rimasto solo il mio mucchietto d’ossa seduto tra le
lamiere di quel trabiccolo che mi ha portato qui. Quanto è “tutto”?,
mi chiedo mentre vado alla fermata del treno. Cielo fresco oggi, il
vento mi fa il solletichino sulla pelle.
Quanto è tutto? L’iPod manda “Transimission” dei Joy
Division nelle orecchie. Tutto è un bel po’, penso. Come quel tipo,
l’altra sera, in enoteca. Doveva essere uno che il gestore conosceva
bene, perché appena è entrato l’ha salutato con grande confidenza.
Cosa vuoi?, gli ha chiesto il gestore. E il tipo ha risposto: voglio bere
tanto. Uno chiede “cosa” e gli rispondono “quanto”. La quantità per
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la qualità, ho pensato. Mica ha detto “Riesling”, il tipo, oppure
“Refosco dal penducolo rosso”, no, ha detto “tanto”.
Tutto è qua fuori, non si direbbe mica. Arrivo alla stazione
giusto in tempo per perdere il treno delle otto e zerocinque che
dovrebbe portarmi al luogo detto dell’Ufficio. Ma non mi importa.
Non mi importa, anche perché l’iPod adesso manda “Dead souls”,
sempre dei Joy Division. E questo è bello. Così faccio come ho
cominciato a fare da un po’ di tempo a queste parte. Sorrido. Esprimo
senza mezzi termini la mia felicità.
Sto lì, sulla banchina. Il vento del convoglio appena passato
ancora infuria sulla doppia cicatrice dei binari, ma io sto lì, con “Dead
souls” nell’orecchie e nel cuore e sorrido apertamente a quelli della
banchina di fronte. Devo avere proprio una faccia da coglione, qui nel
freddo. Ho perso il treno e rido. Inizio a cantare ad alta voce il
ritornello. They keep calling me! Keep on calling me! E rido, rido di
cuore. Quelli mi guardano. Alcuni imbarazzati distolgono lo sguardo.
Ma gli altri, e sono un bel po’ gli altri, stanno impazzendo. È normale,
è così: il mio sorriso invincibile li sta conducendo alla disperazione.
Una piccola disperazione che inizia come una scintilla sulla banchina
di questa stazione qualunque ed esploderà come incendio stasera
quando torneranno nelle loro case di anime morte senza speranza.
Proprio così: la loro disperazione inizia qui, adesso, perché io gli
sorrido senza vergogna davanti. Perché – e lo sappiamo tutti – da
sempre l’uomo trova insopportabile la felicità del suo prossimo.
«Ci pensate che nessun essere umano riuscirà mai a vedere il
suo cuore? Da vivo, dico. Non parlo di radiografie o tac o sonde con
microcamera. Parlo di vedere il proprio cuore così come io sto
vedendo questo boccale di birra qui davanti a me».
È la prima volta che Daniele e Cleo escono con Diamanda,
quella che per comodità già chiamano “la ragazza di Asterisco”. Per
questa prima uscita a quattro hanno deciso di provare un nuovo pub,
un po’ fuori mano: “Il leprecauno”. L’idea del locale è che gli
spinatori della birra sono truccati. Ogni tot spinate a frequenza
casuale, la pompetta interna fa uno switch su un barile secondario
che non contiene birra, ma una mistura a base di acqua, colorante,
aroma di cereali e una quantità non indifferente di apomorfina.
L’aspetto e l’odore sono quelli di una normalissima chiara lager con
tanto di spuma in cima, ma l’apomorfina agisce direttamente sul
sistema nervoso centrale, provocando vomito immediato. Quelli del
“Leprecauno” lo chiamano: il “colostro dello gnomo”. C’è anche tutta
una linea di gadget in tema.
Se sei lo sfigato che bevendo dal suo boccale si accorge di aver
beccato una pinta di colostro passerai i minuti successivi a vomitare
(basta un sorso per scatenare l’effetto emetico), in compenso tutte le
ordinazioni di quel giro al tuo tavolo sono offerte dal locale. Quando
entri al “Leprecauno” devi sperare che il colostro arrivi al tuo tavolo,
ma non a te. Devi sperare che un tuo amico si senta male, così avrai
bevuto una birra gratis.
«Mi piacerebbe vedere come si consumano i miei organi
interni nel corso del tempo – dice Diamanda – secondo me ogni cosa
che facciamo, anche bella, ci consuma dentro». Hanno già tutti finito
la loro spina media e nessuno ha beccato il colostro. Asterisco paga il
primo giro e fa segno alla cameriera di portare altre quattro pinte.
«Io mi sento consumata sempre, quando lavoro, quando ballo,
quando faccio sesso». La parola “sesso” risveglia Daniele. Una
biondina al tavolo in fondo alla sala si volta di scatto e vomita per
terra. I suoi compagni di bevute esultano. Cleo si ricorda di quella
volta che Asterisco gli ha raccontato dell’esistenza di siti porno in cui
ci sono foto e filmati di ragazze che vomitano. Esistono territori della
pornografia, gli aveva detto Asterisco, che non hanno praticamente
nulla a che fare con il sesso. Da quel giorno Cleo aveva desiderato
conoscere quei territori, ma non sapeva come arrivarci e si
vergognava a chiederlo.
Daniele cerca di immaginare Diamanda che gli fa un pompino,
l’espressione del viso di lei, il ritmo. Terrebbe gli occhi chiusi o
aperti? Sarebbe nuda o vestita? E soprattutto: in che modo lui la
condurrebbe a quella situazione formidabile?
«Qual è il tuo vero nome?», chiede Cleo a Diamanda. Che
domanda del cazzo, pensa “la ragazza di Asterisco”, soprattutto se
rivolta da una il cui vero nome è Cleo. «Che importanza ha? –
risponde – chiamatemi Diamanda e basta».
La cameriera arriva al tavolo e posa quattro boccali di fronte a
loro. Ha una maglietta nera con il logo del “Leprecauno ” e, sotto, il
disegno del tamburo di una pistola. Nei fori, al posto dei proiettili ci
sono boccali di birra. Sotto, la scritta «A chi tocca?».
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Introducing Diamanda
«Chiamate Asterisco il mio Mar*** e non potete chiamare me
Diamanda? - dice la ragazza – il nickname basta e avanza».
«Nick name, nick name, such a silly game…», canticchia Asterisco
sulle note di una canzone che Cleo è sicura di conoscere. Gliel’ha fatta
sentire lui? E l’ha composta lui o l’ha presa da qualche punto della
grande rete? Quanto di quello che fa e dice Asterisco è una sua
invenzione, si chiede Cleo, e quanto invece esiste davvero nella
realtà?
Daniele continua a pensare a scene di sesso con Diamanda.
Non è assurdo? Ormai sa tutto del complotto dei Programmatori
Neri, della situazione di pericolo in cui si trova il mondo, e anziché
preoccuparsi pensa a scopare.
Ma dopotutto Asterisco gli ha detto che ogni cosa si compirà a
tempo debito. Ed è Asterisco che decide la strategia, e sa lui cosa fare
e quando farlo. Di Asterisco bisogna fidarsi, è uno che fa magie. Del
resto, Daniele ha ancora i brividi se ripensa al trip dell’altro giorno,
quando si è ritrovato in volo su Manhattan per poi attraversare il
fuoco e arrivare a uno stato di scintillante autostima, quasi un
orgasmo, senza capire se era reale o no quello che stava vivendo.
Scoparsi Diamanda. Ci potrebbe provare davvero, pensa
Daniele. Un modo di vendicarsi di Cleo. E di Asterisco. No?
«Ci preoccupiamo di essere presentabili fuori – dice
Diamanda. – le rughe, i capelli, i denti…». Nessuno ha ancora toccato
il secondo giro di birre. «Ma dentro… dentro com’è che siamo
adesso? Pensate ai nostri polmoni quando siamo nati. Quei due
sacchetti nuovi di zecca che si gonfiavano per la prima volta. E
adesso? Come saranno? Non li vedremo mai. E il fegato? Il nostro
fegato…».
Daniele sorride e manda giù un sorso. Ma nel suo boccale non
c’è birra. È una robusta sorsata di “colostro dello gnomo” quella che
gli scende nello stomaco. Tossisce. L’apomorfina svolge in fretta la
sua azione: un ammasso caldo di chimo e bolo gli risale velocemente
l’esofago e Daniele, anche se vorrebbe proprio, non riesce a fermare il
vomito. «Merda», dice contemplando la chiazza gialla sul pavimento.
«E vai!», fa Asterisco stracciando lo scontrino.
Diamanda ride, lo fa apposta in modo esageratamente
sguaiato. Poi, quando è sicura che tutti la stanno guardando, prende
il boccale di Daniele e trangugia con calma la pinta di colostro, in un
unico sorso. Gli altri al tavolo sono senza parole, solo Asterisco
sembra abbastanza tranquillo.
«Ma come hai fatto?», chiede Daniele ancora tossendo. Cleo
ride. «Diamanda!? – dice – Ci sarà stata non so quanta apomorfina in
quel boccale! Come hai fatto a non vomitare? Qual è il trucco?».
«Il trucco… – fa Diamanda sorridendo – siete proprio strani
voi. Quando non riuscite a spiegare qualcosa con la ragione pensate
subito che c’è un “trucco”. È per questo che siete ancora così
indietro». Asterisco attacca con tranquillità la sua chiara. Cleo non
dice nulla. Pensa, soprattutto, a chi si riferisce Diamanda quando dice
“voi”.
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LA MIA VITA
NELLA SELVA DEI FANTASMI
(Alla faccia di David Byrne,
Brian Eno e Amos Tutuola)
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E il bello era che durante la notte, quando come tutte le notti
alle tre di notte mi ero alzato per andare in bagno a fare la pipì, mica
me ne ero reso conto che non ero a casa mia. Lo realizzavo solo al
momento del risveglio definitivo, quando cercando il cellulare sul
comodino alla mia destra, come faccio tutte le mattine per vedere che
ora è, mi accorgevo che alla mia destra non c’era nessun comodino.
Allora mi tiravo su di scatto in quello che, a un primo esame
superficiale, si rivelava essere un divano letto ancora chiuso. Avevo
dormito sui cuscinoni a fiori, coperto di una coperta gialla, infeltrita e
odorosa di canfora.
Finalmente in piedi, perlustravo l’appartamento sconosciuto.
Piccolo, piuttosto disordinato. Il bagno si raggiungeva – per
paradosso – secondo lo stesso percorso automatico che compio ogni
notte al buio nel mio appartamento e, più precisamente, giù dal letto
dal lato destro, poi sempre dritto, poi a destra, poi di nuovo a destra.
Tirando dritto rispetto al bagno si apriva invece il salone male
illuminato. Non senza una certa sorpresa scoprivo su un tavolinetto
basso una cornice con dorso di cartone compatto e protezione
frontale in plastica stirenica, a occhio e croce una Nyttja proveniente
da Ikea. Dentro, una foto di Marcovaldo. Al suo fianco, ma tagliato
fuori dall’inquadratura, il posteriore di una bestia pelosa e nera, a
occhio e croce un cane.
Dunque mi trovavo a casa di Marcovaldo, come c’ero finito
non era dato saperlo, non così presto almeno. L’altro problema era
che io risiedevo a Milano mentre Marcovaldo abitava in Sicilia, non
ricordavo esattamente dove, ma c’era comunque di mezzo un viaggio
di qualche centinaio di chilometri di cui io, ahimè, non avevo alcuna
memoria.
Decidevo quindi di farmi un caffè e mettermi a riflettere su
questa strana faccenda. La cosa, in fondo, aveva un suo lato
affascinante. Riesumata la caffettiera nella credenzina in formica
(difficoltà: facile) e reperiti i complementari fondamentali (polvere di
caffè + zucchero, difficoltà: media) sbrigavo la pratica con
disinvoltura.
La questione “uscire e indagare” presentava invece una
criticità a prima vista insormontabile. Non avendo infatti (né essendo
riuscito a trovare) le chiavi dell’appartamento, delle due l’una: o
uscire lasciando la porta aperta/socchiusa per poter rientrare in
seguito a mio piacimento (potenziali scenari conseguenti: ingresso di
ladri, ira di Marcovaldo, etc.) oppure uscire chiudendomi la porta alle
spalle (pro: salvaguardia dell’abitazione; contro: impossibilità di
rientrare). Considerandomi tipo da bruciarsi i ponti alle spalle,
optavo per la seconda e mi ritrovavo in strada.
L’aria era collosa e fiacca. Un vento caldo sollevava gracchianti
mulinelli di cartacce sull’asfalto grigio. Anche le persone incontrate
presentavano un aspetto malato. Mi guardavo i piedi e con un palpito
di ilarità scoprivo che ero scalzo. Come nei sogni, pensavo, se non
fosse che quello, miei gentili amici, era un incubo.
Il caso voleva che un mercatino dell’usato si aprisse in una
delle piazze che attraversavo in quella mia camminata mattutina.
Cercavo, trovandola subito, una bancarella di scarpe. Nelle tasche
reperivo un biglietto da cinquanta euro. Dovevo considerarlo l’intero
ammontare delle mie finanze, fino a quando non avessi capito meglio
cosa stava succedendo. Il paio di scarpe che costava di meno
richiedeva un investimento, non indifferente, di venti euro
(alternative valutate: continuare a camminare scalzo, acquistare
ciabatte di basso lignaggio. Entrambe rigettate per motivi che qui non
interessano).
«Il caso vuole che sia uscito di casa scalzo e non abbia le chiavi
per rientrare», dicevo al panciuto scarpivendolo. Questi mi guardava
le estremità nude e sorrideva, fiatando sporco. «L’omu senza furtuna va
sempri a la peduna», diceva poi guardandosi le unghie. «Prenderei
queste», proponevo io soppesando di tra le mani le due cioce col
costo più basso.
«Voi applicate sconti o ribassi di sorta?», proponevo al fine.
L’uomo mi guardava e mi riguardava e alla fine proponeva il suo
enigmatico patto, con il dialetto che lasciava luogo all’italiano: «Ve le
do gratis, a condizione che accettiate questo fogliettino di carta».
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1.
Tirava poi fuori dalla tasca un cartoncino bianco ben ripiegato.
Accettavo di buon grado, non vedendo lati negativi nell’accordo.
Ben felice, uscivo dal mercato con i piedi finalmente calzati e i
miei cinquanta euro ancora intonsi nelle tasche. C’era quasi da
festeggiare trincando un negroni al primo bar che avrei incrociato,
quando la curiosità mi colse come una febbre formicolosa sulla nuca.
Prendevo il cartoncino, lo dispiegavo e, con l’orrore che mi
faceva tremare i denti, ne leggevo il simbolo nero tracciato da una
mano spietata sulla carta: un asterisco.
Tutta la mia vita, allora, mi tornava di prepotenza nelle carni e
nello spirito e io sapevo chi ero. Tutto ricordavo e non mi piaceva,
miei gentili amici, non mi piaceva proprio.
e si guardava intorno. Così vede le cose Boccanima, diceva
Cuoredigomma.
Boccanima era un nostro amico, qualunque cosa significhi
questa parola, e forse era vero: aveva una visione davvero piccola del
mondo e della vita.
Allora io e Cuoredigomma ce ne stavamo lì in macchina, con la
mano chiusa a occhei sull’occhio destro, e vedevamo il mondo
attraverso quel forellino tra le dita. Vedevamo il mondo come lo
vedeva Boccanima.
Era davvero triste vedere il mondo così piccolo, per noi
abituati a vederlo nella sua terrificante grandezza.
3.
2.
«Questo non è il Kansas, Toto»
Marcovaldo, come chiunque avrà già capito, non si chiamava
davvero Marcovaldo. Nessuno potrebbe avere un nome così bislacco.
Marcovaldo infatti era il soprannome del mio amico, il cui vero nome
era Cuoredigomma.
Io mi ricordo ad esempio certe serate tristi in cui io e il mio
amico Cuoredigomma, famoso imbianchino, ce ne stavamo seduti
nella sua Peugeot 205 a contemplare Palazzo della Civiltà del Lavoro
oppure Piramide, serate passate a chiacchierare senza aver assunto né
alcol né droghe. A meno che non si consideri droga la piena
consapevolezza di essere vivi su questa Terra.
In quelle serate lì, il mio amico Cuoredigomma diceva che ogni
uomo ha una differente apertura mentale, che ci sono uomini che
vedono in formato panoramico, tridimensionale e globale, che
quando considerano una questione ne vedono immediatamente ogni
profondità e ogni dettaglio, uomini che hanno una specie di
grandangolo mentale. E ci sono uomini che invece, non è colpa loro,
ma hanno una visione delle cose ristretta, che vedono tutto come
attraverso un buco della serratura.
Boccanima, diceva Cuoredigomma, Boccanima è uno che ha
una visione delle cose così. E così dicendo faceva il segno dell’occhei
con la mano destra, l’unghia dell’indice premuta contro il
polpastrello del pollice e le restanti tre dita a raggiera, come una
cresta di gallo. E si metteva la mano sull’occhio destro, l’altro chiuso,
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(Dorothy al suo cane, appena arrivati nella terra di Oz)
E due. Anche stamattina mi sveglio in un posto che non
conosco.
L’ultima volta era successo qualche settimana fa, mi ero
svegliato a casa di Marcovaldo in Sicilia, io che abito a Milano. Poi,
non ricordo come, ero tornato alla mia vita di sempre. Il mio lavoro,
le mie cose, le care vecchie persone di ogni giorno. Stamattina, di
nuovo, non sono più a casa mia.
È il telefono a svegliarmi. Una voce inglese dice «Hello, mister
…?». Dice un cognome che lì per lì non capisco. «Yes?», rispondo io
in automatico dopo aver sollevato la cornetta, senza neanche
chiedermi come mai sto parlando in inglese. «I’m sorry but it’s 2 pm. dice la voce, molto dolcemente - According to the hotel policy, you should
check out at noon». «Ok, thank you», faccio io e aggancio.
Mi guardo intorno e non c’è niente che io riconosca, né un
oggetto né un vestito. Non ci sono valige nella stanza, non ci sono
documenti. Apro l’armadio: c’è un completo grigio scuro, una
camicia e un paio di scarpe comode. Io sono nudo. Indosso tutto e
corro alla reception. Nei corridoi rivestiti di moquette persone pigre
mi incrociano senza guardarmi, gli inservienti governano con calma il
ronzio degli aspirapolvere.
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Alla reception, una bella ragazza africana mi chiede il numero
della stanza. Guardo la tesserina magnetica che ho in tasca. «Eight four - five», dico con aria incerta. La ragazza digita qualcosa, recupera
la chiave e mi passa un foglio da firmare dicendo «May I have your
credit card, please?». Guardo nel mio portafoglio, prendo la mia carta
di credito. Almeno quella è la stessa di sempre. La ragazza fa
strisciare la carta. «Ok», dice. Tiro un sospiro di sollievo. Almeno le
mie finanze on line funzionano. Mi passa uno scontrino e mi
riconsegna il passaporto. Firmo lo scontrino. Apro il passaporto. C’è
una faccia nella foto. è la mia faccia. C’è un nome: Talpa Fieradinoce.
Non è il mio nome.
Dico «Thank you» ed esco. Ma dove vado? Fuori fa caldo, ma
non troppo. Non riesco assolutamente a capire dove sono. Potrebbe
essere un paese dell’estremo oriente, viste la facce in giro, ma molte
scritte sono inglese. Sembra una chinatown qualunque in una
metropoli americana. La cosa più semplice da fare sarebbe quella di
fermare qualcuno e chiedere: mi scusi, che posto è questo? Ma non
riesco a farlo, non voglio farlo. Farlo significherebbe ammettere che
questa follia esiste e io ci sono dentro.
Va bene, per la seconda volta mi sono svegliato in un letto che
non è il letto in cui sono andato a dormire ieri sera. Può succedere,
non so come, ma può succedere. Per ora, cerchiamo di tornare a casa.
Quella mia, quella vera.
Decido di esplorare la stanza che ho appena lasciato. Magari se
cerco bene là dentro trovo qualcosa che mi farà capire di più. Rientro
nell’hotel, nella totale indifferenza del personale alla reception.
Prendo uno dei quattro ascensori che si aprono sulla sinistra
dell’enorme hall. Premo il tasto ‘8′. L’ascensore parte. Non è un
sogno, allora. Nei miei sogni, gli ascensori su cui salgo si muovono
sempre in orizzontale. Questo invece va dritto su, velocemente. Le
porte si aprono. Il cartello mi dice che le stanze da 801 a 825 sono a
sinistra, quelle da 826 a 850 a destra. Vado a destra. La porta della
stanza che ho appena lasciato è socchiusa. Entro.
Porcogiuda. Sul letto c’è già qualcuno. Un uomo bianco dai
capelli lunghi e biondi, completamente nudo. Tre donne, altrettanto
nude, gli sono intorno. Una, nera, gli ha sollevato il cazzo, davvero
gigantesco, e se lo sta per portare in bocca. L’uomo mi guarda e ride.
Le donne neanche si accorgono della mia presenza. Esco dalla stanza
dicendo «I’m sorry».
Sono di nuovo nel corridoio. Fanno in fretta ad assegnare le
stanze in questo hotel, penso, quando alle mie spalle una voce, che
conosco bene e che non sentivo più da tanto tempo, parla. «Talpa! Il
solito vecchio porco», dice.
Mi giro. è… ma com’è possibile? Stellare. è Stellare. «Stellare le dico - tu qui?». «Ti piace guardare quelli che si fanno fare i
pompini, eh?», mi dice la ragazza. Stellare. Erano anni che non la
vedevo. E la incontro di nuovo qui, qualunque cosa significhi “qui”.
«Io… - inizio a dire - mi spiace, sono sparito. Avrei voluto chiamarti,
credimi, sentire come stavi, ma poi… ogni volta…». Stellare ride. «Ma
che ti frega?», mi dice. «Dai, andiamo adesso». Inizia a camminare. La
seguo, convincendomi che almeno lei sappia qual è l’uscita da questo
incubo. Attraversiamo di nuovo la hall dell’albergo e siamo fuori.
Mi rendo conto che non so che ora è. Guardo il cielo. Sembra
tardo pomeriggio, un bel tardopomeriggio estivo, eppure quando mi
hanno svegliato al telefono mi hanno detto che erano solo le due.
«Vieni, vieni», mi dice Stellare. La gente intorno a noi schiamazza.
Motorini e taxi passano in continuazione. Non è facile parlare, anche
se Stellare è vicina. «Stellare», la chiamo. Non mi sente. «Stellare, ma
tu che ci fai qui? Dove stiamo andando?». Ma lei non risponde.
Arriviamo in una specie di agenzia di viaggi. Un grande
stanzone con manifesti alle pareti. Cifre e nomi, non ne conosco
neanche uno. Ci sono varie casse di fronte alle quali si sono formate
alcune file. «Cosa devo fare ora?», chiedo a Stellare, ma lei è sparita.
Mi guardo intorno, la cerco con gli occhi, ma niente da fare. Non c’è
già più.
«Lei è in fila?», mi chiede uno alle mie spalle. Mi giro. «è
italiano?», faccio io. Gli occhi mi si illuminano. «Sì - risponde lui adesso non è che perché due italiani si incontrano all’estero devono
per forza fare amicizia», dice con una voce secca. Lo guardo
sbarrando gli occhi. «è incredibile! - esclamo - è quello che ho sempre
pensato anch’io. Ma vede, ora per me, la situazione è completamente
diversa. Vede, io non so…».
Quello mi interrompe. «Senta, non mi interessa nulla di cosa sa
e di cosa non sa lei. Io ho già capito che tipo è lei. Lei è uno di quelli
che quando vanno all’estero parlano di calcio con i tassisti, che
cercano un ristorante italiano perché schifano qualunque altro tipo di
cibo e che per quanto viaggino in lungo e in largo per il mondo sono
convinti che l’Italia sia il posto più bello del mondo, così, per puro
pregiudizio nazionalista».
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Sorrido, sono eccitato. «Io sono ammirato - dico all’uomo che
ha appena finito di urlarmi contro - mi creda, sono ammirato, lei ha
fatto un ritratto dell’italiano medio, proprio del tipo di italiano che io
odio e che io stesso non avrei saputo descrivere meglio». Vorrei
abbracciarlo, felice come sono di aver trovato un mio simile, ma
quello mi scansa con una manata e guadagna il posto davanti al
botteghino. Dice un nome assurdo, poi tira fuori monete mai viste e
riceve dall’omino dietro al vetro un bigliettino rosa.
«Come si chiama il posto in cui va?», faccio io. «Le prego, lo
dica anche a me, così ci vado anch’io…». L’uomo mi guarda, sempre
storto. «Ma dove vuole andare, lei?! Villaggi Valtur, patetica
animazione e schifosi buffet internazionali. Questo si meritano quelli
come lei». E se ne va lasciandomi solo col mio smarrimento.
Esco dall’agenzia. Un taxi si ferma davanti a me. Il tassista si
sporge verso il lato del passeggero dicendo una parola strana.
«Come?», faccio io. Il tassista ride. «A-ah! Italleeano?! - dice - Fo-zzah
Totte! Fo-zzah Be-lluscone!». Mi apre lo sportello. Decido di salire.
Dove vado adesso? Dove gli chiedo di portarmi? Poi l’illuminazione.
«To the airport - dico - take me to the airport please». Gli aeroporti, i
grandi stargate del nostro tempo. Dovunque sono, prendo il primo
volo verso l’Italia, anche solo verso l’Europa, e in un modo o
nell’altro torno a casa. Ma il tassista mi guarda come se non avesse
capito.
«Airport - ripeto - Aeroporto!». «A-ah! - fa quello - Aerroporte. E
pa-lla comme mangia, no?».
Mi accorgo solo in quel momento che non sono solo sul sedile
posteriore del taxi. Accanto a me c’è una donna completamente
ricoperta con il burqa. «Good evening», dico sommessamente. La
donna abbassa il capo in segno di saluto. Tutto questo è totalmente
assurdo, ma ormai è inutile starci a riflettere.
Il taxi nel frattempo si è già lasciato alle spalle il centro della
città e ha raggiunto una lunga strada rettilinea a quattro corsie. A un
certo punto la macchina su cui ci troviamo supera qualcosa sul ciglio
della strada. Qualcosa che ha proprio l’aspetto di un canguro. Mi giro
verso la donna, ma è impossibile capire se l’ha visto anche lei e, se sì,
quale reazione ha avuto. Il tassista è totalmente assorto nella guida.
Il traffico aumenta. Dobbiamo praticamente fermarci. L’autista
sbuffa e mette in folle. Sento picchiettare sul fianco esterno della
portiera accanto a me. Mi giro verso il finestrino e faccio un salto di
lato urlando. Il tassista si gira pacifico, vede la stessa cosa che ho visto
io e ridacchia. «Ppaura ppaura ita-lleano - caccasotte, ih ih ih».
A fianco del taxi c’è un animale mostruoso, una bestia con il
corpo di canguro e anche la testa di canguro, se è per questo, ma la
dentatura non è certo quella di un canguro. Non so esattamente che
tipo di dentatura ha un canguro, ma di sicuro non questa. Questo
animale che vedo dal finestrino ha i denti di un predatore, di un
coccodrillo, di uno squalo, di qualunque altra cosa ma non di un
canguro. Sembra il mostro di Donnie Darko, sembra Lugaru. Lo so, lo
so, questi erano conigli, non canguri, ma il senso di terrore che
trasmettono è lo stesso.
Mi avvicino alla donna velata. «Talpa! - dice questa - allora
dice bene il tassista che sei un cacasotto». La guardo incredulo. Lei si
toglie il velo dal viso. «Stellare! - dico - ma come…». La mia vecchia
amica ride e si toglie tutto il Burqua, con grande eleganza. Sotto è
vestita da togliere il fiato. Toppino bianco, minigonna aderente di
pelle, collant. Uno schianto. Il tassista la guarda dallo specchio
retrovisore e fischia.
Intorno a noi i mostrocanguri sciamano attraversando la
grande strada a quattro corsie che porta, così almeno credo,
all’aeroporto. Saltano e digrignano i denti verso gli autisti. Guardo le
facce degli altri passeggeri nelle altre macchine e mi rendo conto di
essere l’unico a essere spaventato da questi animali. Quando il branco
di mostri saltellanti è passato, sparendo nella boscaglia che si apre sui
due lati, il traffico si sblocca e ripartiamo.
«Finalmente», dice Stellare. Poi mi guarda, mi sorride. Io non
so più cosa pensare. «Allora ciccio? - mi chiede la mia vecchia amica sei pronto per la grande festa?».
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CHINA NOOK TO
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In loving memory of John Coltrane
Parte prima
Acknowledgement
Uno dei giorni più importanti della mia vita è iniziato alle
quattro del mattino, mentre intorno a me risuonava un martellante
segnale d’allarme.
Era il periodo in cui vivevo a Manchester, tirando avanti come
cameriere in un pub dall’improbabile nome di “Godot Wine Bar”,
dalle parti di Chorlton-cum-Hardy, e quel giorno lì, anzi quell’alba lì,
era l’alba che precedeva uno dei miei day-off. Il day off sarebbe il
giorno di riposo. Dunque è giusto dire che uno dei giorni più
importanti della mia vita è stato un giorno di riposo.
Dire perché quel giorno lì sia stato uno dei più importanti
della mia vita è qualcosa che adesso non mi va di fare. Né starò, qui e
ora – e di questo potete esser certi – a raccontarvi per filo e per segno,
come si suol dire, cosa è accaduto in quel giorno (giorno che resta
tuttavia uno dei più importanti della mia vita), no davvero.
Mi sembra fondamentale, invece, dichiarare, qui e ora, che
dopo quella fase solita, in cui il sogno e la veglia si mischiano, mi
svegliavo definitivamente per rendermi conto, non senza una certa
irritazione, che erano appena le quattro del mattino e che,
conoscendomi bene, di sicuro non mi sarei riaddormentato.
Mi affacciavo, allora, all’unica finestra della mia stanza in
affitto, quella che dava sul vicoletto di Chuzzlewitt Mews e da lì mi
godevo lo spettacolo notevole dell’opaca alba che soffocava i
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sobborghi di Manchester. Il martellìo proveniva dall’allarme
antincendio di uno dei negozi del vicolo.
Immediatamente provai un senso di gratitudine nei confronti
di quel rumore. Anziché maledirlo, perché mi aveva svegliato all’alba
dell’unico giorno della settimana in cui potevo dormire fino a tardi,
gli fui grato.
Cercherò di spiegare perché.
Il fatto che all’epoca vivessi in Inghilterra, mi portava più
frequentemente del solito a pensare con parole inglesi. E così, mentre
guardavo con amore il segnale di allarme, mi si formava nella testa la
parola acknowledgement. La mia testa fumosa, ancora persa nelle
nebbie del sogno (non vi dirò mai – e di questo potete esser certi –
cosa sognai la notte, o meglio l’alba, precedente uno dei giorni più
importanti della mia vita. Mai), era tuttavia riuscita a sintetizzare in
quell’unica perfetta parola inglese tutti i concetti di gratitudine,
riconoscimento e conferma che provavo al massimo grado. Una
possente e chiara consapevolezza della mia condizione, a questo mi
aveva portato il deng deng deng dell’allarme antincendio di
Chuzzlewitt Mews.
Ci sono stati periodi della mia vita in cui anche le più comuni
attività fisiologiche, quali ad esempio la defecazione e il sesso in ogni
sua forma, hanno costituito per me un problema. Periodi in cui la
tensione verso qualcosa (più raramente verso qualcuno) era tale che
anche l’atto del respirare doveva essere gestito con controllo e
pazienza. Dovevo, in altre parole, richiamarmi ogni istante a me
stesso per ricordarmi di vivere.
Ma tutto questo, che qui e ora scrivo in modo così chiaro e
consapevole, mi era del tutto ignoto in quei periodi lì. In pratica c’era
un mio me stesso chiuso in questa trappola cianotica, il mio me stesso
più autentico vorrei dire, e un altro mio me stesso, inconsapevole
della sua condizione di afflitto, che continuava a vivere come se nulla
fosse.
Il segnale d’allarme, in quell’alba di Manchester, fu dunque
catartico. Improvvisamente – ecco l’acknowledgement, la rivelazione
fulminea – io capii finalmente con tutto il mio corpo e il mio spirito
che ero un individuo in uno stato di allarme, che tutto ciò che
riguardava la mia vita era allarmante, che ero in pericolo, in
emergenza. E che dovevo salvarmi da tutto questo.
Rinvigorito da questa poderosa nuova consapevolezza, mi
lavai e vestii con le prime cose che trovai sulla sedia accanto al letto e
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uscii pieno di rinnovata energia verso quello che – ancora non lo
sapevo – sarebbe stato uno dei giorni più importanti della mia vita.
Aprii la porta della mia abitazione. Dal pianterreno salivano i
bagliori delle fiamme. Le scale erano invase dal fumo.
Parte seconda
Resolution
Ci sono momenti in cui le dissertazioni filosofiche appaiono in
tutta la loro poderosa marginalità. Ad esempio, quell’alba lì, l’alba di
uno dei giorni più importanti della mia vita, l’aver ragionato a fondo
sulla rivelazione fulminea della mia condizione di uomo in allarme
era qualcosa di totalmente secondario rispetto al fatto di trovarmi
intrappolato tra le fiamme nel mio appartamento di Manchester.
Bisognava agire, dunque. Ero un po’ a disagio. Sono sempre
stato più bravo a pensare che a fare. Starmene seduto a fumare e a
pensare. Probabilmente la cosa che mi riesce meglio nella vita. Quella
volta lì, invece, mi toccava proprio trovare una soluzione, cioè
muovermi, fare cose. Non è che uno può starsene così, barricato in
una stanza in un palazzo in fiamme ad aspettare il fuoco e la morte.
Morire proprio ora che avevo raggiunto una così chiara
consapevolezza del me. Che smacco. Morire proprio ora che mi
trovavo all’alba di uno dei giorni più importanti della mia vita
(questo però ancora non potevo saperlo. A posteriori posso
comunque ben dire “che smacco”, però). No, dovevo fare qualcosa.
Escogitare un piano di fuga e, attenzione signori, metterlo in
atto. Dio mio, ne sarei stato capace? L’azione! Come diceva quel
filosofo che avevo conosciuto tanti anni prima? “Un cervello non serve
a pensare, serve ad agire!”. L’avevo scritta con la vernice sul muro della
mia casa natia, a Düsseldorf. Una frase chiave, senza dubbio una
delle frasi più importanti che io abbia mai letto in vita mia, fonte di
ispirazione di non so più quanti pensieri e – va tuttavia detto – di
poche, pochissime azioni.
Poi ho pensato che anche fumare era un’azione, in fondo. E
così ho estratto una paglia dal pacchetto e ho cercato l’accendino sul
tavolinetto in formica che mi faceva da comodino.
Poi mi sono detto: “quando mi capita più un’occasione del
genere?”. Ho allora aperto la porta del mio appartamentino di
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Manchester. Le fiamme ormai avevano divorato già il pianerottolo di
fronte alla mia porta di ingresso. L’ambiente era pericolosamente
invaso dal fumo e io respiravo a fatica.
Il corno più ampio di una fiamma crollava vicino al
campanello della mia porta di ingresso. «Che storia, se ora suonasse»,
pensai per qualche secondo. Poi mi decisi. Avvicinai la paglia che
avevo tra le dita alle fiamme e l’accesi.
Accendersi la sigaretta con un incendio. Non capita tutti i
giorni.
Cominciai a canticchiare una vecchia canzone che adoravo,
storpiando un po’ le parole. «Ti piace fumare? / E io ti metto su un
incendio per accendino / tu-ttu-tu / ti lascio immaginare / cosa succederebbe
/ se tu volessi nuotare / tu-tu-ttu».
In quel momento sentii un rumore nella stanza da letto. Tornai
indietro. L’estremità superiore di una scala estensibile aveva
arpionato il mio davanzale. Mi aspettavo di veder sbucare l’elmetto
di un pompiere. E invece vidi la visiera di un poliziotto.
«Mr. Koch?», chiese quello.
Koch. Da quanto tempo non sentivo più quel nome. Mi ero
ribattezzato China Nook To. E tutti qui a Manchester mi chiamavano
così. E tuttavia «sì», dissi, «sono io».
«Mr. Koch – proseguì il poliziotto – lei è in arresto per incendio
doloso. Ci segua in centrale».
Non erano neanche le cinque del mattino.
Parte terza
Pursuance
Le immagini riprese dalle videocamere di sorveglianza in
Chuzzlewitt Mews mostravano il vicolo inquadrato dall’alto.
L’orologio visualizzato in sovrimpressione dichiarava che quelle
riprese risalivano alle 3:29 di quella mattina. Quando il timer segnò le
3:31 un giovane uomo apparve nell’inquadratura. Indossava solo
boxer e maglietta e un paio di ciabatte infradito. Nella mano destra
teneva quella che sembrava proprio una tanica di benzina. Il giovane
uomo, dopo aver sparso il liquido sui portoni del vicolo, prendeva
l’accendino che aveva nell’altra mano e gli dava fuoco. Poi spariva
dall’inquadratura.
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«Riconosce quel giovane?», mi chiese il commissario dopo aver
premuto il tasto STOP.
«Che domande! – dissi senza staccare gli occhi dai monitor –
certo che lo riconosco. Sono io».
Eravamo alla stazione di polizia di Longsight, al numero 2 di
Grindlow street. Ci eravamo arrivati in un lampo, lungo le strade
sgombre di traffico. Manchester, a quanto potevo giudicare
guardando dal finestrino, doveva ancora svegliarsi.
«Dunque lei ammette di aver appiccato un incendio alle
abitazioni di Chuzzlewitt Mews?».
«Beh, questo è un modo di vedere la cosa».
«Ah, ci sarebbe dunque un altro modo?», chiese il
commissario.
«C’è sempre un altro modo».
«E sarebbe?».
Mi guardai intorno, mi tastai la tasca del giubbetto. «Posso
fumare?», chiesi.
«Direi di no».
«Capisco».
Ci fu un lungo silenzio. Il monitor che fino a quel momento era
stato in pausa sull’ultimo fotogramma della registrazione del vicolo
andò automaticamente in stop. Il riverbero delle fiamme verdastre
immortalate sul nastro brillò ancora per qualche istante sul nero del
monitor.
«Ha preso in considerazione l’ipotesi del… sonnambulismo?»,
azzardai io.
«Sonnambulismo?».
«Sì, attività automatiche compiute durante il sonno in totale
stato di incoscienza».
Il commissario si sistemò meglio sulla sedia. Proseguii con il
tono della voce più sicuro.
«Ecco – dissi – sarebbe proprio questo l’altro modo di vedere
la cosa. Da un lato è vero che io ho appiccato l’incendio di
Chuzzlewitt Mews.
Dall’altro lato è altrettanto vero che quando ho compiuto quel
gesto mi trovavo in un totale stato di incoscienza».
Il commissario mi guardò. Non riuscivo minimamente a capire
se aveva abboccato oppure no.
«Lei può dimostrare di soffrire di questa patologia, di questo
disturbo del sonno?».
«Beh… no».
Il commissario sbuffò ridendo. Capii di aver commesso un
passo falso.
«Mr. Koch – disse lui – temo proprio che la sua posizione si
stia complicando».
«È strano, perché invece io ho una sensazione diametralmente
opposta».
«Non capisco».
Mi schiarii la voce. «Ecco vede – dissi – è da stamattina all’alba
che mi sento… come dire? Bene. Proprio bene. Mi sembra di avere
una visione più chiara delle cose. E se non fosse per questo piccolo
incidente dell’incendio…».
«Piccolo?».
«Mi lasci finire, la prego. Stavo dicendo: io sono convinto che
al termine di questa giornata la mia vita diventerà decisamente
migliore e più parlo con lei più mi persuado del fatto che anche lei,
signor commissario, avrà un ruolo in tutto questo».
«Mr Koch. Lei è il piromane più strano con cui io abbia mai
avuto a che fare».
«Non sono un piromane, signor commissario, sono solo un
giovane innocente in vacca».
«In vacca?».
«È un modo dire».
Il commissario corrucciò lo sguardo.
«I’m a young innocent guy fucked up», dissi.
«Capisco».
«Ma mi creda, signor commissario, al termine di questa
conversazione io sarò un uomo nuovo. E glielo ripeto: lei avrà un
ruolo in tutto questo».
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Parte quarta
Psalm
«Da quanto tempo è residente a Manchester?».
«Un paio di anni circa».
«Occupazione?».
«Lavoro come cameriere al “Godot Wine Bar”».
Il commissario mi guardò con le palpebre strette a fessura.
«Godot Wine Bar?», chiese.
«Proprio così, il pub in Stationery Shop Street».
Il commissario si colpì la fronte con la mano. Credevo che gesti
simili li facessero solo nei film. «Ma certo! – disse – ci ho mangiato
qualche volta. Fanno una spettacolare tagliata di bisonte canadese».
«Può dirlo forte, signor commissario».
«Vede, Mr. Koch – disse il commissario – lei mi sembra un
bravo ragazzo, in fondo. Ma c’è quel filmato che la inchioda. Io non
posso fare finta di niente. Lei ha appiccato un incendio. E io devo
applicare la legge».
In quel momento un agente entrò portando due grosse tazze di
caffè. Le posò sul tavolo, una di fronte a me e l’altra di fronte al
commissario e uscì.
«Senta – dissi io – sono intenzionato ad andare fino in fondo a
questa conversazione e ad accettare il mio destino, qualunque esso
sia. Ma ora io devo a-s-s-o-l-u-t-a-m-e-n-t-e fumare. La prego, mi
permetta di accendermi una sigaretta».
Il commissario mi guardò a lungo, poi si alzò, chiuse a chiave
la porta della stanza in cui ci trovavamo e si mise seduto. «Prego –
disse – ma non la tiri per le lunghe».
Lo ringraziai con un cenno del capo. Estrassi una ciospa dal
pacchettino che avevo nella tasca anteriore del giubetto e la
infiammai. Tirai una lunga boccata e poi fiatai fuori una fumata
bianca.
«Ecco – iniziai – questa mattina ho avuto quella che non riesco
a definire in altro modo se non come una visione interiore. E così, ora,
io ho la chiara consapevolezza di trovarmi di fronte a una svolta della
mia vita. Una svolta che inizierà proprio oggi. Da oggi, se le cose
andranno come mi auguro, la mia vita sarà diversa e migliore. Ma
prima…».
Il commissario mi fissò con il mento verso l’alto. Avevo
completamente catturato la sua attenzione.
«Ma prima… - continuai – …prima ho bisogno di un segno».
«Un segno?».
«Proprio così. Un segno».
«Che tipo di segno?», chiese il commissario, quasi sottovoce.
«Voglio avere la prova che l’amore gratuito esiste».
Il commissario continuò a fissarmi. Avrei potuto giurare che
neanche una cellula del suo corpo avesse compiuto il minimo
movimento.
«Vede, signor commissario. Siamo qui, io e lei, soli in questa
stanza. Qualunque cosa lei deciderà, sarà legge. Io sono colpevole, lo
riconosco. E lei è la legge. Lei è Dio, signor commissario, qui dentro
lei è Dio. Ora, io chiedo a Dio il perdono. Chiedo a Dio di
dimostrarmi che è davero capace di perdono e di clemenza. Voglio
essere il destinatario di un gesto di amore gratuito e supremo. Mi
lasci libero, signor commissario, mi lasci andare».
«E così io sarei Dio?», chiese il commissario, con una smorfia
di riso impercettibile.
Non risposi nulla.
«E lei vorrebbe una prova da Dio».
Di nuovo non dissi niente.
«Lei dovrebbe sapere, Mr. Koch, che è un peccato tentare il
Signore».
Tirai una nuova lunga boccata di fumo.
«Ma io non sto tentando il Signore, signor commissario. Io non
sono Satana. Io sono un peccatore. E ho bisogno di salvezza».
Ci fronteggiammo per qualche secondo in silenzio. Quel
discorso ci aveva portato entrambi oltre la frontiera della nostra
umanità.
«Ci pensi bene, signor commissario – ripresi io – in questo
momento, lei ha due possibilità. Applicare ciecamente la legge,
mettermi in arresto, fare il suo dovere insomma. Oppure cancellare le
prove, lasciarmi libero e permettermi di iniziare la mia nuova vita.
Come ripeto, signor commissario, per me, lei, in questo momento, è
Dio. E io non posso fare altro che rimettermi alla sua volontà».
Spensi la cicca sotto il tacco delle mie Dr. Martens viola. Il
commissario si alzò. Girò intorno al tavolo con le mani dietro alla
schiena. Anche nell’eccezionalità del momento non potevo fare a
meno di notare come questo commissario assumesse sempre
atteggiamenti stereotipati, da film.
Si girò verso di me, mi fissò negli occhi. Ricambiai quello
sguardo.
Il commissario, allora, estrasse il nastro dal videolettore e lo buttò nel
cestino metallico, poi prese il modulo che aveva davanti, lo
appallottolò e lo gettò nello stesso contenitore. «Mi dia l’accendino»,
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disse. Gli porsi il mio zippo. Il commissario lo innescò e diede fuoco
al contenuto del cestino dei rifiuti.
«Lei è libero, Mr. Koch – mi disse guardando il nastro e la carta
che ardevano – lei è libero».
Mi incamminai con le mani in tasca lungo Grindlow Street. A
quanto potevo giudicare, guardando il cielo, il tempo sarebbe stato
sereno per tutto il giorno.
Quel giorno lì era uno dei giorni più importanti della mia vita.
Anzi, ormai posso dirlo, era il giorno più importante della mia vita. E
non erano neanche le sette del mattino.
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POESIE
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IN QUESTO SPAZIO DISASTRATO E INFORMATICO
NOI PRODUCIAMO BELLEZZA
SPRECO ENERGETICO
Avete dato fuoco alle caserme
Per la morte di un tifoso
Bravi, vi cingo il capo di alloro
Ma dove sono i cantieri in fiamme
Per i morti sul lavoro?
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In questo spazio disastrato
E informatico
Noi produciamo bellezza
Siamo il giardino e il seme
Siamo la lama che spezza
La radice profonda
Del male automatico
Dell’uomo ammaestrato
Ridiamo e insieme
Crepiamo di pianto
Nella rete che affonda
In carne viva e accarezza
Il senso alfabetico
Di queste miserie supreme
Lo schianto
Generiamo e uno strato
Di sollievo e una brezza
Di niente per andare in onda
Siamo il sonno e l’anestetico
La veglia e il rimpianto
che sfonda.
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MA, ALMENO TU, L’AVEVI CAPITO
CHE SAREBBE STATA QUESTA LA VIBRAZIONE DEL MITO?
Ma, almeno tu, l’avevi capito
Che sarebbe stata questa
La vibrazione del mito?
Io per conto mio non c’ero arrivato
Pensavo al rumore della tempesta,
A un grido, a un ruggito.
Invece un sibilo è stato
Quello che ci ha umiliato l’udito
E poi è sceso sulla foresta
Un silenzio che resta
Mi sa che significa che tutto è finito
e che il bis non è dato.
QUELLO CHE NOI VOGLIAMO È QUESTO
Quello che noi vogliamo è questo:
che le finestre, se serve, diventino oblò.
Non ci ferma neanche il peggiore dei guai.
Adesso si fa presto:
Ce li inventiamo, gli sbocchi.
Eppure la nostra adolescenza
Non fu che un pretesto:
Imparare l’assenza
Aspettare un Godot
(Che poi è arrivato, lo sai?)
(E qualche altra scemenza:
Atlas Ufo Robot
Sbucciarsi i ginocchi
Cantare Boys Don’t Cry
Con le lacrime agli occhi)
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SOGGETTO PER UNA POESIA CONTRO I GIOVANI
ora per voi ci sono due possibilità:
la prima, diventare davvero ricchi e famosi
molto improbabile, praticamente impossibile,
ma se sarete ricchi e famosi, avete ragione voi, Montale non vi servirà
a niente
la seconda, diventare persone normali
molto probabile, anzi praticamente sicuro,
e allora sappiate che c’è una differenza enorme
tra una persona normale
e una persona normale in grado di riconoscere la bellezza
una differenza così grande che voi non siete ora in grado di capirla
e ancora di più io non sono in grado di spiegarvela».
dico soggetto perché ho solo il contenuto in testa, ma non la forma.
cose che mi sono venute in mente quando venerandi raccontava degli
studenti
che anziché cercare di capire le poesie di Montale preferivano fare
aeroplanini di carta
pensavo che io al posto di venerandi avrei detto loro
voi pensate che la ciccia del mondo sia da tutt’altra parte e non nelle
poesie di Montale
e magari avete anche ragione, non dico di no
voi volete i soldi dei calciatori volete la fica dei calciatori
voi volete i miliardi di dollari di Paris Hilton
e magari vi accontentereste anche dei milioni di euro dell’ultima
velina
ma il punto è un altro
il punto è che voi non sarete mai calciatori o veline
sarete persone qualunque
con un quantità tale di merda quotidiana da spalare
che l’idea di aver sognato un giorno un futuro di lusso e celebrità
vi farà stare così male ma così male
che l’unica soluzione saranno le droghe e l’alcol
ammesso che avrete abbastanza soldi per permetterveli
o più semplicemente la depressione
che non costa nulla
«ora per voi ci sono due possibilità
- così direi ai miei studenti se fossi al posto di venerandi
ma appunto non sono al suo posto
e questi sono solo appunti per una poesia che non scriverò mai -
Ma a questo punto quasi mi rendo conto
che questo soggetto di poesia
forse non è contro i giovani, come pensavo all’inizio
o forse sì,
non lo so
il punto è che gli adolescenti di oggi, ci piaccia o no,
sono quelli che guideranno il mondo di domani
ma se gli adolescenti di oggi, come cantano i baustelle,
si sfondano di paroxetina e mdma
allora il mondo di domani andrà a sbattere.
Insomma, questo mi piacerebbe scrivere in una poesia contro i
giovani
ma non saprei come fare
ci vorrebbe un poeta vero
tipo venerandi.
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TESTI SPARSI
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LA VITA DOPO
Il corpo della vecchia uscì dal furgoncino bianco scortato da tre
donne e un uomo. Dal sacco di plastica trasparente, percorso
ovunque da gocce ghiacciate, sbucava la testa della donna, ricoperta
da uno zucchetto di lana blu, anche questo fradicio di brina.
Io ero un po’ di lato rispetto al gruppo, sul retro del palco
messo su per l’occasione e abbagliato da due grandi riflettori che
impedivano di vedere il pubblico, che pure c’era, affogato nel buio
della platea all’aperto.
Immaginavo, non potendole vedere, sedie di plastica e teste
che si sporgevano per cercare di capire cosa stesse accadendo là
dietro e quando sarebbe cominciato il tutto.
Intorno a noi l’aria della notte raffreddava in nuvole bianche il
nostro respiro. Solo dalla bocca della vecchia morta non usciva nulla.
Gli occhi aperti mi fissavano senza vedermi. L’uomo fece un gesto
alle tre donne che lo accompagnavano e così, in quattro, fecero uscire
la salma dal sacco ghiacciato e la portarono su una barella. Erano tutti
vestiti in modo misero, giaccotti blu, scarpe nere e comode, le tre
donne con un cappellino di lana, l’uomo a capo scoperto.
Io pensavo che la scena mi avrebbe disgustato, invece anche io,
alla fine e come gli altri, volevo solo vedere il miracolo. Mi chiedevo
pure se per caso dovevo dare una mano ai quattro, ma non feci in
tempo a prendere una decisione che il gruppo aveva già portato la
barella sul palco. Allora salii anch’io, fermandomi in una zona
d’ombra.
L’uomo fece un altro cenno alle tre donne e tutti insieme
presero a sbloccare gli arti della vecchia, contratti nel rigor mortis. Le
ossa, ridistendendosi, facevano un rumore secco. Non doveva essere
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granché, pensai, riprendere a vivere con le braccia e le gambe
spezzate.
Quando il corpo fu di nuovo disteso completamente, la vecchia si
alzò da sola, senza dire nulla. I suoi arti sembrava non avessero
subito alcun trauma. L’uomo e le tre donne erano ora allineati a
fianco a lei e fissavano tutti la folla di fronte, già esplosa in grida di
entusiasmo e applausi. La vecchia, resuscitata, aveva un’espressione
circospetta, ma non sembrava spaesata. I quattro accanto a lei erano,
invece, seri e basta.
«Ecco la vita dopo!», disse l’uomo alzando il braccio della
vecchia che teneva per mano, in segno di trionfo.
Solo in quel momento mi resi conto che sul palco, accanto a
loro, c’era anche un prete. Sorrideva pure lui, ma si vedeva
chiaramente che era in imbarazzo. Perché mica è questa, la vita dopo.
STAREMO BENE TUTTI
Sento le loro voci già dall’ingresso, tutte le loro voci tranne
una.
È tardo pomeriggio e sono appena tornato dalla palestra.
Appoggio il borsone in corridoio. Ci penserò poi a svuotarlo nella
lavatrice. La luce della cucina è accesa. È lì che stanno parlando.
Mia nonna mi saluta e vedo loro tre seduti intorno al tavolo,
vicino a lei. «La casa è così grande e ci sono bagni e stanze per tutti»,
dice mia nonna. Appoggia la tazzina di caffè sul piattino azzurro di
fronte a lei.
Siete più voi di noi», dice poi mia nonna, ridendo.
Sono in quattro intorno al tavolo e ci sono solo tre tazzine di
caffè. C’è mia nonna, c’è una ragazza con i capelli raccolti a coda di
cavallo, un uomo massiccio dalla faccia buona e poi c’è lui. Non
avevo visto male: il ragazzo seduto di fianco all’uomo è proprio senza
testa. Ha una canottiera blu, la pelle abbronzata ed è senza testa. In
mezzo alle spalle, là dove dovrebbe esserci il collo, c’è una cicatrice a
forma di croce.
Una parte del mio cervello dice che un uomo non può vivere
se non ha la testa. L’altra parte del cervello è costretta ad ammettere
che lì, davanti a me, c’è un ragazzo senza testa vivo.
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«Oh, ecco Daniele», fa mia nonna vedendomi apparire nello
specchio della porta. «Come stai bello di nonna?». Sorrido, saluto.
Mia nonna dice a bassa voce agli altri «Sta sempre in palestra,
guardate quanto è bello». Gli altri sorridono e mi guardano, la
ragazza mi guarda e sorride. Sorridono e mi guardano tutti meno che
il ragazzo senza testa, che non mi può vedere e non può sorridere.
Mi chiedo: come si fa a vivere senza vedere, parlare e
ascoltare? Come si fa a vivere senza mangiare? Ma il ragazzo senza
testa vive. E si tiene anche lui in forma a giudicare dal suo fisico.
«Anche ad Alessio piace molto andare in palestra», dice la ragazza
accarezzando un braccio del ragazzo senza testa.
«Loro sono i nostri nuovi coinquilini», dice mia nonna. E
ripete: «La casa è così grande, staremo bene tutti». L’uomo massiccio
sorride e fa “sì” con la testa senza dire nulla. Il ragazzo senza testa,
non avendo la testa, non può fare “sì”.
Come si vive tutta la vita nel buio e nel silenzio? Un solo
senso, il tatto, è tutto quello che ha il ragazzo senza testa.
La ragazza mi guarda e dice: «Magari tu e Alessio potete
andare in palestra insieme qualche volta». Io dico «volentieri» e sento
un brivido.
Faccio per andarmene, recuperare la borsa in corridoio,
svuotarla in lavatrice, chiudermi in camera mia. «Ciao», dico a tutti.
Tutti mi salutano. La ragazza sfiora in un certo modo il braccio del
ragazzo senza testa e il ragazzo senza testa alza un braccio e mi
saluta. Me ne vado senza dire nulla.
Mi chiudo in stanza. L’anno scorso c’erano i due senegalesi,
poi c’è stata Roberta, sei mesi fa lo studente di Taranto e la tipa che
faceva la consulente per la Vodafone. Adesso ci sono l’uomo
massiccio, la ragazza con la coda di cavallo e il ragazzo senza testa.
Adesso c’è il ragazzo senza testa. Sarà lui che incrocerò in corridoio la
mattina quando mi alzo per prepararmi il caffè, sarà lui che vedrò
uscire dal bagno con un asciugamano sulla spalla. Adesso c’è il
ragazzo senza testa, sarà lui quello con cui dovrò convivere nei
prossimi mesi.
G.S.C. – LA RECENSIONE
Se è vero che gli Stati Uniti sono ancora un melting pot, allora
il Canada, che gli sta sopra, ne costituisce il coperchio tremante di
bollore. Lo scopriamo, non senza sorpresa, leggendo questa antologia
di giovani surrealisti canadesi messa insieme da Fabrizio Venerandi
per i tipi delle edizioni I Figli Belli e venduta attraverso lulu.com. La
nuova corrente letteraria d’oltreoceano, a giudicare da questi veloci
racconti, è la schiuma ineffabile del post-contemporaneo. Si va dai
relitti di HTML che affiorano nella prosa di Murter Moric al glaciale
umorismo di Ben Miller in Limone, alle ripetizioni, come un’eco
impazzita, in Inconcludenze di Peter S. Saly.
Va detto subito che il totale di questo progetto è ben superiore
alla somma dei suoi singoli racconti (bisogna arrivare alla fine per
trovare il pezzo migliore, L’incidente di Anders E. Johansen).
Venerandi muove una regia discreta nell’ombra, si intuiscono certe
sue preferenze (i racconti erotici firmati da donne), ma alla fine il
volume è compatto (a proposito: che peccato che non ci siano le note
bio-bliografiche dei giovani scrittori) e restituisce bene il sugo
filosofico che bolle in pentola.
E il sugo è ben condensato nella frase «Ad un certo punto non
successe niente» che appare a bruciapelo nel racconto di Gregorio
Facile. Già, qui si confina a settentrione con una eterea ma feroce
ultraemotività. Con questi canadesi siamo oltre. Non c’è più quel
cinismo che certa narrativa occidentale aveva lavorato fino a
consumarne le trame. No, qui il dolore e il piacere sono stati valutati
e scartati, in quanto merce che non interessa. Qui siamo nel regno
sublime dell’estetica dell’indifferenza, anzi, siamo già un passo oltre
questo regno. Qualcuno ha detto che la narrativa contemporanea ha
spento la luce nel mondo. Ebbene, questi giovani canadesi sembrano
proprio aver imparato a vedere al buio.
(SENZA TITOLO #1)
così adesso c’è qdos vai su qdos.com ti registri inserisci tutti gli
indirizzi web che gestisci direttamente i tuoi siti i tuoi blog i tuoi
spazi di community e qdos calcola quanto pesi in rete quanto conti è
una specie di indice di popolarità anzi è proprio un indice di
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popolarità però relativo esclusivamente alla web-popolarità così sono
andato su qdos mi sono registrato ho inserito tutti gli indirizzi web
che gestisco direttamente i miei siti i miei blog i miei spazi di
community e qdos ha calcolato quanto peso in rete quanto conto e
così sono venute fuori cose strane nel senso che secondo qdos io nella
categoria scrittori sono più popolare di joanne harris quella di
chocolate sempre limitatamente al pubblico del web si intende ma mi
sembra comunque una cazzata e nella categoria artisti in senso lato
me la batto per una manciata di punti con milo manara chiaramente
queste cose funzionano meglio al crescere dei dati raccolti è chiaro
che in una classifica con me milo manara e pinco pallino io me la
batto con manara mentre pallino mangia la polvere e comunque
questo non giustificherebbe il fatto che sono più popolare della harris
comunque sia qdos è lì per dirmi quanto peso in rete mentre quanto
peso davvero l’ho scoperto amaramente questa mattina quando la
bilancia elettronica mi ha comunicato che sono ingrassato di ben tre
chili rispetto al minimo storico che avevo toccato quest’estate al
termine per così di quella grande parabola discendente del mio peso
corporeo che chiamo la grande dieta proprio per distinguerla da tutte
le altre diete più breve e meno efficaci che ho fatto nel corso della mia
vita due anni fa infatti ero diventato di nuovo un ciccione dopo fasi
alterne di magro grasso più grasso che magro poi invece in
concomitanza con l’uscita del mio primo libro e dell’insediamento di
prodi al governo veleggiavo verso un dimagrimento invidiabile così
nel corso di un numero dignitoso di mesi facendo una dieta seria ma
in fondo neanche insopportabile avevo perso qualcosa come quindici
venti chili ma non mi pesava neanche più di tanto tutto contento
come ero col mio primo libro in libreria e i convegni beckettiani in
tutta italia e un sacco di altre cose belle tipo ascoltare frank zappa
insomma con tutte queste cose che mi davano soddisfazione
mangiare non mi sembrava più una cosa fondamentale come prima
anzi la cosa bella era che poi quando andavo a cena fuori o
organizzavo una seria cena a casa mia una volta ogni tanto magari
anche una volta a settimana mi sembrava molto bello mangiare mi
gustavo di più il cibo rispetto a prima quando il cibo era una specie di
fissazione praticamente io passavo l’intero fine settimana a fare la
spesa cucinare mangiare e riordinare la cucina mia moglie era
ovviamente contentissima perché io cucino bene me lo dicono tutti
non sto qui a vantarmi però a forza di fare la spesa cucinare mangiare
stavo diventando un cicciabomba così poi basta dieta tutti un bel
periodo dormivo meglio mi muovevo meglio mi gustavo più il cibo
serio quando capitava e tutti a dirmi sei un figurino stai benissimo
ma come hai fatto complimenti eccetera e così avanti fino a questo
periodo qua dove invece mi tocca registrare una pericolosa
inversione di tendenza e cioè tre chili in più sopra il minimo storico
toccato quest’estate niente di preoccupante è chiaro ma mi sembra
che a partire da quel periodo in cui il mio primo libro era in libreria e
prodi era al governo ad oggi che il mio secondo libro sta per arrivare
in libreria e il governo prodi è caduto ecco mi sembra che ci sia una
specie di alfa e omega di un periodo di magrezza che ora si sta
concludendo con esiti devastanti per il mio aspetto fisico e per la mia
salute praticamente l’inversione pericolosa di tendenza è iniziata
come spesso accade in questi casi sotto natale e così se io sono
ingrassato di tre chili in diciamo un mese alla fine di quest’anno sarò
ingrassato di trentasei chili fra dieci anni peserò oltre quattrocento
chili e così via prima della mia morte il mio corpo potrebbe arrivare a
pesare quanto la massa di Plutone e io potrei non essere più in grado
di muovermi e allora a quel punto diventerei come una montagna
come una parte geologica del pianeta il sole le nuvole mi
passerebbero sopra non potrei neanche girare la testa per seguirle con
lo sguardo
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(SENZA TITOLO #2)
cosi’ arrivo al novotel di lisbona perche’ questo fine settimana lo
passo in portogallo alloggio sempre nei novotel mi conviene ho dei
buoni sconti i novotel sono come gli starbucks come tutte le catene
della grande globalizzazione come gli apple store tutti i novotel sono
uguali sono stato al novotel di kuala lumpur al novotel di shanghai al
novotel di new york e anche al novotel di lamezia terme per dire sono
tutti uguali sai cosa ti devi aspettare una qualita’ minima garantita
servizi minimi garantiti arriviamo con il volo delle nove di sera
facciamo l’accettazione al novotel adesso dobbiamo uscire e fare il
classico primo tour perlustrativo della citta’ che si fa appena arrivi in
una citta’ da turista non abbiamo alcuna voglia di fare il primo giro
perlustrativo della citta’ molto meglio buttarsi nella lounge del
novotel a bere cocktail e navigare gratis nell’internet point che c’e’ in
tutte le hall dei novotel allora ordiniamo in inglese alla cameriera
portoghese un manhattan e una birra piccola e la cameriera
portoghese capisce la birra piccola ma non il manhattan allora chiama
un altro cameriere che mi chiede cosa voglio esattamente e il
problema e’ che io non ricordo quali sono gli alcolici base che
compongono il manhattan e nel frattempo e’ gia’ arrivata la birra
piccola per serena che mi guarda come a dire non potevi ordinare
una birra piccola pure tu cosi’ a quest’ora eravamo gia’ connessi
gratisi ai due prodigiosi iMac nella prodigiosa hall del novotel e io
invece mi impunto e voglio il mio cocktail e allora chiedo in inglese al
cameriere portoghese mi porti il menu e quello mi porta il menu e io
vedo che hanno solo tre cocktail che sono la capirinha il gin lemon e
un altro che gia’ non mi ricordo piu’ allora gli dico mi porti una
capirinha quello va e prepara mentre serena mi chiede cosa c’e’ nella
capirinha io non me lo ricordo allora dico com’e’ la tua birra e lei mi
risponde e’ un po’ aspretta e ripenso ai cocktail che abbiamo bevuto
nella lounge del novotel di monaco di baviera e li’ c’erano barman
moooolto piu’ in gamba che se tu gli dicevi dei cocktail assurdi tipo
sidecar tipo negroni sbagliato quelli partivano mescevano e servivano
con la ciliega candita infilzata sullo stecchino allora comincio a
pensare che forse non e’ vero che tutti i novotel sono uguali forse ci
sono delle piccole differenze tra novotel e novotel per esempio ora
che ci penso e’ la prima volta che sono in un novotel dove
nell’internet point gratuito della hall ci sono dei prodigiosi iMac
nuovi di zecca e allora io e serena ci spostiamo nella hall e
cominciamo a navigare e’ tutto uguale come sempre una finestra di
un browser caratteri che scintillano in uno schermo bianco come ogni
giorno in ufficio come ogni giorno a casa mia come ogni novotel in
ogni punto del mondo in cui sono stato e vedo che stanno per scadere
i 20 min di connessione gratuita domani andremo a vedere l’oceano
penso
B3CK3TT = M0CC14
PLATANIA: Insomma… poi alla fine anche Moccia, no? Voglio
dire… Perché ci sono due anime in Moccia. C’è quella del…
più commerciale…
KOCH: Sì… quello che volevo dire io è che comunque questa raccolta
che è uscita, che raccoglie queste prose brevi, no?... Finora
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inedite… Io non son riuscito a leggerla alla fine… Ho
cominciato no?... Dalla prima... “Compagnia”… Poi però…
quando dice… “Tu finirai così come ora sei”… mi sono
bloccato
PLATANIA: Secondo me… Federico Moccia più che sui romanzi
infatti… tipo.. “Scusa se ti chiamo amore”… queste cose
qua… è proprio sulle cose brevi che viene fuori… su… su
“Compagnia” Moccia è imbattibile secondo me…
KOCH: Sì sì sicuramente… una forza… una potenza… una potenza
che ti dico mi ha scoraggiato proprio da… dal continuarne la
lettura… perché ho intuito dove mi avrebbe portato capisci?
… Ai confini estremi della lingua stessa…
PLATANIA: Ma il Moccia poeta lo conosci?
KOCH: Sì… Sì…
PLATANIA: Queste poesie brevi in francese in inglese sono
abbastanza…
KOCH: Sì… purtroppo… adesso… sto approfondendo adesso la mia
conoscenza del francese per poterlo leggere appunto…
PLATANIA: Sì perché Moccia va letto in… (scoppia a ridere
fragorosamente)
KOCH: (risata fragorosa)
PLATANIA: (singhiozzando dalle gran risa) Moccia va letto in originale
KOCH: (ridendo) Sì… sì… sicuramente… in francese… ma in inglese
l’ho letto perché comunque in inglese sono riuscito… sono
abbastanza in grado… ma in francese… purtroppo… in
francese… in francese no… (ride ancora)
PLATANIA: (sghignazza)
KOCH: (a mezza voce, scimmiottando il dialetto romanesco) me manca…
PLATANIA: Poi c’è il Moccia… oh… il teatro di Moccia (ride)
KOCH: (ridendo) Fantastico! … Rimane un mio sogno… Anzi vorrei
lanciare…
PLATANIA: Mettere in scena tutto Moccia…
KOCH: Sì… Sì… Vorrei lanciare un appello… approfittare di
questa… di questa diretta per lanciare un appello appunto…
a… a chi volesse… a chi…
PLATANIA: A chi ha i mezzi per farlo…
KOCH: A chi ha i mezzi per farlo e soprattutto… la voglia (ride) … la
voglia di cimentarsi con questo grande autore… ecco sì…
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PLATANIA: Perché poi ci sono…
KOCH: Mi piacerebbe poter mettere in scena…
PLATANIA: A parte i grandi capolavori tipo “Aspettando Godot” o
“Finale di partita”… secondo me il teatro di Federico Moccia
viene fuori anche sulle pièce più brevi…
KOCH: L’”atto senza parole”!
PLATANIA: L’”Atto senza parole” di Moccia…
KOCH: Fantastico!
PLATANIA: …è spettacolare secondo me… forse lì è proprio il
massimo…
KOCH: Ecco… Sì sì… Io mi ricordo ancora quello che vidi al festival
di Avignone… nel lontano 1984… che era geniale perché lo
misero in scena… questa compagnia francese di cui non
ricordo il nome…
PLATANIA: Non era Peter Brook il regista, no?
KOCH: No no… Non era Peter Brook… e… l’”Atto senza parole”
come tu ben sai è un atto senza parole… c’è una persona…
un attore… che fa delle cose… e questo lo mise in scena…
fermo… dicendolo tutto a voce… tutto l’”Atto senza
parole”…
PLATANIA: Ah quindi proprio proclamando… leggendo le
indicazioni di regia… sì sì… (pausa) comunque insomma…
è uno dei grandi del Novecento, insomma, insieme a… poi
infatti, no? Joyce Kafka Moccia Musil Pessoa… insomma…
Pirandello…. So’ questi insomma… i nomi che vengono
fuori…
KOCH: Sì… ed è scandaloso che non si riescano a trovare… tuttora…
PLATANIA: La Trilogia! La Trilogia di Moccia è introvabile! (ride)
KOCH: (ridendo) Almeno quella… almeno quella… eh sì…
purtroppo…
PLATANIA: Eh!
KOCH: Purtroppo sai… le cose che vendono son sempre…
PLATANIA: Sempre le stesse… Sempre le stesse…
KOCH: Le solite… sempre le solite… Beckett… Robaccia così…
PLATANIA: Sì…
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GIORNONOTTE
Quindi la sequenza del giorno. Durante il giorno scrive per
rendere sopportabile l’attesa.
Quindi la sequenza della notte. Durante la notte cammina
nella città delle ombre insieme ai morti.
La sequenza del giorno. Prima di scrivere si costringe a
pensare. Non sognare. Sognare fa parte della sequenza della notte.
Prima di scrivere si costringe a pensare e quando ha pensato a
sufficienza scrive. Almeno fino a quando una delle voci non lo
distrae. Scrive storie di uomini che desiderano la salvezza. Scrive
poesie contro i giovani. Poi arriva la voce. La voce dice: «Sei bravo.
Scrivi bene. Vogliamo fare un film con le cose che scrivi». La voce
dice anche: «Riceverai aggiornamenti in proposito». Poi la voce non
parla più. Gli aggiornamenti in proposito non vengono ricevuti.
Allora continua a pensare e a scrivere. Con una difficoltà maggiore.
Scrive la storia di Buddy Holly che precipita in aereo. Scrive un
romanzo sulle origini sataniche del capitalismo. Poi arriva la voce.
Un’altra voce. La voce dice: «Sei bravo. Scrivi bene. Vogliamo farti
pubblicare con un editore più importante». La voce dice anche:
«Riceverai aggiornamenti in proposito». Poi la voce non parla più. Gli
aggiornamenti in proposito non vengono ricevuti. Allora continua a
pensare e a scrivere. Con una difficoltà maggiore. Scrive la storia di
un complotto informatico. Scrive una preghiera che celebra la
bellezza dei grandi deserti e delle foreste. Pensa che gli piacerebbe
sognare le foreste durante la sequenza della notte. Ma durante la
sequenza della notte sogna solo la città delle ombre dove cammina
insieme ai morti.
La sequenza della notte. All’inizio di ogni sequenza cade nel
sonno senza fatica. La fatica arriva dopo. Quando i morti lo
costringono a camminare nella città delle ombre insieme a loro. Per
tutta la durata della notte. Fino a quando l’inizio della sequenza del
giorno non lo libera. Conosce tutti i morti che incontra e tutti i morti
che incontra lo conoscono. Allora cammina insieme a loro. Nella
sequenza della notte non ci sono voci. A differenza della sequenza del
giorno non ci sono voci. Nessuno dice: «Sei bravo». Nessuno dice:
«Riceverai aggiornamenti». Allora continua a camminare. Con una
difficoltà maggiore. La città delle ombre è come una città qualunque.
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Ci sono case e negozi. Ci sono strade e automobili. Ma nella città delle
ombre camminano i morti. A differenza di una città qualunque
camminano i morti. Allora continua a camminare. Con una difficoltà
maggiore. Pensa che gli piacerebbe potersi fermare. Pensa che gli
piacerebbe potersi fermare e scrivere. Ma non può. Scrivere fa parte
della sequenza del giorno.
Quindi la sequenza del giorno. Di nuovo. Quindi la sequenza
della notte. Di nuovo. Fino a quando non più la sequenza del giorno.
Fino a quando non più la sequenza della notte.
Solo la città delle ombre dove cammina insieme ai morti.
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NOTE AI TESTI
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* (ASTERISCO)
Apparsa a puntate su lamerotanti.com tra il 17 maggio del 2007 e il 21 gennaio del 2008, *
(asterisco) è a oggi l’opera più corposa, sebbene incompiuta, che platania ha proposto sul
blog.
La saga è stata portava avanti, oltre che da platania, anche da Fabrizio Venerandi,
Antonio Koch, Mauro Mazzetti e Federico Blò, per un totale di circa 65 capitoli. In questo
volume sono raccolti solo i capitoli firmati da platania.
La trama, in sintesi, è la seguente: l’informatica non è una conoscenza sviluppata dagli
uomini, ma uno strumento ideato da una forma di vita aliena e superiore a quella umana
per dominare la Terra. La diffusione dei cosiddetti home computer (i computer
“domestici” come il Commodore 64 o lo Spectrum) che si è avuta negli anni ’80 è dunque
una strategia per soggiogare gli umani. Non a caso la grande popolarità dei primi
computer ha fatto da base al lancio di internet che, con i suoi molteplici servizi interattivi
(youTube, aNobii, Flickr, etc.), ha di fatto eliminato la privacy degli individui. Ma un
umano, che sceglie per sé il soprannome di Asterisco, scopre il grande complotto cosmico
e cerca di contrastarlo.
La prima puntata di * (asterisco) apparve su lamerotanti.com il 17 maggio del 2007. Circa
una settimana prima (11 maggio 2007) platania aveva postato il seguente testo su
lamerotanti.com, quasi ad annunciare a tutti i lettori del blog la grande epopea che stava
per avviare: «Io lo so, lo so che oggi è il giorno giusto per iniziare a scrivere una specie di storia a
puntate che mi gira in testa da qualche tempo a questa parte. Oggi è uno di quei giorni che non c’è
proprio niente da fare e quando non c’è niente da fare è terribile, perché è vero che non ci sono le
cose brutte da fare ma è vero pure che non hai voglia di fare quelle belle. Allora è il giorno giusto
per fare una cosa né bella né brutta, ad esempio buttare giù la prima puntata di questa storia e
magari poi mandarla a lamerotanti per farla pubblicare. Il problema è che lamerotanti non c’è più,
è stato chiuso per colpa di Antonio Koch. Antonio Koch – uno scrittore le cui iniziali
corrispondono alla sigla di un mitragliatore – un giorno ha deciso di non postare più su
lamerotanti e anzi, un po’ come il protagonista di Auto da fé di Elias Canetti, ha distrutto tutto
quello che ha scritto. Però il protagonista del romanzo di Canetti dà fuoco ai libri della sua
biblioteca (che non ha mica scritto lui) e ci muore dentro. Antonio Koch, invece, cancella tutti i
suoi post da lamerotanti (che ha scritto lui) e non muore. Qualcosa di ingiusto c’è. Sia come sia,
Fabrizio Venerandi – uno scrittore le cui iniziali non corrispondono a un cazzo – dice basta, così
non si può andare avanti e chiude lamerotanti, un blog collettivo che aveva senso solo se ci
scrivevano con frequenza tutti quelli che lo avevano messo su, tipo lui, Koch e altri di cui ora non
ricordo bene il nome. Nessuno ci scriveva più. Così lui chiude il blog, dice basta, comments off.
Allora tutti i lettori di lamerotanti si disperano, dicono non è giusto, a noi non pensate? È una
cosa che ricorda un po’ Misery non deve morire, dove il lettore cattura e tortura il suo scrittore
preferito perché questi ha deciso di far morire il personaggio di un suo ciclo di romanzi. E anche
questa è una similitudine sbagliata, perché nessuno dei lettori di lamerotanti ha catturato e
torturato Venerandi, il quale del resto non ha deciso di far morire il personaggio di un suo ciclo di
romanzi, ma si è limitato a chiudere un blog. Blog che poi è risorto da un’altra parte, nella
fattispecie nel blog personale del Venerandi stesso, dove di nuovo arriva Koch che dice che il locale
è triste e poi te lo ritrovi sempre qui, che dice che scrivere non ha senso e poi tira giù delle
schidionate di parole da stendere anche i lettori di Balzac. Ma la mia storia a puntate non c’entra
niente con tutto questo. La mia storia a puntate parla di#MISSING_LINK#».
L’epopea di * (asterisco) fu condotta dapprima con grande entusiasmo dai principali
autori del blog (oltre a platania, dunque, anche Fabrizio Venerandi, Antonio Koch, Mauro
Mazzetti e Federico Blò).
Verso la fine del 2007 il server su cui risiede lamerotanti.com presentò una serie di
gravissimi malfunzionamenti al punto tale da rendere quasi impossibile non solo la
prosecuzione della stesura di * (asterisco), bensì la partecipazione al blog in generale.
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Il 10 dicembre 2007 platania riuscì tuttavia a postare sull’ormai disastrato blog il seguente
post: «catastrofe dal greco katastrophè rivolgimento riuscita fine e questo da katastrèpho rivolgo
capovolgo composto di katà giù sotto e strèpho volgo cangiamento ordinariamente in peggio rapido
e definitivo nelle condizioni fisiche e morali di una persona grande sconvolgimento della natura
rovescio in arte conclusione del poema epico scioglimento dell’intreccio nel fine del dramma o della
tragedia è vero si può ancora postare su lame e allora signori si continua».
In effetti era ancora possibile postare, anche se con qualche difficoltà. Pochi giorni dopo il
server venne riparato e tutto tornò a filare liscio, ma ormai l’entusiasmo per la saga si era
estinto.
Gli ultimi due capitoli firmati da platania, comunque, (“Le anime morte” e “Introducing
Diamanda”) sono di buon livello. De “Le anime morte” platania girò addirittura una
versione
video
(visibile
su
YouTube
all’indirizzo
http://www.youtube.com/watch?v=qt3F-MLC35c).
Nel gennaio del 2008, pochi giorni prima che la stesura della saga di * (asterisco) si
perdesse nel nulla, platania, Venerandi, Koch e Mazzetti realizzarono uno spassosissimo
“making
of”
del
progetto
(visibile
su
YouTube
all’indirizzo
http://www.youtube.com/watch?v=eg-NaOMNOvo).
Il 21 gennaio 2008, platania firmò, con il capitolo intitolato “Introducing Diamanda”
l’ultima puntata della grande saga incompiuta di * (asterisco). Il post era preceduto dalla
seguente nota: «Il testo che segue contiene le parole “sesso”, “pompino” e “scopare”. L’autore si
augura, tuttavia, che venga letto anche per altri motivi».
LA MIA VITA NELLA SELVA DEI FANTASMI
(ALLA FACCIA DI DAVID BYRNE, BRIAN ENO E AMOS TUTUOLA)
Altra saga incompiuta, stavolta non collettiva, ma firmata dal solo platania, apparsa su
lamerotanti.com tra il 27 febbraio 2008 e il 31 marzo 2008.
Si tratta, come scrisse l’autore in una nota apparsa in calce alla pubblicazione del terzo
capitolo, della «storia di un uomo e dei suoi sensi di colpa perché nel corso del tempo ha
abbandonato, senza motivo, tutti i suoi vecchi amici».
Il titolo della saga è lo stesso del romanzo scritto dallo scrittore nigeriano Amos Tutuola
nel 1954, nonché di un disco di musica elettronica composto nel 1981 da David Byrne e
Brian Eno. I nomi di questi tre artisti sono dunque citati nel sottotitolo.
Nel post in cui apparve il secondo capitolo della saga, l’autore pubblicò anche la seguente
nota in calce: «P.S.: è ancora presto per parlare di ‘conceptual continuity’, ma tutto lascia
presagire che questa nuova cosa, con Cuoredigomma eccetera, sia una specie di deriva imprevista
della grande saga di Asterisco, di cui non si hanno più notizie. Si tornerà a parlare di Asterisco? Si
svilupperà una nuova saga? Chi può dirlo? Su niente, noi, abbiamo il controllo».
CHINA NOOK TO
Racconto in quattro parti apparso su lamerotanti.com tra il 28 aprile e il 1° maggio del
2008. La quattro sezioni che compongono lo scritto prendono il titolo dagli altrettanti
movimenti di “A love supreme” di John Coltrane, una delle più celebri composizioni jazz
di tutti i tempi.
Il personaggio del protagonista è modellato su Antonio Koch, uno degli scrittori che
partecipano a lamerotanti.com (China Nook To è l’anagramma del suo nome). Eccettuati
alcuni dettagli che il personaggio ha in comune con il vero Koch, la narrazione è di pura
fantasia e non ha nulla a che fare con lui.
86
POESIE
TESTI SPARSI
Spreco energetico
La vita dopo
Brevissimo componimento poetico apparso su lamerotanti.com il 15 novembre 2007, in
riferimento ai disordini nella capitale accaduti dopo l’uccisione da parte di un agente di
polizia del tifoso Gabriele Sandri.
Racconto apparso su lamerotanti.com il 23 ottobre 2007.
Staremo bene tutti
In questo spazio disastrato e informatico noi produciamo bellezza
Poesia apparsa su lamerotanti.com il 12 gennaio 2008. Insieme alle due successive
avrebbe voluto concorrere alla formazione di una raccolta, poi rimasta incompiuta,
intitolata “Rime Rotanti”. Le poesie di questa silloge ipotetica avevano in comune
l’interrogarsi sul ruolo della letteratura in rete e più in particolare dello stesso blog
lamerotanti.com
Sul blog la poesia venne pubblicata insieme a un’immagine tratta dalla performance
artistica di Joseph Beuys «Come spiegare la cultura a una lepre morta» (1965).
Racconto apparso su lamerotanti.com il 16 gennaio 2008.
G.S.C. – La recensione
Recensione del volume antologico «Giovani Surrealisti Canadesi» (I Figli Belli, 2008),
curato da Fabrizio Venerandi. Apparsa su lamerotanti.com il 18 gennaio 2008.
(Senza titolo #1)
Ma, almeno tu, l’avevi capito che sarebbe stata questa la vibrazione del mito?
Poesia apparsa su lamerotanti.com il 15 gennaio 2008. Insieme alla precedente e alla
successiva avrebbe voluto concorrere alla formazione di una raccolta, poi rimasta
incompiuta, intitolata “Rime Rotanti”. Le poesie di questa silloge ipotetica avevano in
comune l’interrogarsi sul ruolo della letteratura in rete e più in particolare dello stesso
blog lamerotanti.com
Sul blog la poesia venne pubblicata insieme a un’immagine tratta dal film di Bas Jan
Ander «Broken Fall (Organic)» (1971).
Testo apparso su lamerotanti.com il 30 gennaio 2008.
(Senza titolo #2)
Testo apparso su lamerotanti.com 7 marzo 2008. Scritto realmente nell’internet point della
hall del Novotel di Lisbona e pubblicato sul blog direttamente da lì.
B3ck3tt = M0cc14
Quello che noi vogliamo è questo
Poesia apparsa su lamerotanti.com il 4 febbraio 2008.
Il titolo si rifà a una rubrica del blog (“Quello che voi volete, eccolo”) in cui vengono
impietosamente elencate le chiavi inserite nei più comuni motori di ricerca attraverso cui i
visitatori approdano a lamerotanti.com.
Insieme ai due componimenti precedenti, questa poesia avrebbe voluto concorrere alla
formazione di una raccolta, poi rimasta incompiuta, intitolata “Rime Rotanti”. Le poesie
di questa silloge ipotetica avevano in comune l’interrogarsi sul ruolo della letteratura in
rete e più in particolare dello stesso blog lamerotanti.com
Sul blog la poesia venne pubblicata insieme a un’immagine tratta dal film di Steve
McQueen «Deadpan» (1997).
Trascrizione del testo della videoperformance realizzata il 22 aprile 2008 da platania – di
passaggio a Bologna – e Antonio Koch. La location del video è la mitica mansarda di
Koch (per questo motivo il video fu pubblicato su lamerotanti.com sotto il titolo “Platania
& Koch live from the penthouse”). Il video è visibile su YouTube all’indirizzo
http://www.youtube.com/watch?v=pP1RcuOqG20
Giornonotte
Trascrizione del file audio pubblicato su lamerotanti.com il 22 maggio 2008. Il file in
formato mp3 può essere ascoltato al seguente indirizzo:
http://www.samuelbeckett.it/nobeckett/giornonotte.mp3
Soggetto per una poesia contro i giovani
Poesia apparsa su lamerotanti.com il 12 maggio 2008.
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INDICE
PAG. 3
Introduzione
PAG. 5
* (ASTERISCO)
PAG. 39
LA MIA VITA NELLA SELVA DEI FANTASMI
(ALLA FACCIA DI DAVID BYRNE, BRIAN ENO E AMOS TUTUOLA)
PAG. 49
CHINA NOOK TO
POESIE
PAG. 63
Spreco energetico
PAG. 64
In questo spazio disastrato e informatico
noi produciamo bellezza
PAG. 65
Ma, almeno tu, l’avevi capito
che sarebbe stata questa la vibrazione del mito?
PAG. 66
Quello che noi vogliamo è questo
PAG. 67
Soggetto per una poesia contro i giovani
TESTI SPARSI
PAG. 71
La vita dopo
PAG. 72
Staremo bene tutti
PAG. 74
G.S.C. – La recensione
PAG. 74
(Senza titolo #1)
PAG. 76
(Senza titolo #2)
PAG. 77
B3ck3tt = M0cc14
PAG. 80
Giornonotte
PAG. 83
Note ai testi
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