N. 1/2011 - Associazione Italiana per l`Arbitrato

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N. 1/2011 - Associazione Italiana per l`Arbitrato
ISSN 1122-0147
ASSOCIAZIONE
ITALIANA
PER L’ARBITRATO
Pubblicazione trimestrale
Anno XXI - N. 1/2011
Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in a.p.
D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46)
art. 1, comma 1, DCB (VARESE)
RIVISTA
DELL’ARBITRATO
diretta da
Antonio Briguglio - Giorgio De Nova - Andrea Giardina
© Copyright - Giuffrè Editore
ASSOCIAZIONE
ITALIANA
PER L’ARBITRATO
Pubblicazione trimestrale
Anno XXI - N. 1/2011
Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in a.p.
D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46)
art. 1, comma 1, DCB (VARESE)
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INDICE
DOTTRINA
NICOLA PICARDI, Il Collegio di conciliazione ed arbitrato dell’Uffıcio del
Lavoro della Sede Apostolica .............................................................
ANDREA PANZAROLA, Il « salary arbitration » nella Major League Baseball
(MBA), tra « final offer methods » e « judicial notice of sorts » .....
ALBERTO A. ROMANO, L’effıcacia probatoria degli atti dei procedimenti arbitrali ...................................................................................................
1
13
49
GIURISPRUDENZA ORDINARIA
I)
Italiana
Sentenze annotate:
Cass. 30 settembre 2010, n. 20504, con nota di F. UNGARETTI DELL’IMMAGINE, Brevi note sulla forma della convenzione arbitrale .................
Cass. 13 dicembre 2010, n. 25159, con nota di V. AMENDOLAGINE, Clausola compromissoria e transazione novativa .....................................
TAR Lazio 12 aprile 2011, n. 3202, con nota di C. CORBI, La mediazione
civile ed i sospetti di illegittimità costituzionale per eccesso di delega ......................................................................................................
II)
69
85
99
Straniera
Sentenze annotate:
Stati Uniti - Supreme Court 27 aprile 2010, con nota di G. CASONI, Recenti sviluppi sulla class action arbitration negli Stati Uniti ............
115
RASSEGNE E COMMENTI
TOMASO GALLETTO, L’arbitrato dei consumatori e la sindrome dell’« anatra zoppa » ..........................................................................................
127
DOCUMENTI E NOTIZIE
Il nuovo Regolamento Arbitrale dell’UNCITRAL ......................................
147
III
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DOTTRINA
Il Collegio di conciliazione ed arbitrato
dell’Ufficio del Lavoro della Sede Apostolica (*)
NICOLA PICARDI (**)
1. Lo Stato Vaticano come Stato privo di una propria Comunità. — 2. L’evoluzione dello Stato Vaticano: dallo Stato apparato allo Stato di diritto. —
3. L’istituzione dell’Ufficio del Lavoro della Sede Apostolica e del Collegio
di conciliazione e di arbitrato. — 4. Le controversie relative ai rapporti di
pubblico impiego. — 5. L’evoluzione dei sistemi di risoluzione delle controversie in materia di pubblico impiego: dallo Statuto « ad experimentum » del
1989 allo Statuto del 1994. — 6. Lo Statuto del 2009: l’arbitrato ULSA come
arbitrato amministrato per legge.
1. Due anni dopo gli Accordi Lateranensi, Francesco Ruffini
concludeva le sue riflessioni sulla Città del Vaticano affermando che
esso è « uno Stato necessariamente, irriducibilmente, ineluttabilmente anormale, e cioè un Unicum nella vita politica e giuridica dei
popoli, allo stesso modo che un Unicum fu nella storia ed è nel
mondo moderno e sarà finché sia per durare nei secoli, la Santa Sede » (1).
Ma in cosa consiste quest’Unicum?
Superando i primi, pur autorevoli, orientamenti (2), sembra ora
affermarsi l’idea che ci troviamo in presenza di uno Stato privo della
(*) Il presente saggio è dedicato a Giovanni Verde ed è apparso negli Studi pubblicati in suo onore.
(**) Professore emerito nella Università di Roma « La Sapienza ».
(1) F. RUFFINI, Lo Stato della Città del Vaticano. Considerazioni critiche, in Scritti
giuridici minori, a cura di FALCO, JEMOLO e E. RUFFINI, vol. I, Scritti di diritto ecclesiastico,
Milano, 1936, 326.
(2) Ci si riferisce alla concezione di Stato patrimoniale, che risale a DONATI ed a
quella di Stato teocratico o ierocratico, che è stato prospettato già da D’AVACK, sulle quali,
e per le relative critiche, cfr., da ultimo, PICARDI, Lo Stato Vaticano e la sua giustizia, Bari,
2009, 86 ss. ed, ivi, ulteriori riferimenti.
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Comunità, uno Stato strumentale, in quanto ha la funzione di garantire la sovranità e l’indipendenza della Santa Sede. Ha insegnato
Giovanni Paolo II (3), « lo Stato Città del Vaticano è sovrano, ma
non possiede tutte le ordinarie caratteristiche di una Comunità politica (s.n.)... non possiede una propria società per il cui esercizio sia
stato costituito, e neppure si basa sulle forme di azione sociale che
determinano solitamente la struttura e l’organizzazione di ogni altro
Stato. Inoltre le persone che coadiuvano la Sede Apostolica, o anche
cooperano al governo dello Stato della Città del Vaticano, non sono,
salvo poche eccezioni, cittadini di questo né, conseguentemente,
hanno i diritti e gli oneri (in particolare quelli tributari) che ordinariamente scaturiscono dall’appartenenza a uno Stato ». In altri termini, nel Vaticano non esiste una popolazione stabile, un popolo di
nazionalità vaticana. Siamo in presenza solo di un agglomerato di
dipendenti e funzionari, in ragione delle funzioni esercitate e durante
il loro esercizio. La Comunità evoca, invece, l’idea di una formazione naturale e spontanea, di un gruppo che, nel succedersi dei secoli e delle generazioni, presenta una continuità culturale, storica e
giuridica (4).
2. La costatazione che lo Stato Vaticano non possiede una
propria Comunità per il cui servizio sia stato costituito, probabilmente, consente anche (5) di individuare la sua caratteristica fondamentale.
Nella fase più matura della pubblicistica (6) è stato, già da
tempo, evidenziato che, entro gli ordinamenti giuridici statali, si differenziano due enti esponenziali che assumono anche essi il nome di
Stati: lo Stato apparato e lo Stato comunità. Lo Stato apparato, o
Stato in senso stretto, ricomprende il momento organizzativo, che
(3) Epistula Em.mo... Cardinali Casaroli, a publicis Ecclesiae negotiis, missa, Vaticano 20-XI-1982, in Acta Apostolicae Sedis (A.A.S.) 1983, 120.
(4) Per la nozione di Comunità cfr., da ultimo, PICARDI, La giurisdizione all’alba del
terzo millennio, Milano, 2007, 185 ss. ed ivi ulteriori riferimenti.
(5) In effetti, dal punto di vista pratico, la mancanza di una Comunità comporta, fra
l’altro, che non incombe allo Stato Vaticano il compito di organizzare tutta una serie di attività che usualmente fanno capo agli Stati: le scuole, gli asili, i servizi cimiteriali, i trasporti
ecc.
(6) Cfr., per tutti, CRISAFULLI, La sovranità popolare nella costituzione italiana, in
Scritti giuridici in memoria di V.E. Orlando, vol. I, Padova, 1957, 420 ss.; ID., Lezioni di diritto costituzionale, II ed., vol. I, Padova, 1970, 80 ss. e L. PALADIN, Lezioni di diritto costituzionale, Padova, 1989, 11 ss.
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appunto fa capo all’apparato statale. Lo Stato comunità, o Stato in
senso largo, si presenta come un corpo sociale giuridicamente organizzato e ricomprende l’intera comunità.
Lo Stato Vaticano, in mancanza di una Comunità di riferimento, si risolve unicamente nello Stato apparato, che, come tale,
governa sé stesso (7).
In altra sede (8), abbiamo avanzato l’idea che lo Stato Vaticano,
progressivamente, si è andato anche « autolimitando », sottoponendo, cioè, se stesso al proprio diritto ed oggi finisce per assumere
le caratteristiche di uno Stato di diritto (9). Ciò vale, in particolare,
in tema di pubblico impiego: la legge impera non solo sui suoi dipendenti, che costituiscono parte rilevante dell’apparato, ma anche
sullo stesso Stato Vaticano. L’istituzione e la successiva evoluzione
dell’Uffıcio del Lavoro della Sede Apostolica (ULSA) (10) sta, appunto, a dimostrare che i diritti dei dipendenti progressivamente
sono stati sempre più riconosciuti e tutelati, anche contro l’amministrazione vaticana.
3. Le peculiarità del servizio prestato presso la Sede Apostolica hanno richiesto una fase preparatoria di studi per la sua regolamentazione, studi di cui v’è traccia soprattutto in due documenti ufficiali d’indirizzo.
Ci si riferisce, innanzitutto, alla già citata lettera apostolica di
Giovanni Paolo II al Cardinale Casaroli del 1982 (11), che prendeva
appunto le mosse dalla costatazione che lo Stato Vaticano è privo di
(7) In tal senso cfr.già CARDIA, Principi di diritto ecclesiastico, Tradizione europea
legislazione italiana, II ed., Torino, 2005, 257, nonché VITALONE, Stato Città del Vaticano ed
evoluzioni ordinamentali (questioni propedeutiche), in Arch. giur., 2005, 71.
(8) PICARDI, Lo Stato Vaticano e la sua giustizia, cit., 74, 91, 117 e 127.
(9) Cfr., da ultimo, PICARDI, La giustizia all’alba del terzo millennio, cit., 156 ss. e
la nota 10, quanto all’applicazione della nozione di Stato di diritto agli Stati assoluti (quale
lo Stato Vaticano).
(10) Cfr., per tutti, DE MARINIS, L’istituzione dell’ULSA e la gestione dei rapporti di
lavoro presso la Sede Apostolica, in Apollinaris, 1989, 623 ss.; ID., Uffıcio del Lavoro della
Sede Apostolica, in Enc. dir., XLV, Milano, 1992, 713 ss.; MATTIOLI, L’Uffıcio del Lavoro
della Sede Apostolica secondo lo Statuto unito al M.P. « nel primo anniversario » del 1/1/
1989, in BONNET e GULLO (a cura), La curia romana nella Cost. Ap. « Pastor Bonus », Città
del Vaticano 1990, 505 ss.; CARMIGNANI - CARIDI, Uffıcio del Lavoro della Sede Apostolica, in
Enc. giur. Treccani, XXXII, Roma 1994; PUNZI NICOLÒ, I procedimenti laburistici, in BONNET
e LOSCHIAVO (a cura), Forme stragiudiziali o straordinarie di risoluzione delle controversie
nel diritto comune e nel diritto canonico, Napoli, 2008, 194 ss.
(11) Cfr., retro, nota 3.
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una propria Comunità politica o società civile e poneva il problema
di organizzare, alla luce degli insegnamenti pontifici (12), la gestione
dei rapporti di lavoro di quanti collaborano allo svolgimento delle
funzioni dello Stato e, quindi, all’opera della Santa Sede.
Successivamente, la Costituzione Apostolica Pastor Bonus del
28 giugno 1988 (13), all’art. 36, preannunciò che un apposito ufficio
(offıcium centrale laboris) avrebbe provveduto a disciplinare la prestazione del lavoro nella Curia Romana e le questioni relative. Nell’Annexum II si comunicò, inoltre, l’imminente istituzione, con apposito provvedimento legislativo, del predetto ufficio, mettendo in
luce le istanze di fondo di questa innovazione. Era l’epoca in cui le
Associazioni di prestatori d’opera vaticani si venivano costituendo.
L’intento dichiarato del legislatore vaticano, da un lato, era quello di
evitare che si verificasse uno slittamento « sul terreno della conflittualità ad oltranza e della lotta di classe », dall’altro, mirava a perseguire la « retta applicazione della giustizia sociale nei rapporti tra lavoratore e datore di lavoro » (14). Per questo — sempre nel quadro
dell’evoluzione degli insegnamenti papali (15) — si intendeva creare,
tra coloro che collaborano a diversi livelli con la Santa Sede, « una
vera comunità di lavoro », che — giova sottolineare — è cosa ben
diversa dalla Comunità politica o la società civile.
Con motu proprio « Nel primo anniversario » del 1o gennaio
1989 (16) Giovanni Paolo II istituı̀, infine, l’Uffıcio del Lavoro della
Sede Apostolica (ULSA), approvando ad experimentum, per un periodo di cinque anni, l’annesso Statuto (17). All’ULSA venivano attribuiti una serie di competenze di tipo consultivo, di controllo, di
coordinamento e, soprattutto, di risoluzione delle controversie di lavoro in via conciliativa ed arbitrale. A tale fine, sempre con lo Sta(12) Cfr. le encicliche di Leone XIII, Rerum Novarum del 15 maggio 1891 in A.A.S.,
1891, XI, 97 ss.; di Pio XI, Quadragesimo Anno del 15 maggio 1931, ivi, 1931, XXIII, 177
ss.; di Giovanni XXIII, Mater et magistra del 15 maggio 1961, ivi, 1961, LIII, 401 ss.; di
Paolo VI, Populorum progressio del 26 marzo 1967, ivi, 1967, LIX, 257 ss.; l’epistola apostolica di Paolo VI, Octogesima Adveniens del 14 maggio 1971, ivi, 1971, LXVIII, 401 ss.
ed, infine, l’enciclica di Giovanni Paolo II, Laborem Exercens del 14 settembre 1981, ivi,
1981, LXXIII, 513 ss.
(13) In A.A.S. 1988, LXXX, 1988, 841 ss.
(14) PUNZI NICOLÒ, I procedimenti laburistici, cit., 194.
(15) Oltre ai documenti citati alle note 12 e 13, cfr. la successiva enciclica, sempre
di Giovanni Paolo II, Sollecitudo Rei Socialis del 30 dicembre 1987 in A.A.S. 1989, LXXX,
513 ss.
(16) In A.A.S., 1989, LXXXI, 145 ss.
(17) MATTIOLI, L’Uffıcio del Lavoro della Sede Apostolica, cit., 505 ss.
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tuto, è stato istituito, nell’ambito dell’ULSA, il Collegio di conciliazione e di arbitrato (18).
Successivamente, con il motu proprio « La sollecitudine » del
30 settembre 1994 (19), Giovanni Paolo II — previe rilevanti modifiche — approvò lo Statuto c.d. definitivo.
Da ultimo, con il motu proprio « Venti anni or sono » del 7 luglio 2009, Benedetto XVI ha, a sua volta, proceduto ad una ulteriore
rielaborazione, emanando una terza edizione dello Statuto, entrato in
vigore il 1o gennaio 2010.
Nell’economia di questo scritto ci si limiterà a prendere in
esame soltanto le più rilevanti novità per quanto concerne la risoluzione delle controversie in materia di lavoro ed il Collegio di conciliazione e arbitrato.
4. Esclusi i rapporti di lavoro non dipendente o di prestazione
d’opera, l’art. 2 §§ 1 e 2, dello Statuto del 2009, attribuisce alla
competenza dell’ULSA e del Collegio di conciliazione e arbitrato la
risoluzione delle controversie relative ai rapporti di pubblico impiego, in tutte le loro forme ed espressioni, che riguardano, quanto
ai soggetti, il personale alle dipendenze della Curia Romana, del
Governatorato dello Stato Città del Vaticano e degli Organismi o
Enti gestiti direttamente dalla Sede Apostolica. La competenza può
essere estesa anche alle controversie che riguardano il personale dipendente di altri organismi ed enti, ma, unicamente, con provvedimenti della Suprema Autorità. La qualifica di personale dipendente
è, comunque, determinata dai Regolamenti delle singole Amministrazioni. Ad esempio, a partire dal 2000, in forza del nuovo Regolamento Generale del Vicariato di Roma, rientrano nella competenza
del Collegio di conciliazione ed arbitrato anche le controversie di lavoro dei dipendenti del Vicariato e, analogamente, a partire dal 2002,
quelle dei dipendenti della Radio Vaticana (20). Controversa è, invece, la competenza dell’ULSA e del Collegio di conciliazione e di
arbitrato quanto alle controversie relative ai dipendenti dell’Istituto
per le Opere di Religione (IOR) (21).
(18) DE MARINIS, Uffıcio del Lavoro della Sede Apostolica, cit., spec. 718 ss. e CARCARIDI, Uffıcio del Lavoro della Sede Apostolica, cit., spec. 3 ss.
(19) In A.A.S. 1994, 841 ss.
(20) Cfr. PUNZI NICOLÒ, I procedimenti laburistici, cit., 197.
(21) Da un lato, la Corte d’Appello dello S.C.V., con sentenza, coram Prosperetti, 17
MIGNANI
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Dal punto di vista oggettivo, vengono, poi, contemplate sia le
controversie individuali, che quelle plurime e quelle collettive nelle
quali si deduce la violazione di una specifica normativa applicabile
al rapporto di lavoro. L’art. 11, comma 3, dello Statuto del 2009
considera « collettiva » la controversia riferibile ad un interesse di
una intera categoria di dipendenti, mentre qualifica come « plurime »
le controversie nelle quali la medesima questione o il medesimo petitum vengono prospettate da più dipendenti in un unico o in più ricorsi riuniti. Nel silenzio dello Statuto anche la giurisprudenza vaticana sarà, comunque, chiamata a risolvere i complessi problemi della
legittimazione ad agire nelle controversie collettive e quelli posti
dalle controversie di lavoro a carattere seriale (22).
La particolare complessità delle controversie in esame è dovuta, in ogni caso, anche al fatto che esse non sono regolate da
un’unica fonte normativa. Come si è visto, il Collegio di conciliazione ed arbitrato, in effetti, è chiamato a dirimere non solo le controversie relative ai dipendenti dello Stato Vaticano, ma anche quelle
che riguardano i dipendenti della Curia romana e di Enti o Organismi gestiti dalla Sede Apostolica, o specificamente individuati. Ne
consegue che per la loro risoluzione si dovrà fare riferimento, a
volte, all’ordinamento vaticano, altre volte, all’ordinamento canonico (23) ovvero a statuti particolari. In altri termini, il Collegio di conciliazione e arbitrato, a volte, si troverà in presenza di interferenze
fra diversi ordinamenti e dovrà districarsi fra gli stessi.
5. Nei venti anni finora decorsi si sono succeduti tre diversi
sistemi di risoluzione delle predette controversie di lavoro.
marzo 2007, Bensaadi ed altri c. IOR (causa n. 82/2006) si era pronunciata, infatti, in favore
della competenza dell’ULSA, in base al principio della territorialità del diritto del lavoro, in
quanto lo IOR ha sede nello Stato Vaticano. D’altro lato, la Corte di Cassazione dello S.C.V.,
nella sentenza, coram Vallini, 21 febbraio 2008 fra le stesse parti (causa n. 27/2007), ha, con
ampia motivazione, cassato la precedente sentenza, dichiarando l’incompetenza dell’ULSA.
La causa è stata riassunta avanti al Tribunale Vaticano, il quale con sentenza, coram Papanti
Pellettier, 22 giugno 2009 (causa 109/2008), ha dichiarato il difetto di giurisdizione del Tribunale Vaticano, attribuendo la giurisdizione alle Autorità giudiziarie proprie dell’ordinamento canonico.
(22) Per una prima prospettazione, con riguardo all’ordinamento italiano, cfr., da ultimo, PICARDI, Manuale del processo civile, II ed., Milano, 2010, §§ 58; 58.1; 196.3; 282.1 e
295.
(23) Quanto alla distinzione fra enti vaticani e enti canonici e le relative interferenze
cfr. CARMIGNANI CARIDI, Curia romana e Stato della Città del Vaticano. Criteri di individuazione dei rispettivi enti, in Dir. eccl., 1988, I, 139 ss.
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Dal 1989 al 1994, durante la vigenza dello Statuto « ad experimentum », venne previsto che tutte le controversie in esame trovassero soluzione a mezzo di conciliazione e, in caso di insuccesso, a
seguito di decisione da parte del Collegio di conciliazione e di arbitrato (24). Poteri particolari vennero attribuiti a tale Collegio. Si prevedevano « azioni, competenze e poteri che anteriormente allo Statuto dell’ULSA, non erano previsti o erano diversamente disciplinati » (25). In particolare, in diritto canonico, secondo un principio consolidato, l’autorità giudiziaria non poteva pronunciare la revoca o la
modifica dell’atto amministrativo. Con l’art. 11 dello Statuto, si stabilı̀, invece, che « in caso di accoglimento del ricorso il Collegio annulla, in tutto o in parte, il provvedimento impugnato e decide sui
diritti soggettivi dedotti in giudizio ». Poteri che sono stati sostanzialmente confermati anche nello Statuto del 2009 (art. 19, comma
3).
Lo Statuto del 1989 attribuı̀, infine, alle decisioni del Collegio
carattere di definitività, stabilendo la loro inappellabilità (art. 11, § 5,
lett. i). Nella pratica giudiziaria si tentò, peraltro, di superare l’esclusione dei mezzi ordinari (26) di impugnazione.
A questo proposito, emblematica è la vicenda Morandi c. Pontificia Commissione per lo Stato Città del Vaticano. La Pontificia
Commissione, rimasta soccombente, impugnò la decisione del Collegio (27) avanti al Supremo Tribunale della Segnatura « sive in decernendo sive in procedendo », ma la Segnatura dichiarò inammissibile l’impugnazione (28). Successivamente, la Pontificia Commissione presentò, quindi, ricorso alla Cassazione dello S.C.V., la quale,
a sua volta, dichiarò la propria incompetenza (29). Significativa è la
lettura delle articolate motivazioni delle due decisioni, nonché dei
(24) Per l’analisi della procedura cfr., in particolare, DE MARINIS, Uffıcio del Lavoro
della S. Sede, cit., 716 ss.
(25) Cfr. Collegio di conciliazione ed arbitrato, decisione coram Persiani 28 dicembre 1990, Masuccio c. Pontificia Commissione per lo Stato Città del Vaticano e, su di essa,
CARMIGNANI CARIDI, Uffıcio del Lavoro della Sede Apostolica, cit., 3.
(26) Lo stesso art. 11, n. 5 consentiva, infatti, l’esperibilità dei mezzi straordinari
della revocazione e della querela di nullità. Su questo aspetto, del resto, si tornerà nel prosieguo di questo scritto (v., infra, nota 41).
(27) Collegio di conciliazione e di arbitrato, decisione coram Pessi, 26 luglio 1990,
in Dir. eccl., 1190, II, 329 ss.
(28) Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, decreto 24 maggio 1991 e, su di
esso, CARMIGNANI CARIDI, Uffıcio del Lavoro della Sede Apostolica, cit., 3.
(29) Cassazione dello S.C.V. 10 giugno 1992 e, su di essa, CARMIGNANI CARIDI, op.
cit., loco cit.
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commenti dottrinali che hanno fatto loro seguito. È pacifico che, una
volta esaurita la fase conciliativa, operava il Collegio solo in quanto
« arbitrale », secondo la stessa definizione legislativa. D’altra parte,
la precisa volontà del legislatore era proprio quella di « negare la natura giudiziaria » del Collegio (30). Tuttavia, nei predetti documenti
non venne affatto presa in considerazione la natura arbitrale del Collegio e, conseguentemente, quella di lodi arbitrali delle relative pronunce (31). Si ritenne, invece, che ci trovavamo in presenza di un tribunale vero e proprio — anche se straordinario o, comunque, speciale — che, sia nell’ordinamento canonico che in quello Vaticano (32), ben può essere istituito per legge. D’altra parte, l’istituzione
di un arbitrato obbligatorio o si risolve nella costituzione di un giudice straordinario o speciale ovvero costituisce una violazione del
principio per cui nessuno può essere distolto dal suo giudice naturale (33). Il dibattito, tanto in giurisprudenza che in dottrina, si concentrò, pertanto, nell’alternativa: giudice speciale della Santa Sede ovvero giudice speciale dello Stato Vaticano.
In effetti, il Collegio in esame non può essere annoverato tra gli
organi ordinari del potere giudiziario dello Stato Vaticano, costituiti
secondo il relativo ordinamento giudiziario e regolati dalla Legge
fondamentale dello Stato (34). È pur vero che l’istituzione del Collegio è ora prevista dalla nuova Legge fondamentale, ma in ambito
istituzionale diverso (35). Semmai si dovrebbe parlare di un giudice
straordinario o speciale della Santa Sede, ma si tratterebbe di un giudice chiamato a dirimere, per converso, controversie che concernono
dipendenti non solo della Santa Sede, ma anche dello Stato Vaticano.
Anche se il fin de non recevoir venne successivamente confermato nelle successive decisioni, sia della Segnatura che della Cassazione dello S.C.V. (36), rimase una situazione di incertezza e anche
(30) PUNZI NICOLÒ, I procedimenti laburistici, cit., 200.
(31) CARMIGNANI CARIDI, op. cit., 6 il quale adduce a motivo il fatto che, se fossero
stati lodi arbitrali, avrebbero dovuto essere « resi esecutivi solo dal Giudice Unico ».
(32) A differenza dell’ordinamento italiano, nel quale l’art. 102 della Costituzione
sancisce il divieto di istituire giudici straordinari o speciali.
(33) Cfr., da ultimo, PICARDI, Il giudice naturale. Principio fondamentale a livello
europeo, in Diritto e Società, 2008, 513 ss.
(34) Cfr. gli artt. 9 e seg. della Legge fondamentale del 7 giugno 1929, in A.A.S.,
1929, 2 ss. e l’art. 15 della nuova Legge fondamentale del 26 novembre 2000, in A.A.S.,
2000, 78.
(35) Cfr. art. 18 della citata Legge fondamentale del 2000.
(36) Ci si riferisce al decreto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica del
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di disagio, in quanto non si riusciva ad assicurare alla parte soccombente il diritto ad impugnare le decisioni del Collegio di conciliazione e di arbitrato.
Conseguentemente, nel passaggio dallo Statuto « ad experimentum » allo Statuto del 1994 (c.d. definitivo), l’innovazione più rilevante non poteva non essere rappresentata proprio dal superamento
del carattere di definitività che era stato attribuito alle decisioni del
predetto Collegio. Lo Statuto del 1994 ha, infatti, provveduto ad assicurare la possibilità di impugnazione. Fermo restando la competenza dello stesso Collegio di conciliazione ed arbitrato per quanto
attiene i rimedi straordinari (la revocazione e la querela di nullità:
artt. 414 ss. e 423 ss. Codice proc. civile vaticano) avverso le decisioni del Collegio, l’art. 12 ammette, in via ordinaria, il ricorso per
legittimità alla Corte d’Appello dello Stato Vaticano, sia per inosservanza o violazione di « norme essenziali di procedura », sia per
« violazione o falsa applicazione di leggi, disposizioni e regolamenti » in materia laburistica (37).
Successivamente, nella pratica giudiziaria è, peraltro, emerso
anche un orientamento favorevole ad introdurre un terzo grado di
giudizio, avanti alla Corte di Cassazione dello S.C.V., ma solo dopo
aver ottenuto una specifica commissione (detta anche grazia) da
parte del Sovrano Pontefice (38).
6. Le perplessità suscitate e le difficoltà incontrate da ultimo,
hanno portato, ancora una volta, a rivedere funditus l’istituto. Con
motu proprio 7 luglio 2009 è stato approvato, in effetti, un Nuovo
Statuto dell’ULSA, che è entrato in vigore il 1o gennaio 2010.
Il fulcro del nuovo sistema è rappresentato da un’opzione che
28 novembre 1992 ed alle due sentenze della Cassazione dello S.C.V. 4 dicembre 1992, entrambe coram Gagnon, rispettivamente, nelle cause Capitolo di S. Pietro c. Patrignani e Masuccio c. Pontificia Commissione per lo S.C.V., già ricordate da CARMIGNANI CARIDI, op.
cit., 7.
(37) La relativa procedura è stata disciplinata dall’Allegato II allo Statuto.
(38) Corte di Cassazione dello S.C.V. coram Pompedda 24 marzo 2001, Pontificia
Commissione per lo S.C.V. c. Pollio, nonché la stessa Corte di Cassazione, coram Vallini 21
febbraio 2008, già cit., la quale, precisa, al § 9, che « la Corte ritiene che il dovere di garantire il principio generale della certezza del diritto o dell’interesse generale non possa escludere categoricamente un qualche rimedio giudiziario che dia adito ad un ricorso, seppure
propiziato da una grazia, non privo di fumus boni iuris, ovi si configuri... che la Corte d’Appello abbia fondato il proprio giudizio... su presunte leggi inesistenti nell’ordinamento o su
applicazioni estensive delle norme che... si rivelino arbitrarie ».
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viene offerta al pubblico dipendente il quale ritenga che un proprio
diritto soggettivo in materia laburistica sia stato leso da un provvedimento amministrativo (o in caso di silenzio-rigetto da parte dell’Amministrazione (art. 12, comma 3)). Egli può adire l’autorità giudiziaria vaticana, oppure proporre istanza all’Ufficio del Lavoro della
Sede Apostolica al fine di ottenere la risoluzione della controversia
attraverso una via alternativa (art. 11, comma 1).
Qualora il dipendente scelga questa seconda via, una volta che
le procedure di conciliazione abbiano dato esito negativo, spetterà al
Collegio in esame il compito di dirimere la controversia. È un ritorno
all’impostazione originale di questa ventennale vicenda: il Collegio
assume non più la funzione di giudice speciale, ma quella di arbitro,
come era nella intentio legis degli anni ’80 del secolo scorso ed è
sempre stato ribadito negli Statuti che si sono succeduti. L’art. 18,
comma 4, del nuovo Statuto ancora una volta conferma, infatti, « la
natura non giudiziaria del Collegio », anche se « al procedimento si
applicano le disposizioni del Codice di procedura vaticano », sempre
che non sia disposto altrimenti.
Giovanni Verde, in onore del quale è destinato il presente saggio, insegna che l’arbitrato nelle controversie di lavoro diventa arbitrato amministrato, solo in presenza di organismi arbitrali permanenti (39). Nel caso in esame, siamo in presenza di un arbitrato facoltativo e non imposto, nell’an, ma per legge obbligatorio, nel quomodo (40). Il legislatore, in piena coerenza con i principi propri di uno
Stato di diritto, ha infatti lasciato alla parte la possibilità di scegliere
tra giudice ed arbitro, ma poi — dovendo regolamentare un settore
rilevante dell’apparato, sia dello Stato che della Santa Sede — ha
imposto un particolare tipo di arbitrato, gestito da una istituzione
permanente, l’ULSA. Siamo, pertanto, in presenza quel tipo di arbitrato messo a punto dalla letteratura più recente, che viene denominato arbitrato amministrato ovvero organizzato per legge o anche
arbitrato istituzionale (institutional arbitration).
In sostanza, il nuovo Statuto dell’ULSA offre, sul nostro tema,
un rilevante contributo, sostanzialmente in linea con i principi e con
l’evoluzione dottrinale. Non mancano, tuttavia, zone di ombra. Nel-
(39) VERDE, L’arbitrato e gli arbitrati nel volume a cura dello stesso A., Diritto dell’arbitrato, III ed., Torino, 2005, 64.
(40) BRIGUGLIO, Gli arbitrati obbligatori e gli arbitrati da legge, in Riv. trim. dir.
proc. civ., 2003, 84.
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l’art. 19, comma 4, dello Statuto, ad esempio, torna anche l’originale
previsione secondo la quale le decisioni del Collegio sono inappellabili. A questo proposito, sorge, però, il timore che nella pratica giudiziaria finirà per ripresentarsi quella esigenza di introdurre, in qualche modo, un effettivo mezzo di impugnazione (41), che è stato il
Leitmotiv dell’evoluzione ventennale del nostro istituto.
Probabilmente non siamo ancora allo Statuto definitivo. Per
poter decollare, il nuovo sistema di risoluzione delle controversie in
tema di pubblico impiego richiede ancora perfezionamenti ed incentivi. La storia del nostro istituto continua.
Having described the historical evolution both of the legal nature of the Vatican State and of the regulation of labour relations with the Holy See, the Author
explains the amendment to the statute of the ULSA (Ufficio del Lavoro della Sede
Apostolica) conciliation and arbitration panel brought about, by Pope Benedict
XVI motu proprio 7 July 2009.
In particular, having recalled the subject matter jurisdiction of the panel with
reference to the types of employment relations and disputes deferred thereto, the
Author illustrates the main aspects of the arbitral procedure as amended through
time and by the latest reform, especially addressing the topics of means of challenges to the decisions as well as that of its nature of voluntary institutional arbitration, still mandatory in its quomodo.
(41) Non sono certamente sufficienti gli attuali mezzi straordinari di impugnazione
della revocazione e della querela di nullità, che esplicitamente vengono fatti salvi dall’art. 19,
comma 4, dello Statuto, cosı̀ come sono regolati dal Codice di procedura civile vaticano. Basti considerare che la querela di nullità, che viene proposta allo stesso Collegio di conciliazione e di arbitrato (art. 423, comma 1 c.p.c. vaticano), è ammessa soltanto nei casi di assoluta incompetenza del Collegio, di incapacità delle parti o di sua rappresentanza in giudizio
senza legittimo mandato (art. 308 c.p.c. vaticano). Si tratta di ipotesi eccezionali che nulla
hanno a che vedere con i dodici casi di nullità del lodo arbitrale previsti dall’art. 829 del
c.p.c. italiano.
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Il « salary arbitration »
nella Major League Baseball (MLB),
tra « final offer method » e « judicial notice of sorts ».
ANDREA PANZAROLA (*)
1. Premessa. — 2. L’origine. — 3. L’arbitration eligibility. — 4. La decisione. — 5. Il free agent e la declinatoria d’arbitrato. — 6. I criteri di giudizio e la loro osservanza. — 7. La scienza privata degli arbitri e la notorietà.
— 8. Regole del gioco e procedimento di arbitrato.
1. Come da tradizione (1), anche quest’anno si ripete nel baseball professionistico statunitense (2) il rito del « salary arbitration » (3).
Scandito da un reticolo di scadenze ravvicinate, che da dicembre si distendono per oltre due mesi, il procedimento raggiunge il
climax nei primi venti giorni di febbraio (4), finalmente destinati alla
celebrazione delle udienze arbitrali (arbitration hearings).
(*) Professore straordinario nella LUM di Bari-Casamassima.
(1) Non vi è dubbio che il baseball, in vario modo, riflette, suscita e (ri)genera il
senso della tradizione, che è restituito con rara efficacia in questo dialogo (fra Bill e Cotter)
immaginato da DE LILLO, Underworld (1997), London, 1999, 31 (trad. it., Torino, 1999, 27):
« That’s the thing about baseball, Cotter. You do what they did before you. That’s the connection you make. There’s a whole long line. A man takes his kid to a game and thirty years
later this is what they talk about when the poor old mutt’s wasting away in the hospital ».
(2) Precisamente della Major League Baseball (MLB).
(3) Il « salary arbitration » è impiegato sin dal 1970 anche nell’ambito dell’hockey
su ghiaccio della NHL (National Hockey League), non senza differenze con il modello esaminato in queste pagine (la principale delle quali concerne l’obbligo di motivazione della decisione degli arbitri, richiesta solo nell’hockey). Cfr. art. 12 dell’accordo collettivo fra NHL
ed associazione dei giocatori (NHLPA) in http://www.nhl.com/cba/2005-CBA.pdf.
(4) Quest’anno le tre udienze arbitrali si sono tenute sino al 18 febbraio. La prima di
tali udienze si è svolta martedı̀ 8 febbraio fra il pitcher Ross Ohlendorf ed i Pittsburgh Pirates. L’ultima il 18 febbraio, fra il right fielder Hunter Pence e gli Houston Astros. Per un
quadro assai preciso e continuamente aggiornato (che copre il periodo 1974-2011), cfr. http://bizofbaseball.com/index.php?option=com_content&view=article&id=719&Itemid=116
(con i contributi di BROWN). Sull’udienza del 10 febbraio fra il pitcher Jered Weaver ed i Los
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Queste ultime, mentre intersecano la ripresa ufficiale degli allenamenti (spring training) (5), portano pure a compimento la c.d. hotstove season (6). Si elevano cosı̀ a spartiacque fra la fase invernale e
quella primaverile, preannunziando l’inizio ufficiale (Opening Day)
del campionato a fine marzo (7). Alla primavera subentrerà l’estate (8), in un succedersi incessante di partite (9) che, via via sempre
più rade nel numero (10), penetreranno fin nell’autunno (11) inoltrato.
Sino all’ultima, che, assegnando la vittoria (12), se suggella la fine
Angeles Angels v. infra in nota 78 e nota 108. Se si eccettua quest’ultima, le altre due
udienze si sono concluse con una decisione a favore del giocatore.
(5) « A program of conditioning, preparation, and exhibition play that begins in late
February and end a day or two before the Opening Day »: DICKSON, The Dickson Baseball
Dictionary, 3a ed. (Edited and Augmented by Skip McAfee), New York-London, 2009, 816817. Le date rilevanti sono quelle del 13 febbraio (« voluntary reporting date for pitchers, catchers and injured players »), del 18 febbraio (« voluntary reporting date for other players »)
e del 1o marzo (« mandatory reporting date »). Soprattutto la prima di tali date è avvertita con
gioia dagli appassionati del gioco come l’avvio della nuova stagione: « Pitchers and catchers
report soon », scrive esibendo quello stato d’animo, fra i numerosissimi, un osservatore d’eccezione: WILL, More Stimulating Than the Stimulus. In 2010 we learned that many of us are
Neanderthals, in Newsweek, 1, 2011.
(6) La stagione invernale, per coloro che seguono o partecipano al gioco del baseball: cfr. DICKSON, op. cit., 439. L’espressione « hot stove league » — resa celebre dal libro
di ALLEN, The Hot Stove League, New York, 1955 — descrive invece « the gab, gossip, and
debate that take place during the winter months when baseball is not being played » (DICKSON, op. cit., 438). D’uso comune è pure l’altra locuzione, « hot stove tracker ». Frequente è
il richiamo all’« hot stove market ».
(7) Quest’anno la stagione ha avuto inizio giovedı̀ 31 marzo (c.d. Opening Day), con
lo svolgimento di sei partite. Sul calendario 2011, cfr., ex multis, in http://sportsillustrated.cnn.com/2011/baseball/mlb/01/13/baseball-calendar/index.html.
(8) Ci si può riferire al titolo di un noto volume di KAHN, The Boys of Summer, New
York, 1972 (che vi tratta, peraltro, dei giocatori della squadra dei Dodgers — quando ancora
avevano sede a Brooklyn — fra la fine degli anni ’40 ed i primi anni ’50 del secolo scorso,
illustrandone pure le esistenze negli anni successivi: v. infra in nota 182).
(9) Solo nella stagione regolare, 2.430 partite, con 162 incontri per ogni squadra: NEWMAN, MLB announces regular-season starting times, 27 gennaio 2011, in http://mlb.mlb.com/
news/article.jsp?ymd=20110127&content_id=16516230&vkey=news_mlb&c_id=mlb&partnerId
=rss_mlb.
(10) Ma di importanza crescente, con i c.d. playoff.
(11) Le World Series sono anche indicate con la espressione Fall Classic. V. nota seg.
(12) L’attitudine degli statunitensi circa il proprio ruolo è riflessa nell’appellativo di
world champion riservato alla squadra vincitrice delle World Series; e, ancor prima, nello
stesso impiego del sintagma « serie mondiali » per alludere alle sette partite finali che vengono disputate fra le squadre — ovviamente tutte con sede negli USA, ad eccezione della
squadra di Toronto (e, sino a pochi anni fa, anche di Montreal) — vincitrici del c.d. pennant
nelle due leghe professionistiche, la American League e la National League. Cfr. i rilievi sul
punto di WILL, A Mosaic of Memories, October 1988, in ID., Bunt, Thorndike, Maine, 1998,
155 ss.
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del gioco, ne prepara insieme però il nuovo inizio. Con il rito del
« salary arbitration », s’intende (13).
2. Il procedimento (14) denominato « salary arbitration » (15)
si compone di regole di origine pattizia, che conducono alla adozione di una decisione vincolante e non impugnabile ad opera degli
arbitri, i quali, senza esternarne le ragioni, scelgono l’una o l’altra
proposta di retribuzione annua, rispettivamente prospettata dal giocatore o dalla società alla quale egli appartiene.
(13) Nella misura in cui coinvolge anche i c.d. free agents (v. infra, spec. §§ 2, 3 e
5), i quali, subito dopo la conclusione del campionato (v. note 10 e 11), possono trattare un
rinnovo del contratto con il proprio club di appartenenza per un breve periodo di tempo (e
soltanto dopo possono esaminare le offerte di tutte le altre squadre interessate alle loro prestazioni). Vale la pena notare che, quest’anno, a seguito di un accordo intervenuto nel mese
di settembre del 2010, le squadre hanno avuto a disposizione per negoziare con i propri giocatori soltanto cinque giorni (cfr. BLUM, 2 novembre 2010, in http://www.boston.com/sports/
baseball/articles/2010/11/02/derek_jeter_cliff_lee_on_list_of_142_free_agents/). Dal sesto
giorno successivo alle World Series (anziché dal sedicesimo, secondo il regime ordinario),
quegli stessi free agents hanno potuto perciò intavolare trattative con tutte le squadre. Quanto
alla iniziativa del giocatore, al quale è permesso di dare notizia al club della sua scelta a favore della nuova condizione di free agent, v. infra in nota 124.
(14) Sfuggiamo alla suggestione di incasellare il procedimento in esame in una delle
nostre categorie (cfr., per un loro esame, non limitato all’esperienza italiana, MOURRE, in
Commentario breve al diritto dell’arbitrato nazionale ed internazionale, a cura di Benedettelli, Consolo e Radicati di Brozolo, Padova, 2010, 586 ss.).
(15) Cfr., in argomento, ABRAMS, The Money Pitch. Baseball Free Agency and Salary
Arbitration, Philadelphia, 2000 (una monografia integralmente destinata al nostro tema); ID.,
Legal Bases: Baseball and the Law, Philadelphia, 1998 (dove il procedimento è affrontato
nel contesto più generale dei profili legali connessi al gioco); HAM e MALACH, Hardball Free
Agency - The Unintended Demise of Salary Arbitration in Major League Baseball: How the
Law of Unintended Consequences Crippled the Salary Arbitration Remedy - and How to Fix
It, in Harvard JSEL/Harvard Journal of Sports and Entertainment Law, 2010, 63 ss.; EDMONS, A most interesting part of baseball’s monetary structure - salary arbitration in its thirty-fifth year, in Marquette Sports Law Review, 2009, 1 ss. (con due allegati — ivi, 49 ss. —,
il secondo dei quali dedicato ad una profonda rivisitazione della stagione sportiva 2009);
GORDON, Final Offer Arbitration in the New Era of Major League Baseball, reperibile in http://law.bepress.com/cgi/viewcontent.cgi?article=6219&context=expresso (nonché in Journal of American Arbitration, 2007, 153); CARMOUCHE, Arbitration in Major League Baseball,
in The Journal of American Arbitration, 2001, 91 ss.; CONTI, The Effect of Salary Arbitration
on Major League Baseball, in Sports Lawyers Journal, 1998, 221 ss.; WASSNER, Major League Baseball’s Answer to Salary Disputes and the Strike, in Vanderbilt Journal of Entertainment and Technology Law, 2003, 5 ss. Utili sono pure, in varia misura, i contributi di EUSTON, Playing the arbitration spread, 17 gennaio 2011, in http://www.baseballprospectus.com/
article.php?articleid=12732; GORMAN, The Arbitration Process, 31 gennaio 2005, in http://
www.baseballprospectus.com/article.php?articleid=3732; ARGERIS, Is Last Best Offer Arbitration the Best Method to Resolve Baseball Salary Disputes? (7 gennaio 2008), in http://
www.nyc.gov/html/oath/pdf/argeris.pdf.
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Questo procedimento è seguito con vibratile curiosità dagli appassionati, che vi si avvicinano con una mentalità veementemente
antagonistica (16), non dissimile da quella che si sorprende nella attitudine delle parti (17), e che si indovina nella origine stessa di questa forma di arbitrato. Perché le regole del « salary arbitration », e
la sua stessa introduzione, sono l’esito di taluni specifici eventi storici (18). Sono precisamente il frutto di una fase critica (19) dei rapporti di lavoro nel baseball professionistico, caratterizzata dalla importanza crescente della Associazione dei giocatori (20).
Quest’ultima, sotto la direzione ferrea (21) di Marvin Mil22
ler ( ), sul finire degli anni ’60 del secolo scorso, pretese ed ottenne
(16) Che vi sia un « Arbitration Scorecard » (v. retro in nota 4) è la riprova di questo approccio diffuso urbi et orbi negli USA, denunziato anche dal lessico utilizzato (tratto
dalla esperienza della competizione sportiva).
(17) V. infra nel testo (spec. §§ 4 e 5) ed in nota, spec. 95 e ss.
(18) Si può dire di una molteplice stratificazione rinvenibile nella vicenda del « salary arbitration ». Dietro la facciata delle regole di procedura, che lo compongono, si incontra la problematica della clausola di riserva e della sua eliminazione con la free agency; nonché, ancora più in profondità, la presa di posizione della Associazione dei giocatori contro il
complessivo ordinamento del lavoro in vigore sino alla fine degli anni ’60 del secolo scorso.
Il concetto che si indaga in queste pagine ha non solo un aspetto visibile, ma ne ha anche
uno nascosto. Ha un fondo, che non si può tacere. O meglio, lo si potrebbe tacere. Ma non
si capirebbe.
(19) Questa fase critica avrebbe potuto essere premonita già esaminando nel 1965
l’affare « Drysdale - Koufax » (sul quale v., per tutti, HAM e MALACH, Hardball Free Agency,
cit., spec. 67-68: i due lanciatori — stelle di prima grandezza del gioco alle dipendenze dei
Dodgers, a quella data trasferitisi da tempo a Los Angeles — attivarono una dura forma di
protesta contro il proprio club, che si concluse solo dopo che le loro richieste vennero accolte, attraverso un cospicuo aumento delle retribuzioni).
(20) Per una rapida ricognizione storica, è utile quel che si legge nel sito della Associazione: cfr. http://mlbplayers.mlb.com/pa/info/history.jsp. Assai più profonda è la ricostruzione degli antecedenti storici in HAM e MALACH, Hardball Free Agency, cit., spec. 65-75;
nonché in ABRAMS, The Money Pitch, cit., passim (ma spec. 2-30, e, su profili specifici, 6769, 97-103, 129 ss.).
(21) L’aggettivo non è casuale: prima di ricoprire l’incarico di direttore esecutivo in
seno alla « Major League Baseball Players Association » (MLBPA, anche nota come unione
dei giocatori), egli era infatti « the chief negotiator for the United Steelworkers Union »
(HAMPLE, Watching Baseball Smarter. A Professional Fan’s Guide for Beginners, Semiexperts, and Deeply Serious Geeks, New York, 2007, 179; c.n.). Indicazioni di maggior dettaglio sono reperibili nel volume dello stesso Marvin MILLER (A Whole Different Ballgame:
The Sport and Business of Baseball, con prefazione di S. Terkel, ed introduzione di B. James, New York, 1991, passim).
(22) Insieme a Miller, si ricorda di solito Don Fehr. Questi succedette al primo nella
carica di direttore esecutivo della Associazione dei giocatori (dopo la breve parentesi di Ken
Moffett). Cfr., in ultimo, GAMMONS, Miller’s contributions revolutionary. Leader of free-agent
era deserves recognition for influence, 1o dicembre 2010, in http://mlb.mlb.com/news/
article.jsp?ymd=20101201&content_id=16236202&vkey=news_mlb&c_id=mlb.
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la conclusione di un contratto collettivo (23). Di lı̀ a breve, rivendicò
con successo anche il diritto al ricorso allo strumento arbitrale « to
resolve grievances » (24).
Non per caso, allora, in quel torno di anni nacque (25) pure —
quale effetto da causa — un arbitrato con oggetto specifico (sul « salary ») (26), secondo le direttrici poste dalla contrattazione collettiva (27).
Come il contratto collettivo nel quale si inscrive, cosı̀ le regole
del nostro procedimento fissano in un discorso scritto una realtà in
divenire. Avviene che quel discorso sia di tanto in tanto rivisitato,
senza smarrire una propria unità di indirizzo (28).
(23) Nel 1968 Miller si adoperò affinché l’associazione dei giocatori stipulasse il
primo accordo collettivo della storia dello sport professionistico statunitense (« the first-ever
collective bargaining agreement — CBA — in professional sports »: cosı̀ nel sito indicato retro in nota 20). Sul punto cfr., per tutti, ABRAMS, Legal Bases: Baseball and the Law, cit.,
spec. cap. 4, 73-90 (« Collective Bargaining: Marvin Miller »).
(24) Nel 1970, ancora sotto la direzione di Miller. Sulla distinzione fra « interest arbitration » (qual è il nostro procedimento di « salary arbitration », fondato sul c.d. « final offer method » e diretto a fissare la retribuzione del giocatore) e « grievance arbitration » (la
cui finalità è piuttosto quella di interpretare « the terms of an agreement »), cfr., ad es.,
Black’s Law Dictionary, 7a ed., 1999, 100.
(25) In verità, si tende a credere che fu John Gaherin (abile negoziatore nell’interesse
dei proprietari delle squadre di baseball, sul quale v. pure nota 56) ad aver suggerito il procedimento già alla fine degli anni ’60 del secolo scorso: lo osserva HELYAR, Lords of the
Realm, New York, 1995, 160 (il quale nota che quella idea ebbe seguito con Ed Fitzgerald:
a quest’ultimo — presidente nei primi anni ’70 del secolo scorso della squadra dei Milwaukee Brewers e soprattutto capo del Comitato per le relazioni con i giocatori in seno alla
associazione dei proprietari dei team — si richiama GORMAN, op. loc. cit.). D’altra parte, si
osserva che l’idea di fondo è stata dell’economista del lavoro Carl M. STEVENS (Is Compulsory Arbitration Compatible with Bargaining?, in Industrial Relations: A Journal of Economy and Society, 1966, 38 ss.), che la formulò nel 1966 (cosı̀ ABRAMS, Legal Bases, cit., 87).
(26) Sia chiaro: vi è un sistema binario di fissazione dei salari (« a bifurcated system
of salary setting », scrive efficacemente ABRAMS, The Money, cit., 90): se la associazione dei
giocatori negozia i minimi salariali, il singolo giocatore (ai sensi dell’art. II del Basic Agreement) contratta invece la retribuzione individuale. In questo secondo ambito si situa, come
ovvio, il procedimento di « salary arbitration ».
(27) Il primo degli accordi collettivi che introdusse il nostro procedimento fu quello
in vigore dal 1973: cfr. EDMONS, op. cit., 4.
(28) V. HAM e MALACH, op. cit., 93, secondo i quali, dal 1973 ad oggi, il procedimento è rimasto « largely unchanged ». In origine, in ogni caso, la decisione era monocratica; dal 1995 al 2000 vi è stata la coesistenza di decisioni dell’arbitro unico e del collegio;
nel 2000 si è passati alla decisione di un panel di arbitri per tutte le controversie (cfr. EDMONS, op. cit., 6; il quale, in linea con quegli altri due autori, scrive che la struttura del nostro procedimento nella sostanza « has remained the same »). Secondo WASSNER, op. cit., 9,
i club erano a favore del panel « because of a lack of trust in a single arbitrator » (arbitro
unico, invece, favorito dai giocatori, anche perché meno oneroso).
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L’accordo attuale (29) — Basic Agreement, in vigore dal 20 dicembre 2006 (30) — intercorre fra le trenta squadre di Major League
(Major League Clubs) e la associazione dei giocatori (Major League
Baseball Players Association) (31).
3. L’art. VI (32) si occupa, sia pure non esclusivamente, del
« salary arbitration » (33). A cominciare dalla delineazione della c.d.
arbitration eligibility (34).
Gli « idonei all’arbitrato » sono quei giocatori che hanno maturato almeno tre anni (35) di « Major League service » (36).
( 2 9 ) 2007-2011 Basic Agreement, in http://mlbplayers.mlb.com/pa/pdf/
cba_english.pdf.
(30) La scadenza è prossima (dicembre 2011). La discussione sul rinnovo è già iniziata (cfr. le dichiarazioni del capo della associazione dei giocatori, Michael Weiner, in MLBPA head wants labor talks soon, 21 febbraio 2011, in http://sportsillustrated.cnn.com/2011/
baseball/mlb/02/21/union.cba.ap/index.html). A quanto pare, però, stando a quel che dice
Weiner, non vi è la volontà delle parti di modificare il nostro procedimento.
(31) Lo scopo è delineato all’art. 1 dell’accordo collettivo: « The intent and purpose
of the Clubs and the Association (...) in entering into this Agreement is to set forth their
agreement on certain terms and conditions of employment of all Major League Baseball
Players for the duration of this Agreement ».
(32) « Salaries »: ecco la rubrica dell’articolo. La norma dice poi [art. VI, F, (1),
sotto la rubrica: « Eligibility »] questo: « The issue of a Player’s salary may be submitted to
final and binding arbitration by any Player or his Club, provided the other party to the arbitration consents thereto ».
(33) Al quale è invece destinata la lettera F, che, a sua volta, si articola in 14 numeri,
con il numero tre distinto in tre parti contrassegnate da una lettera minuscola.
(34) Cfr., per tutti, HAM e MALACH, Hardball Free Agency, cit., 75 ss.; EDMONS, A
most interesting part, cit., 4 ss. È necessario richiamare la norma che fissa i precisi contorni
della figura del c.d. « arbitration-eligible player ». Dice l’art. VI, F, (1) al riguardo: « Any
Club, or any Player with a total of three or more years of Major League service, however
accumulated, but with less than six years of Major League service, may submit the issue of
the Player’s salary to final and binding arbitration without the consent of the other party, subject to the provisions of paragraph 4 below » (« Withdrawal from Arbitration »: § 4 cit.).
Questa categoria comprende quindi quei giovani giocatori che — sotto il controllo del proprio club sino a quando non avranno maturato sei anni di servizio — dopo i primi tre anni
di lavoro possono accedere al procedimento (per i tre anni precedenti, invece, il salario verrà
fissato dal club, che, tutt’altro che libero, dovrà comunque attenersi ai minimi salariali determinati in sede di contrattazione collettiva: ABRAMS, op. cit., 31; EDMONS, op. cit., 7, 16 ss.;
per una ricognizione dei minimi salariali nella loro evoluzione storica si rinvia al più noto
sito in argomento, in Cot’s Baseball Contracts: in http://mlbcontracts.blogspot.com/2003/01/
transactions-glossary.html).
(35) Sul senso di un anno di servizio cfr. ABRAMS, The Money Pitch, cit., 30. Il termine di 172 giorni — ivi menzionato — è ancora oggi (dopo 11 anni dalla pubblicazione del
libro di Roger Abrams) quello che figura all’art. XXI del contratto collettivo vigente.
(36) Prima del 1985, il limite era di due anni. Nel ricordo di questo limite, è stato
nel prosieguo inserito il concetto dei « Super Twos » (EDMONS, cit., 4-5). V. nota seg.
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Ad essi si debbono aggiungere — a partire dal 1990 — coloro
che possono rientrare nella categoria dei c.d. « Super Twos » (37):
quanti vi siano compresi godono di quattro anni di idoneità all’arbitrato (« four arbitration-eligible years ») invece di tre soltanto (38).
L’altro gruppo di giocatori « arbitration eligible » è rappresentato
dai c.d. « veteran players », i quali, per aver superato il limite dei sei anni di servizio, hanno acquisito l’agognato status di « free agents » (39).
(37) O — come scrive ABRAMS, op. cit., 31 — dei « super-two’s ». Per denotare la
categoria non è raro che venga impiegata — tra i giornalisti — la cifra (« Super 2’s ») o la
locuzione « Super Two players ». Ampio spazio è riservato al tema da EDMONS, cit., 4-5, nonché 24 ss. L’idoneità all’arbitrato si acquista in tal caso, a certe rigorose condizioni, dopo due
soli anni di servizio (secondo quanto avveniva in principio — v. nota prec. — in ogni caso).
L’art. VI, F, (1), stabilisce che « a Player with at least two but less than three years of
Major League service shall be eligible for salary arbitration if: (a) he has accumulated at least
86 days of service during the immediately preceding season; and (b) he ranks in the top seventeen percent (17%) (rounded to the nearest whole number) in total service in the class of Players
who have at least two but less than three years of Major League service, however accumulated,
but with at least 86 days of service accumulated during the immediately preceding season ».
Numerosi sono gli esempi di « Super Twos », alcuni celebri (ad es. C. Hamels, R.
Howard, T. Lincecum, ecc.) altri meno. Vogliamo limitarci a segnalare una prassi — altrettanto diffusa (cfr. EDMONS, op. loc. cit.; HAM e MALACH, op. cit., 85) che criticata — seguita
da certe squadre (ad es. dai Tampa Bay Rays con D. Price e dai Minnesota Twins con F. Liriano). Queste, per evitare che maturino i presupposti della figura sotto esame, limitano l’accesso con continuità del giovane giocatore nel roster. In questo modo, evitano che si realizzino le condizioni dell’art. VI, F, (1) e si sottraggono al rischio (economico) di un anno in
più di arbitrato. Naturalmente, al beneficio economico si somma il danno sportivo, quando si
tratta di un giovane giocatore che potrebbe recare una immediata utilità alla propria squadra.
(38) Come accade nella ipotesi generale considerata retro nel testo ed alle note 35 e
36 (nella quale — come veduto — il giocatore diventa idoneo all’arbitrato dopo tre anni di
servizio e sino al sesto anno, quando diviene free agent). Nella ipotesi speciale, invece, il
giocatore diviene “idoneo” dopo due anni di servizio (ancora sino al sesto anno). Due
udienze arbitrali hanno avuto quest’anno come parti proprio giocatori compresi fra i « Super
Twos »: si tratta di R. Ohlendorf (cfr. CASTROVINCE, Ohlendorf wins arbitration hearing. Pirates right-hander will make $2.025 million this year, 9 febbraio 2011, in http://mlb.mlb.com/
news/article.jsp?ymd=20110209&content_id=16602036&vkey=news_mlb&c_id=mlb; cui adde, per informazioni specifiche, sulla carriera del medesimo giocatore, in http://www.baseball-reference.com/players/o/ohlenro01.shtml) e H. Pence (GOFF, Pence, Astros present strong
cases at arbitration hearing, 18 febbraio 2011, in http://www.examiner.com/houston-astrosin-houston/pence-astros-present-strong-cases-at-arbitration-hearing; nonché, nel dettaglio,
sulla situazione contrattuale di Pence, v. in http://www.baseball-reference.com/players/p/
pencehu01.shtml). V. retro nota 4.
(39) In grado di stipulare un contratto con qualunque club, costoro possono essere
nondimeno coinvolti nel procedimento di « salary arbitration » alla doppia condizione che
sia offerto loro l’arbitrato e non decidano di sottrarvisi (sempre che, beninteso, abbiano ab
origine enunciato la volontà di acquisire il nuovo status: v. infra § 6 e nota 124). Non
teniamo qui conto dei c.d. « non tender-free agents » (che acquistano il relativo status prima
del decorso dei sei anni, quando non sia offerto loro un contratto oppure, se idonei — i.e.:
« arbitration eligible » —, il procedimento di arbitrato).
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Peraltro, quando l’11 febbraio 1974 (40) si tenne la prima
udienza arbitrale nell’ambito del « salary arbitration », la figura del
free agent non esisteva ancora (41).
Aveva infatti vigore la (42) « reserve clause » (43): sconosciuta
nella età albare (44) del gioco e in opera unicamente dalla fine del
XIX sec. (45), questa clausola ha per circa un secolo legato ciascun
giocatore al proprio team per la durata di una vita (46).
(40) EDMONS, op. cit., 1 (il sistema del « salary arbitration » era stato adottato l’anno
prima: ivi, 4). Se ne dice pure in HELYAR, op. cit., 161, dove lo scrittore ricostruisce l’origine
del salary arbitration. In ogni caso, sono del massimo interesse le notazioni al riguardo di
MILLER, A Whole Different, cit., 109 (sulla istituzione del nuovo procedimento; il famoso direttore della associazione dei giocatori, che concorse in prima persona alla introduzione di
questa forma di arbitrato, si occupa pure della evoluzione nel tempo del rimedio: ivi, 291,
336-338, 350, 354, 356-361).
(41) Avrebbe trovato un riconoscimento legale entro pochissimo tempo: cfr. infra nel
testo ed in nota 55.
(42) Famigerata, staremmo per dire: salvo notare che si tratterebbe certo di un giudizio largamente condiviso, eccezion fatta, però, per i proprietari delle squadre. Non è un
caso che, a distanza di anni, la ostilità nei riguardi di Marvin Miller è ancora percepibile (se
ne duole P. Gammons, nel suo scritto citato retro in nota 22, nel quale precisamente deplora
il rifiuto opposto alla elezione di Miller nella National Baseball Hall of Fame, che raccoglie
— insieme ai giocatori più forti: AA.VV., Cooperstown. Hall of Fame Players, Lincolnwood,
Illinois, 2002 — anche managers, giornalisti, scrittori, arbitri e dirigenti del baseball USA:
HAMPLE, op. cit., 166-168).
(43) Ma si dice pure di un « reserve system »: cosı̀, ad es., si legge nella prima pagina
della fondamentale decisione della Corte Suprema USA in Flood v. Kuhn (v. infra in nota 50).
(44) Ancora nel 1869 — quando il baseball professionistico vide la luce e prese a
profilarsi un contenzioso d’indole « lavoristica » fra giocatori e proprietari delle squadre:
MOORAD, Major League Baseball’s Labor Turmoil: The Failure of the Counter-Revolution, in
Villanova Sports and Entertainment Law Journal, 1997, 53 ss. — non vi era stata alcuna istituzionalizzazione della clausola di riserva. Tanto è vero che, mano a mano che i profitti crescevano, si diffuse l’abitudine (tipica di un modello di libero mercato, del tutto opposto al
sistema della « reserve clause ») di portar via i giocatori dai rosters delle squadre delle altre
leghe (infatti, alla « National Association of Base Ball Players » — la prima forma di « governo » associato del nostro sport —, si aggiunsero nel 1876 la « National League » —
NL —, dichiaratamente aperta al professionismo, e nel 1881 la « American Association »/
AA). Questa pratica fu bloccata con la stipula (fra NL, AA e Northwestern League) nel 1883
del c.d. « Tripartite Agreement » (che consolidò l’importanza della « reserve clause »): per
queste notazioni v. pure, in ultimo, JAMIESON, Mint Condition. How Baseball Cards Became
an American Obsession, New York, 2010, spec. 20-21 (che rivisita questi eventi nel quadro
di quella « ossessione americana » che è stata e, in certa misura, continua ad essere, la raccolta delle « baseball cards »).
(45) A partire all’incirca dal 1880: cfr. CHALPIN, It Ain’t Over ‘Til It’s Over: The Century Long Conflict Between the Owners and the Players in Major League Baseball, in Albany Law Review, 1996, 205 ss., spec. 208; CONTI, The Effect, cit., 224 (da quella data si diffuse la tendenza ad inserire la « reserve clause » in ciascun « individual player’s contract »,
« to cover the entire team »).
(46) Il giocatore diventava in pratica — per mutuare il titolo del libro su Curt Flood
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Il modello imperniato sulla reserve clause è sempre parso ai più
altrettanto odioso (47) che inestirpabile (48), considerato che le iniziative giudiziarie promosse (nella forma dell’antitrust suit) (49) per ottenerne la eliminazione non hanno raggiunto in più occasioni — nel
1972 (50), allo stesso modo che nel 1922 (51) e nel 1953 (52) — alcun
risultato positivo. Negli anni, la Corte Suprema si è infatti posta, con
singolare continuità, a garanzia dello status quo (53), esentando il
business del baseball dalla osservanza delle « federal antitrust
laws ».
(il center fielder dei St. Louis Cardinals che cercò, senza successo, di abbattere la « clausola
di riserva ») di SNYDER, A Well-Paid Slave. Curt Flood’s Fight for Free Agency in Professional Sports, New York, 2006 — uno schiavo ben pagato, « a well-paid slave ».
(47) « When Lefty O’Doul died at seventy-two » — osservò sarcastico in un’occasione Marvin Miller — « he was still the property of the Giants: he’d never been released
and was still reserved by the club » (lo ricorda HELYAR, op. loc. cit.; c.n.: Francis Joseph
« Lefty » O’Doul concluse la sua carriera con i Giants, allora con sede a New York, all’età
di trentasette anni).
(48) Sin dal momento della apparizione della clausola di riserva, vi è stata una linea
di pensiero assai critica nei suoi confronti che, con andamento carsico — e pur se periodicamente contraddetta dalle decisioni della Corte Suprema —, ha rappresentato una costante
della storia statunitense del rapporto tra baseball e diritto.
(49) Si tende a credere che sia questa una delle ragioni — se non la principale —
dell’insuccesso delle iniziative succedutesi sino al 1976, quando Andy Messersmith e Dave
McNally adottarono la differente strategia del ricorso alla via arbitrale (nella forma del
« grievance arbitration »: cosı̀ MILLER, A Whole Different, cit., 238).
(50) Cfr. Flood v. Kuhn, 407 U.S. 258 (1972). Su questa decisione esiste una vastissima letteratura: cfr., per il testo della decisione, WEILER - ROBERTS, Sports and the Law, 3a
ed., St. Paul (Minnesota), 2004, 146 ss.; cui adde, in ultimo, per la illustrazione del caso, in
termini elementari, MINANA - COLE, The Little White Book of Baseball Law, Chicago, 2009,
49 ss. Nel sito della MLBPA si nota che « Curt Flood’s unsuccessful challenge of the reserve
clause started the ball rolling toward free agency ». L’iniziativa individuale di Flood, supportata dagli altri giocatori, ebbe un impatto enorme presso il pubblico americano. Cfr. pure HAM
e MALACH, Hardball Free Agency, cit., 68 ss.; EDMONS, A most interesting part, cit., 3-4. In
ogni caso, ci pare che la migliore illustrazione della vicenda sia quella di SNYDER, A WellPaid Slave, cit., spec. 145 ss. (a proposito dello svolgimento del trial). V. pure quanto scrive
sul punto MILLER, A Whole Different, cit., spec. 170 ss. Generalmente condivisa è l’opinione
di WILL, Dred Scott in Spikes, November 21, 1993, in ID., Bunt, cit., 436, quando scrive che
dalla storia di Curt Flood si ricava una lezione di coraggio e libertà.
(51) Cfr. Federal Baseball Club of Baltimore v. National League, 259 U.S. 200
(1922): su cui v. MINANA - COLE, cit., 39 ss.
(52) Cfr. Toolson v. New York Yankees, Inc., 346 U.S. 356 (1953): MINANA - COLE,
cit., 51.
(53) L’argomento impiegato era semplice: il baseball « is not commerce ». In questa
maniera, la Corte esonerò il gioco « from antitrust prosecution ». Insieme alle critiche, tale
posizione ha destato anche atteggiamenti differenti: con una giurisprudenza consimile —
scrive ad es. WILL, Players are Bought and Sold? Say It Ain’t So, June 24, 1976, in ID., Bunt,
cit., 33 — « the Supreme Court succumbed to sentimentality ».
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Soltanto con un lodo (54) arbitrale (55) — comunemente associato al nome di uno dei tre membri del panel, Peter Seitz (56) — si
è riusciti, di fatto (57), a cancellare nel 1976 la clausola.
Con la c.d. free agency il giocatore ha guadagnato il diritto di
accettare offerte contrattuali da squadre diverse da quella che in origine lo aveva assunto (« signed »).
(54) « The most important arbitration decision in the history of professional sports »:
cosı̀ MILLER, A Whole Different, cit., 238. Il lodo, come detto, fu emesso in conclusione di un
« grievance arbitration » (quando tutti i tentativi di sfidare l’anti-trust « exemption » del baseball si erano rivelati inutili).
(55) National & Am. League Prof’l Baseball Clubs v. Major League Baseball Players
Ass’n (Messersmith and McNally Grievances) 66 Labor Arbitration 101 (1976). Leggiamo il
lodo in WEILER - ROBERTS, Sports and the Law, cit., 278 ss. Sulla vicenda di fatto cfr. HEYLAR, op. cit., 162 ss.; MILLER, A Whole Different, cit., spec. 238 ss. Cfr. pure HAM e MALACH,
op. cit., spec. 70 ss.; EDMONS, op. cit., 4-5, 7. In breve v. pure ABRAMS, The Money Pitch, cit.,
29 ss.; nonché, assai diffusamente, ID., Legal Bases: Baseball and the Law, cit., cap. 4, 7390.
(56) Cfr. ABRAMS, Legal Bases, cit., spec. cap. 6, 117-133 (« Labor Arbitration and
the End of the Reserve System: Andy Messersmith »). In ogni caso, al fondo della decisione
vi sono state le iniziative di Marvin MILLER (A Whole Different, cit., 1-254), il quale, come
detto, faceva pure parte del panel arbitrale, quale rappresentante dei giocatori (nell’interesse
dei proprietari delle squadre, vi era invece J. Gaherin; l’unico arbitro professionale era Seitz).
Cfr. pure quanto si legge nel sito della MLBPA (da questo punto di vista la fonte più sicura:
retro nota 20): « Among the many milestones achieved under Miller’s watch was the advent
of free agency rights ». Sulla figura di Seitz, cfr. HEYLAR, op. cit., 169. V. pure CHALPIN, op.
cit., 219.
(57) Due notazioni si impongono. La prima: i contenuti della decisione di Seitz sono
stati ampiamente rimodulati, nel prosieguo, in sede di contrattazione collettiva (con il quarto
Basic Agreement, nel quale l’associazione dei giocatori accolse alcune delle istanze dei club,
nello stesso momento in cui veniva sancita la eliminazione della « reserve clause »: ALEXANDER, Our Game. An American Baseball History, New York, 1991, 297-298). La seconda: occorre scansare un equivoco ricorrente (nel quale sembra cadere pure HAMPLE, op. cit., 179180); la (anteriore e celeberrima) vicenda della « free agency » (nel 1974) di James « Catfish » Hunter — alla quale possiamo soltanto accennare (e sulla quale v. MARKUSEN, Baseball’s Last Dynasty. Charlie Finley’s Oakland A’s, Indianapolis, 1998, 345) —, in quanto tale,
non condusse affatto alla eliminazione della « clausola di riserva »: piuttosto, possiamo osservare — con MILLER, A Whole Different, cit., 225 — che tale vicenda (definita pure essa da
un lodo di Peter Seitz) rappresentò « one of the first significant cracks in the brick wall of
the reserve clause » (ma la clausola fu cancellata — ribadiamolo — unicamente con il ricordato lodo emesso nel caso Messersmith). Il fatto è che il passaggio del famoso pitcher J.
Hunter dagli Oakland A’s ai New York Yankees (di George Steinbrenner) fu la conseguenza
di una violazione del contratto intercorrente fra il giocatore — che, a motivo di ciò, divenne
« libero » (« Baseball’s first top-performer free agent » da oltre un secolo, dagli anni ’70
dell’800: ALEXANDER, op. cit., 296) — ed il primo dei due club (« technically » — rileva MILLER, op. loc. cit. — « the breach of contract that freed Jim Hunter could have happened at
any time in baseball history »; c.n.). In sostanza « the Hunter case didn’t threated the basic
viability of the reserve clause »: cosı̀ ALEXANDER, op. loc. cit.
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Le conseguenze sono state enormi (58). Se ne coglie una traccia
anche nel « salary arbitration », che ha dovuto tenere conto della
nuova figura (59). In un mondo di guerra di tutti contro tutti — quale
negli anni è divenuto il baseball professionistico statunitense (60) —,
(58) Di carattere sportivo, anzitutto. Un solo esempio recentissimo: la squadra dei
Tampa Bay Rays è stata saccheggiata di molti dei suoi migliori giocatori (secondo una strategia dei dirigenti del club che ha dato peraltro ottimi risultati negli anni scorsi: v., sul punto,
KERI, The Extra 2%: How Wall Street Strategies Took a Major League Baseball Team from
Worst to First, New York, 2011). Vorrà dire pur qualcosa se è in uso la locuzione « hit by
free agency » (si è colpiti dalla f.a., quasi si trattasse — e sportivamente accade che lo sia —
di una sventura). Al contempo, però, è un dato sicuro (cfr., ad es., TYGIEL, Past Time. Baseball as History, New York, 2000, 202 ss.) che, con l’avvento della free agency, l’interesse
del pubblico per il gioco si è accresciuto (soprattutto perché il nuovo sistema ha concorso a
superare il lungo periodo delle c.d. « baseball dynasties »: l’età nella quale il gioco era dominato da poche squadre, se non soltanto dai New York Yankees). V. pure la consonante analisi di J. Heyman alla nota seguente. Con l’abolizione della « reserve clause » (e con la possibilità di una « free-agent bidding war »: VERDUCCI, Why Pujols may be as good as gone, 18
febbraio 2011, in http://sportsillustrated.cnn.com/2011/writers/tom_verducci/02/18/
pujols.chapman/index.html), la mobilità dei giocatori è divenuta massima: si consideri, ad es.,
che oggi soltanto 12 di circa 1.200 professionisti della MLB hanno trascorso almeno dieci
anni con la stessa squadra (cosı̀ BLOOM, Baseball has changed since Musial’s time, 18 febbraio 2011, in http://mlb.mlb.com/news/article.jsp?ymd=20110215&content_id=16647722&
vkey=perspectives&fext=.jsp&c_id=mlb).
(59) La quale ha condotto ad un aumento enorme degli stipendi: cfr. SCHLEGEL, $100
milion men yield varying results, 6 febbraio 2011, in http://mlb.mlb.com/news/
article.jsp?ymd=20101205&content_id=16259698&vkey=news_mlb&c_id=mlb&partnerId=
rss_mlb; come il titolo dell’articolo lascia intendere, sono numerosi i giocatori che hanno oltrepassato la c.d. « nine-digit line » (attualmente coloro che hanno superato questo limite
delle nove cifre — oltre i 100 milioni di dollari — sono 26). Si noti che il baseball — diversamente, ad es., dal football americano della NFL — non conosce forme di controllo delle
retribuzioni del tipo del c.d. « salary cap ». Nondimeno, taluni credono che l’equilibrio del
gioco non sia stato sbilanciato a vantaggio delle squadre più ricche: cfr., in tal senso, la analisi di HEYMAN, In period of parity, not even a high payroll guarantees a playoff berth, 2 febbraio 2011, in http://sportsillustrated.cnn.com/2011/writers/jon_heyman/02/02/
competitive.balance/index.html. Molto diffusa è però l’opinione opposta: v., ad es., HAMPLE, op.
cit., 184-185, 217 (dove si sofferma pure sulla c.d. « luxury tax », una sorta di ammenda irrogata
annualmente a quelle società — gli Yankees, in primis — il cui monte ingaggi ecceda un limite
predeterminato). Un elenco dei giocatori più pagati, anno per anno, a partire dal 1980, è in CASTROVINCE, Pujols’ deadline changes season’s tune, 16 febbraio 2011, http://mlb.mlb.com/news/
article.jsp?ymd=20110216&content_id=16649548&vkey=news_mlb&c_id=mlb.
(60) Attraversato addirittura da sospensioni dei campionati (ben otto, a partire dal
1972). Si ricorda soprattutto lo sciopero (di 232 giorni) del 1994, che impedı̀ (per la prima
volta dal 1904) la celebrazione delle World Series (cfr., per tutti, STAUDOHAR, The Baseball
Strike of 1994-1995, in Monthly Labor Review, 1997, 21 ss.; quanto alla connessione fra lo
sciopero ed il nostro tema, v. WASSNER, op. cit., spec. 8-9; e soprattutto METH, Final Offer Arbitration: A Model for Dispute Resolution in Domestic and International Disputes, in American Review of International Arbitration, 1999, 383 ss., spec. 386, dove scrive che « salary
arbitration » « replaces the strike »). Già nel 1981, uno sciopero di ben 50 giorni aveva imposto di riorganizzare il campionato. La « guerra » di cui si dice nel testo ha coinvolto an-
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potrebbe quindi capitare (61) che la contesa economica intercorra fra
il club ed un « free agent » e che venga composta in arbitrato ad
opera di un panel arbitrale (62).
La competenza è infatti collegiale (63) e fra i tre membri è designato un presidente (64). La selezione degli arbitri è annualmente
opera della Associazione dei giocatori e del Major League Baseball
Labor Relations Department (LRD). In mancanza di accordo tra
loro, la formazione di una lista di arbitri professionali è demandata
— su richiesta congiunta — alla « American Arbitration Association » (65).
Le udienze di fronte al panel — che si debbono tenere in sedi
prefissate e notoriamente ospitali e calde (66) — si svolgono dal 1o
al 20 di febbraio (67), a breve distanza dalla formale sottomissione
del caso in arbitrato (68).
che gli arbitri (HAMPLE op. cit., 186: « Umps v. MLB »). Vi è stata poi la piaga degli steroidi,
che ha per molti anni inquinato il gioco, con riflessi che si avvertono ancora oggi (cfr., per
riferimenti, http://www.baseballssteroidera.com/): sul punto v., in ultimo, THOMPSON, VINTON,
O’KEEFFE, RED, American Icon. The Fall of Roger Clemens and the Rise of Steroids in America’s Pastime, New York, 2009. Questo volume — scritto a quattro mani da giornalisti sportivi del Daily News —, mentre si occupa della vicenda del famosissimo pitcher R. Clemens,
consente di farsi un’idea sulla diffusione del doping all’interno del mondo del baseball.
(61) E si tratta di una novità assoluta rispetto al passato: prima della free agency —
scrive BLOOM, Baseball has changed, cit. — « contract negotiations were like this: take it or
leave it ».
(62) Sul passaggio dalla decisione monocratica alla decisione collegiale v. retro in
nota 28.
(63) Dal 2000. V. retro in nota 28.
(64) Art. VI, F, (7) del Basic Agreement: « All cases shall be assigned to three-arbitrator panels. The Association and the LRD shall designate one arbitrator to serve as the panel chair ».
(65) « Upon receipt of such lists, the arbitrators shall be selected by alternately
striking names from the lists », aggiunge l’art. Art. VI, F, (7).
(66) Dopo tutto, le località in Florida ed Arizona sono proprio quelle dello « spring
training » (su cui v. retro nota 5), quando « baseball comes back to life in mid-February »
(« after each dreary off-season »: HAMPLE, op. cit., 10-11). L’art. VI, F, (8) — Location of
Hearings — dice: « The single hearing site for each year will be agreed upon by the parties
with preference being given to either Los Angeles, Tampa/Orlando, or Phoenix ».
(67) Art. VI, F, (5): « Arbitration hearings shall be held as soon as possible after submission and, to the extent practicable, shall be scheduled to be held from February 1 to February 20 ». Quanto alla data della « submission » v. la nota seguente.
(68) Art. VI, F, (5): « Timetable and Decision. Submission may be made at any time
between January 5 and January 15 ». Cfr., alla vigilia di questa fase, la puntuale ricognizione
di MILLER, Big names dot arbitration-eligible landscape, 4 gennaio 2011, in http://mlb.mlb.
com/news/article.jsp?ymd=20110104&content_id=16390244&c_id=mlb.
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4. « The arbitrator cannot split the baby » (69)!
Ecco dunque il punto cruciale: « The arbitration panel shall be
limited to awarding only one or the other of the two figures submitted ». Non solo: « There shall be no opinion ».
In questo modello noto come « Final Offer Arbitration » (70),
gli arbitri rendono dunque un lodo immotivato, nel quale non possono che aderire all’una o all’altra delle proposte (espresse in cifre)
loro sottoposte dalle parti. Non a caso, i tempi della udienza arbitrale (71), allo stesso modo che quelli per la decisione, sono assai ridotti,
perché « The arbitration panel may render the decision on the day
of the hearing, and shall make every effort to do so not later than 24
hours following the close of the hearing ».
Ciascuna delle parti deve condensare in una cifra precisa la re(69) E — prosegue GORMAN, The Arbitration Process, cit. — non si può « settle on
a salary in the middle of the spread between the club’s figure and the player’s. One side leaves the arbitration a winner and the other a loser, heightening risk and encouraging negotiation and settlement ». La circostanza è evidenziata da tutti gli autori che si sono soffermati
sul tema.
(70) O « Last Best Offer » Arbitration, o semplicemente « Baseball Arbitration »:
ARGERIS, op. cit., 4. Cfr., sul punto, METH, Final Offer Arbitration: A Model for Dispute Resolution in Domestic and International Disputes, cit., 383 ss., che illustra — ivi, 394 — due
modalità del « Final Offer Arbitration »/FOA: un « issue-by-issue » FOA e un « package »
FOA; il « salary arbitration » del nostro sport non corrisponde in verità — secondo quanto
nota CONTI, op. cit., 230 (con il quale aderiscono tanto HAM e MALACH, op. cit., 78, quanto
GORDON, op. cit., nota 62) — né all’uno né all’altro di tali modelli (si tratterebbe, secondo
Conti, di una sorta di ibridazione delle due forme consuete di FOA: in effetti, mentre vi è
una sola « issue », gli arbitri al contempo sono tenuti a scegliere l’intero « pacchetto », prospettato dall’uno o dall’altro dei contendenti). Sulle modalità nelle quali può articolarsi il
« Final Offer Arbitration », in contemplazione del nostro gioco, v. GORDON, op. cit., nota 37
(a proposito del c.d. « night baseball » arbitration e del c.d. « high-low » o « bounded » arbitration: di quest’ultimo diciamo infra in nota). Il « final offer method » (entro un quadro
denso di implicazioni di carattere economico: CRAWFORD, On Compulsory-Arbitration Schemes, in The Journal of Political Economy, 1979, 131 ss., consultabile, dietro iscrizione, in
http://www.jstor.org/pss/1832213) è molto diffuso nel campo delle relazioni di lavoro: FISK e
PULVER, First Contract Arbitration and the Employee Free Choice Act, in Louisiana Law Review, 2009, 47 ss., spec. 71 ss. (dove gli opportuni riferimenti; viene menzionato — ivi, 71,
nota 117 — pure il saggio di C.M. Stevens — dianzi ricordato in nota 25 —, che, peraltro,
è del 1966, e non del 1965, come scrivono Fisk e Pulver). Sull’origine del FOA (introdotto
« as a mechanism for resolving labor disputes in the 1940s to circumvent the Taft-Hartley
Act’s national emergency dispute procedure ») v. WASSNER, op. cit., 7 e nota 46.
(71) Cfr. art. VI, F, (9) (Conduct of Hearings): « The hearings shall be conducted on
a private and confidential basis. Each of the parties to a case shall be limited to one hour for
initial presentation and one-half hour for rebuttal and summation ». Soltanto un giusto motivo o esigenze istruttorie qualificate possono imporre un rallentamento (« The aforesaid time
limitations may be extended by the arbitration panel in the event of lengthy crossexamination of witnesses, or for other good cause »). Per di più, la possibilità di posticipare l’udienza
o di prolungarla è assogetta a fortissime limitazioni. Per un esempio v. infra nota 82.
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tribuzione che giudica appropriata. Le cifre vengono poi scambiate
fra giocatori e club circa due settimane prima dell’inizio delle
udienze arbitrali (quest’anno, nella giornata di martedı̀ 18 gennaio
2011) (72). Si tratta di adempimenti che coinvolgono, come ovvio,
solo coloro che hanno scelto — nei termini prefissati (73) — di inoltrare la domanda di arbitrato (74).
È utile notare, in proposito, che lo scambio delle cifre avviene
ad iniziativa di una porzione ristretta degli idonei all’arbitrato (75).
Lo si deve ai numerosi accordi (76) che intervengono tra le parti nel
tempo intercorrente fra la attivazione del procedimento arbitrale e la
data dello scambio delle cifre (77).
Né gli accordi si esauriscono in questa fase. Sino allo svolgimento delle udienze arbitrali (78) — finanche « on the eve of a sche-
(72) « Exchange of salary arbitration figures between MLB Labor Relations Committee and MLB Players Association ». Cfr. il quadro esaustivo di BECK, Flurry of deals precedes arbitration exchange, 19 gennaio 2011, in http://mlb.mlb.com/news/article.jsp?ymd=
20110118&content_id=16457014&vkey=news_mlb&c_id=mlb.
(73) Cfr., per quest’anno, la scadenza di venerdı̀ 14 gennaio 2011: « 119 players who
filed for salary arbitration Friday » (notizia di agenzia — Associated Press — dello stesso
giorno, in http://sports.espn.go.com/mlb/news/story?id=6023373).
(74) Art. VI, F, (6): « Form of Submission ». Vi si legge: « The Player and the Club
shall exchange with each other in advance of the hearing single salary figures for the coming
season (which need not be figures offered during the prior negotiations) and then shall submit such figures to the arbitration panel ».
(75) Quest’anno, 119 giocatori hanno inoltrato una richiesta di arbitrato (dei 137 potenzialmente in grado di farlo). Solo 34 hanno proceduto allo scambio delle cifre. I rimanenti
hanno trovato, in vario modo, un accordo con il proprio club (cfr. BECK, Flurry of deals, cit.).
(76) Avviene cosı̀ che le parti si accordino in ogni tempo. Le varianti sono innumerevoli: l’accordo pluriennale con il giocatore che non è ancora « free agent », l’accordo per
una singola stagione (e quest’anno vi è stato il contratto per una singola stagione più ricco
della storia del gioco, quello di Prince Fielder: cfr. MCCALVY, Prince signs historic contract
to avoid arbitration. One-year, $15.5 million deal richest for an arb-eligible player, 18 gennaio 2011, in http://mlb.mlb.com/news/article.jsp?ymd=20110118&content_id=16452948
&vkey=news_mlb&c_id=mlb), l’accordo con lo stesso giocatore che l’anno precedente si
sottopose ad arbitrato rimanendone insoddisfatto, ecc. Stando a BECK, Flurry of deals, cit.,
quest’anno — alla data del 18 gennaio 2011 (fissata, come detto, per lo scambio delle cifre)
— la maggioranza degli accordi — che hanno impedito lo svolgimento della udienza arbitrale — è stata per un anno di contratto (con qualche accordo biennale).
(77) Naturalmente lo scambio delle cifre è molto importante: con la presentazione
delle rispettive proposte vi è una base per trattare (« Once the more realistic numbers are out
there, it’s easier to compromise »: BECK, op. cit.).
(78) Limitandoci a quanto accaduto quest’anno, si confrontino i casi di J.Weaver (in
http://mlb.mlb.com/video/play.jsp?content_id=13109935); di L. Scott (cfr. GHIROLI, Scott, Òs
avoid arbitration with one-year deal, 10 febbraio 2011, in http://mlb.mlb.com/news/
article.jsp?ymd=20110210&content_id=16612374&vkey=news_mlb&c_id=mlb); di S. Marcum, Brewers, Marcum agree to $3.95M, one-year deal, 10 febbraio 2011, in http://
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duled salary arbitration hearing » (79) —, le parti continuano ad
operare in una atmosfera impregnata della volontà « to avoid arbitration » (80). Si direbbe di un procedimento arbitrale che, per sua
natura (81), « fugge da se stesso » (82).
Vi è concordia di vedute sulle ragioni che inducono le parti a
raggiungere un componimento, anziché esporsi alla decisione degli
arbitri (83). Alcune sono legate alle modalità con le quali i club sono
organizzati. Altre ineriscono direttamente ai tempi della udienza arbitrale e soprattutto al contenuto della decisione degli arbitri (84). Le
www.cbssports.com/print/mlb/story/14668927/brewers-marcum-agree-to-395m-oneyeardeal); di J. Guthrie (in http://baltimore.orioles.mlb.com/news/article.jsp?ymd=20110211
&content_id=16617156&vkey=news_bal&c_id=bal); di C. Marmol (in ANDRIESEN, Cubs,
Marmol seal three-year deal, lunedı̀ 14 febbraio 2011, in http://www.cbssports.com/mcc/blogs/entry/22297882/27515532); di K. Johnson (in http://sports.espn.go.com/mlb/news/
story?id=6124397); di D. Young (THESIER, Delmon, Twins avoid arbitration, 16 febbraio
2011, in http://mlb.mlb.com/news/article.jsp?ymd=20110216&content_id=16649386&vkey=
news_mlb&c_id=mlb); di R. Weeks (MCCALVY, Brewers sign Weeks to multiyear deal, 16
febbraio 2011, in http://mlb.mlb.com/news/article.jsp?ymd=20110216&content_id=166
50720&vkey=news_mil&c_id=mil). Qualche giorno prima erano stati definiti i casi di E.
Volquez (SHELDON, Volquez turned down longer deal from Reds, 11 febbraio 2011, in http://
mlb.mlb.com/news/article.jsp?ymd=20110211&content_id=16621040&vkey=news_cin&c_id
=cin; l’accordo è intervenuto il 31 gennaio) e di J. Loney (http://sportsillustrated.cnn.com/
2011/baseball/mlb/02/11/loney.dodgers.ap/index.html).
(79) Cfr. la nota che precede, ed il caso di S. Marcum, in particolare.
(80) La locuzione è ricorrente. Il che dimostra quanto sia forte la volontà di “evitare
l’arbitrato”.
(81) ARGERIS, op. cit. dice: « Given that the entire point of the salary disputes are to
resolve an issue that would allow a working relationship to continue, the adversarial nature
of arbitration (amplified exponentially by decades of bitterness and distrust on both sides)
seems less than ideal » (c.n.). Guardano al medesimo fenomeno dal lato dei proprietari delle
squadre, HAM e MALACH, op. cit., 80, quando scrivono che « owners normally prefer to avoid
the adversarial nature of an arbitration hearing ».
(82) Si giunge perfino a spostare la data fissata per l’udienza arbitrale per consentire
(per espressa ammissione del General Manager/GM di Toronto) la prosecuzione delle trattative: CHISHOLM, Bautista’s arbitration hearing postponed. Slugger, club continue negotiations
on a new contract, 14 febbraio 2011, in http://mlb.mlb.com/news/article.jsp?ymd=
20110214&content_id=16634504&vkey=news_mlb&c_id=mlb. Si è trattato di un rinvio di
pochi giorni, comunque utilissimo. In ultimo l’accordo è stato infatti raggiunto (per cinque
anni, a 65 milioni di dollari: CHISHOLM, Bautista, Blue Jays finalize five-year deal, 17 febbraio
2011, http://mlb.mlb.com/news/article.jsp?ymd=20110216&content_id=16659082&vkey=news_mlb&c_id=mlb): « We were really negotiating up until the last minute », ha raccontato il
GM di Toronto Anthopoulos. « They had walked into the [arbitration] room, but we were so
close. We were in the $60 million range ».
(83) Tanto che si nota, non senza ragione, che « only a handful typically take their
cases to hearings » (v. la fonte AP citata retro in nota 73). Non solo, si osserva pure che « arbitration hearings are more rare now than in past years » (cosı̀ BECK, op. cit.).
(84) Fra le altre sicure particolarità del nostro procedimento si annoverano anche le
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seconde si antepongono per importanza alle prime, con le quali però
finiscono per confondersi.
Ora, se la decisione degli arbitri non conosce vie di mezzo, ciascuna delle parti avverte il pericolo che il panel converga sulla cifra
dell’avversario (85). Si ricorda un unico caso (86) in cui le cifre avanzate sono state identiche. Spesso le differenze sono contenute, ma
non è raro che diventino significative. Occasionalmente capita che gli
scostamenti fra le proposte dei giocatori e quelle dei club siano enormi (87). Se il giocatore non vuole rischiare (88), egualmente il club
vuole programmare il monte ingaggi per la stagione entrante e teme
che lo scarto (89) fra la cifra immaginata e quella aggiudicata dagli arbitri possa tradursi in uno sconvolgimento del c.d. payroll (90). Di qui
seguenti. Dice l’art. VI, F, (5): « The panel chair shall initially inform the Association and
the LRD of the award only and not how the panel members voted. The panel chair shall disclose to the Association and the LRD the individual votes of the panel members on each
March 15 following the February hearings ». In ogni caso il lodo è messo a disposizione di
una cerchia definita di soggetti: « There shall be no release of the arbitration award by the
arbitration panel except to the Club, the Player, the Association and the LRD ».
(85) Le parti decidono di accordarsi solo faute de mieux.
(86) Quello del pitcher David Palmer nel 1987: cfr. EUSTON, Playing the arbitration
spread, cit.
(87) V., in ultimo, i casi di J.Hamilton e J.Bautista (cfr. BECK, Flurry of deals, cit.):
quanto al primo giocatore (una delle stelle dello sport, Most Valuable Player/MVP della
American League/AL), vi era una differenza fra le cifre per un anno di contratto di oltre 3
milioni di dollari (3 milioni e 300 mila, per la precisione); nel caso del secondo (che ha avuto
una singola stagione — l’ultima — davvero eccezionale, con 54 home runs/HR), la differenza
fra le proposte era di 3 milioni circa (2 milioni e 900 mila dollari).
(88) La situazione di B.J. Upton chiarisce un altro profilo della materia. Il giocatore
aveva già fatto ricorso l’anno scorso all’arbitrato, che si era concluso con una decisione per
lui sfavorevole circa il compenso per un anno di contratto. Quest’anno, lo stesso atleta sarebbe stato di nuovo in grado di ricorrere all’arbitrato (« arbitration-eligible player »). Vi si
è però sottratto, accordandosi preventivamente con la società (e lo ha fatto — è da credere
— perché consapevole dei rischi del giudizio arbitrale, già sperimentati una volta). Cfr. sulla
vicenda CHASTAIN, Upton avoids arbitration with Rays. Outfielder signs one-year contract for
$4.825 million, 17 gennaio 2011, in http://mlb.mlb.com/news/article.jsp?ymd=20110117&
content_id=16449236&vkey=news_mlb&c_id=mlb).
(89) Sulla evoluzione nel tempo di queste differenze fra le cifre proposte rispettivamente dalle squadre e dai giocatori, cfr., in ultimo, EUSTON, op. cit., il quale individua un rapporto diretto fra l’aumento dei salari dei giocatori nel corso degli anni, da un lato, e « the
average spread for cases going to a hearing », dall’altro.
(90) Cioè del monte ingaggi. A proposito dell’ammontare delle retribuzioni dei giocatori, è stato detto con efficacia — EUSTON, Playing the arbitration spread, cit. — che un
general manager chiamato ad affrontare un pluralità di arbitrati (oltretutto prima di definire
il roster per lo spring training) « can find himself rolling the dice on his budget plans ». A
questo pericolo si è trovato esposto il GM di Toronto. Alex Anthopoulos, ancora il 17 gennaio 2011, aveva « an MLB-high eight arbitration-eligible players ». Con sicura abilità, tutti
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l’incentivo a trovare « a middle ground » (91) su cui fondare un accordo. Per non dire che una forte spinta « to settle » sta nella possibilità (92) di articolare il rapporto contrattuale nel modo più appropriato,
cosı̀ nei contenuti (93) come nella durata (94).
Vi è poi da considerare la « pena del processo » (95) arbitrale.
Più ampiamente, non si può fare a meno di valutare « the adversarial nature of arbitration » (96). Nel « salary arbitration » una
udienza arbitrale contrastata può difatti incrinare (97), se non distruggere, il rapporto del giocatore con la società di appartenenza (98). Un
questi casi sono stati però definiti prima della udienza arbitrale (incluso il caso più spinoso,
quello dello slugger J. Bautista: v. retro in nota 87). Il problema è peraltro generale: v., ad
es., quanto alla squadra dei Texas Rangers, LEMIRE, Nouveau-riche Rangers enjoing life as a
big deal in Big D, 13 gennaio 2011, in http://sportsillustrated.cnn.com/2011/writers/joe_lemire/01/13/rangers.offseason/index.html.
(91) Attraverso concessioni reciproche. V. BECK, Flurry of deals, cit.: « It’s usually
better for players and teams to find a middle ground now, than to take their chances and go
against each other in a hearing next month ». V. pure METH, op. cit., 389; WASSNER, op. cit.,
11.
(92) Propria, come noto, soltanto degli strumenti « autonomi » di risoluzione delle
controversie e non anche di quelli c.d. « eteronomi »: cfr., per tutti, LUISO, Istituzioni di diritto processuale civile, 3a ed., Torino, 2009, 191-192 (anche in connessione con l’art. 1965,
comma 2, c.c.).
(93) Mentre gli arbitri possono pronunciarsi solo sul quantum del corrispettivo, l’accordo consente alle parti (e soprattutto ai giocatori) di inserire previsioni ulteriori (concernenti, ad es., speciali premi, o le c.d. « no trade clauses » — che limitano il potere delle
squadre di cedere ad altro team il professionista —, come pure le modalità dei viaggi in trasferta, ecc.): METH, op. cit., 390-391; WASSNER, op. cit., 11.
(94) Al posto di un accordo di un solo anno (che può essere assicurato con la decisione degli arbitri), le parti possono accordarsi per « a multiyear contract »: METH, op. cit.,
391; WASSNER, op. loc. cit.
(95) È sin troppo noto che la locuzione era impiegata da Francesco Carnelutti: lo ricordano — insieme alla più generale considerazione della « afflittività del processo quale
stigma in sé » — GAETA e MACCHIA, in Trattato di procedura penale (sotto la direzione di G.
Spangher), Torino, 2009, vol. 5, 369.
(96) Vi sono stati dei casi celebri, nei quali il procedimento arbitrale si è trasformato
in una animatissima contesa fra le parti: cfr., per tutti, MARKUSEN, Baseball’s Last Dynasty.
Charlie Finley’s Oakland A’s, cit., 351 ss.: il proprietario della squadra degli A’s, C. Finley,
prese ad attaccare pubblicamente i suoi giocatori (Bando ed Holtzman, soprattutto) in occasione delle prime udienze arbitrali tenutesi nel 1974. Viene avanzata l’idea — da parte di Ted
Kubiak (in MARKUSEN, op. cit., 352) — che si trattasse di una deliberata strategia per abbassare il valore economico del giocatore.
(97) ABRAMS, The Money, cit., 149: il quale — forte pure della sua esperienza (del
1986) di arbitro — nota che « the arbitration hearing itself imposes costs on the parties by
straining the relationship between the player and his club ». In altro luogo (op. cit., 164),
Abrams si riferisce agli « immensi » rischi di danneggiare — con la udienza arbitrale — le
relazioni fra giocatore e squadra. V. pure METH, op. cit., 390; WASSNER, op. cit., 11.
(98) Di « residual scars that can come with the arbitration process », parla VERDUCCI,
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rapporto che è in principio comunque destinato — in linea di diritto (99) — a durare pro futuro. In questo quadro, la strategia difensiva
delle parti — declinata nei tempi rapidissimi della udienza — è altrettanto chiara che pericolosa. Il club intende dimostrare (100) che il
proprio giocatore, se merita il corrispettivo sottopostogli, non
avrebbe invece titolo a goderne uno più elevato. Per converso, il
giocatore enfatizzerà i propri meriti per giustificare la cifra che egli
ha proposto e chiarire l’incongruità dell’altra prospettata dalla società.
Si coglie qui un profilo assai noto nella fenomenologia delle
ADR, il quale, però, acquista una urgenza estrema, non appena si
rammentino, per un verso, i delicati equilibri di una squadra nello
sport professionistico, e, per altro verso, la specificità del baseball,
nel quale per sei mesi (101) circa il giocatore vive e gioca quotidianamente all’interno di un gruppo (102). Si converrà che, mentre un
condomino può evitare di incontrare il proprio vicino (103), ben dif-
11 febbraio 2011, http://sportsillustrated.cnn.com/2011/writers/tom_verducci/02/11/
pujols.young.weaver/index.html. La sconfitta in arbitrato del giocatore (Jered Weaver, rappresentato da uno dei più noti agenti del settore, Scott Boras) è percepita come « a bad sign
toward a long-term relationship between the club and the Scott Boras client ». Il ruolo degli
agenti è notoriamente essenziale. Non sorprenderà troppo, allora, che, a livello di sport universitario, esista una regola che impedisce la intermediazione di un legale: cfr. la previsione
di cui al 12.3.2.1 delle NCAA Rules: « A lawyer may not be present during discussions of a
contract offer with a professional organization or have any direct contact (in person, by telephone or by mail) with a professional sports organization on behalf of the individual. A
lawyer’s presence during such discussions is considered representation by an agent » (cfr.
WADE, Inside the rules: The NCAA « no agent » rule, in http://www.hardballtimes.com/main/
article/inside-the-rules-ncaa-no-agent-rule/).
(99) Per una sintetica esposizione dei tempi e dei modi con i quali la società può comunque « tagliare » un giocatore (che avrebbe comunque titolo — a seconda dei casi — a
30 o 45 « day’s termination pay ») v. in Cot’s Baseball Contracts: Transactions Glossary (http://mlbcontracts.blogspot.com/2003/01/transactions-glossary.html).
(100) Conta molto l’esperienza di coloro che, all’interno della squadra, sono chiamati
a presentare il caso: cfr., ad es., a proposito di uno di essi, particolarmente noto, GOFF, Pence,
cit. (nell’interesse degli Astros di Houston, nel periodo 2008-2010, Tal Smith ha « sconfitto »
nell’arbitrato tre giocatori; non però l’ultimo, H. Pence: v. retro nota 4).
(101) Il numero dei mesi si eleva se consideriamo — come si dovrebbe fare — pure
il periodo di spring training (sul quale v. retro in nota 5).
(102) Cfr. sulla organizzazione del c.d. roster, HAMPLE, Watching Baseball Smarter,
cit., 176; DICKSON, The Dickson Baseball Dictionary, cit., 717, 896-897 (circa il « 25-man roster »), 339 (riguardo al « 40-man roster »).
(103) Il riferimento è tanto alla inclusione dei rapporti condominiali fra le ipotesi che
figurano all’art. 5 comma 1 D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28, quanto alle motivazioni alla base
della scelta del legislatore. Si tratta di un esempio fra i tanti.
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ficilmente un giocatore può fare a meno di incontrare il manager o il
compagno che ha ottenuto quel lucroso incremento di stipendio che
a lui è stato invece negato (104).
La « fuga » dalla udienza arbitrale acquista dimensioni ragguardevoli anche per il c.d. « effetto domino » (105): nella logica del confronto (106), che spinge a fissare la retribuzione di un giocatore in contemplazione di quella percepita da un altro professionista con le sue stesse
caratteristiche (107), si capisce che l’accordo al quale sia pervenuto il
secondo diviene un essenziale punto di riferimento per il primo (108).
(104) Questa forma di rivalità di tipo squisitamente « economico » è antica quanto il
gioco. Inutile indugiarvi. Basti dire che non smette di profilarsi nelle forme più varie: cfr., ad
es., all’interno della squadra « campione del mondo » nel 2010 (« San Francisco Giants »), il
contrasto fra Juan Uribe ed Aubrey Huff (HEYMANS, Al East general managers have been top
stars of winter, 26 gennaio 2011, http://sportsillustrated.cnn.com/2011/writers/jon_heyman/
01/26/winter.stars/index.html), con il primo che ha deciso di passare ad una squadra rivale
« because he was annoyed to see Huff get a salary so much greater ».
(105) In tal senso è illuminante quanto dice il vice presidente dei Detroit Tigers
(ed esperto di salary arbitration, per averlo trattato per oltre venti anni nell’interesse —
oltre che dei Tigers — dei Florida Marlins, nonché all’interno dell’ufficio del Commissioner) John Westhoff: « there’s sometimes a domino effect », dice W. E prosegue: « Once
one or two arbitration-eligible players at a particular position agree to contracts, it’s easier for other teams and players to find a reference point in their cases » (citiamo da BECK,
op. cit.).
(106) Una logica che permea di sé il nostro tema: « in the baseball business » —
scrive in generale ABRAMS, The Money, cit., 61 —, « the performance and salary of each
player serve as the benchmarks for what other players are paid ». La medesima logica compare nella udienza e decisione arbitrali (ID., op. cit., 148, 158 ss.): cfr., infatti, art. VI, F, (12),
del Basic Agreement (infra in nota 149 e nel testo spec. par. 6 e 7). V. pure HAM e MALACH,
Hardball Free Agency, cit., 82 ss.; EDMONS, op. cit., 8 ss.
(107) È molto significativo che gli arbitri ricevano informazioni coperte dal segreto (nonché indicazioni circa il loro impiego). Dice l’art. VI, F, (13) — Confidential
Major League Salary Data — che « For its confidential use, as background information,
the arbitration panel will be given a tabulation showing the minimum salary in the Major
Leagues and salaries for the preceding season of all players on Major League rosters as
of August 31, broken down by years of Major League service. The names and Clubs of
the Players concerned will appear on the tabulation ». Quanto alla utilizzazione di tali informazioni, si precisa questo: « In utilizing the salary tabulation, the arbitration panel
shall consider the salaries of all comparable Players and not merely the salary of a single
Player or group of Players ».
(108) La recente vicenda di J. Weaver (ricordata retro alle note 4 e 78) ne è un esempio. Il problema è sorto quando i Los Angeles Dodgers hanno concluso l’accordo « to avoid
arbitration » con il giocatore, con prestazioni assai simili, Chad Billingsley. Un giornalista
esperto come Tom Verducci si spinge sino al punto di dare per sicuro che gli arbitri abbiano
tenuto conto di tale circostanza (pur mancando qualunque motivazione al riguardo da parte
di costoro). Conclude infatti VERDUCCI, op. loc. cit.: « Weaver and Billingsley, as the arbitration panel found, continue to look very similar as they go year-to-year with their contracts »
(c.n.).
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Prende forma un ulteriore incentivo a rinunziare alla udienza arbitrale (109).
L’accordo di componimento della lite, anziché esserne un elemento accidentale, connota dunque in modo fondamentale il nostro
procedimento. Dietro l’apparente paradosso, si coglie allora una sicura caratteristica del Baseball Arbitration quando si dice che esso
« is designed to produce a settlement, not a verdict » (110). Meglio si
direbbe che è la minaccia del comando degli arbitri, che « esaurisce » il contenuto del lodo, che propizia in vario modo il componimento preventivo della controversia (111).
E lo sportivo sa che vi sono squadre che, più di altre, eludono
l’arbitrato (112) ed altre che fanno ogni sforzo al riguardo sino al dies
ad quem rappresentato dallo scambio delle cifre (113), per poi rinunziare alle trattative e attendere senz’altro l’arbitrato (secondo la strategia del c.d. « File-and-go ») (114). Dietro queste specifiche con-
(109) Quando l’udienza si tenesse, si manifesterebbe il pericolo evocato alla nota che
precede.
(110) GORMAN, op. loc. cit.; v. pure, nello stesso senso, EDMONS, op. cit., 36; HAM e
MALACH, op. cit., 79-80; ABRAMS, The Money, cit., 147; WASSNER, Major League, cit., 10;
GORDON, op. cit., nota 35 e testo (dove valorizza il « final offer method » in contrapposto al
comune arbitrato, che produrrebbe, per sua natura, « a chilling effect » « on the parties’ incentives to bargain in good faith »).
(111) Non vi è spazio però per la figura del « consent award »: sulla quale v. F. CORSINI, Award by consent ed obbligo decisorio degli arbitri, in Sull’arbitrato. Studi offerti a
Giovanni Verde, Napoli, 2010, 289 ss. Ad altra logica pare ispirato il c.d. « high-low » o
« bounded » arbitration (sul quale v. GORDON, op. cit., nota 37); capita che le parti, senza informare l’arbitro, si impegnano tra loro in anticipo a rimodulare il contenuto del lodo, quando
questo si discostasse (in aumento o in diminuzione) dalle cifre che ciascuna abbia proposto.
(112) Si noti, ad es., che Toronto non è andata in arbitrato dal 1997 (con il lanciatore
Bill Risley): CHISHOLM, Bautista’s arbitration hearing postponed. Slugger, club continue negotiations on a new contract, cit.; lo stesso vale per i Boston Red Sox (« Theo Epstein »
« increased his streak to nine years of never going to arbitration with a player »: BROWNE,
Papelbon, Ellsbury avoid salary arbitration. Closer, center fielder ink one-year contracts
with Red Sox, 18 gennaio 2011, in http://mlb.mlb.com/news/article.jsp?ymd=20110118&
content_id=16454156&vkey=news_mlb&c_id=mlb).
(113) La società rifiuta di negoziare — scaduta quella data — i contratti di un anno,
non anche quelli di durata maggiore: è il caso della squadra di Toronto, sulla quale v.
CHISHOLM, op. loc. cit.; come pure di quella di Tampa Bay: CHASTAIN, op. loc. cit. Decidiamo
di richiamare proprio queste due squadre in dipendenza di due fattori: da un lato, Toronto —
come detto — da circa tre lustri non arriva in arbitrato. Dall’altro, i Rays di Tampa si caratterizzano per una scrupolosa conduzione della vicenda arbitrale (che li ha portati ad ottenere
cinque vittorie in altrettanti giudizi arbitrali): v., in ultimo, KERI, The Extra 2%, cit., 195, 162
e 159.
(114) Cfr. EDMONS, op. cit., spec. 28-33.
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dotte, se non si rinviene una prassi (115) generale (116), si coglie nondimeno una atmosfera nella quale, ora più ora meno, si svolge l’attività di tutti i club.
In questo contesto prende forma anche il delicatissimo rapporto
fra il club ed il « giocatore veterano » « who is eligible to sign a
contract with any team » (117).
5. Come già evidenziato retro (§ 3), anche il free agent è infatti coinvolto (118) nel procedimento (119).
Egli può però declinare (120) l’offerta di arbitrato che gli sia rivolta (121) dal proprio club (122).
(115) Il caso « Bautista » dimostra come si possa utilizzare la proposta di transazione
(prima della udienza arbitrale) come « minaccia »: precisamente, per lasciare intendere al proprio interlocutore che, nel prosieguo, non sarà più possibile alcun accordo: GLEEMAN, 11 febbraio
2011, in http://hardballtalk.nbcsports.com/2011/02/11/jose-bautista-puts-blue-jays-in-verytough-spot-with-monday-deadline-for-long-term-deal/. La tattica di Bautista ha avuto successo.
(116) Proprio quest’anno, infatti, è capitato che una squadra (gli Houston Astros) abbia dichiarato con largo anticipo che sarebbe comunque andata alla udienza arbitrale, senza
proseguire nella ricerca di un accordo con il proprio giocatore (H. Pence). Il fatto è però
molto strano, e si spiega tanto con la notoria abilità in arbitrato dei dirigenti della squadra,
quanto con le specificità del caso di specie (SWYDAN, Picking on Pence, 18 febbraio 2011, in
http://www.fangraphs.com/blogs/index.php/picking-on-pence/). Sorprendentemente, però,
l’arbitrato è stato vinto dal giocatore (notizia di agenzia del 19 febbraio 2011, in http://sports.espn.go.com/mlb/news/story?id=6138958). V. retro nota 4.
(117) Cosı̀ HAMPLE, op. cit., 209 alla definizione « free agent ».
(118) In altra maniera si incrociano i due fenomeni, con il giocatore idoneo all’arbitrato
che, dopo aver azionato la sua pretesa nel procedimento, se ne ritrae sottoscrivendo con la propria società un contratto per un tempo necessario a coprire il periodo (di idoneità all’arbitrato),
che lo separa dall’inizio della free agency (è il caso di Jay Votto, miglior giocatore della National League: SHELDON, Votto focused on next three years with Reds. NL MVP says new contract
has nothing to do with free agency, in http://mlb.mlb.com/news/article.jsp?ymd=20110117&
content_id=16450222&vkey=news_mlb&c_id=mlb). Ecco allora che, in generale, si allude alla
politica dei team che operino in mercati medi e piccoli che decidono « to buy out the arb years »
(di giovani talentuosi prima che — dice ARGERIS, op. loc. cit. — diventino « free agents »; ivi
ulteriori riferimenti). Cfr. CASTROVINCE, Reds’ success lies in hands of team, fans. Cincinnati hopes its commitment to key players garners support, 31 gennaio 2011, in http://mlb.mlb.com/
news/article.jsp?ymd=20110130&content_id=16533532&vkey=news_mlb&c_id=mlb (« the
Reds were able to buy out Votto’s arbitration years »).
(119) Precisamente: « if a player has filed for free agency, his former club must offer him arbitration », cosı̀ in Cot’s Baseball Contracts: Transactions Glossary, cit. (v. qui di
seguito in nota 124).
(120) Di solito la declinatoria deve avvenire entro il 7 dicembre di ciascun anno, ma
quest’anno il termine è stato anticipato al 30 novembre 2010 (« Last date — midnight EST
— for player who declared XXB free agency to accept offer of arbitration from his former
club »: ibidem).
(121) Di regola entro il 1o dicembre (v. infra nota 133), quest’anno entro il 23 no-
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Ancor più che nell’altra ipotesi (123), lo spazio per giungere alla
udienza arbitrale è qui davvero ridottissimo.
Le ragioni di questo fenomeno paiono peculiari: senza sostituirle, si giustappongono a quelle precedentemente sottolineate (retro § 4). Hanno a che fare con l’alternativa che si squaderna dinanzi
al club, quando « a player has filed for free agency » (124): se decide
di non offrire l’arbitrato al proprio giocatore (125), la società alleggerisce certo il proprio « payroll » (126) — giacché pone le premesse
per liberarsene (127) —, ma insieme rinunzia alla possibilità di ottenere (dal nuovo club, del suo oramai ex giocatore) una « compensazione » (Free Agent Compensation) (128) sotto forma di diritti da
vembre 2010 (« Last date — midnight EST — for former club to offer salary arbitration to
ranked XXB free agents in order to be eligible for compensation if those free agents sign elsewhere »: ibidem).
(122) La pressione sui club è fortissima, anche per i tempi ristrettissimi del procedimento. Si tende a credere che l’abilità dei dirigenti di una squadra si possa evidenziare proprio in questo contesto: cfr. SHEEHAN, The Daily Prospectus: To Offer, or not to Offert, 13 dicembre 2001 (in http://www.baseballprospectus.com/article.php?articleid=1298); a suo dire,
« the decision to offer arbitration to a player eligible for free agency is one of the few bright-line tests of a baseball team’s front-office acumen ».
(123) Dei giocatori più giovani, idonei all’arbitrato (v. retro, § 3 ss.).
(124) Si richiede una esplicita manifestazione di volontà per la free agency. Al giocatore che sia in grado di acquisire lo status di free agent è difatti permesso « to give notice
of his election of free agency »: art. XX, § B(2)(a) del contratto collettivo. Cfr. EDMONS, op.
cit., 8.
(125) Cfr., fra i numerosi, il caso (presentatosi quest’anno) di Hideki Matsui, in No
Arbitration for Hideky Matsui, 24 novembre 2010, in http://sports.espn.go.com/los-angeles/
mlb/news/story?id=5845077.
(126) V. retro nota 90. La circostanza si inscrive nella complessiva logica del mercato del baseball, che ci pare ben riassunta in queste parole dell’assistant general manager
dei Texas Rangers (Levine): « When you’re making a trade, especially when you’re acquiring major league talent, there are two currencies that are accepted (...). One is the ability to
take a large chunk of payroll off of someone else’s books and the other one is, of course, trading prospects » (in LEMIRE, Nouveau-riche, cit.). Se si riportano questi dati al nostro caso, si
noterà che vi sono presenti entrambi i profili: vuoi il desiderio di ridurre il payroll, vuoi il
desiderio di ottenere giovani giocatori (« prospects »).
(127) Ma non se ne libera subito e si prepara la possibilità del nuovo contratto: cfr.,
quest’anno, il caso di A.J. Prezynzky (quantunque la squadra dei Chicago White Sox non gli
abbia offerto l’arbitrato — v. A.J. Pierzynski talking to several teams, 30 novembre 2010, in
http://sports.espn.go.com/chicago/mlb/news/story?id=5866112 —, alla fine ha egualmente
concluso un nuovo contratto con il giocatore). Se invece la società offre l’arbitrato al giocatore e questi l’accetta, lo stesso diventa di nuovo di proprietà del club e ritorna nel c.d. roster (anche in tale eventualità, comunque, le parti continuano ad avere contatti sino alla
udienza arbitrale, per cercare un accordo).
(128) La compensazione (che vorrebbe rispondere ad un criterio di giustizia, capace
di tutelare quei club meno ricchi, i quali — come notammo retro, note 58 e 59 — siano stati
colpiti — « hit » — dalla free agency) è diversa a seconda del valore del free agent, che si
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esercitare nel sistema del c.d. « draft » (che presiede (129) alla scelta
di giovani e promettenti giocatori a prezzi contenuti). Per potere godere di tale ambitissima compensazione (130), infatti, occorre che la
società offra l’arbitrato al « suo » giocatore e che questi, declinandolo (131), si accordi (132) invece con un’altra squadra (133).
usa contrassegnare con la lettera A) o la lettera B) (il primo di maggior valore del secondo:
v. infra nelle note che seguono). Dice l’art. XX: « For such Type A Players, compensation to
the Player’s former Club shall be an amateur draft choice (« Regular Draft Choice ») of the
signing Club and an added amateur draft choice (« Special Draft Choice ») in the Major League Rule 4 Draft » (per riferimenti sul « draft », v. nota seg.). E prosegue la norma: « For
such Type B Players, compensation to the Player’s former Club shall be a Special Draft
Choice in the Major League Rule 4 Draft. (d) The Regular Draft Choice of the signing Club
described in subparagraph (c) above shall not include any selection in the Rule 4 Draft awarded as compensation for failure to sign a Rule 4 Draft ». V. nota seg.
(129) Secondo modalità troppo articolate per potere essere qui considerate: ci limitiamo a rinviare, per tutti, a HAMPLE, op. cit., 176 ss.; DICKSON, The Dickson Baseball Dictionary, cit., 273 (sul « draft » in genere), 325-326 (sul c.d. « first-year player draft », detto anche — ivi, 724 — « Rule 4 draft »), 723-724 (« Rule 5 draft »).
(130) Diversamente regolata a seconda del valore del giocatore ceduto. Si distingue
al riguardo fra Type A e Type B free agents. L’art. XX dice: « A Type A Player shall be a
Player who ranks in the upper twenty percent (20%) of his respective position group ». Invece « A Type B Player shall be a Player who ranks in the upper forty percent (40%) but not
in the upper twenty percent (20%) of his respective position group ». Non mancano gli
esempi: giocatori molto diversi — la star Konerko (Type A) ed il reliever Putz (Type B) —
hanno ricevuto una offerta di arbitrato dalla società, che hanno rifiutato (cfr. D. Padilla, Konerko, Putz decline arbitration, 1 dicembre 2010, in http://espn.go.com/blog/chicago/whitesox/post/_/id/2835/konerko-putz-decline-arbitration).
(131) Cfr. il caso molto noto — verificatosi quest’anno, e — relativo ad A. Beltre: in
EDES, Beltre, Lopez decline arbitration, 24 novembre 2010, in http://proxy.espn.go.com/blog/
boston/red-sox/post/_/id/7110/beltre-lopez-expected-to-decline-arbitration; ancora più celebre
è stata però la vicenda di C. Lee: al giocatore è stato offerto l’arbitrato dai Texas Rangers
(cfr. M A C M A H O N , Cliff Lee offered arbitration, 24 novembre 2010, in http://
sports.espn.go.com/dallas/mlb/news/story?id=5844148), che egli ha però declinato, accordandosi poi con la squadra di Philadelphia.
(132) Quest’anno le squadre hanno offerto a 35 free agents il salary arbitration. Nei
due anni passati il numero è stato di 36 (19 nel 2009 e 17 nel 2008). La gran parte dei free
agents ha però declinato l’arbitrato (e i numeri al riguardo sono simili di anno in anno).
Come sempre, costoro sono mossi dal desiderio di ottenere ingaggi ricchissimi per più anni.
E le vicende legate ai contratti di molte stelle del gioco (di Cliff Lee — v. nota prec. —, Jayson Werth, Carl Crawford, Adrian Beltre — v. nota prec. —, Adam Dunn, Rafael Soriano)
sono lı̀ a dimostrarlo. Il caso di Paul Konerko (sul quale v. retro in nota 130) chiarisce che
lo stesso fenomeno si verifica anche nella medesima squadra (con il giocatore che prima rifiuta l’arbitrato, poi giunge ad un accordo lucroso). Le squadre, da parte loro, offrono l’arbitrato perché — si dice — « are putting more empashis on the draft-pick »; cfr., in tal senso,
DUQUETTE, 30 novembre 2010, http://mlb.mlb.com/video/play.jsp?content_id=13053223. Cui
adde, ancora in video, il contributo di Hal BODLEY, 18 gennaio 2011 (http://mlb.mlb.com/video/play.jsp?content_id=13089809).
(133) Sarà quest’ultima a dover compensare il club che ha perduto il free agent, rinunziando a suo favore ai diritti che le sarebbero spettati nel sistema del « draft », se non
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Al tempo stesso però — e consideriamo l’altro capo della alternativa — l’anelito a percepire quei diritti in compensazione, non
spinge affatto la società ad offrire sempre l’arbitrato al free agent: se
ne asterrà — cosı̀ abdicando deliberatamente alla compensazione —
quando vorrà sottrarsi alla eventualità che il proprio giocatore non
declini l’arbitrato (134 ) e in questo modo si prefiguri il « rischio » (135) della decisione del panel arbitrale dai contenuti incerti,
se non incertissimi.
Nelle dinamiche reali, in ogni caso, l’offerta di arbitrato dei
club (già di per sé piuttosto rara) nella stragrande maggioranza dei
casi viene declinata dai free agents. Costoro normalmente aspirano
ad un contratto pluriennale (136), dal quale possano ritrarre un guadagno sicuro (137) « even if they start to suck » (138). Ebbene, quel tipo
di contratto (139) non sarebbe loro assicurato se si pervenisse alla decisione arbitrale, che può garantirli per un solo anno (140).
Quando il free agent aderisce alla offerta di arbitrato del club,
non per questo però si giunge alla udienza arbitrale. Di nuovo la
prospettiva del comando degli arbitri funge da sprone per cercare (e
trovare) una amichevole composizione della lite (141).
avesse messo sotto contratto il « nuovo » giocatore. Dice l’art. XX (c): « A Type A or B Player
shall be subject to compensation only if (i) he signs a contract with another Club prior to December 1; or (ii) he is offered salary arbitration by his former Club on or before December 1 »
— ma, si è già notato, che quest’anno la data è stata modificata (v. retro in nota 121) — « pursuant to Section B(3) of this Article XX and signs a contract with another Club ».
(134) Magari dubitando di poter ottenere altrove un contratto di suo gradimento.
(135) A meno che nelle more non si giunga ad un accordo, che in ogni caso sarebbe
pesantissimo per la società (sempre per la esistenza del procedimento arbitrale, il quale, pur
se scansato, rappresenta sempre un termine di riferimento importante di ogni valutazione):
cfr. ARGERS, op. cit., ed i casi celebri dei due lanciatori G. Maddux (su cui v. pure HAM e MALACH, op. cit., 88) e R. Clemens (sul quale, per riferimenti, v. retro in nota 60). Si ricordi anche la vicenda più recente di Rafael Soriano, ricostruita nel dettaglio da KERI, The Extra 2%,
cit., 240-241.
(136) Nella cui predisposizione abbia un peso determinante la loro condizione del
momento. Si sa, tempus fugit... Dopo tutto, quella condizione può mutare da un momento all’altro, specialmente nel caso dei lanciatori (pitchers).
(137) E quanto più possibile elevato.
(138) HAMPLE, op. cit., 178.
(139) Ripetiamolo: è molto frequente che il free agent, pur avendo declinato l’arbitrato, si accordi comunque con il proprio club. Accade pure che il club non offra l’arbitrato
al giocatore e nondimeno si accordi poi con lui con un contratto pluriennale.
(140) « The panel, without opinion, awards the player a one-year, non guaranteed
contract at one salary or the other » (in Cot’s Baseball Contracts. Transaction Glossary, cit.).
(141) I contenuti dell’accordo finiranno per rispecchiare il desiderio del veteran
player di ottenere un contratto pluriennale.
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6. Non basta notare che i fattori sui quali si innesta il comando immotivato degli arbitri sono « murky » (142). Proprio perché
« there shall be no opinion » (v. retro, § 4), cresce l’aspirazione a
conoscere « come sono effettivamente andate le cose » (143) e su
quali basi la decisione è stata davvero assunta. Lo impongono d’altronde le norme di procedura che disciplinano (144) questa fase cruciale del procedimento (145). Vi figura una limitazione quanto ai
mezzi di prova ammissibili. Si tratta di una limitazione che è il riflesso dei criteri (146) sul fondamento dei quali gli arbitri possono
fissare la retribuzione del giocatore. Vi è pure una norma intorno al
modo della valutazione della prova rilevante (147). Con un apposito
precetto sono poi fissati gli estremi di ammissibilità del confronto
comparativo (148), fra la retribuzione proposta per il giocatore coinvolto nel procedimento arbitrale, da un lato, e quella di altro giocatore assunto a riferimento, dall’altro lato (149).
(142) « These factors combine to make the decision-making process murky at best »:
lo dice ARGERIS, op. cit. Nel testo proviamo a fare un passo in più.
(143) Per impiegare liberamente il motto del Ranke, ripreso da CALOGERO, La logica
del giudice e il suo controllo in cassazione, I ed., 1937, II ed., Padova, 1964, 129.
(144) Per la verità, in maniera spesso alquanto lacunosa; da ciò discende anche la
conclamata libertà del panel arbitrale: cfr., sul punto, l’ampia analisi di HAM e MALACH, op.
cit., spec. 80 ss.
(145) In questo modo, il nostro procedimento acquista una fisionomia del tutto particolare (anche in rapporto a quei procedimenti — non rari nell’arbitrato internazionale —
nei quali sia ammessa la pronunzia di un lodo privo della motivazione).
(146) L’Art. VI, F, (12) — rubricato Criteria — dice questo: « (a) The criteria will
be the quality of the Player’s contribution to his Club during the past season (including but
not limited to his overall performance, special qualities of leadership and public appeal), the
length and consistency of his career contribution, the record of the Player’s past compensation, comparative baseball salaries » — e qui vi è un rinvio al paragrafo 13, a proposito dei
dati confidenziali relativi ai salari: v. retro note 107 e 71 —, « the existence of any physical
or mental defects on the part of the Player » — e l’uso delle droghe è divenuto con il tempo
un fattore non trascurabile (cfr. ABRAMS, The Money, cit., 62, il quale ne parla a proposito dei
« fattori sussidiari ») —, « and the recent performance record of the Club including but not
limited to its League standing and attendance as an indication of public acceptance ». Per un
esame approfondito di questi criteri v. specialmente HAM e MALACH, op. cit., 76 ss., 80 ss. (ed
in una prospettiva de jure condendo, 90 ss.); ABRAMS, op. cit., 60 ss.
(147) Art. VI, F, (12): « Any evidence may be submitted which is relevant to the
above criteria, and the arbitration panel shall assign such weight to the evidence as shall appear appropriate under the circumstances ».
(148) Il termine di riferimento è un giocatore dello stesso periodo di servizio o di un
anno in più, salvo che il giocatore non segnali particolarità che giustifichino l’assunzione di
un differente e migliore elemento di comparazione. V. la nota seg.
(149) Art. VI, F, (12): « The arbitration panel shall, except for a Player with five or
more years of Major League service, give particular attention, for comparative salary purpo-
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Altrettanto preciso è il catalogo delle circostanze sulle quali
non è possibile offrire la prova (150).
Cosa singolare, a dispetto di questa puntuale enumerazione
delle condizioni, in base alle quali il lodo deve essere emesso, non
vi è in effetti modo di verificarne l’osservanza. Se quelle condizioni
siano rispettate o disattese dagli arbitri, nessuno potrà accertarlo, non
tanto perché la loro decisione non è impugnabile, ma perché manca
qualunque motivazione.
Ora, se è sicuro che il panel non può conoscere la posizione finanziaria del club e del giocatore, ciò si traduce nel divieto per la
parte in arbitrato di allegare la corrispondente circostanza di fatto (151). Ma se uno, alcuni o addirittura tutti gli arbitri sono per altra
via a conoscenza di quel dato di fatto (152), che cosa accade? Se costoro, a dispetto del divieto, se ne giovano, come si dovrà qualificare
tale evenienza? Identica domanda si porrà in rapporto alle precedenti
offerte avanzate da ciascuno dei contendenti (153). Quando consimili
elementi di fatto fossero contra ius impiegati dagli arbitri, dovrà
concedersi che questi ultimi vi abbiano fatto ricorso utilizzando la
loro scienza privata.
ses, to the contracts of Players with Major League service not exceeding one annual service
group above the Player’s annual service group » (c.n.: sulla indeterminatezza della locuzione
« particolare attenzione » v., per tutti, HAM e MALACH, op. cit., 82; ABRAMS, The Money, cit.,
161). E prosegue la stessa norma: « This shall not limit the ability of a Player or his representative, because of special accomplishment, to argue the equal relevance of salaries of
Players without regard to service, and the arbitration panel shall give whatever weight to such
argument as is deemed appropriate » (c.n.). Anche il significato della espressione « special
accomplishment » è fonte di discussione (se sia limitato a premi quali, ad es., il Gold Glove,
attribuito al giocatore per la sua abilità difensiva; o abbia invece una portata più ampia, includendo il contegno complessivo del professionista anche al di fuori del terreno di gioco:
HAM e MALACH, op. cit., 83).
(150) Dice ancora l’art. VI, F, (12): « (b) Evidence of the following shall not be admissible: (i) The financial position of the Player and the Club; (ii) Press comments, testimonials or similar material bearing on the performance of either the Player or the Club, except
that recognized annual Player awards for playing excellence shall not be excluded; (iii) Offers made by either Player or Club prior to arbitration; (iv) The cost to the parties of their
representatives, attorneys, etc.; (v) Salaries in other sports or occupations ». Cfr., su questi
« prohibited factors », ABRAMS, The Money, cit., 64-65; HAM e MALACH, op. cit., 87.
(151) E, ovviamente, di provarla. Per i riflessi di questa regola in ordine alla quantificazione della retribuzione del giocatore nei periodi di recessione economica, v. HAM e MALACH, op. cit., 87 ss.
(152) Di questo fatto, per la precisione: « the club’s existing pay structure and revenue ».
(153) « (iii) Offers made by either Player or Club prior to arbitration » (art. VI, F, 12,
cit.).
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Su di un piano differente stanno le informazioni (154) che i
componenti del panel abbiano attinto dalla lettura o dall’ascolto di
« media reports » (155), dai quali magari hanno tratto anche cognizione dei salari in altre occupazioni e sport (156). Si tratterebbe di
notizie di pubblica conoscenza, capaci di assurgere al grado di fatti
notori.
7. Il giurista continentale rimane sconcertato. Perché sa che,
quantunque si tratti di nozioni universalmente note, di regola il giudice non ne può prendere cognizione di sua iniziativa, senza esservi
stato sollecitato dalla allegazione di una delle parti (157). Questa acquisizione, dopo tutto, viene dalla profondità del tempo. Prende
forma nella speculazione dei giuristi dell’età di mezzo (158), se ne
procura poi la consolidazione — con quel documento esemplare che
è il « Codex Juris Bavarici Judiciarii de anno 1753 » (159) —, e gradatamente penetra nella mentalità di noialtri.
(154) Anch’esse — per quanto detto (v. nota 150) — contra ius.
(155) « (ii) Press comments, testimonials or similar material » (art. VI, F, 12, cit.).
(156) « (v) Salaries in other sports or occupations » (art. VI, F, 12, cit.).
(157) Cfr., se vuoi, per un discorso più articolato, PANZAROLA, Notorious Fact in Italian Law, in Megatrend Review, The international review of applied economics, 2010, 69 ss.
Oggi la affermazione che compare nel testo subisce (nella lettura della dottrina) vistose eccezioni. Pur dove esse operino, resta fermo il dovere di rispettare il principio del contraddittorio.
(158) Ed anche più tardi. Si prenda un autore che ha contribuito alla elaborazione
della dottrina del notorio, Joachim Mynsinger von Frundeck. Egli scrive: « facta subiecta
notorio non indigeant probatione, si ea in judicio allegantur. Et hoc est quod vulgo dicitur:
Notorium ab onere probandi relevare non autem ab onere proponendi » (MYNSINGERI, Observationum Imp. Camerae, Cent. VI Sing. Observ. III, Witerbergae, 1509). Cfr., sul « cameralista » Mynsinger, i rilievi di CHIOVENDA, Principii di diritto processuale civile, rist., Napoli,
1965, 8; PICARDI, (voce Processo civile-diritto moderno), ora in La giurisdizione all’alba del
terzo millennio, Milano, 2007, 204 e nota 14. Nonché, in ultimo, SCHUMANN, Joachim Mynsinger von Frundeck (1514-1588). Herzoglicher Kanzler in Wolfenbüttel — Rechtsgelehrter
— Humanist. Zur Biographie eines Juristen im 16. Jahrhundert, Wiesbaden, 1983. La affermazione del giurista tedesco è comune: cfr., ad es., nello stesso senso MENOCHIUS [De praesumptiones, Lib. I, Quaestio LXVII (5), Coloniae Agrippinae, 1606: « Idem affırmant omnes,
qui dicunt quod etsi notorium non indiget probatione, indiget tamen allegatione »], come
pure lo SCACCCIA (De iudiciis, Lib. I, Cap. 76, Venetiis, 1663: « Adverse tamen, quod licet
huiusmodi notorium facti permanentis et continui non sit probandum, erit tamen allegandum
ab eo, qui se fundat in illo, quia licet notorium relevat ad onere probandi, non tamen relevat ab onere allegandi »).
(159) Prendiamo il dodicesimo capitolo del codice bavarese (« Zwölftes Capitel »)
dedicato alle prove (« Von dem Beweis durch eigene Geständnuß, Vermuthung, Augenschein,
Calculation, Notorietät, und gemeinen Ruf ») diverse da quella documentale (alla quale viene
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Né lo sconcerto scompare se si consente con l’idea che il concetto di « notorio », anziché essere monolitico, si presti a scomposizioni (160); e possa cosı̀ profilarsi la categoria del « notorio arbitrale » (161), in connessione con il modo particolare con il quale il c.d.
divieto di scienza privata si presenta relativamente agli arbitri (162).
Pure in tal caso, occorrerebbe che il fatto acquisito dagli arbitri sia sottoposto al contraddittorio delle parti, prima di essere posto
a fondamento della decisione (163).
Quando, al contrario, si è potuto evidenziare che, nel salary ar-
consacrato il capitolo undicesimo: « Eilftes Kapitel. Von dem Beweis durch schriftliche Urkunden »). Quando si occupa della « notorietà » (« Von der Notarietät ») — ravvisandola in
quanto sia legalmente conosciuto dal Giudice —, il codice ha cura di distinguere le due attività rispettivamente della prova e della allegazione del fatto: « §. 5. Was bey Gericht vorhin
schon legaliter bekannt, und notorisch ist, darf von denen Partheyen weiter nicht mehr erwiesen, sondern nur allegirt werden. Falls aber das angebliche Notorium widersprochen,
und in Zweifel ist, muß derjenige, welcher sich darauf besteift, den Beweis machen ». Del resto, l’onere della prova, se viene meno in rapporto ad una parte, non viene eliminato del
tutto: colui, che elevi dubbi sul notorio, dovrà offrire la dimostrazione di quel che sostiene.
(160) In varia misura (mutatis mutandis) conosciute anche nella esperienza di common law, in collegamento con il più generale tema dei mezzi di conoscenza del giudice (e in
rapporto alla sua scienza privata): si può segnalare la particolare declinazione del problema
sotto esame nei casi nei quali il giudice svolga funzioni sostanzialmente arbitrali: cfr. in
Blackstone’s Civil Practice, Oxford, 2009, 638, § 47.34. Vi si legge che « there is certainly
authority that a judge may use personal knowledge of matters within the common knowledge of people in the locality, but that is a principle which derives from cases decided under
the Workmen’s Compensation Acts, under which county court judges sat as arbitrators and
took into account, in assessing compensation, personal knowledge of the labour market » (v.,
in questo senso, Keane v Mount Vernon Colliery Co. Ltd [1933] AC 309 and Reynolds v Llanelly Associated Tinplate Co. Ltd [1948] 1 All ER 140).
(161) Ci permettiamo di rinviare, sul punto, a PANZAROLA, Arbitrato e « fatto notorio », in Sull’arbitrato. Studi offerti a Giovanni Verde, Napoli, 2010, 603 ss.
(162) V. nota precedente. Cui adde SCHLOSSER, Das Recht der internationalen privaten Schiedsgerichtbarkeit, 2. Auflage, Tübingen, 1989, 481-482 (nel paragrafo intitolato
« Das Private Wissen des Schiedsrichters »; l’autore esordisce — ivi, 481 — richiamando la
tesi occasionalmente espressa in dottrina sull’argomento: « gelegentlich wird behauptet, auch
bei Verwertung privaten Wissens sei der Schiedsrichter freier gestellt als ein staatlicher Richter »). In generale, sul tema, v. pure TALLON, in (C.M. Schmitthoff), The Source of the Law of
International Trade with Special Reference to East-West Trade, London, 1964, 154 ss., 162.
KOUTSOURADIS, Zur Frage der Verwendung privaten Wissens durch den Schiedsrichter, in KTS
(Konkurs-, Treuhand- und Schiedsgerichtswesen. Zeitschrift für alle Fragen des Konkurs-,
Vergleichs- und Treuhandwesens sowie der Zwangsversteigerung und- verwaltung), 1984,
573 ss.; SCHÜTZE, TSCHERNING, WAIS, Handbuch des Schiedsverfahrens, Berlin-New York,
1990, al n. 332.
(163) V., per riferimenti, le ultime due note. È emblematica, al riguardo, la posizione
di SCHLOSSER, op. cit., 481 (« der Schiedsrichter ist nicht, jedenfalls nicht immer, an den
Verhandlungsgrundsatz gebunden. Dann muß er auch Tatsachen in das Verfahren einführen
können, die er privat weiß, freilich nicht, ohne rechtliches Gehör zu gewähren »; c.n.).
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bitration, il panel arbitrale è in pratica (164) nelle condizioni, non
solo di attingere quel medesimo fatto (senza esservi stimolato dai litiganti), ma anche di impiegarlo nella decisione (senza sottoporlo
previamente alle parti).
Ciò che vale in senso « temporale » (165), vale altresı̀ in senso
« spaziale ». Pure gli ordinamenti giuridici di common law, in genere, e quello statunitense, in particolare, recano in sé l’impronta di
una disciplina che, nel salary arbitration, si presta ad essere vistosamente oltrepassata.
Si noti, infatti, che l’ordo procedendi che sovrintende alla c.d.
judicial notice of adjudicative facts (166) — al variare dei suoi pre-
(164) Oltretutto quel fatto — come detto (v. retro note 150 e ss.) — non sarebbe in
linea di diritto utilizzabile.
(165) Nella prospettiva — dianzi considerata — del giurista continentale, dell’epoca
di mezzo e del periodo attuale (di ieri e di oggi, quindi).
(166) Che, come si sa, non è certo limitata ai fatti. Quando lo sia, nell’ordinamento
statunitense, soccorrono le Federal Rules of Evidence (sulle quali v. http://www.law.cornell.edu/rules/fre/rules.htm, incluse le utili note di commento, largamente basate sull’opera di
Kenneth Davis: sulla quale v. infra in nota). Cfr. art. II (Judicial Notice), rule 201 (Judicial
Notice of Adjudicative Facts), lett. b) — « Kinds of facts » —: « A judicially noticed fact
must be one not subject to reasonable dispute in that it is either (1) generally known within
the territorial jurisdiction of the trial court or (2) capable of accurate and ready determination
by resort to sources whose accuracy cannot reasonably be questioned ». Non vi è una apposita « rule » riguardo alla c.d. judicial notice of « legislative » facts. Quanto alla « judicial
notice » attinente alla legge straniera (c.d. « judicial notice of matters of foreign law ») cfr.
Rule 44.1 delle « Federal Rules of Civil Procedure » e Rule 26.1 delle « Federal Rules of
Criminal Procedure ». In generale, sull’istituto sotto esame, v., fra gli altri, THAYER, Preliminary Treatise on Evidence, 1898, rist. 2005, 235-263 (con numerosi riferimenti storici); J.H.
WIGMORE, Treatise on the Anglo-American System of Evidence in Trials at Common Law, III,
Boston, 1940, §§ 2565-83; HAMMON, Hammon on Evidence: Covering Burden Of Proof, Presumptions, Judicial Notice, And Estoppel, St. Paul, Minnesota, 1907, rist. 2008, cap. II, § 93
ss., 374 ss.; KEEFFE, LANDIS e SHAAD, Sense and Nonsense about Judicial Notice, in Stanford
Law Review, 1950, 664 ss.; MCNAUGHTON, Judicial Notice: Excerpts Relating to the MorganWigmore Controversy, in Vanderbilt Law Review, 1961, 779; MCCORMICK, Judicial Notice,
ivi, 1951, 296 ss.; MORGAN, Judicial Notice, in Harvard Law Review, 1944, 269 ss.; DAVIS,
System of Judicial Notice Based on Fairness and Convenience, in Perspectives of Law. Essays for Austin Wakeman Scott, a cura di R. Pound, A. Wakeman Scott, E.N. Griswold, A.E.
Sutherland, Boston 1964, 69 ss. Uno stimolante ripensamento dell’istituto, nella materia penale (e con riguardo all’ordinamento canadese), è in GJOKA, Rethinking the Conclusiveness of
Judicial Notice: A Theoretical Approach, in Appeal: Review of Current Law and Law Reform, 2009, 100 ss. (il quale, nella sostanza, per tutelare il diritto di difesa dell’imputato, arriva ad affermare che la « judicial notice of adjudicative facts in criminal cases should not be
conclusive »: ivi, 100). Fa ancora pensare il caso (Anderson v. Jersey Creamery Co.) esaminato da RANSOM, Evidence — Judicial Notice of Medical Facts — Judge’s Right of Private
Investigation, in Michigan Law Review, 1938, 610 ss. A proposito della judicial notice nell’ordinamento inglese, cfr., per un primo inquadramento, in Blackstone’s Civil Practice, cit.,
636 ss. (§§ 47.27 ss.); KEANE, The Modern Law of Evidence, VII, Oxford, 2008, 672 ss.
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supposti (167) — comunque si condensa nella forma del contraddittorio (168).
E questa medesima forma iudicii reclama il suo inveramento
anche nelle procedure arbitrali (169), nelle quali, per ragioni di fairness, si pretende che la judicial notice sia filtrata nel dialogo con le
parti.
Ebbene, il « final offer arbitration » del baseball potrebbe introdurre una eccezione a questo modello, che sarebbe a doppio titolo
lacerante, contraddicendo insieme il sistema generale (170) e quello
particolare (171).
(167) Cfr. Federal Rules of Evidence: art. II (Judicial Notice), rule 201 (Judicial Notice of Adjudicative Facts), lettere c) — « when discretionary » (« A court may take judicial
notice, whether requested or not ») — e d) — « when mandatory » —, allorché « a court
shall take judicial notice if requested by a party and supplied with the necessary information ».
(168) Federal Rules of Evidence: art. II, rule 201, lett. e), « Opportunity to be heard »
(« A party is entitled upon timely request to an opportunity to be heard as to the propriety of
taking judicial notice and the tenor of the matter noticed. In the absence of prior notification,
the request may be made after judicial notice has been taken »). Intorno a questo tema, cfr.,
per tutti, DAVIS, System of Judicial Notice, cit., 69 ss.
(169) Statunitensi, s’intende. Cfr., ad es., STARK, FEINBERG, CLIFTON JR., PERL,
SCHWARTZ, PRASHKER, Problem of Proof in the Arbitration Process: Report of the New York
Tripartite Committee, in (Dallas Jones, ed.) Problems of Proof in Abitration, Washington,
D.C., 1967, 295 ss., spec. 297: mentre ovviamente si riconosce che il concetto « is applicable in arbitration », si richiamano considerazioni di « fairness » per dire che l’arbitro è tenuto
ad avvertire le parti dei fatti dei quali « he will take notice » (e, prima ancora, per osservare
che le parti si debbono comunicare a vicenda i fatti dei quali desiderano che l’arbitro
« prenda notizia »).
(170) Le esigenze del contraddittorio in questa materia hanno difatti una generale risonanza, che oltrepassa la dimensione strettamente giudiziaria: cfr., ad es., nell’Administrative Procedure Act, 5 U.S.C. § 556(e) — dove, in fine, si legge: « When an agency decision
rests on offıcial notice of a material fact not appearing in the evidence in the record, a party
is entitled, on timely request, to an opportunity to show the contrary », c.n. —; nonché nel
Revised Model State Administrative Procedure Act (1961), 9C U.L.A. § 10(4) (Supp. 1967),
dove leggo (sotto la rubrica: « Rules of Evidence; Official Notice »): « notice may be taken
of judicially cognizable facts. In addition, notice may be taken of generally recognized technical or scientific facts within the agency’s specialized knowledge. Parties shall be notified
either before or during the hearing, or by reference in preliminary reports or otherwise, of
the material noticed, including any staff memoranda or data, and they shall be afforded an
opportunity to contest the material so noticed. The agency’s experience, technical competence, and specialized knowledge may be utilized in the evaluation of the evidence ».
(171) Vogliamo dire che una judicial notice senza contraddittorio stonerebbe, tanto
nella vastità dell’ordinamento generale USA, quanto nello spazio ristretto dell’ordinamento
particolare dell’arbitrato statunitense. Al riguardo conviene soltanto accennare al tema connesso alla possibilità per la controparte di offrire la prova (asseritamente) idonea a contrastare i fatti oggetto di judicial notice. È un tema classico del dibattito di common law (che
si è posto, e si pone, perché si inclina a tutelare il contraddittorio anche nel caso sotto esame):
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Sarà per questo che due osservatori attenti come Eldon L. Ham
e Jeffrey Malach scrivono di una « judicial notice of sorts » (172)? O
forse lo fanno in quanto avvertono, temendolo, l’irrompere — sfrenato perché incontrollabile — « des privaten Wissens » degli arbitri?
Questi interrogativi paiono esprimere ben più che il paradossale
riflesso dell’esame, in sede scientifica, di un modello che, mentre si
innesta sul c.d. « final offer method », mette capo alla pronunzia di
un lodo arbitrale immotivato. Certo, il punto cruciale (« the key issue ») è sempre quest’ultimo, che « no written opinions are required »: con la conseguenza che, mancando la motivazione, non si può
sapere quali elementi i tre arbitri abbiano impiegato « in their ruling » e come li abbiano impiegati. Vi è nondimeno il rifiuto di arrestarsi a questa presa d’atto. Si insiste a prefigurare l’antico intreccio
di scienza privata e notorietà, perché lo si sospetta attraversato qui
da una tensione inusuale, in un contesto nuovo non meno che caratteristico. Finalmente, c’è il fatto incontestabile che nel « salary arbitration » — in una misura che non conosce l’eguale in altro procedimento consimile — gli arbitri sono talmente pochi nel numero, che
gli capita di essere chiamati a breve distanza di tempo a dirimere più
controversie (173). Con facilità ciascuno di essi può allora attingere (174) a quel corpo di conoscenze ed esperienze maturate nella trattazione di casi simili (175). Per di più, in linea di fatto, proprio in dipendenza del possesso di simili nozioni si giunge alla scelta degli arbitri (176). Il problema è che, tanto se restano al livello di private incfr. THAYER, op. cit, 260-263, 299 ss.; J.H. WIGMORE, op. cit., § 2567; DAVIS, A System of Judicial Notice, cit., 76; contra KEEFFE, LANDIS e SHAAD, op. cit., 668; MCNAUGHTON, op. cit.,
779; MORGAN, op. cit., 279. Va peraltro notato — senza poter approfondire il tema — che le
discussioni si sono concentrate, per lo più, sui c.d. « legislative facts », intorno ai quali si
sono levate le voci che consentono sulla possibilità di offrire la prova contraria. In questi limiti, non vi è dunque piena identità con la questione — sviluppatasi anche da noi — del
trattamento del « fatto notorio » e della possibilità o meno di procedere ad istruttoria intorno
ad esso: cfr., se vuoi, PANZAROLA, Notorious Fact in Italian Law, cit., 77. Si ricordi pure, nella
materia penale, la tesi di GJOKA, op. loc. cit., ispirata alla massima tutela del diritto al contraddittorio (« defense counsel should be able to rebut judicially noticed facts in formal court
proceedings »).
(172) Nel loro importante scritto Hardball Free Agency, cit., 83. Corsivo nostro.
(173) Si confronti il sito internet indicato retro in nota 4 (a cura di BROWN). Da una
semplice lettura, si capisce che i nomi sono quasi sempre gli stessi (Horowitz, Wolf, Goldberg, Bolch, Neumeier, e pochi altri, per limitarci all’ultimo lustro).
(174) Me lo hanno confermato, in vario modo, tanto Eldon L. Ham quanto Jeffrey
Malach. Lo si capsice leggendo la stampa.
(175) Cfr. ABRAMS, The Money, cit., 152.
(176) Cfr., in una prospettiva più generale, SCHLOSSER, Das Recht, cit., 482, nella parte
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formazioni, quanto se si elevano al grado di fatti notori, non vi è alcun modo di esercitarsi dialetticamente su quelle nozioni. Le quali,
in un modo che ulcera le menti (177), si teme che vengano comunque
utilizzate contra ius dai componenti del panel arbitrale.
8. I risultati conseguiti sin qui — a proposito del salary arbitration — debbono adesso essere collocati nel contesto più generale
del c.d. « national pastime » (178) statunitense. Difatti, il baseball è
in vario modo al centro della attenzione dei giuristi. E lo è già per la
singolare tessitura interna (179) del suo ordinamento (180), che si com-
nella quale prospetta tale ipotesi (« wenn der Schiedsrichter auf dem Gebiet des Verfahrensgegenstands generell sachverständig ist und gerade wegen dieser seiner Eigenschaft in sein
Amt berufen worden ist »). Relativamente all’arbitrato sportivo internazionale v., in senso
conforme, MERONE, Il Tribunale arbitrale dello Sport, Torino, 2009, 112 e 114.
(177) V. retro in note 157, 166 e 168.
(178) Cosı̀, ad litteram, a proposito del gioco del baseball, la Corte Suprema USA
nella decisione menzionata retro in nota 50. Cfr. TYGIEL, Past Time. Baseball as History,
Oxford, 2000, passim. Sulle origini della locuzione « national pastime » cfr. in DICKSON, The
Dickson, cit., 573-574.
(179) Non vi è ovviamente un inventore delle regole del gioco (lo nota, con ragione,
TYGIEL, op. cit., 15-16). Nessuno dei tre personaggi che vengono usualmente evocati al
riguardo — Abner Doubleday, Alexander Cartwright ed Henry Chadwick — ha, da solo,
creato quelle regole. Le quali sono state piuttosto il frutto di un lavoro corale, perfezionato
nel tempo (cfr., in ultimo, THORN, Baseball in the Garden of Eden. The Secret History of the
Early Game, New York, 2011). Certo è, però, che soprattutto H. Chadwick ha dato un impulso straordinario alla evoluzione del gioco « on the field » (oltre che alla diffusione delle
statistiche e del c.d. « box score »): cfr. — al di là del profilo di TYGIEL, op. cit., 15 ss. —
SCHIFF, « The Father of Baseball ». A Biography of Henry Chadwick, Jefferson, North Carolina, 2008, 27-29. È curioso notare che il fratellastro di Henry, Edwin Chadwick — eminente
personalità della Gran Bretagna del tempo (1800/1890) — intrattenne per molti anni rapporti
strettissimi con Jeremy Bentham (sino alla morte di quest’ultimo nel 1832). Il fatto è che le
regole del gioco del baseball paiono lontanissime, nella loro evoluzione, da quel volontarismo legislativo legato, in vario modo, (anche) all’opera di Bentham (v. anche infra in nota
e nel testo). Sul modo in cui le regole del baseball si sono modificate nel corso degli anni
cfr. il sito: http://www.19cbaseball.com/rules.html; nonché la sintesi di GIETSCHIER, The rules
of baseball, in AA.VV., The Cambridge Companion to Baseball, a cura di Cassuto e Partridge, New York, 2011, 9 ss., spec. 19 per riferimenti. Il tempo delle origini è guardato spesso
con rimpianto anche in questo campo (« prima che il gioco del baseball fosse illuminato da
un milione di statistiche, quando ancora riguardava i misteri del destino terreno, quando i
giocatori delle Major Leagues somigliavano più a operai magri e affamati che a ragazzoni in
salute », scrive, ad es., ROTH, Pastorale americana, Torino, 2002, e-book, 2003, 19).
(180) Il termine non è casuale. Si può riferire al sistema dello sport in genere (lo ricorda, in ultimo, LUISO, Il Tribunale Nazionale Arbitrale per lo Sport. Il punto di vista del
processualista, in questa Rivista, 2010, 3; cui adde MERONE, Il Tribunale arbitrale dello
Sport, cit., 1-15), ed alla singola disciplina, in particolare.
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pone di regole scritte e non scritte (181), con quelle non di rado capaci di evolversi con un ritmo misurato, che rassomiglia alle cadenze
lente (182) che organizzano da sempre il progredire di queste altre.
Per di più, le modalità con le quali si è giunti a mettere per iscritto,
e soprattutto ad aggiornare le regole del gioco, sono state ritenute il
rispecchiamento di una generale tendenza tipica del diritto angloamericano (183).
In questo senso la c.d. infield fly rule (184) è assurta a vero e
proprio topos (185), insieme all’idea per la quale il modo della sua
codificazione nel tempo sintetizzerebbe i caratteri dello sguardo sul
mondo della common law (186). Il principio morale del fair play; la
(181) Cfr. DICKSON, The Unwritten Rules of Baseball. The Etiquette, Conventional
Wisdom, and Axiomatic Codes of Our National Pastime, New York, 2009; Jason TURBOW (con
Michael DUCA), The Baseball Codes: Beanballs, Sign Stealing, and Bench-Clearing Brawls:
The Unwritten Rules of America’s Pastime, New York, 2010.
(182) Talvolta troppo lente. Basti dire della odiosissima regola non scritta che escludeva dal gioco del baseball i giocatori neri: DICKSON, op. cit., 19 ss. La regola fu infranta
nelle major leagues con Jackie Robinson (sul quale v., per tutti, TYGIEL, Baseball’s Great
Experiment. Jackie Robinson and His Legacy, New York, 1997), che indossò l’uniforme dei
Brooklyn Dodgers il 15 aprile 1947 (C.E. PRINCE, Brooklyn’s Dodgers. The Bums, the Borough, and the Best of Baseball. 1947-1957, New York, 1996). Il numero 42, appartenuto a
Robinson, è stato ritirato in modo permanente nel 1997, per celebrare il cinquantennale dell’evento (HAMPLE, op. cit., 169).
(183) V. però la satira di D’AMATO, The Contribution of the Infield Fly Rule to Western Civilization (and vice versa), in Northwestern University Law Review, 2006, 189 ss.
(alle note 2 e 3 di pag. 189 la indicazione dei contributi apparsi sul tema). Ci convince, però,
assai di più il modo di giudicare il fenomeno nel suo complesso di WILL, The Infield Fly Rule
and the Absence of Chivalry, April 1, 1996, in ID., Bunt, cit., 415 ss.
(184) Cfr. Offıcial Baseball Rules: rule 2.00 (dove — all’interno del capitolo « Definition of terms » — la definizione della « volata interna » ed il commento relativo) e rule
6.05(e): fra le ipotesi nelle quali si determina la eliminazione del battitore è menzionata
l’ipotesi in cui la sua volata venga giudicata « infield fly ». V. pure, anche per esempi, NEMEC,
The Offıcial Rules of Baseball Illustrated, Guilford, Connecticut, 2006, 22-23. DICKSON, The
Dickson, cit., 451.
(185) Aside, The Common Law Origin of the Infield Fly Rule, in (123) U. Pa. L. Rev.,
1975, 1474 ss. L’autore dello scritto — apparso anonimo — risultò essere Will Stevens.
(186) Il senso del discorso di Stevens (v. nota prec.) può essere restituito in questo
modo: a suo dire, il principio morale del fair play, come innerva il concetto del due process,
cosı̀ stimola la elaborazione della regola del gioco del baseball; e, quando quest’ultima viene
codificata, ciò accade per renderla cogente, allo stesso modo che nella common law si cura
la predisposizione del c.d. writ system, che si avvia appunto « to enforce a rule of conduct ».
D’altronde, l’assenza di un « rimedio » tipico (form of action at law), se è superata dall’intervento del cancelliere, si fonda su quella nozione di equity che è talmente ampia e pervasiva che si imporrebbe anche nella risoluzione di contrasti interni al gioco. Con la conseguenza che la tensione a limitare il potere del cancelliere — tipica dell’ordinamento generale —, costituisce anche il movente della consolidazione della regola del gioco del baseball,
che viene perseguita per imbrigliare la discrezionalità dell’arbitro: « additions to the written
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sua consolidazione scriptis per via di aggiustamenti progressivi imposti dalla natura delle cose; il richiamo all’equity per squarciare la
raggelata lettera della regola ed aprirla ad un mondo in mutamento;
la fortissima tensione a disciplinare l’intervento creativo del « giudice » (187): sono tutti elementi che accomunano l’ordinamento generale e quello particolare, common law e regola del gioco del baseball (188).
Sono elementi che stenteremmo però a rinvenire nelle regole
che profilano il c.d. « salary arbitration ». Esse esibiscono note
molto diverse, per certi versi opposte. Dove aleggiava una logica
della moderazione, intrisa di equilibrio (189), sta adesso la precipitosa
rincorsa verso una decisione affidata ad un semplice aut-aut. Ad un
procedere « storico-concreto » (190), si sostituisce un pensare e provvedere per « polarità » (191). Al posto di una regola che voleva infrenare la discrezionalità del « giudice » di gara, subentra una regola
che programmaticamente scioglie il « giudice » arbitrale da ogni
controllo. In questo modo, lo stesso due process — con il fair play
che lo innerva — rimane sfibrato, e, se non scompare, si tinge di colorazioni inusuali.
Dopo tutto, questa metamorfosi straordinaria si delinea in
campi differenti. Lı̀ la regola toccava il gioco, qui investe il giocarules have reduced the area within which the umpire has discretion to act » (op. cit., 1480).
Infine, il parallelismo che si è creduto di instaurare tra le due esperienze sarebbe evidentissimo nell’elemento della gradualità nel cambiamento delle regole, tanto di common law
quanto del gioco del baseball.
(187) Il cancelliere nella giurisdizione di equity; l’arbitro (o umpire) nel governo del
gioco.
(188) Aside, The Common Law, cit., 1480-1481: « The dynamics of the common law
and the development of one of the most important technical rules of baseball, although on
the surface completely different in outlook and philosophy, share significant elements ».
Sempre per seguire la lettura di Will Stevens, si noterà un contrasto dei due ordinamenti —
di common law e del gioco del baseball —, rispetto al sistema continentale. Alla pag. 1480
l’autore scrive infatti: « The rules of baseball and of the Anglo-American jurisprudence are
thus to be contrasted with the continental system of complete codes designed to remedy society’s ill with a single stroke of the legislative brush ».
(189) L’equilibrio che ha caratterizzato la evoluzione delle regole del gioco del baseball. Le quali, quando sono state modificate, lo sono state in modo, si direbbe, « incrementale », o, se si preferisce, « storico-concreto ». Si è trattato infatti di adattamenti progressivi,
capaci di rispecchiare l’affacciarsi di nuovi bisogni concreti. Alla base, sta forse la diffidenza
per leggi universali, in tutti i campi della vita.
(190) V. la nota precedente.
(191) Sul pensare per polarità, v. SCHMITT (Die geschichtliche Struktur des heutigen
Welt-Gegensatzes von Ost und West), trad. it. in E. Jünger e C. Schmitt, Il nodo di Gordio.
Dialogo su Oriente e Occidente nella storia del mondo, Bologna, 1987, 143 ss.
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tore. Quella diceva come si svolge il gioco, quest’altra a quali condizioni il giocatore vi può prendere parte. La prima fissava le condizioni di un gioco fair, la seconda sovrintende alla determinazione di
una retribuzione giusta. Alla regola « sostanziale » (192) succede
adesso quella « processuale » (193). Perché nel c.d. « salary arbitration » figurano norme di fonte contrattuale che, mentre intessono la
« tela giudiziaria », hanno per obiettivo la pronunzia di un comando
immotivato da parte di tre arbitri che, non potendo fissare una cifra
a loro piacimento, accolgono o la pretesa del giocatore o quella
avanzata dal club, in consonanza con i dettami del « final offer arbitration ».
Istanza d’ordine più che di giustizia, il panel arbitrale è al contempo un « giudice su misura » (Richter nach Maß) (194) e un giudice « smisurato » (Richter-König) (195): « su misura » per le esigenze del baseball professionistico; « smisurato » per il potere che
esercita per soddisfarle. È proprio il modo con il quale questo potere
viene disimpegnato — altrettanto libero nelle forme che imperscrutabile nei criteri adoperati — che sta al centro del complesso meccanismo del « salary arbitration ». Il « nudo » comando degli arbitri
chiude irrevocabilmente la vicenda. Sempre il « nudo » comando (196) — la prospettiva della sua emanazione, insieme al timore
(192) Si allude ai cambiamenti « in the substantive rules »: Aside, The Common Law
Origin, cit., 1477
(193) Lo diciamo a fini descrittivi, senza volere enfatizzare la distinzione (v., infatti,
l’ammonimento di DENTI, La natura giuridica delle norme sulle prove civili, in Riv. dir. proc.,
1969, 8 ss.). Si legga ora l’art. VI (F), nella sua proposizione iniziale, dove dice che « The
following salary arbitration procedure shall be applicable (...) ». In ogni caso, è proprio l’accordo collettivo, in altra parte, ad orientare verso quella contrapposizione: cfr. « Rules of
procedure » (Appendix A - Grievance Arbitration Hearings), ivi, 226 ss.
(194) L’espressione è in SCHAWB - WALTER, Schiedsgerichtsbarkeit. Systematischer
Kommentar zu den Vorschriften der Zivilprozeßordnung, des Arbeitsgerichtsgesetzes, der
Staatsverträge und der Kostengesetze über das privatrechtliche Schiedsgerichtsverfahren, 7a
ed., München, 2005, 4. I quali richiamamo esplicitamente CARNELUTTI, in Diritto e processo,
Napoli, 1958, 77.
(195) Mutuiamo liberamente l’espressione da PICARDI e GIULIANI, La responsabilità
del giudice, rist. agg., Milano, 1995, spec. 22, 224. Si potrebbe azzardare pure un parallelismo con il modello del giudice-re, giacché anche nel caso del salary arbitration l’arbitro si
erge ad « ingegnere sociale, che rivendica a sé la funzione di distributore di ricchezze » (op.
cit., 22). A tacer d’altro, residua però la differenza fondamentale che, nel solo caso degli arbitri, tale rivendicazione ha un fondamento pattizio.
(196) Non crediamo di esagerare: il massimo esperto del settore, ABRAMS, The Money, cit., 165, richiama « the value of certainty », che il nostro procedimento, per come organizzato, è in grado di assicurare. Non meno chiaro è WASSNER, op. cit., 10, quando evoca
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che ingenera nelle parti — prepara, se non impone, il componimento
amichevole (197). Quasi valesse il detto, « das Beste in der Welt ist
ein Befehl (198) »!
The Author examines the salary arbitration of the US Major League Baseball, outlining its historical evolution. Having recalled the subject matter of the
proceedings, i.e. the requirements of professional players in order to use it, the Author describes the passage from the team-player relation based upon the “reserve
clause” to the different figure of the “free agent”.
Several aspects are then examined, such as the composition of the arbitration panel, the time-table of the procedure, the decisional method known as “final
offer arbitration” and the practical reasons that often lead the parties to settle before the matter has come before the arbitrators.
Particular attention is drawn to the lack of reasoning of the arbitral awards
and of any means of challenge against them.
Finally, the Author explains the relevance of notorious fact in salary arbitration and the particular criticism involving due process that could arise there
from, leading to the creation of the figure of “judicial notice of sorts”, in order to
narrow the use of the arbitrators’ private knowledge in making their decision.
« the extreme risk associated with FOA » (« Final Offer Arbitration »). Il dato è generalmente
condiviso: v. retro, §§ 4 e 5.
(197) Tanto che in un’opera divulgativa, che riflette la communis opinio intorno al
tema sotto esame, si giunge a scrivere questo: « when a team and player absolutely cannot
agree on the terms of a contract » (c.n.), « they go to arbitration »: HAMPLE, op. cit., 178. Cfr.
retro, §§ 4 e 5.
(198) Il detto (« Il meglio al mondo è un comando ») è in SCHMITT, Legalität und Legitimität, VII, Berlin, 2005 (I ed., 1932), 13 (v. anche trad. it in ID., Le categorie del « politico ». Saggi di teoria politica, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Bologna, 1972, 217; la stessa
espressione figura anche in ID., Ex Captivitate Salus - Erfahrungen der Zeit 1945-47, trad. it.
Milano, 1987, 115, 134).
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L’efficacia probatoria degli atti
dei procedimenti arbitrali
ALBERTO A. ROMANO (*)
1. Premessa: il punto delle Sezioni Unite sugli scritti provenienti dai rappresentanti delle parti e dai terzi. — 2. L’efficacia probatoria degli atti dei procedimenti arbitrali: distinzioni. — 3. (Segue): il lodo rituale. — 4. (Segue):
gli altri atti dell’arbitrato rituale. — 5. (Segue): il lodo irrituale. — 6. (Segue): gli altri atti dell’arbitrato irrituale.
1. Una recente sentenza della Corte di cassazione a sezioni
unite (1), intervenuta sull’efficacia probatoria delle scritture private
provenienti non già da una delle parti in causa, bensı̀ da chi la rappresentasse prima e fuori del giudizio, o addirittura da un terzo del
tutto estraneo alle parti ed al giudizio medesimo, offre l’occasione
per chiedersi se ed in che misura il lodo e gli altri atti giuridici che
si formano nel corso dei procedimenti arbitrali possano esser utilizzati come mezzi di prova nel processo civile. Ciò perché, com’è
agevole intuire fin d’ora, l’inquadramento sub specie di « scrittura
privata proveniente da un terzo » si rivela sovente il solo corretto,
quando un atto dell’arbitrato, per qualsiasi ragione, sia introdotto
come prova in un giudizio nuovo e distinto.
Vale dunque la pena, in premessa, di discutere brevemente il
contenuto della sentenza in questione, non prima peraltro d’averlo
sinteticamente ricordato. Tale sentenza ha, in primo luogo, confermato l’orientamento secondo cui le scritture private provenienti dai
(*) Professore nella Università Commerciale Luigi Bocconi di Milano.
(1) Si tratta di Cass., sez. un., 23 giugno 2010, n. 15169, in Foro it., 2010, I, 2683,
con nota per lo più critica di BARONE, ed in Guida dir., 2010, 30, 54, con nota contraria di
FINOCCHIARO; della decisione dà conto anche GIOIA, Osservatorio sulle sezioni unite civili
(processo civile: 1o giugno-31 luglio 2010), in Riv. dir. proc., 2010, 1243; sullo stato della
giurisprudenza anteriore, cfr. MANDRIOLI, Diritto processuale civile20, II, Torino, 2009, 183,
nota 25.
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terzi costituiscono prove « atipiche », non previste cioè dall’ordinamento, eppur utilizzabili dal giudice come « indizi »: capaci, cioè, di
contribuire a fondare il suo convincimento, « unitamente agli altri
dati probatori acquisiti al processo » (2). In secondo luogo, essa ha
tratto, dalla loro atipicità, la coerente conclusione che gli scritti del
terzo debbano reputarsi sottratti ai meccanismi di disconoscimento,
riconoscimento, verificazione e querela di falso, riservati dagli artt.
214 ss. c.p.c. alle scritture private delle parti. In terzo luogo, la sentenza ha ritenuto che i principi appena richiamati non valgano, però,
per talune scritture private, le quali, pur provenendo da terzi, dovrebbero nondimeno reputarsi dotate di efficacia probatoria piena, fino a
querela di falso, per virtù di un certo loro « intrinseco grado di attendibilità »: tra queste, secondo la Corte, dovrebbero annoverarsi
scritti quali il testamento olografo e la cambiale, menzionati a titolo
di esempio, nonché qualunque scrittura privata formata — com’era
avvenuto nella specie — dal rappresentante sostanziale della parte, ai
sensi degli artt. 1387-1400 c.c. (3).
Ora, i primi due risultati raggiunti dalla Corte sono in larga misura convincenti, benché, per ottenerli, si riveli forse superfluo il richiamo alla categoria delle prove atipiche, di per sé ancora abbastanza problematica (4). In effetti, la disciplina positiva della scrittura
privata concerne senz’altro le sole scritture provenienti da una delle
parti del giudizio, o comunque le scritture ad essa attribuite (arg. ex
art. 214, comma 1, c.p.c.); alle parti sono poi espressamente equiparati i rispettivi danti causa, ma non, invece, gli altri terzi estranei al
processo (arg. ex art. 214, comma 2, c.p.c.). Ciò induce, sı̀, ad esclu-
(2) Il termine « indizio » è invero utilizzato in vario senso nel processo civile. In
particolare, ora si qualifica tale il « fatto noto » di cui all’art. 2727 c.c., ora si designa « indizio » ogni prova atipica, ora si impiega l’espressione come sinonimo di « argomento di
prova »: la sentenza in esame sembra doversi leggere in quest’ultimo senso. Per varie considerazioni sulla differenza tra presunzioni, da un lato, ed indizi o argomenti di prova, dall’altro, cfr. RUFFINI, « Argomenti di prova » e « fondamento della decisione » del giudice civile,
in Riv. trim. dir. proc. civ., 2004, 1338 ss., e RICCI G.F., Atipicità della prova, processo ordinario e rito camerale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2002, 425 ss.
(3) Nel caso deciso dalla Corte di cassazione, la scrittura controversa proveniva in
effetti dal rappresentante sostanziale di una delle parti, e la Corte ha ritenuto che essa non
potesse perciò contestarsi, se non per mezzo di querela di falso, appunto in virtù di una sua
« particolare valenza intrinseca ».
(4) Sul tema, v. da ultimo, anche per ogni ulteriore riferimento, COMOGLIO, Le prove
civili3, Torino-Assago, 2010, 52 ss., 86 ss. L’inquadramento degli scritti del terzo tra le prove
atipiche è comunque da tempo usuale presso la dottrina, ed era già in precedenza assai frequente in giurisprudenza.
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dere l’applicazione dell’art. 2702 c.c. e degli artt. 214-220 c.p.c. alle
scritture provenienti da questi ultimi, o comunque loro attribuite (5);
non consente ancora, però, di qualificarle prove atipiche. A ben vedere, bastano gli artt. 2727-2729 c.c. ad offrire un soddisfacente inquadramento tipico agli scritti dei terzi, che sembrano doversi considerare alla stregua di « fatti noti », potendo da essi, secondo i casi e
le massime di esperienza formulabili in concreto, risalire di volta in
volta ai « fatti ignorati » da provare (6).
È quanto accade, ad esempio, allorché una parte produca in
giudizio estratti o ritagli di quotidiani o di « agenzie », ovvero
« stampe » di pagine di siti Internet, concernenti un fatto rilevante ai
fini della decisione: in tale frequentissima situazione, il « fatto noto »
ai sensi dell’art. 2727 c.c. è costituito dall’avvenuta pubblicazione,
cartacea o telematica, delle notizie, mentre il « fatto ignorato » è il
fatto che le notizie riferiscono. Il giudice potrà dunque ritenere provato il fatto ignorato, « risalendovi » criticamente per via di presun-
(5) Si tratta di conclusioni negative a suo tempo già compiutamente raggiunte ed argomentate da DENTI, La verificazione delle prove documentali, Torino, 1957, 276 ss., in critica alla differente opinione di F. Carnelutti e V. Andrioli: da ultimo, cfr. COMOGLIO, Le prove
civili, cit., 462, ove ampi ragguagli bibliografici e giurisprudenziali.
(6) Che tutte o alcune delle prove che la prassi qualifica atipiche possano in verità
ricondursi alla figura della presunzione è tesi variamente sostenuta (v. ad esempio CHIARLONI,
Riflessioni sui limiti del giudizio di fatto nel processo civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1986,
851; sost. PICARDI, Manuale del processo civile2, 2010, Milano, 308), ancorché poi talora si
discuta se ed in che misura sia corretto discorrere di « tipicità » della presunzione: su ciò cfr.
ad esempio, in senso tra di loro opposto, TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, in Tratt. dir.
civ. comm., diretto da A. Cicu, F. Messineo e L. Mengoni, III, 2, 1, Milano, 1992, 377, 381
s., e CAVALLONE, Critica della teoria delle prove atipiche, in Riv. dir. proc., 1978, 700 ss.
A me pare incontestabile che le presunzioni debbano dirsi tipiche, almeno nel limitato
senso che esse formano oggetto di una esplicita disciplina di diritto positivo, e che tale loro
tipicità basti per superare una delle obiezioni che di regola si muovono contro chi intenda
attribuire, agli scritti del terzo, un’efficacia probatoria maggiore di quella meramente indiziaria: l’obiezione, cioè, secondo cui, cosı̀ facendo, si finirebbe per introdurre nel processo una
sorta di « atipica » testimonianza scritta, in deroga agli artt. 244 ss., ed oggi pure ai barocchismi dell’art. 257-bis c.p.c. Ritengo, in altri termini, che testimonianze orali, testimonianze
scritte ex art. 257-bis c.p.c. e presunzioni fondate sulle scritture di un terzo siano tutte possibili fonti di prova libera per il giudice, senza che peraltro risulti alcun obbligo, né per le
parti, né per l’organo giurisdizionale ai sensi dell’art. 281-ter, di far deporre oralmente l’autore sui fatti da lui riferiti nello scritto. Certo, si può osservare che, mentre in proposito non
destano problemi specifici gli scritti del terzo formati prima del giudizio, l’esperienza suggerisce invece di ritenere meno affidabili quelli che si siano formati dopo l’inizio della causa,
perché essi suscitano il sospetto di un tentativo di evitare proprio l’assunzione orale o quella
scritta ex art. 257-bis; si tratterà però allora, per lo più, di concludere che sopra simili scritti
non possa fondarsi una presunzione adeguatamente grave e precisa, non già di giudicarli a
priori alla stregua di prove inammissibili.
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zione, di regola sulla scorta dell’accettabile massima di esperienza
secondo cui è vera la maggior parte dei fatti riferiti dai quotidiani,
dalle agenzie di stampa o in rete (o meglio, da quei particolari quotidiani o agenzie di stampa o siti Internet da cui gli estratti prodotti
in giudizio provengano: l’affidabilità delle fonti, cosı̀ come l’eventuale pluralità delle medesime, conta molto, nell’impiego concreto
della massima di esperienza in questione).
Le scritture attribuite ad altri terzi, siano o meno da costoro
sottoscritte, pongono qualche problema in più rispetto alle notizie di
stampa, perché più facilmente possono generare dubbi circa la loro
effettiva provenienza ed affidabilità: lo schema « tipico », tuttavia, è
anche qui quello degli artt. 2727-2729 c.c. Cosı̀, chi produca in giudizio uno scritto, attribuendolo ad un terzo, di sicuro ha l’onere di
dimostrarne l’effettiva provenienza e può farlo con ogni mezzo tipico
utile allo scopo (7), senza necessità o possibilità di un incidente di
verificazione. Se la provenienza sia dimostrata, o non sia contestata
(arg. ex art. 115, comma 1, ultima parte, c.p.c.), si sarà in tal modo
acquisita al giudizio certezza sopra un « fatto noto » (i.e. la redazione dello scritto da parte del terzo), che il giudice potrà porre a
fondamento di un ragionamento presuntivo, onde risalire al « fatto
ignorato » (i.e. il fatto riferito nello scritto, in tesi rilevante ai fini
della decisione), per mezzo delle massime di esperienza variamente
utilizzabili al lume delle circostanze concrete (8).
Cosı̀ stando le cose, riesce forse finanche troppo prudente l’affermazione secondo cui gli scritti provenienti dai terzi potrebbero
contribuire al giudizio di fatto solo in presenza di altri, consonanti
(7) L’effettiva provenienza dello scritto dal terzo, se non sia pacifica, deve dunque
essere provata: sembrano perciò eccessive le preoccupazioni manifestate da MONTESANO, Le
prove atipiche nelle « presunzioni » e negli « argomenti » del giudice civile, in Riv. dir. proc.,
1980, 245 ss., il quale nega che lo scritto del terzo possa fungere da premessa di una presunzione. Se per contro lo scritto del terzo sia munito di sottoscrizione autenticata, giusta la natura di atto pubblico dell’autenticazione, la provenienza deve ritenersi provata fino a querela
di falso. In linea di principio, la prova della provenienza dello scritto potrà infine essere a
sua volta fornita per presunzioni, senza che alle conclusioni sostenute nel testo possa opporsi
l’inesistente (v. TARUFFO, Considerazioni sulle prove per induzione, in Riv. trim. dir. proc. civ.,
2010, 1177 ss.; contra, da ultimo, SCALAMOGNA, L’effıcacia probatoria degli argomenti di
prova, in Riv. dir. proc., 2009, 1165 ss.) divieto di presumere de praesumpto.
(8) Ad esempio, la massima secondo la quale tendono ad essere vere le dichiarazioni
sfavorevoli al dichiarante, o le dichiarazioni rese da certi soggetti particolarmente affidabili,
o raramente finanche le dichiarazioni non smentite dal destinatario controinteressato, magari
là dove si fosse presentata in concreto un’agevole e « naturale » occasione per contraddirle,
e questa significativamente non fosse però stata sfruttata.
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« dati probatori ». Se è vero che l’art. 2729 c.c., prescrivendo il requisito della « concordanza », sembra suggerire che le presunzioni
debbano essere più d’una, onde dimostrare il « fatto ignorato », è
pure vero che la migliore dottrina rifiuta da tempo un’interpretazione
troppo rigorosa di tale requisito, concludendo che, se un’unica inferenza sia specialmente « grave e precisa », essa possa da sola bastare
alla prova (9): se ne ha che, se lo scritto provenga da una fonte terza
particolarmente affidabile, non è a priori da escludere che il convincimento del giudice possa reggersi unicamente su di esso.
Quanto invece al terzo dei risultati raggiunti dalla Corte di cassazione, esso pare difficilmente accettabile. La sentenza in esame afferma che alcuni scritti di terzi, pur non autenticati, godrebbero di
una sorta di « intrinseca » attendibilità, che ne renderebbe contestabile la provenienza solo attraverso la querela di falso. La soluzione,
però, sembra incompatibile col sistema degli artt. 2702 c.c. e 214215 c.p.c., né peraltro la Corte fornisce un criterio chiaro, onde consentire di individuare a priori siffatta « intrinseca » attendibilità; anzi,
i documenti inclusi dalla Corte in questa singolare categoria di scritture specialmente affidabili — i testamenti olografi, le cambiali ed i
documenti formati dal rappresentante (i quali, non è ben chiaro perché, finiscono in tal modo per esser giudicati degni di maggior fede
di quelli formati dal rappresentato) — non hanno, di per sé, minori
possibilità di esser artefatti rispetto ad ogni altra scrittura privata.
Piuttosto, è da ritenere che, da un canto, la provenienza di testamenti olografi e cambiali, là dove essi siano attribuiti a soggetti
diversi dalle parti e dai loro danti causa, come accade per ogni altro
scritto attribuito a tali soggetti, possa esser provata o contestata in
giudizio con ogni mezzo, senza incidenti di verificazione o falso; e
che, dall’altro canto, ai fini dell’applicazione degli artt. 2702 c.c. e
214-215 c.p.c., l’attribuzione di una scrittura privata al rappresentante sostanziale di una delle parti debba invece equipararsi all’attribuzione alla parte stessa (10).
(9) In arg., anche per ulteriori indicazioni, v. da ultimo TARUFFO, Considerazioni, cit.,
1174 ss.
(10) Argg. ex artt. 1387-1400 c.c. Sul problema, per primi ragguagli di dottrina e
giurisprudenza, FABIANI, Del riconoscimento e della verificazione della scrittura privata, in
Codice di procedura civile commentato4, diretto da C. Consolo, I, Assago, 2010, 2428 s.;
MANDRIOLI, Diritto, cit., II, 220. Per le medesime, se non per più forti ragioni, la conclusione
sembra valere anche per i rapporti di rappresentanza organica e legale. La parte ha dunque
l’onere di disconoscere — o anche solo di dichiarare di non conoscere, come avviene nel
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2. Cosı̀ schiarite, almeno in parte, le idee sull’efficacia probatoria delle scritture private provenienti dai terzi, è ora più facile interrogarsi sull’efficacia che hanno gli atti dei procedimenti arbitrali,
allorché siano prodotti ed utilizzati come prove in un processo civile
a cognizione piena dinanzi all’autorità giurisdizionale ordinaria (11).
All’uopo, conviene proseguire l’indagine — che limito agli arbitrati di diritto italiano — distinguendo a seconda che il procedimento arbitrale in cui l’atto si è formato sia di tipo rituale (12) o irrituale (13), ed ancora a seconda che l’atto preso in considerazione
sia il lodo reso dagli arbitri (14) oppure un diverso atto dell’arbitrato (15).
3.
Esaminando in primo luogo il lodo arbitrale rituale, si deve
caso, in fondo analogo, dell’art. 214, comma 2, c.p.c.; v. anche infra, nota 53 — la sottoscrizione ex adverso attribuita al suo rappresentante; in tal caso, chi ha prodotto la scrittura potrà promuoverne la verificazione, mentre, in mancanza di disconoscimento, il documento farà
prova fino a querela di falso. Beninteso, tutto ciò intuitivamente vale soltanto ove non vi
siano contestazioni intorno al potere di rappresentanza, ovvero queste siano risolte nel senso
della sussistenza di tale potere.
(11) Non è particolarmente utile affrontare qui pure il problema dell’efficacia probatoria degli atti dei procedimenti arbitrali in successivi processi a cognizione sommaria, quali
ad esempio il processo cautelare o il nuovo processo sommario di cognizione, giacché la deformalizzazione dell’istruttoria esclude la possibilità di elaborare, per tali giudizi, stringenti
precetti di carattere generale; ad ogni buon conto, non è dubbio che gli atti dei procedimenti
arbitrali, ove rappresentino fatti rilevanti, possano liberamente contribuire a formare il convincimento del giudice nei processi speciali caratterizzati da sommarietà.
È per contro importante avvertire che le considerazioni svolte infra, nn. 3-6, con riguardo al processo ordinario a cognizione piena, per lo più varranno, mutato il pochissimo
che vi è in tal caso da mutare, quando gli atti di un procedimento arbitrale siano invocati
come prove in un distinto procedimento arbitrale, almeno se questo sia di tipo rituale, in ragione delle notevoli analogie di struttura e funzione che esistono, oggi forse più di ieri, tra
arbitrato rituale e processo ordinario a cognizione piena (sulla prova nell’arbitrato rituale, v.
COMOGLIO, Le prove civili, cit., 217 ss.; RICCI E.F., La prova nell’arbitrato rituale, Milano,
1974, 1 ss.). Maggior prudenza occorre invece nell’estendere le predette considerazioni all’impiego probatorio degli atti di un procedimento arbitrale, rituale o irrituale, in un successivo arbitrato irrituale, in virtù delle assai maggiori incertezze che caratterizzano l’istruzione
nell’arbitrato libero (cenni da ultimo in SASSANI, voce Arbitrato irrituale, in Dig. disc. priv.,
Sez. civ., agg., III, 1, Torino-Assago, 2007, 117; VERDE, Lineamenti di diritto dell’arbitrato2,
Torino, 2006, 134).
Le considerazioni in discorso paiono infine valere, in linea di principio, anche nei
giudizi di impugnazione del lodo arbitrale ai sensi degli artt. 827-831 (v. spec. infra, nota 33)
e dell’art. 808-ter c.p.c.
(12) V. infra, nn. 3-4.
(13) V. infra, nn. 5-6.
(14) V. infra, nn. 3 e 5.
(15) V. infra, nn. 4 e 6.
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subito ricordare che, giusta l’art. 824-bis c.p.c., quand’anche non si
accompagni al decreto di regolarità formale di cui all’art. 825 (c.d.
exequatur), esso « ha gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria ». Questa equiparazione, mentre assicura, al lodo rituale, la capacità di produrre gli effetti sostanziali della cosa giudicata, ai sensi dell’art. 2909 c.c. (16), comprime grandemente le possibilità che tale atto, in concreto, sia utilmente impiegato come prova
in un successivo giudizio ordinario.
È, insomma, quello del lodo, lo stesso destino della sentenza, di
cui si può notoriamente invocare l’autorità di giudicato, entro i limiti
del suo perimetro soggettivo ed oggettivo, ma che, al di fuori di codesti limiti, non gioca poi, di regola, alcun residuo ruolo nel campo
della prova dei fatti accertati dal giudice ai fini della decisione (17).
Cosı̀, per intendersi, qualora, dopo che un lodo definitivo e non
più impugnabile abbia accertato il diritto a, tra le stesse parti s’iniziasse un processo ordinario intorno al diritto b, di cui il diritto a
fosse fatto costitutivo, del tutto impropriamente s’invocherebbe il
lodo « a prova » del diritto a; si tratterebbe, piuttosto, d’invocare il
lodo come precedente giudicato, onde sfruttarne l’effetto c.d. « positivo-conformativo »; la decisione degli arbitri vincola cioè, qui, il
giudice ordinario quanto al giudizio di diritto, non già quanto al giudizio di fatto.
Poco diversamente dovrebbe concludersi se, proseguendo nell’esempio, il processo ordinario si svolgesse tra le stesse parti, sul
diritto c, accertato solo incidenter tantum dagli arbitri nel decidere su
a; o si svolgesse tra le stesse parti sul diritto d, indipendente da a,
ma per la cui decisione siano rilevanti uno o più dei fatti storici già
accertati dagli arbitri per decidere su a; o si svolgesse tra altre parti
sul diritto e, di cui il diritto a fosse fatto costitutivo: in tutte queste
ipotesi, il lodo certo non spiegherebbe nel secondo giudizio alcun
effetto di giudicato, ma in verità nemmeno potrebbe esservi invocato
come prova (del diritto a, nella prima e nella terza ipotesi; dei fatti
storici accertati dagli arbitri e rilevanti ai fini della decisione sul di(16) Rilievo pressoché unanime: v. per tutti BOVE, La giustizia privata, Padova-Assago, 2009, 165 s.
(17) V. per tutti già CALAMANDREI, La sentenza civile come mezzo di prova, in Riv. dir.
proc. civ., 1938, I, 108 ss. L’affermazione di un possibile utilizzo della sentenza civile come
prova indiziaria o atipica è nondimeno tuttora abbastanza diffusa in giurisprudenza, ed ha
pure qualche sostenitore tra gli studiosi: cfr. spec. RICCI G.F., Le prove atipiche, Milano,
1999, 152 ss., 272 ss.; riff. aggiornati in COMOGLIO, Le prove civili, cit., 88, nota 268.
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ritto d, nella seconda): vi ostano, verosimilmente, proprio le norme
che disciplinano i limiti soggettivi ed oggettivi del giudicato, escludendo che in consimili ipotesi il secondo giudice sia vincolato dall’anteriore pronuncia (18).
Un marginale impiego del lodo come prova è nondimeno possibile, in relazione a fatti storici diversi da quelli accertati dagli arbitri ai fini della decisione. Guardando alla sua « corporea » realtà di
chartula formata e sottoscritta dagli arbitri, si può infatti distinguere
con agio, dal lodo inteso come atto processuale di decisione della
controversia, un « lodo-documento », che proprio dell’esistenza del
« lodo-atto » costituisce l’immediata rappresentazione per tabulas (19). Cosı̀, riprendendo la prima delle ipotesi fatte poc’anzi, allorché il presunto titolare del diritto b, dipendente dal diritto a, invochi
l’anteriore giudicato arbitrale dinanzi al giudice ordinario, egli ne
offrirà invariabilmente la prova producendo in giudizio il « lodo-documento » (20): la prova, si capisce, del fatto che, tra le parti, è stato
reso in passato un lodo arbitrale, e che questo ha accertato l’esistenza
del diritto a; non già, evidentemente, per quanto già visto, la prova
diretta del diritto a o dei suoi storici fatti costitutivi.
Come chartula, il lodo non si limita, peraltro, a fornire la prova
dell’avvenuta pronuncia del « lodo-atto », ma documenta una serie di
altre circostanze che non è escluso possano in qualche caso rivestire
rilevanza in un successivo giudizio ordinario (21): si pensi, ad esempio, alla sede e alla data della pronuncia della decisione arbitrale, o
all’attestazione, da parte degli arbitri, dell’avvenuto rispetto di una
(18) Argg., dunque, essenzialmente, ex artt. 2909 c.c. e 34 c.p.c.: dove non c’è vincolo di giudicato, sembra corretto ritenere che l’accertamento contenuto nel lodo, come nella
sentenza, possa contestarsi senza restrizioni (in tal senso, v. per tutti CHIZZINI, Gli effetti dell’« intervento adesivo » nel processo tedesco, in Giur. it., 1992, IV, 446); e che, di conseguenza, il lodo o la sentenza non possano, con riguardo alla verità dei fatti accertati dall’arbitro o dal giudice ai fini della decisione, nemmeno fungere da premessa per una presunzione
sufficientemente « grave » (cfr. CALAMANDREI, La sentenza civile, cit., 124 s.).
Altro e diverso problema, se pur intuitivamente collegato a quello in esame, è il problema dell’efficacia delle prove raccolte in un processo anteriore: su ciò v. brevemente infra,
n. 4, testo e nota 41.
(19) Sulla nota distinzione tra sentenza come atto e sentenza come documento, poi
largamente ripresa da molta dottrina, soprattutto in tema di titolo esecutivo, v. già CALAMANDREI, La sentenza civile, cit., 109 ss.
(20) Non si potrebbe fornire prova del « lodo-atto », che richiede la forma scritta ad
substantiam, in altro modo che in questo (arg. ex art. 2725, comma 2, c.c.), salvo il caso di
smarrimento incolpevole dell’originale « lodo-documento »; v. anche infra, nota 32.
(21) V. anche CALAMANDREI, La sentenza civile, cit., 109 s.
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formalità imposta dalle parti sotto sanzione di nullità, che per lo più
interesseranno nei giudizi di impugnazione del lodo (22); alla narrazione dello svolgimento del processo, con la specificazione della
data e del contenuto delle domande che vi si sono proposte, all’allegazione del pagamento dei compensi, o di altre attività che nel lodo
gli arbitri attestino avvenute in loro presenza e che possano avere la
più varia importanza a fini sostanziali; all’indicazione dei difensori
delle parti, dei testimoni, degli arbitri e dei loro consulenti, che un
domani potrebbe costituire prova a sostegno di un’istanza di ricusazione; ecc.
In tutte queste situazioni, là dove un fatto risultante dal « lododocumento », ovvero l’esistenza stessa del « lodo-atto » suo tramite
rappresentata, siano oggetto di specifica contestazione in un successivo processo a cognizione piena (23), è giusto porre il quesito dell’efficacia probatoria di tale documento. Quesito cui — è appena il
caso di notarlo — non può certo darsi risposta concludendo che si
tratti di un atto pubblico, che come tale faccia piena prova, fino a
querela di falso, della provenienza del lodo dagli arbitri che lo hanno
sottoscritto, delle dichiarazioni delle parti che vi fossero registrate e
degli altri fatti che gli arbitri attestino avvenuti in loro presenza o per
loro opera. Se si discorresse del valore probatorio della sentenza
come documento, queste conclusioni sarebbero esatte, poiché il giudice è pubblico ufficiale (24); gli arbitri, però, pubblici ufficiali non
sono, lo esclude espressamente l’art. 813, comma 2, c.p.c.: non possono, perciò, ritenersi capaci di attribuire al documento che formano
la pubblica fede dell’art. 2699 c.c. (25).
A ben riflettere, dal punto di vista formale, il « lododocumento » altro non è, se non una scrittura privata proveniente
dagli arbitri, o meglio una scrittura privata attribuita alla paternità
degli arbitri da chi la produce nel successivo giudizio. Ciò significa
(22) V. infra, nota 33.
(23) Arg. ex art. 115, comma 1, c.p.c. A rigore, se la circostanza non sia specificamente contestata, nemmeno occorre provarla per mezzo del « lodo-documento », bastando
invece, in tal caso, la semplice allegazione della medesima, pacifica tra i contendenti.
(24) Cfr. infatti CALAMANDREI, La sentenza civile, cit., 110.
(25) V. Cass., 27 gennaio 2004, n. 1409, in Giur. it., 2004, 2292 ss.; Cass., 19 luglio
1988, n. 4695, in Foro it., 1988, I, 2864; conf. GROSSI, La falsità della dichiarazione concernente la conferenza personale degli arbitri ex art. 829, n. 3, c.p.c.: l’impugnazione ex art.
829 c.p.c. e la querela di falso, in questa Rivista, 2004, 289 ss.; contro, Cass., 14 febbraio
1997, n. 1404; Cass., 4 giugno 1975, n. 2222; App. Milano, 9 gennaio 1996, in Giur. it.,
1997, I, 2, 261.
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che, salva l’eccezionale ipotesi in cui uno o più arbitri siano a loro
volta parti del successivo giudizio a cognizione piena (nel qual caso
troveranno integrale applicazione gli artt. 2702-2704 c.c. e 214-227
c.p.c.) (26), il « lodo-documento » rientra a pieno titolo nel vasto novero giurisprudenziale degli « scritti provenienti da terzi », di cui si
è riferito poc’anzi (27). Né è a credersi che le cose cambino, là dove
le parti dell’arbitrato, tra le quali ipoteticamente si svolga il successivo giudizio ordinario in cui il lodo sia impiegato come prova, abbiano anch’esse sottoscritto il documento, come talora nella prassi si
fa col significato di una « presa visione », ma senza con ciò ovviamente intendere assumersi o condividerne la paternità.
Trattandosi di scritto attribuito a soggetti terzi rispetto al giudizio, la provenienza del « lodo-documento » dagli arbitri, come la sua
genuinità o integrità materiale, potrà dunque esser liberamente contestata (28), senza che occorra o sia possibile la querela di falso; e la
contestazione determinerà, in capo alla parte che intenda comunque
valersi del documento, l’onere di dimostrarne la provenienza e la genuinità, con ogni idoneo mezzo di probatio probationis, senza che
occorra o sia possibile l’incidente di verificazione.
Ove provenienza e genuinità non siano materia di contestazione, come per lo più accadrà, l’art. 115, comma 1, c.p.c. impone in
sostanza di tenerle per dimostrate; e lo stesso vale quando la mentovata probatio probationis abbia avuto esito positivo. Acquisita in tal
modo certezza sull’effettiva provenienza del documento dai terzi che
l’hanno sottoscritto in qualità di arbitri rituali, il lodo potrà allora
costituire il « fatto noto », dal quale risalire al « fatto ignorato » di
volta in volta rilevante nel secondo giudizio (29). All’uopo, infatti,
salvo che specifiche contingenze del caso concreto orientino in senso
diverso, il giudice potrà sovente fare affidamento sulla credibile massima di esperienza per cui, nei lodi, le dichiarazioni delle parti e gli
altri fatti che gli arbitri attestino avvenuti in loro presenza o da essi
(26) Si pensi, a mo’ di esempio, all’eventualità che gli arbitri siano convenuti da una
delle parti in un giudizio di responsabilità, ovvero promuovano il giudizio di cui all’art. 814,
comma 2, c.p.c., per le loro spettanze professionali, e il lodo sia invocato come prova dei
rimborsi spese e dei compensi già percepiti che vi figurino attestati.
(27) V. supra, n. 1.
(28) L’eventualità, se non proprio di scuola, non è delle più probabili: bisognerebbe
ipotizzare che una delle parti abbia falsamente formato o artefatto il lodo.
(29) Secondo lo schema difeso supra, n. 1, per tutti gli scritti provenienti da terzi
estranei al giudizio.
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compiuti risultano di regola fedelmente rappresentati (30). Ciò, con
l’ovvia avvertenza che una simile presunzione non costituisce niente
più di una prova liberamente apprezzabile, e che del contrario potrà
pertanto fornirsi dimostrazione con qualunque mezzo.
La soluzione del problema non è poi molto diversa, quand’anche il lodo arbitrale sia stato depositato in tribunale e dichiarato formalmente regolare ed esecutivo ai sensi dell’art. 825 c.p.c. Il provvedimento in questione è certamente, di per sé, un atto pubblico, ma
non può valere, a posteriori, a rivestire di pubblica fede anche il
lodo arbitrale, rendendolo capace di provare fino a querela di falso
le circostanze di cui gli atti pubblici fanno normalmente prova giusta l’art. 2699 c.c., se non altro perché, nel decidere sulla richiesta di
exequatur, di regola senza udire le parti o gli arbitri, il giudice ordinario non svolge alcuna verifica di quelle circostanze (31). A ben vedere, anzi, quest’ultimo nemmeno è chiamato a verificare se il lodo
origini effettivamente dai soggetti che appaiono averlo formato e
sottoscritto come arbitri, sı̀ che la dichiarazione di cui all’art. 825
c.p.c. non ha neppure il minor valore di un’autenticazione del lodo
ex art. 2703 c.c., e non è dunque neppure idonea ad escludere ogni
futura contestazione di provenienza o genuinità del medesimo. Ne
discende che anche la provenienza e la genuinità del lodo dichiarato
formalmente regolare potranno esser liberamente contestate nel successivo giudizio ordinario in cui siffatto lodo (« lodo-documento »)
sia invocato come prova, senza necessità o possibilità di querela di
falso; e che, in caso di contestazione, la parte che invoca il documento potrà offrirne con ogni mezzo la prova della provenienza o
della genuinità, senza necessità o possibilità di un incidente di verificazione.
Una modesta differenza di efficacia probatoria si apprezza, tuttavia, tra il lodo munito di exequatur e quello non munitone: che,
(30) Con le debite cautele, e con l’ovvia avvertenza, di cui subito nel testo, a proposito della prova contraria, mi sembra che la disciplina e la prassi degli arbitrati — l’attenzione riposta nella selezione di professionisti realmente imparziali e versati nelle materie
giuridiche, almeno per il ruolo di presidente, la frequente presenza di difensori delle parti, la
serietà di molte istituzioni che amministrano i procedimenti di cui all’art. 832 c.p.c., le pur
non rigidissime disposizioni in punto di responsabilità civile degli arbitri — autorizzino in
generale questa conclusione.
(31) In sede di delibazione ex art. 825, comma 1, c.p.c., il tribunale non controlla,
cioè, se siano veri i fatti che, nel lodo, gli arbitri attestino da loro compiuti o avvenuti in loro
presenza durante il corso del procedimento arbitrale (sull’oggetto del giudizio di exequatur,
v. per tutti LA CHINA, L’arbitrato. Il sistema e l’esperienza3, Milano, 2007, 206 ss.).
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cioè, per il primo non è possibile, se non per querela di falso, protestare che il lodo sia stato formato o alterato in una data posteriore a
quella del deposito del lodo stesso (32) in tribunale (33).
(32) Ciò, perché il cancelliere, nel ricevere l’originale del lodo ed apponendovi il
proprio « visto », ne diviene depositario e custode ai sensi degli artt. 744 c.p.c. e 76 disp. att.
c.p.c., e può rilasciarne copia autentica a mente degli artt. 2715 e 2716, comma 2, c.c.
Le considerazioni svolte fin qui a proposito del lodo per cui sia stata richiesta la dichiarazione di cui all’art. 825 c.p.c. valgono identicamente per il lodo che sia stato oggetto
di istanza di correzione al giudice ordinario ai sensi dell’art. 826, commi 3 e 4, c.p.c.
Esse paiono valere, inoltre, per i lodi arbitrali rituali resi all’esito di procedimenti amministrati da istituzioni arbitrali che abbiano natura di enti autonomi di diritto pubblico o simili (cosı̀ è, verosimilmente, per le camere arbitrali istituite presso le camere di commercio
— arg. ex artt. 1, comma 1, e 2, comma 4, lett. a, Legge 29 dicembre 1993, n. 580 — e per
la camera arbitrale per i contratti pubblici di cui all’art. 242 D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163).
Anche in tali casi gli arbitri, benché nominati dall’istituzione, non possono dirsi pubblici ufficiali, valendo pur sempre l’art. 813, comma 2, c.p.c., sı̀ che il loro lodo è comunque una
scrittura privata; nondimeno, ove previsto, il deposito presso l’istituzione — cfr. ad esempio
l’art. 241, comma 10, D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163 — dimostra l’esistenza del « lodo-documento » alla data in cui esso risulta depositato, fino a querela di falso del « visto » dell’istituzione (v. pure infra, n. 4, testo e nota 40).
In tutti i casi, però, il lodo rituale resta in sé una scrittura privata, anche ai fini dell’applicazione delle norme penali a tutela della fede pubblica, nonché della disciplina dell’eventuale ricostruzione del « lodo-documento » smarrito o distrutto: ricostruzione che potrà
comunque farsi solo d’accordo tra gli arbitri ex art. 2720 c.c., salva la possibilità di provare
aliunde l’esistenza del « lodo-atto » nell’ipotesi dell’art. 2724, comma 1, n. 3, c.p.c., e salve
talune marginali differenze in punto di efficacia probatoria delle copie (gli artt. 2715 e 2716,
comma 2, c.c., già menzionati, si applicano solo se il lodo sia stato depositato in tribunale o
presso l’ente pubblico; l’art. 2719 c.c. vale in tutti i casi); v. pure CALAMANDREI, La sentenza
civile, cit., 110; supra, nota 20.
(33) A conclusione di questo discorso, conviene sottolineare che si deve tenere distinto il problema della falsità del « lodo-documento » da quello della nullità del « lodoatto », nonostante si tratti di tematiche potenzialmente interferenti. Beninteso, non ogni falsa
rappresentazione, nel « lodo-documento », di fatti che gli arbitri attestino compiuti da loro, o
in loro presenza, implica nullità del « lodo-atto »; ma vi sono certo casi in cui il documento
rappresenta falsamente la realtà, ed in cui proprio tale falsità cela la nullità dell’atto: si pensi,
ad esempio, al lodo nel quale si attesti contro il vero che gli arbitri hanno rispettato la data
prevista per la pronuncia, o una certa prescrizione procedimentale stabilita dalle parti a pena
di nullità (in argomento, Cass. 27 gennaio 2004, n. 1409, Cass., 19 luglio 1988, n. 4695, e
Cass., 4 giugno 1975, n. 2222, citt. supra, nota 25). In tali casi, chi voglia far valere la nullità del lodo deve senz’altro proporre l’impugnazione per nullità: la questione della falsità
verrà allora affrontata nel corso del gravame, e le considerazioni svolte in questo paragrafo
varranno in quella sede (nessun onere di querela di falso, comunque). Se l’impugnazione non
sia fatta, e la nullità sia sanabile, il « lodo-atto » diverrà definitivo, ed il vizio del lodo non
sarà più denunciabile come tale; nondimeno, se i fatti falsamente rappresentati nel « lodo-documento » risultino rilevanti in un successivo giudizio ordinario, nel quale il precedente decisum sia invocato come prova, la questione della falsità del « lodo-documento » può esser
fatta in quel giudizio, anche lı̀ secondo le considerazioni svolte nel presente paragrafo, e
dunque sempre senza onere di querela.
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4. In linea di principio, la medesima qualità di scritture private provenienti da terzi estranei al giudizio ordinario caratterizza,
oltre al « lodo-documento », anche la grande maggioranza degli altri
atti del procedimento arbitrale rituale (34).
Come e forse più del « lodo-documento », anche altri atti dell’arbitrato, infatti, rappresentano talora circostanze potenzialmente
rilevanti in un distinto processo dinanzi al giudice statale: si pensi,
soprattutto, ai processi verbali delle udienze, nei quali sono di regola
attestati luogo, ora, presenze e dichiarazioni degli intervenuti alle
udienze stesse, nonché varie attività compiute dal collegio, o ancora
ai provvedimenti interinali e ordinatori adottati da quest’ultimo. Ebbene, tali atti sono, almeno di regola, sottoscritti soltanto dagli arbitri, ed hanno perciò la medesima efficacia probatoria del « lodo-documento »: in un successivo processo, la loro provenienza e la loro
genuinità, ove contestate, potranno cioè esser provate con ogni mezzo (35), al di fuori dei meccanismi di disconoscimento, verificazione
e querela di falso propri delle scritture private delle parti (36); se poi
provenienza e genuinità non siano invece contestate, o siano comunque provate, la formazione di tali atti avrà il valore di « fatto noto »,
dal quale il giudice potrà sovente risalire ex art. 2727 c.c. alla verità
degli « ignoti » fatti in essi rappresentati (37).
(34) Beninteso, anche qui con l’ovvia eccezione del caso in cui l’atto considerato, in
tesi formato dagli arbitri nel corso del procedimento, sia utilizzato come prova in un giudizio dinanzi all’autorità giurisdizionale ordinaria, al quale uno o più di quegli arbitri abbiano
preso parte: in tale caso, si applicano gli artt. 2702-2704 c.c. e 214-227 c.p.c.
Naturalmente, queste ultime norme trovano inoltre applicazione, là dove gli atti del
procedimento arbitrale utilizzati come prove siano in tesi atti di una delle parti dell’arbitrato
— ad esempio, l’atto di nomina dell’arbitro, gli atti contenenti domande e quesiti, le difese
e le memorie — ed essa sia parte anche del successivo giudizio ordinario: cfr. DELLA PIETRA,
Il procedimento, in Diritto dell’arbitrato3, a cura di Verde, Napoli, 2005, 250; v. anche supra, n. 3, testo e nota 26.
(35) Tra i mezzi in questione potrà avere impiego privilegiato l’acquisizione ex art.
2712 c.c. dei supporti audiovisivi sui quali l’udienza sia stata registrata o ripresa, considerata
la relativa frequenza con la quale tali supporti sono impiegati nei giudizi privati.
(36) Nel senso che la querela di falso non trovi applicazione contro i processi verbali
d’udienza, v. tra i molti RICCI G.F., Svolgimento del procedimento, in Arbitrato. Commentario2, diretto da Carpi, Bologna, 2008, 382; DELLA PIETRA, Il procedimento, cit., 249; PUNZI,
Disegno sistematico dell’arbitrato, I, Padova, 2000, 490; contro, Cass., 9 agosto 1948, n.
1447; v. spec. App. Roma, 6 novembre 1995, in questa Rivista, 1996, 317 ss., con nota critica di FUSILLO.
(37) V. supra, n. 3. Tiene anche qui, in particolare, la massima di esperienza ivi illustrata (spec. supra, nota 30), sempre che le contingenze del caso concreto non orientino in
senso diverso: credo, per fare un esempio, che un motivato dissenso di una delle parti in or-
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Quid iuris se, come non di rado accade soprattutto per i processi verbali delle udienze, i documenti in questione risultino sottoscritti anche dalle parti dell’arbitrato (38)? In tale ipotesi, a meno che
la sottoscrizione risulti espressamente fatta solo per « presa visione », non è a dubitare che essa basti a far assumere alla parte la
paternità del documento, con conseguente piena applicazione degli
artt. 2702-2704 c.c. e 214-227 c.p.c. (39).
Nell’ipotesi dell’arbitrato amministrato, non sembra per contro
sufficiente, a fare dei processi verbali delle udienze addirittura dei
veri e propri atti pubblici, con tutte le conseguenze del caso, il fatto
che essi siano stati sottoscritti anche da un funzionario dell’istituzione arbitrale, nemmeno ove questa abbia natura di ente autonomo
di diritto pubblico o simile: ciò perché, almeno di regola, e salvo che
in qualche particolare caso le cose non stiano in concreto diversamente, nonostante l’ausiliaria presenza istituzionale, la redazione del
verbale avviene anche in tale ipotesi sotto la responsabilità degli arbitri, i quali nemmeno nell’arbitrato amministrato sono pubblici ufficiali (40).
dine a taluni aspetti di una verbalizzazione, ove risultante dal processo verbale, ben potrebbe
impedire l’operare della presunzione (per un ulteriore esempio, v. subito infra, nota 39).
(38) Secondo una certa tesi, l’incombente sarebbe addirittura obbligatorio: cfr. già
ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile3, IV, Napoli, 1964, 877.
(39) Si potrebbe obiettare, contro questa soluzione, che il disconoscimento della
parte basterebbe cosı̀ a privare il verbale di qualsiasi efficacia probatoria, rendendolo in tal
modo addirittura più debole del verbale sottoscritto solo dagli arbitri. Non mi pare, però, che
l’obiezione colga interamente nel segno. Se infatti le sottoscrizioni siano tutte genuine, a seguito del(l’infondato) disconoscimento della parte sarà possibile, per la controparte interessata all’impiego probatorio del verbale, promuovere l’incidente di verificazione, che di sicuro
non è più oneroso di quella dimostrazione « con ogni mezzo » della genuinità, che l’interessato
deve sobbarcarsi, ove sia contestata la provenienza di un documento sottoscritto da soli terzi
(supra, nn. 1 e 3): l’incidente sarà probabilmente vittorioso, e l’interessato assicurerà al documento l’efficacia di prova legale dell’art. 2702 c.c., che agli scritti dei terzi invece non spetta.
Se per contro le sottoscrizioni degli arbitri siano genuine, ma sia apografa quella della
parte, il cui disconoscimento sia perciò in tesi fondato, è vero che tale disconoscimento impedirà qualsiasi impiego istruttorio del verbale, e che detta situazione sia dunque peggiore di
quella di chi invochi a prova un verbale genuinamente sottoscritto dai soli arbitri, il quale
aspira ad una presunzione di verità (supra, n. 3, spec. nota 30); devo dire, però, che il peggioramento mi sembra giustificato, anche perché, in linea di principio, l’apposizione di una firma
apografa, particolarmente se sia contestuale alla formazione del documento, è certo da annoverare tra quegli elementi concreti che impedirebbero comunque di presumere, ex art. 2727 c.c.,
che lo scritto di terzi rappresenti fedelmente la realtà (v. anche appena supra, nota 37).
(40) Possono nondimeno trovare spazio, nell’arbitrato amministrato, le considerazioni svolte supra, nota 32, circa l’efficacia probatoria di eventuali « visti » o attestazioni di
deposito o di inserimento a protocollo del documento presso l’istituzione.
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Un discorso distinto deve farsi, tuttavia, in relazione a quelle
parti del processo verbale dell’udienza dinanzi agli arbitri, nelle
quali si riferisca di dichiarazioni rese dai testimoni, o dal consulente
tecnico sentito oralmente, o — probabilmente — dai contendenti in
sede di interrogatorio formale. Beninteso, anche qui vale quanto si è
osservato in precedenza, circa la possibilità che il giudice si faccia
persuaso che quanto attestato dagli arbitri sia vero, ritenendo ad
esempio provato, ex art. 2727 c.c., che effettivamente il teste x si sia
presentato nelle precisate circostanze di luogo e di tempo, ed abbia
deposto come da verbale. Tutt’altro problema è, però, quello dell’efficacia probatoria della deposizione del teste dinanzi agli arbitri, lo
stabilire se cioè siano vere le dichiarazioni di costui, riportate nel
processo verbale in ipotesi fedele: sulla verità di queste dichiarazioni, nessuna generale presunzione è possibile, ostandovi l’art. 310,
comma 3, c.p.c.; nel successivo giudizio, esse potranno piuttosto esser valutate in guisa di meri argomenti di prova, ferma la possibilità
di udire ex novo il teste nel posteriore processo; e lo stesso deve ritenersi per ogni altra prova raccolta nel giudizio arbitrale rituale (41).
5. A proposito dei procedimenti arbitrali di tipo irrituale o libero, che da qualche tempo formano oggetto di un’embrionale disciplina di diritto comune all’art. 808-ter c.p.c. (42), non tutte le considerazioni svolte finora possono essere identicamente ripetute.
(41) Relativamente salda, se non m’inganno, per testimonianze ed indagini peritali,
anche scritte, questa conclusione è invece assai meno certa per le risposte rese dalle parti durante un interrogatorio formale condotto dagli arbitri, dal momento che, almeno in linea teorica, le dichiarazioni confessorie rese dalle parti nel corso dell’arbitrato ed ivi verbalizzate,
se non vi sia contestazione intorno alla verbalizzazione, potrebbero valere non già come argomenti di prova, nel successivo processo, bensı̀ come confessioni stragiudiziali ex art. 2735
c.c.: il problema si pone tuttavia, identicamente, nei rapporti tra più processi ordinari.
Più in generale, con le anteriori riflessioni non intendo certo nascondermi la notevole
complessità del problema dell’efficacia delle prove raccolte in un processo diverso da quello
in cui si pretenda di impiegarle in seguito, problema che ritengo comunque debba esser risolto per analogia al lume dell’art. 310, comma 3, c.p.c., anche quando il primo processo sia
giunto ad un epilogo diverso dall’estinzione (e salvo il caso in cui la prova non possa più
esser utilmente assunta nel secondo giudizio: cfr., se si vuole, ROMANO, La tutela cautelare
della prova nel processo civile, Napoli, 2004, 320, nota 86, ove anche riff., cui adde ora COMOGLIO, Le prove civili, cit., 88, nota 268, con ampie indicazioni giurisprudenziali). Solo, mi
interessa sottolineare, qui, che, in virtù della sostanziale identità di funzione ed effetti tra il
processo civile dinanzi all’autorità giurisdizionale ordinaria e l’arbitrato rituale, il problema
dell’efficacia dei mezzi di prova raccolti dinanzi agli arbitri, in un successivo processo
dinanzi al giudice dello Stato, non è diverso da quello dell’efficacia che, in quest’ultimo processo, avrebbero i mezzi di prova raccolti in una qualunque anteriore causa civile statale.
(42) Norma introdotta dall’art. 20 D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, sulla quale nume-
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Cominciando col lodo, occorre anzitutto rilevare che proprio
l’art. 808-ter c.p.c. qualifica esplicitamente la pronuncia degli arbitri
liberi come « determinazione contrattuale », ed adopera altresı̀, per
essa, l’espressione « lodo contrattuale ». Da ciò, sembra ragionevole
trarre la conclusione che il lodo irrituale, diversamente dal rituale,
costituisca un vero e proprio contratto, o almeno costituisca « porzione » di un vero e proprio contratto, e che, perciò, chi lo invochi
dinanzi al giudice ordinario debba esser equiparato a chi alleghi una
stipulazione contrattuale, piuttosto che a chi alleghi un giudicato.
Conseguentemente, non dovrebbe avere qui soverchia importanza il distinguere tra i fatti storici accertati dagli arbitri ai fini della
decisione e gli altri fatti storici attestati dagli arbitri nel lodo, come
invece si è fatto sopra, trattando del lodo rituale (43). Per esser chiari,
se si riprende l’esempio già illustrato in precedenza, immaginando
però, questa volta, che sul diritto a si sia pronunciato con lodo libero,
si ha che la parte vincitrice, la quale agisca dinanzi al giudice ordinario, nei confronti della soccombente, per l’accertamento del diritto
b, dipendente dal diritto a, ovvero per la condanna all’adempimento
del diritto a, magari ex artt. 633-656 c.p.c., del tutto propriamente,
nel secondo processo, invoca il lodo « a prova » (dei fatti costitutivi)
del suo diritto (44). Né è per il vero da escludere, benché la conclusione sia sotto tanti profili assai delicata, che il lodo arbitrale irrituale
in questione addirittura possa esser rettamente invocato, tra le stesse
parti, anche a dimostrazione (dei fatti costitutivi) del diritto c, in
ipotesi già « incidentalmente » (45) accertato dagli arbitri nel decidere sul diritto a, o di qualunque altro fatto storico che i giudici privati abbiano comunque posto alla base della loro pronuncia (46).
rosissimi sono ormai i contributi dottrinali: v., tra questi, BIAVATI, Arbitrato irrituale, in Arbitrato. Commentario, cit., 160 ss., anche per ultt. riff.
(43) V. supra, n. 3; cfr. tuttavia infra, nota 54.
(44) Il diritto b nella prima ipotesi ed il diritto a nella seconda.
(45) Non essendo il lodo contrattuale capace di vero giudicato, il termine è qui usato
ovviamente in senso atecnico: v. del resto subito infra, nota 46.
(46) Rispetto all’esempio di cui supra, n. 3, sarebbe questo il caso in cui il secondo
processo, dinanzi al giudice ordinario, si svolga sul diritto d. Dicevo che si tratta di una conclusione assai delicata, perché, in tal modo, l’efficacia del lodo irrituale, sia pure sul piano
probatorio, si estenderebbe in aree che, in un lodo rituale di identico contenuto, non sarebbero coperte dal giudicato, stanti gli artt. 34 e 819 c.p.c. La questione merita ben altro approfondimento, ma credo, almeno prima facie, che la natura contrattuale del lodo libero faccia propendere per siffatta estensione (per un cenno in senso contrario, mi pare, TAVORMINA,
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Naturalmente, il lodo arbitrale irrituale potrebbe poi esser invocato a dimostrazione di quegli stessi fatti, per i quali può fungere da
prova anche il lodo rituale (47), sı̀ che, nell’insieme, sembra esatto
osservare che l’ambito di potenziale efficacia probatoria del lodo irrituale è notevolmente maggiore di quello del lodo rituale; d’altronde, com’è evidente, tale maggior ambito di effetti probatori serve
essenzialmente a compensare l’incapacità del primo lodo, a differenza del secondo, di produrre gli effetti della cosa giudicata.
Se cosı̀ è, occorre però subito chiedersi quale sia codesta efficacia probatoria: siamo anche qui di fronte ad una scrittura privata
proveniente da terzi, com’è di regola (48) il lodo rituale, o piuttosto
si deve ragionare in modo diverso?
Di sicuro, non siamo nemmeno qui di fronte ad un atto pubblico: direttamente o per analogia (fors’anche a fortiori, in verità), il
principio dell’art. 813, comma 2, c.p.c. non può non trovare applicazione pure in ordine all’attività degli arbitri liberi. Né le cose cambiano, come pure si è visto, nel caso di arbitrato irrituale amministrato da un ente autonomo di diritto pubblico o simile.
Una differenza degna di nota, nondimeno, sembra esserci, tra le
due forme di lodo arbitrale. Se è vero che gli arbitri irrituali, attraverso il lodo, stipulano o completano un contratto direttamente efficace tra le parti, è corretto concludere che essi, al di là di talune indubbie peculiarità del rapporto privatistico tra contendenti ed arbitri
liberi, operino in modo assimilabile a volontari rappresentanti, con
conseguente applicazione degli artt. 1387-1400 c.c., in quanto compatibili (49). Ora, nel campo della scrittura privata, criticando la pro-
Sul contratto di accertamento e sulla tutela, anche cautelare ed esecutiva, a mezzo di arbitri irrituali, in Corr. giur., 2006, 1616).
Infine, fermo restando che il lodo contrattuale, giusta l’art. 1372, comma 2, c.c., non
produce di regola effetti con riguardo ai terzi, deve osservarsi come, di per sé, non si applichino al lodo irrituale nemmeno i limiti soggettivi del giudicato ex art. 2909 c.c., sı̀ che non
è escluso che tale lodo possa esser finanche invocato come prova in un giudizio inter alios
(insistendo nell’esempio, sarebbe questo il caso in cui il successivo processo ordinario si
svolga in ipotesi sul diritto e).
(47) L’esistenza stessa del « lodo-(contr)atto », le circostanze di luogo e di tempo
della sua pronuncia, l’affermazione del compimento di un’attività prescritta dalle parti sotto
pena di nullità ecc.: v. ancora supra, n. 3.
(48) I.e., quando gli arbitri non siano parti del successivo giudizio dinanzi al giudice
ordinario: v. supra, n. 3, testo e nota 26. Le conclusioni che seguono, nel testo, valgono invece identicamente, sia che vi sia coincidenza tra parti dell’arbitrato e parti del giudizio ordinario, sia che parti di quest’ultimo siano uno o più degli arbitri liberi.
(49) Già prima dell’introduzione dell’art. 808-ter c.p.c., in favore di una qualifica-
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nuncia delle sezioni unite della Corte di cassazione da cui questo
studio ha preso le mosse, ho già avuto occasione di osservare (50)
come appaia complessivamente assai ragionevole equiparare la parte
ed il suo rappresentante volontario agli effetti degli artt. 2702 c.c. e
214-215 c.p.c. Ritengo perciò che il lodo contrattuale, utilizzato
come prova in un successivo giudizio ordinario tra le medesime parti
dell’arbitrato, abbia la medesima efficacia di una scrittura privata del
rappresentante della parte: se riconosciuto, non tempestivamente disconosciuto o autenticato (51), esso farà, cioè, regolarmente prova
della provenienza del lodo dagli arbitri, e dunque della sua diretta
« imputabilità » alle parti (52); se tempestivamente disconosciuto (53),
potrà formare oggetto di un vero e proprio giudizio di verificazione,
ad istanza della parte controinteressata; e se, pur recando firme genuine, sia invece stato contraffatto o alterato, potrà formare oggetto
di un vero e proprio incidente di falso, a seguito di querela di parte
ex artt. 221-227 c.p.c. (54).
zione degli arbitri come rappresentanti delle parti, cfr., in dottrina, BOVE, Note in tema di arbitrato libero, in Riv. dir. proc., 1999, 722 s.; in giurisprudenza, Trib. Milano, 7 novembre
1988, in Giur. comm., 1991, II, 825 ss., con nota di TURANO; Trib. Roma, 13 aprile 1988, in
Riv. giur. circ., 1988, 808 ss.; Coll. arb., 6 maggio 1987, in Arch. giur. op. pubbl., 1988, 643
ss.; discorre di mandato senza rappresentanza, invece, Cass., 24 agosto 1993, n. 8910, che,
tuttavia, onde spiegare perché il lodo abbia direttamente efficacia tra i compromittenti, sostiene che, per mezzo di esso, gli arbitri « danno contenuto alla volontà negoziale delle
parti » manifestata nella convenzione d’arbitrato.
(50) V. supra, n. 1, in fine.
(51) Dopo le modifiche introdotte nel 2005 all’art. 474, comma 2, n. 2, c.p.c., l’autenticazione del lodo irrituale può servire a conferire ad esso efficacia di titolo esecutivo.
(52) Ciò è soprattutto importante perché, ove il lodo contenga l’attestazione di un
certo fatto sfavorevole ad una delle parti, rilevante nel giudizio ordinario, tale fatto dovrà esser ritenuto confessato a mente dell’art. 2731, ultima parte, c.c.
Ovviamente, l’imputabilità alle parti è per cosı̀ dire « ancor più diretta », ove l’arbitrato irrituale sia deciso, come qualche volta accade, con lodo redatto dagli arbitri su fogli
previamente sottoscritti in bianco dalle parti, che a ciò li abbiano concordemente autorizzati
(c.d. biancosegno: in tema, v. ad esempio GALLETTO, Il biancosegno, in L’arbitrato. Profili
sostanziali, a cura di Alpa, I, Torino, 1999, 219 ss.).
(53) Al disconoscimento equivale la dichiarazione di non conoscere la sottoscrizione
degli arbitri-rappresentanti: v. supra, nota 10.
(54) Al di là di alterazioni e contraffazioni, lo spazio per la querela avverso altre falsità, e specialmente avverso le falsità c.d. ideologiche, sembra molto ristretto, se non del tutto
precluso (del resto, in linea più generale, la miglior dottrina ritiene con buon fondamento che
nessuna falsità ideologica della scrittura privata « riempita » da altri sia denunciabile attraverso la querela di falso: cfr., da ultimo e per tutti, COMOGLIO, Le prove civili, cit., 463 s.). In
particolare, non si può certamente proporre querela di falso per dolersi dell’errata ricostruzione, da parte degli arbitri liberi, dei fatti rilevanti ai fini della decisione (arg. ex art. 808ter c.p.c.). Cosı̀, per intendersi, s’ipotizzi che A agisca in arbitrato libero a tutela di un pro-
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6. Le considerazioni svolte a proposito dei lodi arbitrali liberi
valgono essenzialmente anche per gli altri atti del procedimento arbitrale irrituale compiuti dagli arbitri e documentati per iscritto con
apposizione di firma di questi ultimi: processi verbali d’udienza e
provvedimenti ordinatori o interinali, in particolare (55). Si tratta pure
qui di atti che gli arbitri compiono nell’adempimento delle loro obbligazioni nei confronti delle parti che rappresentano, e dunque di
atti che essi compiono quali rappresentanti delle parti stesse: dal
punto di vista probatorio, ci si trova ancora, perciò, di fronte a scritture private direttamente « imputabili » ai contendenti, con conseguente piena applicazione degli istituti del disconoscimento, della
verificazione e della querela di falso, ove i fatti in tal modo documentati siano rilevanti in un successivo processo a cognizione piena (56).
Nondimeno, le parti del processo verbale d’udienza dinanzi agli
arbitri liberi, nelle quali si riferisca di dichiarazioni rese da terzi informati dei fatti, o da un esperto tecnico sentito oralmente, o fors’anche dagli stessi contendenti, non possono comunque valere, nel successivo processo a cognizione piena, più che come argomenti di proprio credito, che B, convenuto, eccepisca il pagamento, e che l’arbitro dia ragione a B, accertando in tal modo pagamento ed estinzione del credito: si avrà un lodo contrattuale che,
attestando l’avvenuto pagamento, equivarrà, sotto il profilo probatorio, ad una quietanza di A
a B. S’ipotizzi, ancora, che A, ritenendo che l’arbitro abbia errato nel giudicare il pagamento
avvenuto, anziché agire ex art. 808-ter c.p.c., agisca dinanzi al giudice ordinario facendo
nuovamente valere il proprio diritto di credito, e che B eccepisca nuovamente il pagamento,
invocando a questo punto (anche) il lodo a dimostrazione di tale fatto estintivo: in questo
caso, A non potrebbe naturalmente proporre querela di falso, dolendosi che l’arbitro, male
adoperando i suoi poteri di rappresentante, abbia affermato un fatto non vero, appunto ostandovi le norme sull’impugnazione del lodo-contratto, che esauriscono le possibilità di dolersi
contro il merito della pronuncia arbitrale.
Quanto agli altri fatti attestati dagli arbitri, i.e. ai fatti affermati nel lodo, ma irrilevanti ai fini del giudizio di merito (ad esempio, l’attestazione delle circostanze di luogo e di
tempo della deliberazione; l’affermazione dell’avvenuto compimento di un’attività formale
prescritta dalle parti come condizione di validità; ecc.), è assai improbabile che codeste attestazioni possano esser a priori qualificate come dichiarazioni sfavorevoli ad una o all’altra
parte. Da ciò deriva che, almeno di regola, il lodo irrituale — che, come scrittura privata, fa
prova solo della provenienza dello scritto — non avrà efficacia di prova legale di tali fatti, e
non sarà pertanto necessario proporre querela, per chi intenda dimostrare che gli arbitri li abbiano falsamente attestati, « abusando » dei loro poteri. Il giudice ordinario chiamato a conoscere della questione, potrà peraltro ritenerne la verità ex art. 2727-2729 c.c., ragionando
come supra, nota 30, sempre che le circostanze concrete non impediscano siffatta presunzione, e naturalmente che non consti una prova contraria.
(55) V. supra, n. 4.
(56) In particolare, sui limiti della querela di falso, valgono le considerazioni svolte
supra, nota 54 (spec. nell’ultima parte).
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va (57): mi pare infatti che, nonostante il valore di scrittura privata
del verbale che contenga simili dichiarazioni, l’apprezzamento dell’intrinseca verità di queste ultime non possa che avvenire a norma
dell’art. 116, comma 2, c.p.c., perché ciò impone analogicamente
(fors’anche a fortiori, in verità) l’art. 310, comma 2, c.p.c. (58).
Starting from the analysis of a recent judgment of the United Sections of the
Italian Supreme Court on the evidentiary value of private documents coming from
a third or a party’s representative in civil proceedings, the Author examines the topic of the use of awards and other acts made during arbitrations as means of evidence in non-summary civil proceedings.
In particular, the Author distinguishes between the award in ordinary arbitration and in the Italian contractual (“irrituale”) arbitration, as well as between
the acts rendered within the relevant proceedings.
With reference to the ordinary arbitral award, the Author identifies just one
case of possible use of it as a means of evidence, with reference to the historical
facts described therein different from those ascertained for the purposes of the decision. He deems that, in such case, the award would be a document to be freely
assessed and contested without regard to any strict rules of evidence and that, with
minor exceptions, no differences should exist whether the award was granted with
the exequatur. Similar conclusions are reached with regard to acts of ordinary arbitration proceedings, such as the verbatim transcripts. However, the Author distinguishes the case in which the transcripts have been signed by the parties, and
analyses the question of the value to be given to the declaration rendered by either
fact or expert witnesses during the arbitration.
Regarding the proceedings for “contractual” arbitration, the Author deems
that, in principle, both the award and the acts issued during the relevant proceedings should have the same value as that of a private writing made by a party’s
representative.
(57) Sull’istruttoria nell’arbitrato irrituale, v. per prime indicazioni supra, nota 11.
(58) V. supra, n. 4, spec. nota 41.
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GIURISPRUDENZA ORDINARIA
I)
ITALIANA
Sentenze annotate
CORTE DI CASSAZIONE, Sez. I civ., sentenza 30 settembre 2010, n. 20504;
PROTO Pres.; DI PALMA Est. — Fallimento Alimer S.r.l. c. Ministero dell’Industria.
Compromesso e clausola compromissoria - Forma - Volontà negoziale - Manifestazione - Dichiarazioni delle parti contenute in un unico documento Necessità - Esclusione - Idoneità copia documento.
Il requisito della forma scritta ad substantiam richiesto dall’art. 807 c.p.c. è
soddisfatto anche quando la volontà negoziale di compromettere la causa sia contenuta in atti separati e in documenti prodotti in copia da ciascuna delle parti e
non disconosciuti.
CENNI DI FATTO. — Sorge controversia tra il Ministero dell’Industria e la curatela di una società aggiudicataria di un appalto pubblico; in sede di impugnazione
del lodo la corte di appello dichiara ex offıcio la inesistenza della potestas iudicandi
degli arbitri riscontrando un vizio di forma della clausola compromissoria. La Suprema Corte cassa la decisione rinvenendo agli atti una copia del disciplinare del
contratto de quo contenente la clausola compromissoria, rilevando la piena efficacia della copia medesima rispetto all’originale ed escludendo, tra l’altro, che la fattispecie sia soggetta al regime delle clausole vessatorie.
MOTIVI DELLA DECISIONE. — Considerato che il Fallimento ricorrente premette ai
motivi del ricorso (cfr. pagg. 22-24 del Ricorso) che: a) a seguito dell’ordinanza,
con la quale la Corte d’appello aveva invitato le parti a depositare l’originale o copia conforme del disciplinare stipulato tra l’amministrazione e la Società Alimer,
« il MICA, con nota prot. n. 1009223/01, ha rimesso pure copia conforme del decreto e del relativo disciplinare (si tratta del documento depositato all’udienza del
21 marzo 2003 e fascicolato al n. 12 della produzione in Corte di Appello) »; b)
detta produzione è composta dal decreto di ammissione al contributo, sottoscritto
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dal Ministro pro tempore, che richiama l’allegato disciplinare, da tale disciplinare
(che indica anche l’ammontare del contributo), sottoscritto in calce dal Ministro e,
nell’ultima pagina degli allegati, dal legale rappresentante della S.r.l. Alimer con
sottoscrizione autenticata;
che, con il primo motivo (con cui deduce: « Violazione e/o falsa applicazione
di norma di legge — artt. 99 e 112 c.p.c. —. Ultrapetizione e/o extrapetizione.
Nullità della sentenza. Fattispecie di cui ai nn. 3 e 4 dell’art. 360 c.p.c. »), il Fallimento ricorrente critica la sentenza impugnata, sostenendo che l’attrazione del giudizio arbitrale nell’area dell’autonomia privata delle parti preclude al giudice dell’impugnazione del lodo l’esame d’ufficio circa la validità della clausola compromissoria, in mancanza — come nella specie, segnatamente da parte del Ministro —
della relativa deduzione nel corso del giudizio arbitrale o, almeno, della formulazione di corrispondente specifico motivo di impugnazione del lodo;
che, con il secondo (con cui deduce: « Ancora violazione e/o falsa applicazione di norma di legge — artt. 99 e 112 c.p.c. —. Ultrapetizione e/o extrapetizione. Nullità della sentenza. Fattispecie di cui ai nn. 3 e 4 dell’art. 360 c.p.c. ») e
con il terzo motivo (con cui deduce: « Violazione di legge e falsa applicazione —
art. 829 c.p.c. in relazione agli artt. 807 e 808 c.p.c. Ultrapetizione e/o extrapetizione — artt. 99 e 112 c.p.c. —. Nullità della sentenza. Fattispecie di cui ai nn. 3
e 4 dell’art. 360 c.p.c. ») — i quali possono essere esaminati congiuntamente, avuto
riguardo alla loro stretta connessione —, il ricorrente critica la sentenza impugnata,
sostenendo che i Giudici dell’impugnazione del lodo hanno erroneamente rilevato
— d’ufficio — la carenza di potestas iudicandi degli arbitri, derivandola dal precedente rilievo d’ufficio della nullità della clausola compromissoria, senza che, nella
specie, il Ministro avesse eccepito alcunché al riguardo, ovvero avesse dedotto tale
carenza di potere con uno specifico motivo di impugnazione del lodo;
che, con il quarto (con cui deduce: « Violazione di legge e falsa applicazione
— art. 1341 c.c. in relazione all’art. 829 n. 1 c.p.c. —. Ultrapetizione e/o extrapetizione — artt. 99 e 112 c.p.c. —. Nullità della sentenza. Fattispecie di cui ai nn. 3
e 4 dell’art. 360 c.p.c. »), con il quarto bis (con cui deduce: « Violazione di legge
e falsa applicazione — art. 1341 c.c. in relazione all’art. 829 n. 1 c.p.c. —. Ultrapetizione e/o extrapetizione — artt. 99 e 112 c.p.c. —. Nullità della sentenza. Fattispecie di cui ai nn. 3 e 4 dell’art. 360 c.p.c. ») il quinto (con cui deduce: « Violazione di legge e falsa applicazione — art. 1341 c.c. —. Art. 360 n. 3 c.p.c.
Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo — Art.
360 n. 5 c.p.c. ») e con il sesto motivo (con cui deduce: « Violazione di legge e
falsa applicazione — art. 1341 c.c. —. Ultrapetizione e/o extrapetizione — artt. 99
e 112 c.p.c. —. Art. 360 nn. 3 e 4 c.p.c. ») — i quali possono essere del pari esaminati congiuntamente, avuto riguardo alla loro stretta connessione —, il ricorrente
critica la sentenza impugnata, anche sotto il profilo della sua motivazione, sostenendo che i Giudici dell’impugnazione del lodo hanno erroneamente dichiarato
d’ufficio l’inefficacia della clausola compromissoria, ai sensi dell’art. 1341 c.c.,
senza che la natura « vessatoria » della clausola e la sua mancata approvazione per
iscritto fossero mai state eccepite dal Ministro o avessero formato oggetto di specifico motivo d’impugnazione del lodo;
che, con i motivi dal settimo al decimo (con cui deduce: « Violazione di legge
e falsa applicazione — art. 1350 c.c. ed art. 16 R.D. n. 2440/1923 —. Artt. 807 e
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808 c.p.c. — Artt. 214, 215 e 221 c.p.c. — Artt. 2115, 2116, e 2719 c.c. —. Fattispecie di cui all’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c. — Violazione in materia di prove — artt.
2119 e 2729 c.c. — Ultrapetizione e/o extrapetizione — artt. 99 e 112 c.p.c. —
Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della
causa ») — i quali possono essere del pari esaminati congiuntamente, avuto riguardo alla loro stretta connessione —, il ricorrente critica la sentenza impugnata,
anche sotto il profilo della sua motivazione, sostenendo che i Giudici dell’impugnazione del lodo, nel dichiarare d’ufficio la nullità del disciplinare per difetto di forma
e/o di consenso: a) hanno omesso di considerare che tale nullità non è mai stata
eccepita dal Ministro né ha formato oggetto di specifico motivo di impugnazione
del lodo; b) hanno omesso di considerare che la affermata omessa produzione dell’originale del disciplinare o di una sua copia conforme contrasta con la avvenuta
produzione sia di una fotocopia sia di una copia conforme, da parte del Ministro,
e del decreto di ammissione al contributo e dell’allegato disciplinare, che tali atti
sono evidentemente atti scritti, e che anche le copie fotografiche di documenti —
ove, come nella specie, non disconosciute — hanno la stessa efficacia delle autentiche; c) hanno illegittimamente disconosciuto d’ufficio — la conformità delle copie prodotte agli originali; d) hanno omesso di considerare che la conformità all’originale della prodotta copia del disciplinare avrebbe potuto essere desunta, per
presunzioni, dagli altri elementi probatori costituiti dagli atti successivi alla concessione del contributo;
che, con l’undicesimo motivo (con cui deduce: « Violazione di legge e falsa
applicazione — artt. 1350, 1326, 1418 c.c. —. Omessa, contraddittoria e insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia. Fattispecie di cui ai nn.
3 e 5 dell’art. 360 c.p.c. »), il ricorrente critica la sentenza impugnata, anche sotto
il profilo della sua motivazione, sostenendo che, anche a voler ammettere che il disciplinare di ammissione al contributo non recasse la sottoscrizione delle parti, tale
sottoscrizione — la cui apposizione non deve essere necessariamente contestuale
alla redazione dell’atto — può essere sostituita dalla produzione in giudizio del relativo documento fatta, come nella specie, dalla parte che non l’ha sottoscritto;
che, con il dodicesimo motivo (con cui deduce: « Violazione e falsa applicazione di legge — artt. 807 e 808 c.p.c., in relazione agli artt. 828 e 829 c.p.c. ed
art. 1362 ss. c.c. —. Art. 360 n. 3 c.p.c.. Omessa, contraddittoria e insufficiente
motivazione su un punto decisivo della controversia — art. 360 n. 5 c.p.c. »), il ricorrente critica la sentenza impugnata, anche sotto il profilo della sua motivazione,
sostenendo che — siccome la clausola compromissoria, rappresentando un negozio
autonomo rispetto all’atto cui accede, può risultare da atti separati e distinti ma
collegati con detto atto —, nella specie, dagli atti di accesso all’arbitrato emerge in
modo chiaro la comune volontà delle parti di rimettere la controversia tra le stesse
insorta al giudizio degli arbitri;
che, con il tredicesimo motivo (con cui deduce: « Violazione di legge e falsa
applicazione — artt. 210 c.p.c. in relazione al’art. 116 c.p.c. Art. 2725 c.c. —. Violazione dei principi in tema di prove — art. 360 n. 3 c.p.c. Omessa e insufficiente
motivazione su un punto decisivo della controversia — art. 360 n. 5 c.p.c. »), il ricorrente critica la sentenza impugnata, sostenendo che — nel caso in cui, come
nella specie, la mancata produzione in giudizio di un documento non dipenda dalla
volontà della parte — è ammessa la prova per testimoni;
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che il ricorso merita accoglimento nei sensi di séguito indicati;
che le fattispecie — sostanziale e processuale — sottostanti al ricorso in
esame sono analoghe, nell’essenziale, a quelle sottostanti al ricorso per cassazione
deciso con la sentenza di questa Corte n. 16332 del 24 luglio 2007, emessa tra il
Fallimento della s.p.a. Lucania Cavi ed il Ministro delle attività produttive;
che, con tale sentenza, questa Corte ha affermato: a) che, sebbene « il difetto
di potestas iudicandi del collegio arbitrale può essere rilevato anche d’ufficio, indipendentemente dalla sua precedente deduzione nell’ambito del procedimento arbitrale, quando derivi dalla nullità del compromesso o della clausola compromissoria
(cfr., tra le altre, Cass. 23 marzo 2006, n. 6425; 3 giugno 2004, n. 10561) », tuttavia « costituisce principio fermo nella giurisprudenza di questa Corte che il requisito della forma scritta ad substantiam, richiesto dall’art. 807 c.p.c., è soddisfatto
ogniqualvolta la volontà negoziale di compromettere la causa sia contenuta in un
atto scritto (cfr., tra le altre, Cass. 19 marzo 2004, n. 5540), e non postula indefettibilmente che la volontà contrattuale sia espressa in un unico documento, avuto riguardo all’autonomia di detta clausola rispetto al contratto cui essa accede (cfr., tra
le altre, Cass. 19 dicembre 2000, n,15941; 22 febbraio 2000, n. 198 9) »; b) che,
siccome « nel caso di specie entrambe le parti hanno prodotto in causa, per ben due
volte, la fotocopia del disciplinare contenente la clausola compromissoria, e poiché
in base all’art. 2719 c.c. le fotocopie, non essendo state disconosciute (ma, anzi,
essendo state prodotte in un testo avente identico contenuto da entrambe le parti)
hanno la stessa efficacia dell’originale (cfr., tra le tante, Cass. 8 maggio 2006, n.
10501; 11 gennaio 2006, n. 212), nessun dubbio può sussistere in ordine alla sussistenza della prova scritta della clausola compromissoria »; c) che « il disciplinare
non poteva ovviamente contenere la firma del Curatore fallimentare, trattandosi di
contratto stipulato prima della dichiarazione di fallimento della Lucania Cavi e per
l’appunto recante la sottoscrizione del rappresentante legale di quest’ultima, munita
di autentica notarile, oltre a quella del Ministro dell’epoca, mentre la certificazione
della conformità delle fotocopie agli originale era attestata, secondo le disposizioni
della Legge 4 gennaio 1968, n. 15, recepite dal T.U. delle disposizioni legislative
e regolamentari in materia di documentazione amministrativa di cui al D.P.R. 28
dicembre 2000, n. 445, dal funzionario dell’ufficio (nella specie, il Ministero dell’Industria, Commercio e Artigianato) presso il quale l’originale è depositato. Né ai
fini della validità della clausola era necessaria l’apposizione della firma o della sigla su ciascun foglio del documento contrattuale, un simile adempimento non essendo richiesto da alcuna norma di legge »; d) che « Sotto altro profilo, nel ritenere
applicabile alla fattispecie il disposto dell’art. 1341 c.c., la Corte d’appello ha implicitamente svolto un’indagine di merito (in ordine alle modalità con le quali è
stato stipulato il contratto, alla predisposizione unilaterale delle singole clausole,
alla mancata negoziazione di queste) che le era precluse non solo perché mai
richiesto, in sede arbitrale, ma anche perché incompatibile con i limiti che caratterizzano il giudizio di impugnativa del lodo arbitrale, nel cui ambito occorre tenere
ben distinta la fase rescindente, limitata alla verifica della sussistenza delle nullità
del lodo dedotte dall’impugnante, e la successiva eventuale fase rescissoria, estesa
al riesame del merito della controversia entro i confini tracciati dalla pronuncia rescindente e dalle domande della parti. Peraltro la corte d’appello non ha minimamente chiarito nella sentenza impugnata le ragioni per le quali è stata da essa rite72
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nuta applicabile al contratto in parola la disciplina prevista con riguardo ai contratti
per adesione »;
che, comparando le fattispecie sottostanti a tale sentenza con quelle sottostanti
al ricorso in esame (cfr., supra, le circostanze processuali dedotte dal ricorrente
circa la produzione nel giudizio di impugnazione del lodo sia del decreto ministeriale di ammissione al contributo, sia dell’allegato disciplinare contenente la clausola compromissoria — non contestate dalla controparte —, premesse alle censure),
emerge, dunque, l’affermata analogia delle stesse nell’essenziale;
che, pertanto, il Collegio ritiene che i condivisi principi di diritto enunciati
con la predetta sentenza n. 16332/2007 devono applicarsi anche nella specie, tanto
più che essi rispondono alle erronee rationes decidendi poste a fondamento della
sentenza impugnata;
che i medesimi principi rispondono altresı̀, nell’essenziale, alle critiche formulate dal fallimento ricorrente;
che, conseguentemente, la sentenza impugnata deve essere annullata e la relativa causa deve essere rinviata alla Corte d’Appello di Roma, in diversa composizione, la quale, oltre ad uniformarsi ai qui ribaditi principi di diritto, provvederà
anche a regolare le spese del presente grado del giudizio.
Brevi note sulla forma della convenzione arbitrale.
La questione sottoposta al vaglio della Corte di legittimità consente di
svolgere qualche considerazione sulla forma richiesta dal codice di rito per
ritenere valida la convenzione di arbitrato e, di conseguenza, legittimamente attribuita agli arbitri la facoltà di decidere la controversia.
Appare però opportuno, non limitandosi ad una analisi meramente
statica della disciplina, esaminare anche il più ampio aspetto della formazione del consenso delle parti, pur manifestato attraverso comportamento
concludente, e prescindendo, in prima battuta, dall’esame del regime dell’eccezione di compromesso risultante dal novellato art. 817 c.p.c. non applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame.
1. È noto che l’art. 807 c.p.c. prevede che « il compromesso deve, a
pena di nullità, essere fatto valere per iscritto » e lo stesso requisito vale per
la clausola compromissoria in forza del successivo art. 808 c.p.c. (1).
(1) LUISO, Diritto processuale civile, IV, Milano, 2009, 362; CECCHELLA, Il contratto
di arbitrato, in L’arbitrato, Torino, 2005, 51; contra PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, I, Padova, 2000, 190 secondo il quale “l’atto scritto può rappresentare la mera documentazione di una stipulazione già intervenuta, cioè un atto ricognitivo di una volontà già
manifestata da cui tale volontà risulti”; RUFFINI, Patto compromissorio, in questa Rivista,
2005, 717 ove ritiene di attribuire il requisito di forma scritta ad probationem alla clausola
compromissoria.
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Nulla quaestio quindi se la convenzione arbitrale viene stipulata mediante scrittura privata allegata in giudizio.
Nella dinamica dei rapporti tra soggetti è facile però che la formazione dell’accordo avvenga attraverso manifestazioni di volontà espresse
per iscritto, ma in forme diverse.
Occorre allora verificare quando possa considerarsi soddisfatto il requisito imposto dall’art. 807 c.p.c.
2. La problematica si è manifestata già sotto la meno recente formulazione del codice di rito, allora fermo nella mera previsione della forma
scritta ad substantiam (2).
Ciò poneva, infatti, l’ordinamento interno in conflitto sia con la convenzione di New York la quale (art. 2, comma 2) intende per accordo
scritto “una clausola... sottoscritta dalle parti o contenuta in uno scambio di
lettere o telegrammi” sia con la Convenzione di Ginevra (3).
Le disposizioni internazionali manifestano cioè l’intenzione di proteggere l’esigenza di conservazione del documento rappresentativo della volontà negoziale senza alcun riferimento però né alla sottoscrizione né all’unitarietà e contestualità dell’atto.
Si creava perciò qualche imbarazzo interpretativo e gli operatori erano
costretti a domandarsi se fosse ammissibile un accordo formato con la sottoscrizione di atti separati ovvero con documenti scambiati tra le parti attraverso mezzi meccanici e privi pertanto di sottoscrizione autografa.
È certa, sotto il primo profilo, la ammissibilità di una convenzione di
arbitrato formata mediante lo scambio di atti autografi secondo le ordinarie
regole dettate dall’art. 1326 c.c. per la formazione del contratto.
La dottrina civilistica, infatti, ammette la stipulazione dei negozi a
forma vincolata tramite la sottoscrizione di atti diversi ma identici ed è
consentito ex art. 782 (4) c.c. persino formare in tal modo l’atto pubblico di
donazione.
A fronte di una stretta interpretazione letterale della disposizione, la
risposta negativa prevaleva invece, sotto il secondo profilo, per gli atti riprodotti meccanicamente ed in specie per i telegrammi privi di autografia.
(2) Per l’arbitrato irrituale si riteneva invece che la forma fosse prevista ad probationem salvo il caso che accedesse ad un contratto con forma scritta ad substantiam Cass. 25
agosto 1998, n. 8417, in questa Rivista, 1999, 621, con nota di CHIZZINI, Arbitrato irrituale
e forma del compromesso; BIN, Il compromesso e la clausola compromissoria in arbitrato irrituale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1991, 384.
(3) Il cui art. 1 definisce altresı̀ convenzione d’arbitrato gli accordi “firmati dalle
Parti oppure contenuti in uno scambio di note, telegrammi o comunicazioni tramite telescriventi e, nei rapporti tra paesi le cui leggi non impongono la forma scritta alla Convenzione
di arbitrato, ogni convenzione conclusa nelle forme ammesse da dette leggi”.
(4) FESTI, La clausola compromissoria, Milano, 2001, 217.
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La disposizione rafforzava, infatti, la tesi di chi poneva l’accento sulla
necessità di garantire con la firma dell’atto la ponderazione (5) della decisione e la certezza della provenienza delle dichiarazioni rese.
La discussione sul punto ha comunque indotto il legislatore a modificare una prima volta la legge per adeguarla ai trattati internazionali aggiungendo all’art. 807 comma 2 che la forma si intende rispettata anche quando
la volontà delle parti è espressa per telegrafo e telescrivente.
Il dettato normativo, dunque, equipara le modalità di stipulazione
della convenzione ma lascia aperto il dibattito sul significato della locuzione utilizzata che anche le successive riforme non hanno innovato.
Per alcuni (6), infatti, intendere rispettata la forma significa allargare
il campo di applicazione della disposizione ad ulteriori e specifici mezzi di
comunicazione attraverso una previsione speciale derogativa della regola
generale in modo da ampliare la nozione di forma scritta; per altri (7), al
contrario, si è esplicitato ciò che già era ricavabile dalla legge in via di interpretazione estensiva.
Altra tesi (8) ancora sostiene, viceversa, che l’allargamento delle ipotesi di documentazione scritta vale a dimostrare l’accordo ai fini della disposizione in commento ma non anche a concedere alla stessa il valore di
forma scritta ad substantiam.
Appare pacifico in ogni caso, da un lato, l’ampliamento delle modalità di formazione della convenzione ma anche, dall’altro, il venir meno
dell’esigenza della sottoscrizione superandosi in tal modo il riferimento alla
firma autografa come elemento necessario (9).
3. Restava inoltre in ombra la idoneità del fax e degli altri mezzi di
comunicazione inter absentes a soddisfare i requisiti di validità dell’art.
807 c.p.c. in mancanza di espressa previsione.
Le obiezioni alla inclusione del fax tra i documenti idonei a ritenere
formata la convenzione di arbitrato non apparivano in realtà decisive già
prime della novella, ma la loro analisi è utile poiché la problematica è comune a quella che investe, al medesimo fine, la copia di un documento.
(5) MONTESANO, Aspetti problematici di forma e di prova nel compromesso per arbitri e di controllo giudiziario sull’equità arbitrale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1989, 899.
(6) SALVANESCHI, in TARZIA - LUZZATTO - RICCI, L. 25 gennaio 1994, n. 25, Padova,
1995, 22.
(7) IRTI, Compromesso e clausola compromissoria nella nuova legge sull’arbitrato,
in questa Rivista, 1994, 651.
(8) BOVE, Il patto compromissorio rituale, in Riv. dir. civ., 2002, 425.
(9) PATTI, I presupposti dell’arbitrato internazionale e la forma della convenzione
arbitrale, in Nuova giur. civ., 1999, II, 230; Cass. 24 maggio 2001, n. 7094; TIZI, La forma
dell’accordo arbitrale rituale, in Riv. dir. proc., 2004, 632.
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La migliore dottrina (10) metteva in luce, infatti, come la riproduzione
per impulsi telefonici altro non è che la copia fotografica di una scrittura
privata e pertanto debba soggiacere al regime previsto dall’art. 2719 c.c.,
ergo la copia è considerata equipollente all’originale a meno che non ne
venga contestata l’autenticità (11).
È bene chiarire, dunque, che originale è il documento formato direttamente dalle parti, copia è la sua riproduzione in un documento identico (12).
Le copie sono pertanto equivalenti agli originali purché vi sia una attestazione di conformità dei soggetti a ciò deputati ovvero non vi sia contestazione delle parti (13) e dovendo semmai porre l’attenzione sulla distinzione che corre tra la contestazione di conformità e la contestazione di
scrittura, l’una riferita alla genuinità del documento, l’altra alla autenticità
della sottoscrizione.
La legge presuppone quindi la fedeltà della rappresentazione meccanica rispetto all’originale (14) ma nulla rileva, né potrebbe, in merito al
contenuto del documento inviato con il mezzo di cui si discute.
Niente impedisce cioè che la copia contenga in sé anche la sottoscrizione della dichiarazione, pur se riprodotta (15), lasciando in ogni caso alla
parte la facoltà di eccepire la difformità dall’originale.
Non sembra ipotizzabile peraltro che la forma attraverso cui si manifesta il telefax sia diversa da quella scritta, cosı̀ come ogni copia di una
scrittura privata.
Alcuni (16), tuttavia, escludevano di poter interpretare estensivamente
l’art. 807 c.p.c. osservando, oltre al mero dato testuale, che l’art. 2719 c.c.,
(10) G.F. RICCI, Aspetti processuali della documentazione informatica, in Riv. trim.
dir. proc. civ., 1994, 871; PATTI, op. cit., 233; SALVANESCHI, op. cit., 18; ZUCCONI GALLI FONSECA, in CARPI, op. cit., 126.
(11) Cass. 14 giugno 2007, n. 13916, in Giust. civ., 2008, I, 1767 precisa che fra le
riproduzioni meccaniche indicate, con elencazione non tassativa dall’art. 2712 c.c. rientra
anche la riproduzione di un atto mediante telefax. Nota che l’art. 2712 è stato modificato dal
D.Lgs. 7 marzo 2005, art. 23 per inserire tra le riproduzioni meccaniche anche quelle “informatiche”.
(12) COMOGLIO, Le prove civili, Torino, 2010, 483 ss.
(13) Cass. 8 maggio 2006, n. 10501; Cass. 5 maggio 2010, n. 10855; Cass. 9 novembre 1996, n. 9801, in Giust. civ., 1997, I, 1647; Cass. 22 maggio 1997, n. 4598, in Giust. civ.,
1997, I, 1777.
(14) Si noti semmai la peculiarità della fotocopia dell’assegno bancario che è idonea
a provare l’esistenza di una promessa di pagamento ex 1988 c.c. ma non anche ad esercitare
l’azione cartolare.
(15) PATTI, voce Documento, in Enc. giur., Torino, 12 scrive: “La crisi della sottoscrizione, espressione che bene descrive il fenomeno dei cosiddetti documenti informatici, nell’ipotesi del telefax assume un significato diverso poiché la sottoscrizione può ben essere
stata apposta nel documento originale — attribuendogli la paternità — ma essa viene trasmessa al destinatario riprodotta in un documento che può considerarsi copia dell’originale”.
(16) RICCI, Aspetti processuali della documentazione informatica, Riv. trim. dir. proc.
civ., 1994, 866.
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da una parte, è norma relativa alle prove e quindi non sarebbe idonea ad
ampliare il novero dei documenti suscettibili di soddisfare il requisito di
forma.
Rilevavano, da altra parte, che il fax altro non è che la copia di altra
copia e notavano, infine, che in ogni caso lo strumento lascia il dubbio circa
la paternità dell’invio (17).
È facile, tuttavia, obiettare sotto il primo profilo che il medesimo argomento dovrebbe essere applicato anche all’art. 2714 c.c. relativo alle copie degli atti pubblici, con il paradossale risultato di escludere anche questi dagli atti scritti ad substantiam. Bisogna evitare invece di confondere il
piano della forma con quello della prova e ritenere per quanto detto che la
copia è idonea a soddisfare il requisito di forma della convenzione.
Non appare in alcun modo decisivo nemmeno il secondo rilievo, poiché ciò vale per ogni tipo di documento riproduttivo di un altro, ed il fax
può essere la riproduzione dell’originale.
E non ha pregio, infine, neanche la terza critica perché tutti i documenti inviati da una parte all’altra a mezzo di un intermediario nulla garantiscono sotto questo aspetto.
Ogni dubbio peraltro è stato superato dalla successiva modifica della
disposizione in commento che contempla espressamente anche il fax e, a
seguito dell’ultima novella, gli altri mezzi di comunicazione informatrici.
Rispetto a questi ultimi, sia consentito mettere in luce, in particolare,
per assicurare la certezza legale della comunicazione, il rinvio alla normativa, anche regolamentare, in materia di trasmissione e ricezione di documenti mediante mezzi elettronici (18).
4. Profilo diverso è quello che investe invece la valutazione del documento prodotto ovvero della idoneità del disciplinare a fungere da clausola compromissoria rispetto al contratto principale.
La questione coinvolge anzitutto la legittimità di un accordo tra le
parti che richiami un diverso contratto dal quale dedurre l’oggetto della
clausola compromissoria.
Sul piano sostanziale qualche voce (19) nega tale facoltà nei negozi a
forma vincolata, la dottrina maggioritaria (20) invece ammette questo modo
(17) MAJORANO, in Nuove leggi civ. comm., 2005, 345.
(18) Si fa riferimento in particolare al D.Lgs. n. 82/2005, modificato con d.lgs del
2006, cd codice dell’amministrazione digitale, nonché il D.P.R. 11 febbraio 2005, n. 68, relativo all’utilizzo della posta elettronica certificata.
(19) BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, in Trattato di Diritto Civile Italiano, diretto da Vassalli, XV, II, Torino, 1995, 286; SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali di
diritto civile, Napoli, 1983, 208.
(20) CIAN, Forma solenne e interpretazione del negozio, Padova, 1969, 16; FERRI, In
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di formazione dell’accordo discutendosi semmai se il rinvio deve precisare
il contenuto dell’accordo o può limitarsi ad indicare l’atto.
Per quanto attiene la convenzione di arbitrato, dottrina (21) e giurisprudenza (22) ammettono la stipula per relationem ad un altro documento
scritto, purché vi sia la manifestazione di volontà di compromettere (23) e
si manifesti una relactio cd perfecta (24) che consente di ricondurre l’accordo al contratto principale anche, e soprattutto, al fine di individuare
l’oggetto dell’arbitrato.
Precisato sotto l’aspetto statico quali sono i documenti scritti validi ai
fini dell’art. 807 c.p.c., ai nostri limitati fini ne deriva che la stessa lettera
della disposizione consente di ritenere la copia non disconosciuta del disciplinare come documento idoneo a soddisfare i requisiti di forma richiesti
dal codice di rito e sul punto la decisione in commento appare perciò pienamente condivisibile.
5. Da quanto messo in luce, resta tuttavia in ombra ogni valutazione
sulla formazione della volontà compromissoria ricavabile dal contegno
delle parti a fronte di un giudice che ex se ha deciso di dichiarare la propria carenza di potestas iudicandi.
Occorre mettere in luce, infatti, che la ratio che ha indotto il legislatore a prevedere la forma scritta ad substantiam per la convenzione di arbitrato è da rinvenire non soltanto nella necessità di garantire la consapevolezza della scelta (25), né tanto meno in un inutile formalismo, ma anche
nell’esigenza di facilitare l’analisi preliminare sulla sussistenza della volontà di rinunciare alla giurisdizione statuale (26) ed i limiti oggettivi entro
i quali deve essere pronunciato il lodo.
tema di formazione progressiva del contratto e di negozio formale per relationem, in Riv. dir.
comm., 1964, II, 211.
(21) FAZZALARI, L’arbitrato, Torino, 1997, 39; SIRACUSANO, Forma scritta dell’accordo compromissorio, arbitrato di categoria ed usi commerciali, in questa Rivista, 1994, 97.
(22) Cass. 19 maggio 2009, n. 11529, in Giust. civ., 2009, 790; Cass. 16 febbraio
1993, n. 1930; Cass. 13 maggio 1989, n. 2198, in Giust. civ., 1989, I, 2395.
(23) Corte Appello Genova, 19 giugno 2009, in Foro Padano, 2008, 567; Diversamente FESTI, op. cit., 225 si mostra favorevole ad un orientamento liberale in ordine alla relatio.
(24) Cass. 11 dicembre 2002, n. 17646; Cass. 25 gennaio 1997, n. 781, in Giur. it.,
1998, 250 ss.; Cass. 24 settembre 1996, n. 8407; Cass. 13 maggio 1989, n. 2198, in Foro it.,
1989, I, 2791; esprimono dubbi sulla convenzione di arbitrato per relationem cd imperfectam;
MIRABELLI, Clausole compromissorie per relationem e arbitrato commerciale internazionale,
in Rass. arb., 1977, 57; BONELLI, La forma della clausola compromissoria per arbitrato
estero, in Rass. arb., 1985, 146.
(25) MONTESANO, Aspetti problematici di forma e di prova nel compromesso per arbitri e di controllo giudiziario sull’equità arbitrale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1989, 899.
(26) MIRABELLI, La forma del patto di arbitrato, in La forma degli atti nel diritto privato, in Studi in onore di Giorgianni, Napoli, 1988, 520 che elenca tra le motivazioni anche
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Si pretende cioè che la questione possa essere valutata e decisa dal
giudicante sulla base della documentazione in atti senza doversi spendere
in una istruttoria volta alla verifica preliminare della propria “competenza” (27).
Bisogna evidenziare, inoltre, che ex legis la convenzione deve essere
indicata nel lodo e deve materialmente essere depositata presso il tribunale
competente ai fini della concessione dell’exequatur e, quindi, necessita di
un documento in base al quale effettuare la relativa valutazione di legittimità dell’arbitrato.
Nel rispetto delle motivazioni che sorreggono la previsione della
forma scritta ad substantiam (28) vi è spazio pertanto per legittimare la formazione della convenzione arbitrale anche con un comportamento processuale idoneo a manifestare il consenso attraverso un atto scritto (29).
E ciò era già argomentabile dalla previgente formulazione dell’art.
817 c.p.c., che imponeva alla parte interessata di eccepire a pena di decadenza nel corso dell’arbitrato che l’oggetto del giudizio avesse travalicato
il contenuto della convenzione, legittimando quindi, in mancanza di ogni
rilievo, a ritenere formato un compromesso per accordo tacito.
La ricerca della volontà compromissoria può, dunque, essere rintracciata anche nello stesso contegno concludente delle parti rispetto alla coltivazione del giudizio arbitrale (30), occorre però individuare in ogni caso il
documento da cui accertare il rispetto del requisito di cui all’art. 807 c.p.c.
6. La giurisprudenza cosı̀ è arrivata, evolvendo il proprio orientamento (31), ad ammettere anzitutto la validità della clausola compromissoria contenuta in un accordo sottoscritto soltanto da una parte quando sia
l’altra parte a produrlo in giudizio (32).
Si avrebbe cioè la formazione giudiziale del contratto, con l’eccezione
“una reazione all’abuso di arbitrato verificatosi durante la rivoluzione”; FESTI, op. ult. cit.,
209.
(27) LUISO, op. cit., 358.
(28) BIANCA, Diritto civile, III, Il contratto, Milano, 2000, 288.
(29) ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, IV, Napoli, 1964, 833; BOVE,
Il patto compromissorio rituale, in Riv. dir. civ., 2002, 422; LUISO, Le impugnazioni del lodo
dopo la riforma, in questa Rivista, 1995, 16; cfr. Cass. 10 maggio 1996, n. 4400, in Giust.
civ., 1997, I, 1065 con nota di COSTANZA, La dichiarazione di accettazione fra regola di forma
e principio di conformità.
(30) Cass. 2 febbraio 2007, n. 2256; Cass. 30 agosto 1999, n. 9111, in Foro it., 1999,
I, 3192; in dottrina LUISO, Le impugnazioni del lodo dopo la riforma, in questa Rivista, 1995,
16; BOVE, Impugnazione per nullità del lodo pronunciato in carenza di patto compromissorio, in questa Rivista, 1997, 536; ID., Il patto compromissorio, cit, 426.
(31) Cass. 12 aprile 2005, n. 7535.
(32) Cass 3 agosto 1989, n. 1585, Rass. arb., 1990, 187; Cass. 6 luglio 1982, n.
4039, in Foro it., 1983, I, 736; contra Rampazzi, in AA.VV. Arbitrato, Bologna, 2007, 2164.
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del caso in cui la produzione del documento non sia effettuata con l’intento
di non accettare la clausola stessa. (33).
È immaginabile inoltre che, pur in assenza di un precedente patto
compromissorio, il negozio si formi mediante uno specifico verbale del
processo arbitrale sottoscritto dalle parti (34) quando il collegio rilevi la carenza dell’accordo ed inviti i litiganti, che niente abbiano fino ad allora eccepito, a produrre l’atto mancante.
Si è sostenuto poi di attribuire direttamente all’atto di nomina dell’arbitro la qualificazione di patto compromissorio.
Con riferimento all’attore, infatti, la domanda di arbitrato contiene
anche le indicazioni necessarie alla costituzione del collegio. Perciò l’atto
introduttivo formato dalla nomina dell’arbitro e dall’individuazione dell’oggetto di causa appare una valida manifestazione di volontà compromissoria (35).
Se però si pone lo sguardo al convenuto è possibile obiettare che l’atto
di conferimento dell’incarico e la stessa costituzione in giudizio non implicano di necessità né una rinuncia a sollevare l’eccezione de qua, né una sanatoria del vizio di forma della convenzione di arbitrato. La partecipazione
al giudizio arbitrale, anzi, potrebbe essere finalizzata proprio all’accertamento del motivo di nullità (36).
Come attenta dottrina (37) evidenzia, esiste infatti una ontologica differenza tra il contratto con cui agli arbitri è richiesto di emettere un lodo
dietro il pagamento del corrispettivo ed una convenzione di arbitrato che
invece impegna i contraenti a non adire l’autorità giudiziaria in favore del
giudice privato. L’uno infatti è funzionalmente collegato all’altro, ma i due
negozi restano autonomi e diversi.
Cosı̀ appare legittimo un lodo che rilevi il difetto di forma della con-
(33) Cass. 24 luglio 2007, n. 16332; Cass. 2 febbraio 2007, n. 2256; Cass. 19 dicembre 2000, n. 15941; Cass., Sez. un., 18 settembre 1978, n. 4167, in Foro it., 1978, I, 2422;
Cass., Sez. un., 18 maggio 1978, n. 2392, in Giur. it., 1979, I, 1165; BUONCRISTIANI, Requisiti
formali della clausola compromissoria per arbitrato estero inserita in una polizza di carico
e posizione del destinatario della consegna, in questa Rivista, 1992, 55.
(34) PICARDI, La forma della convenzione arbitrale, in Atti del seminario, L’arbitrato
a tre anni dalla Legge n. 28/1983, a cura di Deodato, Milano, 1987, 1 ss.; contra Cass. 25
agosto 1998, n. 8417.
(35) FAZZALARI, Arbitrato nel diritto processuale civile, in Dig. civ., Torino, 2000, 90;
AMADEI, Lo scambio degli atti di nomina come stipulazione del compromesso, in questa Rivista, 2001, 37.
(36) LUISO, Rapporti fra arbitro e giudice, in questa Rivista, 2005, 779.
(37) D’ALESSANDRO, Conclusione dell’accordo compromissorio mediante meri atti di
nomina degli arbitri?, in questa Rivista, 2007, 241 ss., che mette in luce come la differenza
tra i due contratti emerge anche dalla traduzione dei corrispondenti termini in lingua tedesca,
dove contratto con gli arbitri è identificato in schiedsvertrag mentre la convenzione di arbitrato in schiedsrichtervertrag.
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venzione, accogliendo le difese della parte resistente che abbia diligentemente nominato il proprio arbitro.
Se il convenuto però non eccepisce alcunché ma si difende nel merito
della controversia, la comparsa sottoscritta, anche a mezzo del difensore
dotato dei relativi poteri, ben può costituire essa stessa atto di accettazione
tacita della convenzione (38).
Nel caso di specie, pertanto, il giudice del merito, anche a prescindere
dalla produzione delle copie della clausola compromissoria, avrebbe dovuto
sicuramente riscontrare la volontà compromissoria, peraltro mai messa in
discussione dai contendenti, in uno degli atti di causa sottoscritti.
7. Oltre a porre lo sguardo staticamente ai documenti capaci di costituire l’accordo scritto diviene importante mettere in luce il regime dinamico che governa l’eccezione ed il rilievo del vizio di forma nel passaggio
dalla vecchia alla nuova disciplina del codice di rito.
Prima della novella apportata dal D.Lgs. n. 40/2006 il combinato disposto degli artt. 829, n. 1 e 817 c.p.c. non prevedeva infatti preclusione
alcuna che impedisse alla parte di impugnare il lodo per invalidità dei requisiti formali della convenzione.
La giurisprudenza, tuttavia, aveva limitato tale facoltà ai casi nei quali
non fosse deducibile dal contegno processuale la volontà di accettare lo
svolgimento dell’arbitrato, onde impedire un utilizzo dell’eccezione in
modo strumentale e in senso contrario al principio di auto responsabilità.
La novella modifica invece la disciplina e dispone tout court uno
stretto regime di preclusioni che impone di eccepire il vizio nella prima difesa del processo arbitrale.
È evidente quindi la voluntas legis di costringere la parte, e lo stesso
arbitro d’ufficio, a sollevare immediatamente la questione cosı̀ da limitare
l’eventuale delibazione ad una prima e ristretta fase del procedimento.
Si ripropone semmai, come già sotto la vecchia formulazione, il dibattito sull’effetto che la disposizione determina, e cioè se si voglia ritenere
che la legge abbia previsto una mera preclusione processuale ovvero se il
comportamento della parte dia luogo alla formazione di un accordo tacito.
Bisogna rilevare che la dottrina maggioritaria propende per la prima
soluzione interpretativa (39) che però, anche per quanto già messo in luce,
non sembra soddisfacente.
(38) LUISO, Le impugnazioni del lodo dopo la riforma, in questa Rivista, 1997, 16 ove
precisa che la carenza di patto compromissorio determina la inesistenza del lodo per difetto
di potestas iudicandi salvo che le parti « nel corso del processo arbitrale manifestino la loro
volontà » compromissoria; è chiaro però che alla luce del nuovo testo dell’art. 817 c.p.c., su
cui di seguito nel testo, appare ragionevole imporre alla parte contumace nel processo arbitrale di proporre impugnazione avverso il lodo.
(39) G.F. RICCI, in AA. VV. Arbitrato, a cura di Carpi, Bologna, 2007, 473; RUFFINI,
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Precisato, infatti, che la forma scritta ad substantiam non impone di
necessità la sottoscrizione di un atto che sia qualificato espressamente come
patto compromissorio, ma che la medesima manifestazione di volontà è desumibile dalla partecipazione al processo arbitrale, niente impedisce di concepire la formazione del consenso in via di tacito accordo con la autografia degli atti di causa.
Autorevole dottrina (40) rileva inoltre che qualificando come preclusione processuale la previsione dell’art. 817 c.p.c. si avrebbe l’effetto di
imporre al convenuto di costituirsi in giudizio al fine di sollevare l’eccezione per non decadere dal relativo potere.
Questo tuttavia costringerebbe il medesimo soggetto ad obbligarsi rispetto al pagamento delle spese arbitrali al solo scopo di far rilevare l’invalidità della clausola compromissoria. Soluzione che appare troppo onerosa, essendo sufficiente invece imporre di esperire l’impugnazione per invalidità del lodo.
Sembra pertanto preferibile considerare la mancata eccezione come
espressione di una volontà di sottoporsi al giudizio arbitrale al pari delle già
esaminate manifestazioni implicite di adesione all’arbitrato.
8. Sia consentito, infine, rilevare un’ultima questione, incidentalmente decisa nella sentenza in commento ma priva di motivazione, ovvero
che la clausola arbitrale contenuta nel disciplinare del contratto principale
e che vede contraente una P.A. non è soggetta alla disciplina delle clausole
vessatorie e, pertanto, non deve essere specificamente sottoscritta.
Se pure la convenzione di arbitrato costituisca infatti una clausola
vessatoria anche quando una parte sia una p.a., ciò vale soltanto in presenza
di contratti per adesione (41), non cosı̀ invece in ipotesi di accordi stipulati
in forma pubblica amministrativa (42).
Ciò perché la disciplina dell’art. 1341 c.c. nasce per tutelare il contraente debole a fronte del rischio di squilibrio contrattuale nei contratti
unilateralmente predisposti, ed impone perciò la doppia sottoscrizione onde
garantire la consapevolezza della scelta (43).
in AA.VV. Riforma del diritto arbitrale, a cura di Menchini, in Nuove leggi civ. comm., 2007,
1278; Pellegrinelli, in CARPI, op. cit, 825; BOVE, L’impugnazione per nullità del lodo rituale,
in www.judicium.it; sotto la precedente disciplina era contrario ad un accordo tacito, PUNZI,
op. cit., I, 541; REDENTI, Compromesso (dir. proc. civ.), in Nuovo dig it., III, Torino, 1959,
800.
(40) LUISO, op. ult. cit., 389.
(41) Trib. Torino, 26 novembre 2005, in archivio Giuffrè.
(42) Cass. 19 marzo 2004 n. 5549.
(43) Cass. 9 aprile 1993, n. 4351 precisa che la doppia sottoscrizione occorre “nei
soli casi in cui detta clausola sia inserita in contratti con condizioni generali predisposte da
uno solo dei contraenti ovvero conclusi mediante sottoscrizione di moduli o formulari”.
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È manifesta la differenza di tali ipotesi rispetto alla situazione in
esame, dove il contratto predisposto è un unicum (44) che gli offerenti conoscono prima di contrarre (45) e quindi la scelta di deferire le eventuali
controversie in arbitri non necessita di alcuna tutela specifica.
FEDERICO UNGARETTI DELL’IMMAGINE
(44) Cass. 21 settembre 2004, n. 18917, in questa Rivista, 2006, 88 con nota di
MOTTO, In tema di clausola compromissoria: forma, oggetto, rilevanza del comportamento
delle parti; Cass. 15 ottobre 2003, n. 15783; Cass. 23 aprile 1998 n. 4188.
(45) BERLINGUER, A proposito della compromettibilità delle controversie in materia di
lavori pubblici, della nomina di arbitri per relationem, dei requisiti di forma ex art. 1341
c.c., ed altro ancora, in questa Rivista, 1997, 761.
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CORTE DI CASSAZIONE, Sez. II civ., sentenza 13 dicembre 2010, n. 25159;
SCHETTINO Pres.; CARRATO Est. — Zanardi (avv. Pirola) c. Grafix S.n.c. (avv.ti
Battaglia, Mariani, Mastretta).
Clausola compromissoria - Transazione novativa - Mancata riproduzione Inefficacia.
La clausola compromissoria presente nel preliminare ma non reiterata dalle
parti nella successiva transazione con effıcacia novativa è da considerarsi abbandonata.
CENNI DI FATTO. — La società G. S.n.c. conviene in giudizio dinanzi al Tribunale di Milano il sig. Z.G. esponendo che tra di loro era intercorso un contratto
preliminare di compravendita immobiliare e successivamente, a causa dell’inadempimento del convenuto alle obbligazioni in esso previste, una transazione avente il
medesimo oggetto, rimasta anch’essa inadempiuta, chiedendo pronunciarsi una sentenza costitutiva degli effetti del contratto preliminare concluso dalle medesime
parti, oltre alla corresponsione della caparra contrattuale ed al risarcimento dei
danni. Il convenuto si costituisce eccependo il difetto di competenza del giudice
ordinario per effetto della clausola compromissoria prevista nel suddetto contratto
preliminare, contrastando anche nel merito la domanda attrice. Avverso la sentenza
del tribunale dichiarativa della risoluzione del contratto preliminare, il convenuto
interpone appello ed a seguito del rigetto del gravame, ricorso in Cassazione ex art.
360, nn. 3 e 5 c.p.c. lamentando in particolare la violazione e falsa applicazione
degli artt. 1230, 1326, 1965 c.c. e censurando la decisione della corte milanese
principalmente per aver errato nel negare validità ed efficacia alla clausola compromissoria contenuta nel contratto preliminare concluso dalle parti in causa, non potendo attribuirsi alla scrittura privata intervenuta tra le medesime parti alcun carattere novativo rispetto al suddetto preliminare ma soltanto integrativo, poiché la
clausola compromissoria non era stata espressamente né modificata né esclusa dalla
successiva transazione, per tale ragione, dovendosi considerare valida ed operante.
MOTIVI DELLA DECISIONE. — 1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1326 ss. c.c., nonché insufficiente o carente
motivazione rispetto ai canoni ermeneutici adottati nella sentenza impugnata (ai
sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5).
Ad avviso del ricorrente, la Corte di appello di Milano aveva errato nel negare la validità ed efficacia della clausola compromissoria contenuta nell’art. 5 del
contratto preliminare del 24 luglio 1997 (che avrebbe comportato la competenza
del collegio arbitrale per la controversia instauratasi con la S.n.c. Grafix o, al più,
l’improponibilità della domanda nella sede giudiziaria ordinaria).
In particolare, Z. deduce che la successiva scrittura intervenuta tra le parti il
23 dicembre 1997 non aveva carattere novativo rispetto al suddetto contratto preliminare, ma soltanto integrativo, poiché la clausola compromissoria originariamente prevista non era stata specificamente modificata o esclusa dalla successiva
convenzione, ragion per cui, avuto riguardo ai criteri ermeneutici dei negozi giuridici (con riferimento, in specie, a quelli enucleati negli artt. 1362 e 1363 c.c.), essa
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si sarebbe dovuta considerare ancora valida ed operante. Con il secondo motivo il
ricorrente, deducendo la violazione e falsa applicazione degli artt. 1965 ss. e 1230
ss. e la relativa insufficiente motivazione (in virtù dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5),
censura la sentenza impugnata nella parte in cui, nel rigettare il primo motivo di
appello relativamente alla dedotta validità della clausola compromissoria, aveva attribuito carattere novativo alla transazione del 23 dicembre 1997, malgrado la
stessa non contenesse la previsione di obbligazioni incompatibili con quelle del
contratto del 27 luglio 1997 limitandosi a posticipare la data del rogito, a consentire all’acquirente di sostituire a sé altro soggetto nella compravendita (società di
leasing), a prevedere penali a carico di esso Z. nel caso di ritardo nella stipula del
rogito, a ribadire l’esistenza della caparra confirmatoria del medesimo importo e ad
accollare al promittente venditore le spese di affitto del promissario acquirente.
Pertanto, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuto ritenere che l’intervenuta
transazione aveva lasciato immutato l’oggetto dell’originario rapporto, oltre al titolo, essendosi le parti limitate ad innovare le sole modalità di esecuzione dei rispettivi obblighi, con l’effetto che il nuovo regolamento negoziale introdotto con la
scrittura del 23 dicembre 1997 si basava sul medesimo assetto di interessi disciplinato con il contratto preliminare del 27 luglio 1997, cosı̀ dovendosi escludere che
la successiva transazione avesse carattere novativo, occorrendo ad essa, invece, assegnare carattere conservativo del precedente accordo negoziale.
1.1. I primi due illustrati motivi del ricorso principale, che devono essere
esaminati congiuntamente perché intimamente connessi, sono infondati e vanno,
perciò, rigettati.
La sentenza della Corte di appello di Milano, infatti, nel rilevare che la nuova
scrittura privata intervenuta successivamente tra le parti in data 23 dicembre 1997
integrasse una transazione novativa relativamente alla precedente convenzione intercorsa con il contratto preliminare del 24 luglio 1997 (e rimasta pacificamente
inadempiuta), ha correttamente e logicamente applicato i criteri ermeneutici del negozio giuridico non essendosi limitata alla valutazione del mero elemento letterale
ma ricercando l’effettiva volontà complessiva delle parti mediante un esame comparato delle scritture e delle condotte delle parti medesime in virtù del quale, malgrado l’apparente premessa « programmatica » secondo la quale le parti intendevano « predisporre un’integrazione del preliminare di vendita » stipulato antecedentemente, era emerso univocamente come la nuova scrittura transattiva dovesse considerarsi come un contratto nuovo rispetto al pregresso preliminare, poiché con
esso aveva in comune soltanto l’individuazione dell’oggetto negoziale (ovvero la
compravendita dell’immobile precedentemente indicato), mentre per il resto le parti
non si erano limitate ad apportare mere modifiche di alcuni punti della precedente
convenzione ma avevano (oltre ad aggiungere altre clausole) sostituito elementi essenziali incidenti sulla rideterminazione del prezzo, dei termini di consegna e sull’indicazione del contraente nella qualità di parte contraente (con l’intervento della
menzionata società di leasing), accompagnando la pattuizione dei nuovi accordi
con l’esplicazione della reciproca volontà che la conclusa transazione definiva e risolveva ogni rapporto controverso di cui alla scrittura relativa al preliminare del 24
luglio 1997, senza che le parti avessero altro a pretendere per alcuna ragione, titolo
o causa in dipendenza di questa stessa ultima scrittura. Risulta incontroverso che,
nella successiva convenzione transattiva, le parti non reiterarono la clausola compromissoria presente nel contratto preliminare originariamente concluso e, sul
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punto, la Corte territoriale ha correttamente statuito che, alla stregua del nuovo
complessivo accordo raggiunto e della chiara volontà esternata delle parti di superare il vincolo derivante dalle obbligazioni della precedente scrittura privata e di
sostituire ad esso un rinnovato assetto contrattuale, doveva logicamente ritenersi
che le parti avevano inteso abbandonare la clausola compromissoria sulla cui persistente operatività il ricorrente ha inteso (infondatamente) insistere. In tal senso,
dunque, la Corte milanese si è attenuta al costante orientamento (cfr. Cass. 22 dicembre 2005, n. 28479; Cass. 22 febbraio 2007, n. 4176, e Cass. 26 febbraio 2009,
n. 4670) secondo cui, in tema di interpretazione del contratto — che costituisce,
appunto, operazione riservata al giudice di merito, le cui valutazioni sono censurabili in sede di legittimità soltanto per violazione dei canoni legali di ermeneutica
contrattuale o per vizio di motivazione — ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, il primo e principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto, con la conseguente
preclusione del ricorso ad altri criteri interpretativi, quando la comune volontà delle
parti emerga in modo certo ed immediato dalle espressioni adoperate, e sia talmente
chiara da precludere la ricerca di una volontà diversa. Il rilievo da assegnare alla
formulazione letterale deve, peraltro, essere verificato alla luce dell’intero contesto
contrattuale, e le singole clausole vanno considerate in correlazione tra loro, dovendo procedersi al loro coordinamento a norma dell’art. 1363 c.c., e intendendosi
per « senso letterale delle parole » tutta la formulazione letterale della dichiarazione
negoziale, avendo il giudice il compito di collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato. Alla luce di questi parametri la Corte di appello di Milano ha sufficientemente argomentato anche in ordine all’efficacia novativa della sopravvenuta transazione, avendo, appunto, accertato che le parti, nel
comporre l’originario rapporto contrattuale rimasto inadempiuto, avevano inteso
addivenire (manifestando, in proposito, la loro reciproca volontà) alla conclusione
di un nuovo rapporto, diretto a costituire, in sostituzione di quello precedente,
nuove autonome obbligazioni, provvedendo ad offrire sul punto una motivazione
logica e coerente (v. Cass. 10 febbraio 2003, n. 1946; Cass. 12 gennaio 2006, n.
421, e Cass. 14 giugno 2006, n. 13717).
Clausola compromissoria e transazione novativa.
1. I giudici di legittimità rigettano il ricorso, confermando le conclusioni rassegnate dalla corte meneghina nella decisione impugnata, e muovendo dall’applicazione dei criteri ermeneutici nell’interpretazione dei negozi stipulati dalle parti (1), in base ai quali va riconosciuta l’effettiva vo-
(1) In dottrina, sull’interpretazione del contratto e delle relative clausole negoziali,
cfr. ALPA, MARICONDA, Comm. cod. civ., artt. 1362-1375, Milano, 2009; BIGLIAZZI GERI, L’interpretazione del contratto, Milano, 1991; BIANCA, Diritto civile, Il contratto, III, Milano,
1987; RIZZO, Interpretazione dei contratti e relatività delle sue regole, Napoli, 1985; RODOTÀ,
Le fonti dell’integrazione del contratto, Milano, 1969; MESSINEO, Il contratto in genere, in
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lontà delle medesime nell’aver preferito abbandonare le clausole non
espressamente riproposte nel successivo accordo, tra le quali è ricompresa
quella compromissoria in arbitrato. In particolare, la motivazione espressa
al riguardo dalla Corte di legittimità è racchiusa nello spazio di poche righe, in cui si afferma chiaramente che nella successiva convenzione transattiva le parti non reiterarono la clausola compromissoria presente nel
contratto preliminare originariamente concluso. Pertanto, secondo i giudici
di legittimità su tale punto specificamente considerato, la corte territoriale
ha quindi correttamente statuito che alla stregua del nuovo complessivo accordo raggiunto e della volontà esternata dalle medesime parti volta a superare il vincolo derivante dalle obbligazioni della precedente intesa negoziale, quest’ultima è da ritenersi sostituita con quella conclamata nella
scrittura privata transattiva, dotata di un’evidente efficacia novativa rispetto
all’iniziale contratto preliminare (2). A tal riguardo, la giurisprudenza di legittimità ha precisato che la transazione novativa è riscontrabile unicamente
laddove la manifestazione della volontà delle parti, oltre a risolvere o prevenire un lite mediante rinunzia reciproca anche parziale alle proprie pretese, è diretta a modificare, estinguendola, la situazione negoziale precedente e ad instaurarne una nuova, di modo che tra i due rapporti, il vecchio
ed il nuovo, vi sia una condizione di obiettiva incompatibilità (3). Ciò che
Tratt. Cicu-Messineo, Milano, 1968; CASELLA, Il contratto e l’interpretazione, Milano, 1961;
C. MIRABELLI, Dei contratti in generale, Comm., Torino, 1958.
(2) Cfr. Cass. 7 ottobre 2010, n. 20187, in Mass. Giust. civ., 2010, 10, secondo cui
in tema di interpretazione del contratto, qualora la medesima vicenda negoziale ed i relativi
effetti abbiano formato oggetto di due o più atti scritti, il giudice è tenuto, giusta disposto
dell’art. 1363 c.c., ad esaminare tutte le convenzioni intercorse tra le parti cosı̀ come risultanti dai documenti all’uopo formati, stabilendo, altresı̀, il rapporto tra clausole e documenti,
se di chiarimento, integrazione, modificazione, trasformazione od annullamento delle precedenti pattuizioni. In senso conforme, cfr. Cass. 14 aprile 2006, n. 8876, in Mass. Giust. civ.,
2006, 4, in cui si ribadisce il principio enunciato dall’art. 1363 c.c., il Giudice non può, nell’interpretazione dei contratti — e, dunque, anche degli atti amministrativi e degli atti unilaterali a contenuto patrimoniale — arrestarsi ad una considerazione atomistica delle singole
clausole, neppure quando la loro interpretazione possa essere compiuta, senza incertezze,
sulla base del senso letterale delle parole, poiché anche questo va necessariamente riferito all’intero testo della dichiarazione negoziale, sicché le varie espressioni che in essa figurano
vanno coordinate tra loro e ricondotte ad armonica unità e concordanza. Cfr. anche Cass. 7
luglio 2004, n. 12477, in Giust. civ., 2005, 3, I, 699; Cass. 12 novembre 2002, n. 16022, in
Mass. Giust. civ., 2002, 1976.
(3) Cass. 19 maggio 2003, n. 7830, in Mass. Giust. civ., 2003, 5; nella sentenza, si
precisa che nell’interpretazione dell’art. 1976 c.c. le prevalenti opinioni dottrinarie possono
essere raggruppate, in linea di massima, in due principali correnti di pensiero, per l’una delle
quali la transazione ha carattere novativo solo ove la volontà delle parti sia intesa alla totale
estinzione del precedente rapporto ed alla costituzione d’un rapporto radicalmente diverso,
mentre, specularmente, per l’altra, in considerazione dell’intrinseca novità della transazione,
questa deve ritenersi non novativa ove le parti, lasciato immutato l’oggetto dell’originario
rapporto, si limitino ad innovare in tutto od in parte le sole modalità d’esecuzione dei rispet-
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è necessario, quindi, ai fini della ricorrenza della figura in esame, ai sensi
dell’art. 1965, comma 2 c.c., è che le stesse parti palesino la volontà di instaurare tra di loro un nuovo rapporto (4), estinguendo quello originario,
dando a tale volontà forma e contenuto adeguati (5).
2. In ordine al percorso espresso nella motivazione della sentenza in
epigrafe, va detto che l’interpretazione del contratto offerta da parte del
giudice del merito è censurabile in sede di legittimità solo sotto il profilo
della mancata osservanza dei criteri di ermeneutica contrattuale o della insufficienza della motivazione, restando escluso che possa ritenersi ammissibile la mera contrapposizione tra l’interpretazione offerta dal ricorrente e
quella accolta nella sentenza impugnata (6). Infatti, in tema di interpretazione del contratto, è necessario procedere al coordinamento delle varie
clausole contrattuali ( 7 ), come prescritto dall’art. 1363 c.c., anche
quando l’interpretazione possa essere compiuta sulla base del senso letterale delle parole (8), senza residui di apprezzabili margini d’incertez-
tivi obblighi, le reciproche concessioni al riguardo costituendo la causa dell’estinzione del
determinatosi conflitto d’interessi la cui definizione giudiziale, od il pericolo di essa, le parti
stesse intendono evitare. Fatta tale premessa, è la stessa Corte a ribadire che il secondo indirizzo è, sostanzialmente, conforme alla giurisprudenza emersa in seno alla stessa, per la
quale l’art. 1976 c.c., laddove esclude che la risoluzione per inadempimento possa essere richiesta se il rapporto preesistente è stato estinto per novazione, salvo che il diritto alla risoluzione sia stato espressamente stipulato, facendo riferimento nella sua formulazione alla distinzione tra transazione novativa e non novativa, necessariamente anche recepisce il contenuto tipicamente dispositivo della transazione, per il quale un aliquid novi rispetto al rapporto
che ad essa preesiste viene ad essere un naturale negotii, ond’è che nel determinare il senso
della distinzione l’interprete deve tener conto di tale carattere normalmente dispositivo e, per
ciò stesso, innovativo del negozio e ricercare, pertanto, onde individuare nel caso concreto la
sussistenza dello specifico carattere novativo cui è fatto riferimento nella norma, elementi ulteriori. In senso conforme, cfr. Cass. 10 febbraio 2003, n. 1946, in Mass. Giust. civ., 2003,
293; Cass. 15 novembre 1997, n. 11330, in Mass. Giust. civ., 1997, 2184.
(4) Cfr. Cass. 14 giugno 2006, n. 13717, in Vita not., 2006, 3, 1311, s.m., con nota
di R. MORESE, Transazione novativa e transazione conservativa: caratteri distintivi.
(5) Cass. 28 febbraio 2006, n. 4455, in http://dejure.giuffre.it.
(6) Cass. 6 ottobre 2000, n. 13304, in Mass.Giust. civ., 2000, 2100; Cass. 29 gennaio 2000, n. 1045, in Mass. Giust. civ., 2000, 176; Cass. 29 novembre 1999, n. 13354, in
Mass. Giust. civ., 1999, 2401.
(7) Cass. 5 aprile 2004, n. 6641, in Contratti, 2005, 136, con nota di M. GAETA,
L’interpretazione coordinata della contrattazione collettiva e l’eliminazione dei residui di incertezza.
(8) In dottrina — cfr. ALPA, Unità del negozio e principi di ermeneutica contrattuale,
in Giur. it., 1973, I, 1, 1511 — si è giustamente rilevato che il regolamento contrattuale non
va considerato come un’operazione isolata che si esaurisce in se stessa, ma come l’espressione in termini giuridici dei piani individuali dei contraenti, nei quali assumono rilevanza i
vantaggi che essi sperano di ricevere, i rischi che acconsentono di accollarsi pur di ottenerne
la realizzazione, le aspettative e le ulteriori operazioni che dal buon fine dell’affare si pensa
che avranno origine. Il procedimento interpretativo allora dovrebbe essere diretto a precisare
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za (9), poiché l’espressione concernente il senso letterale delle parole deve
intendersi come riferita all’intera formulazione letterale della dichiarazione
negoziale in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già limitata ad una parte soltanto, qual è la singola clausola del contratto composto di più clausole (10), dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro
frasi e parole al fine di chiarirne il significato (11). In tema di interpretazione del contratto — riservata al giudice del merito, le cui valutazioni
sono censurabili in sede di legittimità solo per violazione dei canoni legali
di ermeneutica contrattuale o per vizi di motivazione (12) — ai fini della ricerca della comune intenzione delle parti contraenti, ex art. 1362 c.c., il
primo e principale strumento dell’operazione interpretativa è quindi costituito dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto (13), in quanto l’elemento letterale rappresenta, ai sensi dell’art. 1362
c.c., l’imprescindibile dato di partenza dell’indagine ermeneutica, con la
conseguente preclusione del ricorso ad altri criteri di interpretazione
quando la comune volontà delle parti emerga in modo certo ed immediato
dalle espressioni adoperate nel contratto (14) e sia talmente chiara da precludere la ricerca di una volontà diversa (15). Anche quando si faccia riferimento al comportamento delle parti — per essere le espressioni letterali
insufficienti a ricostruire la comune volontà delle parti (16) — esso può essere preso in considerazione solo come comportamento complessivo delle
quella che con espressione assai efficace si denomina economia del contratto, sulla base delle
dichiarazioni delle parti e di tutte le circostanze anteriori, concomitanti e successive all’accordo che, rispettivamente, hanno costituito il presupposto dal quale il contratto è nato o su
di esso hanno, in qualche modo, reagito. Cosı̀ il giudice, più che limitarsi a compiere una
semplice operazione esegetica dei termini del contratto, deve ricercare la ragione delle singole clausole all’interno del regolamento negoziale, poiché assai indicativa è la distribuzione
di vantaggi e dei rischi in esso tradotta. E ciò alla luce del comportamento dei soggetti durante le trattative, la definizione e l’esecuzione del contratto.
(9) Cass. 4 novembre 1999, n. 12280 in Mass. Giust. civ., 1999, 2189; Cass. 19 giugno 1999, n. 6176, in Mass. Giust. civ., 1999, 1441; Cass. 20 novembre 1997, n. 11574, in
Mass. Giust. civ., 1997, 2233, sul riferimento al senso letterale delle espressioni usate come
strumento di interpretazione fondamentale e prioritario.
(10) In dottrina cfr. Alpa, op. cit., 1511. Più recentemente, per approfondimenti sull’argomento, cfr. ALPA, FONSI, RESTA, L’interpretazione del contratto, Orientamenti e tecniche
della giurisprudenza, Milano, 2001.
(11) Fra le tante, cfr. Cass. 2 gennaio 2002, n. 1366, in Mass. Giust. civ., 2002, 183;
Cass. 18 aprile 1980, n. 2554, in Mass. Giust. civ., 1980, 4.
(12) Cass. 21 aprile 2005, n. 8296, in Mass. Giust. civ., 2005, 4.
(13) Cass. 23 luglio 2004, n. 13839, in Mass. Giust. civ., 2004, 7-8.
(14) Cass. 29 luglio 2004, n. 14495, in Mass. Giust. civ., 2004, 7-8; Cass. 27 luglio
2001, n. 10290, in Mass. Giust. civ., 2001, 1488.
(15) Cfr. Cass. 13 luglio 2004, n. 12957, in Mass. Giust. civ., 2004, 7-8. Sui limiti di
applicabilità del principio in claris non fit interpretatio cfr. Cass. 15 maggio 1987, n. 4472,
in Mass. Giust. civ., 1987, 5; Cass. 12 luglio 1980, n. 4480, in Giust. civ., 1980, I, 2413.
(16) Cass. 15 maggio 2003, n. 7548, in Mass. Giust. civ., 2003, 5.
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parti medesime, essendo inidoneo il contegno isolato di una sola di loro a
evidenziare il contenuto di un proposito comune (17). Peraltro, pur assumendo il criterio letterale funzione fondamentale, il rilievo da assegnare
alla sua formulazione deve essere verificato alla luce dell’intero contesto
contrattuale (18) e le singole clausole vanno considerate in correlazione tra
loro, dovendo procedersi al loro coordinamento a norma dell’art. 1363 c.c.
(19) e dovendosi intendere per senso letterale delle parole tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte e in ogni parola che la compone, e non già in una parte soltanto, quale una singola
clausola di un contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato (20).
3. Nella fattispecie esaminata dalla Cassazione, il ricorrente ha contestato l’interpretazione della Corte di merito riferita alla omessa considerazione della clausola compromissoria contenuta nel contratto preliminare,
sulla cui persistente validità ha dedotto la comune intenzione delle parti di
devolvere la controversia ad un collegio arbitrale, espungendo da tale operazione esegetica tutte le restanti proposizioni contenute nella successiva
scrittura privata, cui ha attribuito la funzione (21) non novativa ma soltanto
integrativa (22) del precedente accordo intercorso tra le medesime parti con
(17) Cfr. Cass. 23 luglio 2004, n. 13839, cit.
(18) In dottrina cfr. MOSCATI, Il comportamento delle parti successivo alla conclusione del contratto in relazione al criterio di ermeneutica contenuto nel capoverso dell’articolo 1362 del codice civile, in Giur. it., 1967, I, 1, 631, il quale rileva che il giudice per determinare la comune intenzione delle parti in primo luogo deve tener conto dell’intero contesto del contratto senza perciò limitarsi al senso letterale delle parole; deve inoltre e in ogni
caso valutare la condotta complessiva dei soggetti del negozio, indipendentemente dal fatto
che una o più clausole dell’atto o della stessa dichiarazione contrattuale abbiano un significato incerto.
(19) Cass. 4 luglio 2002, n. 9712, in Mass. Giust. civ., 2002, 1160.
(20) Cass. 22 dicembre 2005, n. 28479, in Mass. Giust. civ., 2005, 7/8.
(21) Sulla funzione costitutiva della transazione, quale fonte autonoma e primaria del
rapporto in essa dedotto, con efficacia assorbente di quello preesistente, in dottrina cfr. VALSECCHI, Il gioco, la scommessa, la transazione, XXXVII, t. 2, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano, 1986, 255; NICOLÒ, Il riconoscimento e la transazione nel problema della rinnovazione
del negozio e della novazione dell’obbligazione, in Raccolta di scritti, Milano, 1980, 382 ss.
A favore della tesi che riconosce un’efficacia squisitamente dichiarativa della transazione —
questione molto dibattuta sotto il vigore del codice civile del 1865 — successivamente all’introduzione del codice civile del 1942 si è invece espresso CARRESI, voce Transazione (diritto vigente), in Noviss. Digesto, 1973, 495. Per una sintesi delle principali posizioni dottrinali si rinvia a RUPERTO, art. 1965, in La giurisprudenza sul codice civile coordinata con la
dottrina a cura di RUPERTO, Milano, 2005, 7250 ss.
(22) A tal proposito, in dottrina cfr. SANTORO-PASSARELLI, L’accertamento negoziale e
la transazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1956, 21, il quale rileva come fra transazione no-
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la stipula del contratto preliminare, a tal riguardo adducendo che la clausola compromissoria non era stata specificamente modificata od esclusa dal
successivo accordo transattivo. Ma cosı̀ argomentando, ha anzitutto disatteso il fondamentale canone ermeneutico ripetutamente enunciato da dottrina (23) e giurisprudenza, che nella interpretazione del contratto hanno ripetutamente sostenuto la necessità di procedere al coordinamento delle varie
clausole contrattuali, cosı̀ come prescritto dall’art. 1363 c.c. (24), anche
quando l’interpretazione possa essere compiuta sulla base del senso letterale delle parole senza che residuino margini d’incertezza (25).
In particolare, la giurisprudenza di legittimità con la sentenza in epigrafe, ha inteso ribadire un principio di portata generale già espresso in altre occasioni, in base al quale, poiché la novazione oggettiva si configura
come un contratto estintivo e costitutivo di obbligazioni, caratterizzato
dalla volontà di far sorgere un nuovo rapporto obbligatorio in sostituzione
di quello precedente con nuove ed autonome situazioni giuridiche (26), di
tale contratto sono elementi essenziali, oltre ai soggetti ed alla causa, l’animus novandi, consistente nella inequivoca, comune intenzione di entrambe
le parti di estinguere l’originaria obbligazione, sostituendola con una
nuova, e l’aliquid novi, inteso come mutamento sostanziale dell’oggetto
della prestazione o del titolo del rapporto, dovendosi escludere che la semplice regolazione pattizia delle modalità (27) di svolgimento del preesistente
rapporto obbligatorio produca anche la novazione del relativo assetto negoziale (28). Ciò posto, l’esistenza di tali specifici elementi deve essere in
vativa e transazione non novativa non esiste una differenza di natura, ma soltanto di misura,
rispetto all’incidenza sulla situazione giuridica preesistente.
(23) Cfr. MOSCATI, op. cit., 636: la valutazione unitaria del contenuto dell’art. 1362
c.c. non consente all’interprete di introdurre elementi extratestuali che alterino la volontà
contrattuale. Infatti, la suddetta disposizione normativa non autorizza l’interpretazione fondata su elementi deducibili dl comportamento posto in essere dalle parti in sede di esecuzione
del contratto al fine di mutarne le linee essenziali della volontà espressamente e validamente
manifestata in sede negoziale.
(24) In dottrina, sull’interpretazione delle singole clausole al fine di attribuire a ciascuna il giusto senso risultante dal loro insieme negoziale, cfr. GRASSETTI, Interpretazione dei
negozi giuridici inter vivos, in Noviss. Digesto, VIII, Torino, 1962, 903 ss.; IRTI, La sintassi
delle clausole (note intorno all’art. 1363), in Riv. trim. dir. proc. civ., 1989, 421 ss.
(25) Cass. 22 febbraio 2007, n. 4176, in Mass. Giust. civ., 2007, 2; Cass. 9 maggio
2006, n. 10636, in Mass. Giust. civ., 2006, 5.
(26) Cfr. Cass. 13 maggio 2010, n. 11632, in http://dejure.giuffre.it.
(27) Per una sintesi delle modificazioni accessorie apportate all’originario contratto
contenute in un ipotetico accordo transattivo che non costituisce novazione del rapporto
preesistente, si rinvia a CANTILLO, Le obbligazioni, in Giur. sist. dir. civ. e comm. fondata da
W. Bigiavi, t. 2, Torino, 1992, 903 ss.
(28) Cfr. Trib. Potenza, 22 gennaio 2008, in Il merito, 2008, 11, 34, in cui si afferma
che « non è configurabile la fattispecie della novazione allorché non risulti voluta la sostituzione dell’originario contratto e il contenuto del secondo accordo — che si asserisce di
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concreto verificata dal giudice del merito, con un accertamento di fatto che
si sottrae al sindacato di legittimità solamente se è conforme alle disposizioni contenute nell’art. 1230 commi 1 e 2 e 1231 c.c., fornendone una
congrua motivazione (29).
La stessa giurisprudenza di legittimità ha avuto altresı̀ modo di precisare che, in tema di interpretazione del contratto, ai fini della ricerca della
comune intenzione dei contraenti, il principale strumento è rappresentato
dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto e
che il rilievo da assegnare alla formulazione letterale dev’essere verificato
alla luce dell’intero contesto contrattuale, cosicché le singole clausole
vanno considerate in correlazione tra di loro, dovendo procedersi al loro
coordinamento a norma dell’art. 1363 c.c. (30).
In buona sostanza, dalla motivazione della pronuncia in epigrafe, traspare che il ricorrente si è soffermato soltanto sulla manifestazione di volontà espressa dalle parti in ordine alla clausola compromissoria contenuta
nel contratto preliminare, trascurando di valutare e spiegare se e in che
modo quest’ultima possa continuare a considerarsi come validamente esistente in presenza di una successiva scrittura privata che non contemplandola, unitamente ad altri elementi desumibili dallo stesso tenore dell’accordo transattivo intervenuto successivamente, riveli l’esistenza di una
chiara volontà novativa delle parti (31).
In particolare, la Corte di legittimità rileva come il ricorrente nel procedere all’interpretazione del negozio concluso attraverso dichiarazioni non
contestuali, abbia in realtà omesso di analizzare il complesso delle dichiarazioni negoziali, quale rinvenibile dal raffronto tra il contenuto letterale
del primo contratto preliminare e quello postumo, conclamato nella transazione, trascurando cosı̀ un elemento di giudizio fondamentale al fine di indagare su quale fosse effettivamente stata la comune intenzione dei medecarattere novativo — non sia incompatibile con il precedente, cosa che si verifica allorché le
parti si limitino a precisare ovvero a modificare solo parzialmente le precedenti obbligazioni.
Si configura, infatti come novativo l’accordo in cui le parti, da un lato, rinunciando anche
solo parzialmente alle proprie pretese, appalesano l’intenzione di modificare, estinguendola,
la precedente situazione negoziale, dall’altro, manifestano inequivocabilmente la volontà di
estinguere il primo rapporto e crearne uno nuovo ».
(29) Cfr. ex plurimis, Cass. 17 agosto 2004, n. 16038, in Mass. Giust. civ., 2004, 7-8.
(30) Cfr. ex plurimis, Cass. 22 febbraio 2007, n. 4176, in Mass. Giust. civ., 2007, 2;
Cass. 22 dicembre 2005, n. 28479, in Obbligazioni e contratti, 2006, 6, 553.
(31) In dottrina è stato chiarito che le modificazioni dell’oggetto o del titolo non
possono mai essere considerate accessorie per espressa previsione di legge. Ne deriva che tali
modificazioni danno luogo a novazione se accompagnate da una non equivoca manifestazione dell’intento di estinguere l’obbligazione originaria sostituendola con una nuova. Sono
dunque elementi essenziali della novazione, oltre ai soggetti e alla causa, l’« animus novandi », consistente nella inequivoca, comune intenzione di entrambe le parti di estinguere
l’originaria obbligazione, sostituendola con una nuova, e l’« aliquid novi », inteso come mutamento sostanziale dell’oggetto della prestazione o del titolo del rapporto.
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simi contraenti, in tal modo, finendo per addivenire a conclusioni fondate
soltanto su una disamina parziale del complessivo assetto negoziale definitivamente stabilito con la sottoscrizione della transazione (32).
È infatti evidente come l’avvenuta risoluzione, per effetto dell’intervenuto accordo transattivo, del precedente contratto preliminare non può
ritenersi assolutamente preclusiva — men che mai per mancanza di causa
— della sua novazione (33), ben potendo le parti manifestare la loro comune volontà di ritenere come validamente accettata l’omessa riproposizione della clausola compromissoria nella successiva e definitiva versione
del testo negoziale (34).
4. La decisione in epigrafe non è nuova nel panorama giurisprudenziale di legittimità, come dimostrano alcuni precedenti editi nella stessa
materia qui considerata (35), tra i quali, si pone in evidenza uno (36) in cui
si discuteva — analogamente alla fattispecie esaminata dalla sentenza in
commento — sulla natura di transazione novativa attribuitagli dalla sentenza di appello impugnata, al fine di stabilire la persistente validità o meno
della clausola compromissoria contenuta nel primo contratto (37). Anche in
tale occasione, i giudici di legittimità affermarono il principio in base al
(32) Infatti soltanto una regolamentazione delle mere modalità del preliminare
avendo una chiara natura accessoria, può aver indotto il ricorrente a ritenere, nella fattispecie, l’inesistenza del carattere novativo della transazione e, conseguentemente, il mantenimento in vita della clausola compromissoria inserita nel primo accordo negoziale.
(33) In giurisprudenza, si è osservato che è vero in linea di principio, che la transazione non comporta necessariamente l’estinzione del rapporto precedente sub lite, la novazione della prior obligatio non può presumersi, e l’animus novandi deve risultare dalla convenzione transattiva in modo non equivoco. Ma è vero altresı̀ che la transazione può avere
efficacia novativa quando comunque ne risulti una situazione di oggettiva incompatibilità tra
il rapporto preesistente e quello avente causa nell’accordo transattivo cosı̀ come l’ulteriore
circostanza in base alla quale l’animus novandi può desumersi anche per implicito da fatti
concludenti, e che l’accertamento dell’eventuale effetto novativo della transazione — della
ricorrenza cioè, nella convenzione, degli elementi costitutivi di una novazione tra i quali la
volontà di estinguere la obbligazione precedente — si risolve in definitiva in una quaestio
voluntatis, vale a dire in un apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito ed, in
quanto tale, incensurabile in sede di legittimità se sorretto da una adeguata e corretta motivazione. Sul punto, cfr. Cass. 15 novembre 1997, n. 11330, cit.
(34) Va peraltro sottolineato che, anche in difetto di novazione, i mutamenti apportati dalla comune volontà delle parti al contenuto originario dell’obbligazione sono validi ed
efficaci e determinano pertanto un mutamento del contenuto della stessa, ancorché il titolo
rimanga quello originario. Sul punto, cfr. Cass. 21 gennaio 2008, 1218, in Guida al diritto,
2008, 14, 59 (s.m.).
(35) Cfr. Cass. 23 novembre 2001, n. 14857, in Riv. giur. edilizia, 2002, I, 1052;
Cass. 15 settembre 2000, n. 12175, in Giur. it., 2001, 2035; Cass., 20 luglio 1982, n. 4257,
in Rep. Foro it., 1982, voce « Arbitrato », n. 48.
(36) Cfr. Cass. 15 settembre 2000, n. 12175, cit.
(37) Cfr. Cass. 15 settembre 2000, n. 12175, cit.
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quale, la sopravvivenza della clausola compromissoria non può, evidentemente, trovare diritto di cittadinanza nella fattispecie in cui l’eliminazione
della suddetta clausola consegue al venir meno dell’originario contratto che
la prevedeva per opera delle parti le quali, nel ridisciplinare integralmente
i loro rapporti, non hanno indicato nuovamente la deroga alla competenza
del giudice ordinario (38). L’orientamento della Cassazione è stato sempre
univoco su tale quaestio juris, come può evincersi da altro precedente (39),
in cui il ricorrente si doleva della circostanza che la corte territoriale aveva
respinto la tesi dell’inapplicabilità della clausola arbitrale contenuta nella
prima convenzione pattizia a seguito della stipula di un nuovo contratto che
detta clausola non conteneva né richiamava in alcun modo. Ebbene, la
Cassazione rigettava la tesi del ricorrente fondata sulla novazione dell’originario rapporto negoziale, affermando che la novazione oggettiva di una
precedente obbligazione presuppone che vi sia stato un mutamento sostanziale e non meramente accessorio dell’obbligazione e, cioè, che con la seconda obbligazione siano stati apportati alla prima cambiamenti riguardanti
l’oggetto della prestazione o la natura giuridica dell’obbligazione che la
trasformino in una nuova obbligazione incompatibile con la prima (40).
È quindi evidente come anche in tale ipotesi, la Corte aveva ribadito
il proprio orientamento, rilevando come la validità della clausola arbitrale
sussisteva unicamente in quanto, nello specifico, andava esclusa la sussistenza della novazione dell’originario rapporto negoziale, che invece, nella
fattispecie esaminata nella decisione in epigrafe è stata ritenuta sussistente.
Ad analoga conclusione si è pervenuti anche in relazione ad un lodo arbitrale (41), in cui si è affermato che, a prescindere dall’esistenza o meno di
un fenomeno di novazione, non può non essere rilevato come l’esito ultimo
del complesso negoziale intervenuto — dato dalla sommatoria delle pattuizioni, la quale comunque deve essere oggetto di ricostruzione e coordinamento da parte dell’interprete — è sprovvisto di una clausola compromissoria, non potendo bastare l’originaria clausola contenuta nella prima scrittura privata.
5. Tirando le fila della disamina sin qui condotta, quid juris in ordine alla possibilità di applicare la clausola compromissoria inserita nel
contratto preliminare venuto meno per effetto della stipula di un successivo
accordo transattivo? A tal proposito, può rilevarsi che la portata ed il signi-
(38) Anche nel diverso caso esaminato, la clausola arbitrale è dunque considerata
inesistente, perché la novazione del rapporto per effetto della transazione intercorsa tra le
medesime parti ha estinto il contratto che la prevedeva.
(39) Cfr. Cass. 23 novembre 2001, n. 14857, cit.
(40) Cfr. Cass. 23 novembre 2001, n. 14857, cit.
(41) Cfr. Coll. arb., 11 gennaio 2007, in http://www.ordineavvocati.ancona.it.
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ficato delle pattuizioni dell’accordo transattivo anche in relazione a quanto
previsto nel precedente contratto preliminare, sul piano dell’esclusione
della risoluzione per inadempimento (42), costituiscono oggetto dell’operazione ermeneutica compiuta dalla Corte di appello, risolvendosi la doglianza del ricorrente nella censura dell’interpretazione della volontà contrattuale che, avendo ad oggetto un accertamento di fatto, con particolare
riferimento al carattere novativo o meno della transazione (43), è notoriamente riservata all’indagine del giudice di merito ed, in quanto tale, è incensurabile in sede di legittimità, se, come nella fattispecie esaminata nella
decisione in epigrafe, è immune da violazioni di legge e vizi di motivazione (44). Ciò posto, appare evidente come una volta intervenuta la transazione che aveva ormai definito il rapporto derivante dall’iniziale contratto
preliminare che le parti con un’espressa manifestazione di volontà avevano
dichiarato di risolvere, il medesimo rapporto non era più disciplinato dal
negozio originario ma dall’accordo transattivo che a quello si era integralmente sostituito come si evince dalla ricostruzione compiuta dalla stessa
sentenza impugnata (45). Le considerazioni circa il carattere novativo della
transazione nella fattispecie qui considerata appaiono allora fuori luogo, tenuto conto che, secondo la ricostruzione della volontà negoziale compiuta
dai giudici di merito, le parti avevano consensualmente risolto il contratto
preliminare, dando definitiva sistemazione al rapporto fra le medesime intercorso, anche in punto di mero fatto, costituendo un nuovo rapporto di
fatto incompatibile con quello originario, come appunto avviene nella transazione novativa (46). Conseguentemente, la sentenza in epigrafe ribadisce
l’orientamento già emerso anni addietro in seno alla stessa corte di legittimità, in base al quale può aversi una transazione novativa anche in difetto
di un’espressa manifestazione di volontà delle parti, qualora, come nella
specie, il complesso dei patti della transazione sia incompatibile con la so-
(42) In dottrina — cfr. MICCIO, Comm. del codice civile, Dei singoli contratti e delle
altre fonti delle obbligazioni, libro IV, t. 4, Torino, 1959, 478 — si è osservato come la legge
escluda la risoluzione per inadempimento del contratto nel caso in cui il negozio di transazione abbia estinto il rapporto preesistente per novazione.
(43) Pertanto, appare evidente come, nella fattispecie, il carattere novativo della
transazione assuma una rilevanza decisiva in ordine all’applicabilità della clausola compromissoria.
(44) Cfr. Cass. 13 dicembre 2005, n. 27448, in Mass. Giust. civ., 2005, 12.
(45) In dottrina cfr. F. SANTORO-PASSARELLI, op. cit., 22, che al riguardo precisa: « la
distinzione fra transazione non novativa e transazione novativa si risolve quindi nell’antitesi
fra parziale persistenza e totale eliminazione della fonte originaria della situazione giuridica, intorno alla quale verte la lite ».
(46) Come affermato da Trib. Cagliari, 26 febbraio 1997, in Riv. giur. sarda, 1998,
660, con nota di TUVERI, Brevi note in tema di transazione novativa e transazione propria,
soltanto nella transazione propria conservano validità le clausole del precedente contratto non
modificate dalla transazione.
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pravvivenza del vecchio rapporto (47). Peraltro, anche nel caso della transazione semplice o conservativa, in cui le parti si limitano a regolare il preesistente rapporto mediante reciproche concessioni senza crearne uno
nuovo, il rapporto è comunque destinato ad essere disciplinato dall’accordo
transattivo e non da quello precedente. In definitiva, come già rilevato in
passato dalla dottrina (48), il principio dell’autonomia della clausola compromissoria contenuta in un contratto può valere a garantire la sopravvivenza della suddetta disposizione pattizia unicamente in presenza di una
modifica od integrazione del medesimo originario contratto contenuta in un
successivo accordo transattivo che non rivesta natura novativa (49), dovendo altrimenti desumersi la rinuncia delle medesime parti dell’originario
rapporto al patto compromissorio (50).
VITO AMENDOLAGINE
(47) Cfr. Cass. 13 settembre 1996, n. 8264, in Giur. it., 1998, 675.
(48) CECCHELLA, L’arbitrato, in Giur. sist. dir. proc. civ. diretta da A. Proto Pisani,
Torino, 1991, 99.
(49) Cosı̀ RUBINO SAMMARTANO, Il diritto dell’arbitrato, Padova, 2005, 366.
(50) SCHIZZEROTTO, Arbitrato e transazione, in Giur. it., 1969, I, 1, 1195.
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TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE LAZIO, Sez. I, ordinanza 12
aprile 2011, n. 3202/11; GIOVANNINI Pres.; BOTTIGLIERI Est..
Giudizio a quo - Declaratoria di rilevanza e di non manifesta infondatezza della
questione di legittimità costituzionale - Obbligatorietà della mediazione e
condizione di procedibilità della domanda giudiziale - Requisiti degli organismi di mediazione e dei mediatori.
Va ritenuta rilevante e non manifestamente infondata, e pertanto rimessa in
via incidentale alla Corte costituzionale, la questione di legittimità costituzionale
degli artt. 5 e 16, c. 1 del D.Lgs. n. 28/2010 in relazione agli artt. 24 e 77 Cost.
MOTIVI DELLA DECISIONE — 11. Punto centrale della stessa, nonché qualificante
espressione dell’interesse sostanziale dedotto in giudizio, alla luce della prima e
della seconda doglianza di cui al ricorso n. XXXXX, è la dedotta omissione, da
parte dell’art. 4 dell’impugnato regolamento 180/2010, di criteri volti a delineare i
requisiti attinenti alla specifica professionalità giuridico-processuale del mediatore.
L’illegittimità di siffatta omissione, precisano i ricorrenti, non si apprezza che
in relazione alle previsioni contenute nell’art. 4 della direttiva 2008/52/CE e nell’art. 60 della Legge n. 69/2009, che appunto prevedono, rispettivamente, che la
mediazione debba essere svolta con competenza e professionalità.
Ciò in quanto l’art. 16 del D.Lgs. n. 28/2010, di cui il regolamento costituisce attuazione, e in relazione al quale i ricorrenti introducono il sospetto di incostituzionalità, ha obliato la valenza di detti requisiti (si ripete, competenza e professionalità), sostituendoli con altri (serietà ed efficienza), che il regolamento impugnato ha fatto propri, ma che non soddisfano, però, secondo i ricorrenti, le esigenze
considerate dal legislatore comunitario e da quello nazionale delegante.
(Omissis).
Ciò in quanto essa non esaurirebbe che in una misura molto limitata l’ambito
delle questioni sottoposte a giudizio, lasciando, in particolare, aperto l’interrogativo
di quale sia il ruolo che l’ordinamento giuridico nazionale intende effettivamente
affidare alla mediazione.
Laddove, invece, è proprio la puntuale individuazione di tale ruolo ad essere
imprescindibilmente pregiudiziale all’apprezzamento dei requisiti che, in via attuativa-amministrativa, è legittimo richiedere al mediatore ovvero da cui è legittimamente consentito prescindere.
È infatti intuitivo, anche sotto il profilo del grado di affidamento da ingenerarsi verso l’esterno in relazione alla figura del mediatore, e che si riflette nella
professionalità che in capo al medesimo l’amministrazione è tenuta a verificare,
che:
— una cosa è la costruzione della mediazione come strumento cui lo Stato in
un vasto ambito di materie obbligatoriamente e preventivamente rimandi per l’esercizio del diritto di difesa in giudizio;
— altra cosa è la costruzione della mediazione come strumento generale normativamente predisposto, di cui lo Stato incoraggi o favorisca l’utilizzo, lasciando
purtuttavia impregiudicata la libertà nell’apprezzamento dell’interesse del privato
ad adirla ed a sopportarne i relativi effetti e costi.
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In altre parole, non pare potersi porre fondatamente in dubbio che la disamina
rimessa a questa sede in ordine alla valutazione della fondatezza delle descritte doglianze, in relazione alle norme del regolamento n. 180 del 2010 interessate dalla
domanda demolitoria nei sensi sopra precisati, non possa prescindere dall’accertamento della correttezza, in raffronto ai criteri della legge delega ed ai precetti costituzionali, e tenuto conto delle disposizioni comunitarie, delle scelte operate dal
legislatore delegato laddove:
— all’art. 16, ha conformato gli organismi di conciliazione a parametri, o
meglio a qualità, che attengono esclusivamente ed essenzialmente all’aspetto della
funzionalità generica, e che, per contro, sono scevri da qualsiasi riferimento a canoni tipologici tecnici o professionali di carattere qualificatorio ovvero strutturale;
— al contempo, all’art. 5, ha configurato, per le materie ivi previste, l’attività
da questi posta in essere come insopprimibile fase pre-processuale, cui altre norme
del decreto assicurano effetti rinforzati, ed, in quanto tale, suscettibile, in ogni suo
possibile sviluppo, o di conformare definitivamente i diritti soggettivi da essa coinvolti, o di incidervi, comunque, anche laddove ne residui la giustiziabilità nelle sedi
istituzionali e si intenda adire la tutela giudiziale.
E ciò anche tenendo particolarmente conto, sotto un profilo più generale, del
fatto che nel D.Lgs. n. 28/2010 si rinvengono, come al Collegio sembra palese,
elementi che fanno emergere due scelte di fondo che, in relazione ai diritti disponibili e nelle materie considerate, in misura inversamente proporzionale, ma biunivocamente, mirano, con forza cogente, l’una, alla de-istituzionalizzazione e de-tecnicizzazione della giustizia civile e commerciale nelle materie stesse, e, l’altra, alla
enfatizzazione di un procedimento para-volontario di componimento delle controversie nelle materie stesse, che, però, per come strutturate, non risultano omogenee
con una ulteriore scelta pure ivi operata.
Che consiste nel disporre che l’atto che conclude la mediazione, sottoposto ad
omologazione, possa acquistare efficacia di titolo esecutivo per l’espropriazione
forzata, per l’esecuzione in forma specifica e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale
(art. 12, D.Lgs. n. 28/2010) — rientrando, cosı̀, a pieno titolo tra gli atti aventi gli
stessi effetti giuridici tipici delle statuizioni giurisdizionali — laddove, nel corso
della mediazione, ed ai sensi decreto legislativo stesso, il profilo della competenza
tecnica del mediatore sbiadisce, e, vieppiù, anche il diritto positivo viene in evidenza solo sullo sfondo, come cornice esterna ovvero come generale limite alla
convenibilità delle posizioni giuridiche in essa coinvolte (divieto di omologare accordi contrari all’ordine pubblico o a norme imperative, art. 12 del D.Lgs. n. 28/
2010).
(Omissis).
13. Ma il Collegio non rinviene nella legge delega alcun elemento che consenta di ritenere che la regolazione della materia andasse effettuata nei sensi prescelti dalle prime tre previsioni dell’art. 5 del D.Lgs. n. 28/2010.
(Omissis).
13.1. Va subito chiarito che, laddove indubitabilmente è ascrivibile al più
volte nominato art. 60 della Legge n. 60/2009 la scelta di ampliare il ricorso alla
mediazione nelle controversie interne in ambito civile e commerciale, nessuno dei
criteri e principi direttivi previsti e nessuna altra disposizione dell’articolo espressamente assume l’intento deflattivo del contenzioso giurisdizionale o configura
l’istituto della mediazione quale fase pre-processuale obbligatoria.
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Né detto tema può ritenersi rientrante nell’ambito di libertà, ovvero nell’area
di discrezionalità commessa alla legislazione delegata, esso non costituendo, per
quanto sopra riferito e per quanto in seguito, né un mero sviluppo delle scelte effettuate in sede di delega né una fisiologica attività di riempimento o di coordinamento normativo, sia che si tratti di recepire la direttiva comunitaria n. 2008/52/CE
sia che si tratti della riforma del processo civile.
Ne consegue che, ai fini della positiva valutazione della costituzionalità della
previsione, tenendo conto del silenzio serbato dal legislatore delegante sullo specifico tema, occorrerebbe almeno che l’art. 60 lasci trasparire elementi in tal senso
univoci e concludenti.
Ma cosı̀ non è.
13.2. Va poi anche escluso che l’art. 60 della Legge n. 69/2009, con la locuzione del relativo comma 2 (regolare la riforma « nel rispetto e in coerenza con la
normativa comunitaria »), ovvero con il principio e criterio direttivo posto alla lett.
c) del comma 3 (« disciplinare la mediazione nel rispetto della normativa comunitaria ») possa essere inteso quale delega al Governo a compiere ogni e qualsivoglia
scelta latamente occasionata dalla direttiva comunitaria n. 2008/52/CE, che, come
sopra si è rilevato, il Governo non è stato neanche espressamente chiamato a recepire.
Ma, sul punto, come già sopra accennato, è ancor più decisivo osservare che
varie sono le opzioni da considerare a termini della direttiva in parola.
La prima e la più significativa, nonché quella chiaramente compiuta dall’art.
60, è indubbiamente quella relativa alla estensione dell’applicazione delle disposizioni comunitarie sulla mediazione anche ai procedimenti interamente ricadenti
nell’ordinamento nazionale, per i quali essa non è originariamente ed obbligatoriamente prevista.
La seconda è quella di valutare se il procedimento di mediazione debba essere « avviato dalle parti, suggerito od ordinato da un organo giurisdizionale o prescritto dal diritto di uno Stato membro » [art. 3, lett. a), direttiva n. 2008/52/CE].
La terza, logicamente conseguente all’ultima delle opzioni della seconda, è
quella di apprezzare se, dinamicamente, lasciare « impregiudicata la legislazione
nazionale che rende il ricorso alla mediazione obbligatorio oppure soggetto a incentivi o sanzioni, sia prima che dopo l’inizio del procedimento giudiziario » (art.
5, par. 2, direttiva n. 2008/52/CE).
Il tutto, tenendo comunque conto del limite costituito dalla necessità di non
impedire « alle parti di esercitare il diritto di accesso al sistema giudiziario » (art.
5, par. 2, direttiva n. 2008/52/CE).
(Omissis).
Quand’anche, pertanto, dovesse ritenersi che l’art. 60 si ponga un intento integralmente recettivo della direttiva n. 2008/52/CE, il silenzio del legislatore delegante su tali ultime opzioni non ha, né può avere, alla luce della doverosa interpretazione della delega in conformità agli artt. 24 e 77 Cost., il significato di assentire
la meccanica introduzione nell’ordinamento statale delle opzioni comunitarie che,
rispetto al diritto di difesa come scolpito dall’art. 24 Cost., appaiono le più estreme,
ovvero la « prescrizione di diritto » per talune materie dell’obbligatorietà del ricorso alla mediazione, e la predisposizione della massima « sanzione » per il suo
eventuale inadempimento, quale è l’improcedibilità rilevabile anche d’ufficio,
come, al contempo, ha fatto l’art. 5 del decreto delegato.
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(Omissis).
13.4.2. A sua volta, la lett. n) del più volte richiamato art. 60 prevede il dovere dell’avvocato di informare il cliente, prima dell’instaurazione del giudizio,
della « possibilità », e non dell’obbligo, di avvalersi dell’istituto della conciliazione
nonché di ricorrere agli organismi di conciliazione.
Anche tale disposizione non consente di ritenere che l’art. 5 del D.Lgs. n. 20/
2010, al comma 1, nelle tre prime disposizioni, trovi un riscontro nella legge delega n. 69/2009.
Infatti, la possibilità è, per definizione, diversa dall’obbligatorietà, e l’accentuazione di tale differenza non può ritenersi superflua, vertendosi nel campo della
deontologia professionale, ovvero in un complesso di obblighi e doveri la cui inosservanza può determinare conseguenze pregiudizievoli in base all’ordinamento civile (risarcimento del danno), amministrativo (sanzioni disciplinari) e pubblicistico
(art. 4, comma 4, D.Lgs. n. 28/2010), che richiedono l’esatta individuazione del
precetto presidiato dalle sanzioni.
Tant’è che lo stesso decreto delegato n. 28/2010 ha dovuto differenziare, al
comma 4 dell’art. 4, l’ipotesi in cui l’avvocato omette di informare il cliente della
« possibilità » di avvalersi della mediazione, da quella in cui l’omissione informativa concerne i casi in cui « l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale ».
(Omissis).
14.4. Non è vero, per quanto pure in precedenza riferito, che l’unico limite
posto al decreto delegato è quello del rispetto della possibilità di accesso alla giustizia.
Si è infatti sopra dato conto che nell’art. 60 della Legge n. 69/2009 sussistono
alcuni elementi di carattere positivo univoci e concludenti, tra cui primariamente il
richiamo alle già illustrate disposizioni di cui al D.Lgs. n. 5/2003 (artt. da 38 a 40,
ora abrogati dall’art. 23 del D.Lgs. n. 28/2010), che, nel rapporto tra mediazione e
processo, delineano un equilibrio molto diverso da quello assunto dal comma 1
dell’art. 5.
Né è conducente, per quanto sopra pure diffusamente esposto (13.2), affermare che la normativa comunitaria fa esplicito riferimento all’ipotesi di mediazione
obbligatoria anche negli specifici termini estremi fatti propri dal legislatore delegato (e non, si ribadisce, dalla legge delega), atteso che essi, nel contesto comunitario, come sopra acclarato, costituiscono previsioni via via « facoltizzate ».
(Omissis).
La mediazione civile ed i sospetti di illegittimità costituzionale per eccesso di delega.
1. Dall’entrata in vigore del codice di procedura civile ad oggi, le
riforme che hanno interessato il processo civile statale, nel dichiarato in-
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tento di perfezionarne la struttura, nonché di ridurne l’eccessiva durata,
sono state numerosissime (1).
Si interveniva sull’aspetto genetico e funzionale del rito (2) e, nel
contempo, si introducevano nuovi procedimenti speciali (3) ovvero a cognizione sommaria (4), diretti all’immediata e possibilmente rapida formazione
di titoli esecutivi (5).
Il descritto modus operandi poteva indurre a ritenere che la dilatazione dei tempi del giudizio fosse principalmente ascrivibile all’iter di formazione del provvedimento decisionale, non sempre in grado di adattarsi
alle peculiarità del caso concreto, anche attesa la scarsa duttilità degli istituti processual-civilistici a disposizione delle parti e l’uso capzioso che le
stesse ne facevano (6).
Del resto, la concezione autoritaria della giustizia, intesa per lo più
come « servizio ad esclusiva erogazione statale » (7), tendeva a ricercare le
soluzioni al problema all’interno della sfera pubblica, promuovendo in particolare l’emanazione di leggi a costo zero (8).
D’altra parte, è pur vero che il nostro ordinamento (9) conosceva strumenti di risoluzione alternativa delle controversie (c.d. A.D.R.) (10), non
solo di natura pubblicistica, come ad esempio le commissioni istituite
presso gli Istituti provinciali del lavoro, ma anche privatistica, quali l’arbi(1) Per un’efficace e completa sintesi delle riforme del processo civile succedutesi
negli anni, si veda GERRADO - MUTARELLI, Sulle cause della « irragionevole » durata del processo civile e possibili misure di reductio a « ragionevolezza », in www.judicium.it.
(2) Spunti in MONTELEONE, La crisi dell’appello civile ed il dissesto delle corti di appello: cause e rimedi, in www.judicium.it.
(3) RICCI, La riforma del processo civile, Torino, 2009, 54 ss. L’Autore è critico in
ordine all’intervenuta abrogazione del rito societario di cui al D.Lgs. n. 5/2003.
(4) RICCI, op. cit., 103 ss. Nell’opera, si rileva come il procedimento sommario di
cognizione sia in realtà un rito speciale, nonostante il nomen iuris, a cui le parti possono ricorrere per le cause di competenza del tribunale in composizione monocratica che non presentino particolari complessità. Amplius BOVE, Il procedimento sommario di cognizione di cui
agli articoli 702-bis ss. c.p.c., in www.judicium.it.
(5) Spunti in TISCINI, Nuovi (ma non troppo) modelli di titolo esecutivo per le prestazioni derivanti dal contratto di lavoro: il verbale di conciliazione stragiudiziale dopo il
restyling della Legge n. 183/2010 (c.d. collegato lavoro), in www.judicium.it; CAPPONI, Un
nuovo titolo esecutivo nella disciplina della mediazione/conciliazione, in www.judicium.it.
(6) Spunti in GERRADO - MUTARELLI, op. cit.
(7) Spunti in VERDE, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, Torino, 2006, 2 ss.; VERDE,
Profili del Processo civile, Vol. 1 Parte generale, Napoli, 2008, passim.
(8) CAPOBIANCO, I criteri di formulazione della c.d. proposta « aggiudicativa » del
mediatore, in www.judicium.it. L’Autore evidenzia come le « novità » degli ultimi tempi in
ambito civilistico abbiano interessato leggi dirette a sottrarre al giudice la cognizione delle
controversie.
(9) CAPOBIANCO, I criteri di formulazione della c.d. proposta « aggiudicativa » del
mediatore, cit., in www.judicium.it. Nell’opera si dà conto dell’importanza degli ADR nel sistema complessivo della giustizia.
(10) L’acronimo sta per Alternative Dispute Resolution.
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trato e la conciliazione (facoltativa) societaria di cui agli artt. 38-40 del
D.Lgs. n. 5/2003 (11).
Ciò nonostante, appariva del tutto evidente come né gli interventi legislativi succedutisi nel corso degli anni, né gli strumenti giustapposti alla
giurisdizione statale (12) avessero inciso in maniera significativa sulla durata del processo ovvero ridotto il numero delle controversie iscritte a ruolo
annualmente (13).
Nessun capolavoro della tecnica giuridica, infatti, avrebbe mai potuto
ovviare all’esiguo numero dei giudici e delle strutture di cui essi dispongono (14), cosı̀ come nessun modello processuale potrà mai essere valutato indipendentemente dalle risorse messe a disposizione dal Paese (15).
Inoltre, l’elevata litigiosità e l’habitus mentale che caratterizza la nostra società (16) privavano di efficacia gli strumenti giuridici a carattere volontario, come la conciliazione societaria.
Di fronte a tale impasse, dovendosi obtorto collo scartare l’ipotesi di
(11) Amplius NASCOSI, La conciliazione stragiudiziale societaria a quattro anni dalla
sua introduzione, in Riv. dir. proc. civ., 2008, 597; BIAVATI, Conciliazione strutturata e politiche della giustizia, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2005, 785 ss.; COSTANTINO, Il processo commerciale, Commento agli artt. 1-33, D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, in Commentario romano
al nuovo diritto delle società, diretto da D’ALESSANDRO, Padova, 2009; ZUMPANO, Della conciliazione stragiudiziale, in Il nuovo processo societario, a cura di LUISO, Torino, 2006, 597.
(12) A titolo esemplificativo, si indicano di seguito le leggi speciali che contemplano
i tentativi di conciliazione: la Legge n. 203 del 3 maggio 1982, in relazione alle controversie aventi ad oggetto i contratti agrari (per le quali il tentativo di conciliazione deve essere
obbligatoriamente esperito dinanzi all’ispettorato provinciale dell’agricoltura competente per
territorio); la Legge n. 146 del 12 giugno 1990, in relazione all’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali; la delibera dell’Autorità delle Comunicazioni n. 182/02/
CONS, in relazione alle controversie insorte nei rapporti tra organismi di telecomunicazioni
ed utenti; il D.Lgs. n. 68 del 9 aprile 2003, in relazione alle controversie relative al diritto
d’autore (tentativo obbligatorio); il D.Lgs. n. 70 del 9 aprile 2003, in relazione al commercio elettronico; il D.Lgs. n. 259 del 1o agosto 2003, in relazione alle comunicazioni elettroniche; il D.Lgs. n. 124 del 23 aprile 2004, in relazione alle controversie emergenti in sede
ispettiva; il D.Lgs. n. 129 del 6 maggio 2004, in relazione alle controversie di affiliazione
commerciale; la Legge n. 262 del 28 dicembre 2005, relativa alla risoluzione stragiudiziale
delle controversie da parte di banche ed intermediari finanziari; la Legge n. 84 del 22 febbraio 2006, in relazione alle controversie tra imprese del settore delle tintolavanderie; il
D.Lgs. n. 179 del 8 ottobre 2007, disciplina la camera di conciliazione e arbitrato per l’amministrazione dei procedimenti promossi, dinanzi la Consob, per la risoluzione delle controversie insorte tra investitori ed intermediari in tema di violazione da parte di quest’ultimi degli obblighi di informazione, correttezza e trasparenza previsti nei rapporti contrattuali con
gli investitori (tentativo facoltativo).
(13) Spunti in GERRADO - MUTARELLI, op. cit.
(14) Spunti in VERDE, Le ideologie del processo in un recente saggio, in Riv. trim. dir.
proc. civ., 2002, 679.
(15) VERDE, op. ult. cit., 681.
(16) Spunti in GERRADO - MUTARELLI, op. cit.; CAPONI, La mediazione obbligatoria a
pagamento: profili di incostituzionalità, in www.judicium.it.
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incrementare la compagine dell’organo giurisdizionale (17), si è ritenuto di
poter migliorare l’efficienza della giustizia statale (18), tramite il ricorso ad
organismi stragiudiziali, costruiti, seppure con riferimento a determinate
materie, come filtro all’azione giudiziale (19).
L’introduzione della mediazione per le controversie civili e commerciali — peraltro sollecitata dalla direttiva comunitaria 2008/52/CE (20) —
veniva inizialmente accolta dalla Dottrina (21) come un’opportunità meritevole di attenzione: non si discuteva, infatti, l’an, bensı̀ il quomodo, ossia le
modalità concrete di attuazione della predetta direttiva (22).
A tal ultimo fine, l’art. 60 della Legge n. 69/2009 aveva fissato i principi ed i criteri direttivi (23) a cui il Governo si sarebbe dovuto ispirare nell’adottare il D.Lgs. n. 28/2010 (24).
(17) GERRADO - MUTARELLI, op. cit.
(18) Dalla relazione del Ministro della Giustizia al Senato si evince che ogni anno
vengono iscritte a ruolo circa 1.500.000 di controversie, a fronte di un arretrato pari a
5.600.000 di cause ancora pendenti. La relazione è tratta dal sito web www.senato.it.
(19) Con la circolare 4 aprile 2011, il Ministero della Giustizia ha fornito dei chiarimenti in materia di regolamento di procedura e conclusione del procedimento di mediazione,
nonché in materia di requisiti dei mediatori. Per un commento, si veda MARINARO, Il regolamento degli organismi non può eludere la condizione di procedibilità prevista dal sistema, in
Guida al diritto, 17, 2011, 38.
(20) VIGORITA, Europa e mediazione: le sollecitazioni della Commissione, in www.judicium.it; LUISO, Giustizia alternativa o alternativa alla giustizia?, in www.judicium.it.
(21) CAPOBIANCO, I criteri di formulazione della c.d. proposta « aggiudicativa » del
mediatore, cit., in www.judicium.it; CAPONI, op. cit. L’Autore rileva come nel mondo accademico si seguiva con attenzione il movimento innescato dalla delega in materia di mediazione.
(22) Spunti in BOVE, La mancata comparizione innanzi al mediatore, in www.judicium.it. A parere dell’Autore, è di tutta evidenza come la mediazione possa effettivamente rappresentare uno strumento per favorire indirettamente maggiore efficienza della giustizia statale, purché l’istituto sia costruito nel rispetto delle norme costituzionali. VIGORITI, La direttiva europea sulla mediation. Quale attuazione?, in questa Rivista, 2009, 1; MINERVINI, La direttiva europea sulla conciliazione in materia civile e commerciale, in Contratto e impr./Europa, 2009, 41; GHIRGA, Strumenti alternativi di risoluzione della lite: fuga dal processo o
dal diritto? (riflessioni sulla mediazione in occasione della pubblicazione della direttiva
2008/52/CE), in Riv. dir. proc., 2009, 357.
(23) LUISO, La delega in materia di mediazione e conciliazione, in Riv. dir. proc.,
2009, 1261; RICCI, op. cit., 103 ss.; ZUCCONI GALLI FONSECA, La nuova mediazione nella prospettiva europea: note a prima lettura, in Riv. dir. proc. civ., 2010, 665; BOVE, La riforma in
materia di conciliazione tra delega e decreto legislativo, in Riv. dir. proc. civ., 2010, 310.
(24) Sul punto in dottrina, si veda TISCINI, Il procedimento di mediazione per la conciliazione delle controversie civili e commerciali, in www.judicium.it; SCARSELLI, La nuova
mediazione e conciliazione: le cose che non vanno, in www.judicium.it; SANTANGELI, La mediazione obbligatoria nel corso del giudizio di primo grado, in www.judicium.it; FABIANI,
LEO, Prime riflessioni sulla « mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali » di cui al D.Lgs. 28/2010, in www.judicium.it; FABIANI, Profili critici del
rapporto tra mediazione e processo, in www.judicium.it; DITTRICH, Il procedimento di mediazione nel D.Lgs. n. 28 del 4 marzo 2010, in www.judicium.it.; DALFINO, Dalla conciliazione
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Il successivo D.M. n. 180/2010, emesso in attuazione dell’art. 16 del
predetto decreto legislativo, estendeva la qualifica di mediatore (25) a tutti
coloro in possesso, tra l’altro, di un titolo di studio non inferiore al diploma
di laurea universitaria triennale ovvero a tutti gli iscritti ad un ordine o collegio professionale, purché muniti della specifica formazione (della durata
di cinquanta ore) da conseguirsi presso gli enti all’uopo abilitati (26).
Entrata a regime la riforma (27) anche sotto il profilo dell’obbligatorietà (28), il TAR Lazio — accogliendo alcune eccezioni (29) provenienti dal
ceto forense (30), particolarmente ostile all’istituto di nuova fattura (31) —
ha investito il Giudice delle leggi, sul presupposto della non manifesta infondatezza, in relazione agli artt. 24 e 77 Cost. (32), della questione di le-
societaria alla « mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali », in www.judicium.it. Di recente, il Ministero della Giustizia ha emanato la circolare 4
aprile 2011, rubricata « Regolamento di procedura e requisiti dei mediatori. Chiarimenti »,
annotata da CAPONI, Adesione e partecipazione alla mediazione, in www.judicium.it.
(25) MARINARO, Il regolamento degli organismi non può eludere la condizione di
procedibilità cit., 2011, 38. La circolare opera un coordinamento intertemporale tra il D.M.
n. 222/2004 ed il D.M. n. 180/2010.
(26) Spunti in PORRECA, La mediazione tra processo e conflitto, in Foro it., 2010, V,
96. PORRECA, Enti di formazione e formatori, in www.judicium.it; ARMONE, PORRECA, Sospensione e cancellazione dal registro, in www.judicium.it.
(27) Una prima pronuncia in tal senso, Tribunale di Prato, decreto 30 marzo 2011,
con nota di SOLDATI, in Guida al diritto, 2011, Mediazione civile, inserto n. 16, II ss.
(28) L’art. 2, comma 16-decies del D.L. n. 225/2010 (c.d. milleproroghe), convertito
in Legge n. 10/2011, ha prorogato il termine di cui all’art. 24, comma 1, del D.Lgs. n. 28/
2010 di dodici mesi, limitatamente alle controversie in materia di condominio e di risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti.
(29) I ricorrenti avevano indicato, tra le cause di illegittimità dei provvedimenti impugnati: a) la previsione dell’obbligatorietà del tentativo di conciliazione in difetto della specifica previsione nella legge delega (accolta); b) la mancata previsione dell’obbligo della difesa tecnica nel procedimento di mediazione; c) la mancata previsione del requisito dell’indipendenza degli organismi e non solo dei mediatori; d) violazione dei criteri di selezione
degli organismi di mediazione e dei requisiti del mediatore (accolta); e) prescrizioni limitative per la costituzione degli organismi di mediazione; f) vizi in ordine alla determinazione
delle indennità di mediazione. Amplius, MARINARO, In vista della svolta del 21 marzo 2011,
occhi puntati sui ricorsi presentati al Tar, in Guida al diritto, 13, inserto n. 13, 2011, III
e IV.
(30) DELFINI, La mediazione per la conciliazione delle controversie civili e commerciali ed il ruolo dell’Avvocatura, in Riv. dir. priv., 2010, I, 25.
(31) MARINARO, Mediation advocacy, un momento qualificante per lo sviluppo e il
successo del nuovo sistema, in Guida al diritto, 14, inserto n. 4, 2011, IX ss. L’Autore rileva
la necessità di un’assistenza qualificata, prevalentemente di tipo giuridico ed economico, c.d.
mediation advocacy e lamenta « un esasperato ostruzionismo » posto in essere da taluni categorie professionali. SOLDATI, Mediazione civile: verso un differimento a metà e l’organismo
unitario si prepara all’astensione, in Guida al diritto, 10, 2011, inserto n. 2, II. L’Autore rileva la singolarità della forza con cui è stata brandita l’incostituzionalità della mediazione.
(32) CAPONI, op. cit.
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gittimità costituzionale relativa ai primi tre periodi del comma 1 dell’art. 5,
nonché al comma 1 dell’art. 16, del D.Lgs. n. 28/2010 (33).
2. Il primo degli aspetti di dubbia costituzionalità censurato dal TAR
Lazio e già segnalato in Dottrina (34) muove dall’art. 60, comma 3, lett. a)
della Legge n. 69/2009, che recita: « la mediazione, finalizzata alla conciliazione [deve avere] per oggetto controversie su diritti disponibili, senza
precludere l’accesso alla giustizia ».
A parere del giudice a quo — non avendo la descritta norma espressamente previsto che lo svolgimento della fase di mediazione dovesse costituire condizione per poter ottenere tutela giurisdizionale ed essendosi,
viceversa, limitata a ribadire il principio generale del diritto all’accesso alla
giustizia statale (35) — il Governo sarebbe andato oltre i principi ed i criteri direttivi fissati dalla delega (36).
A conferma di ciò, vi sarebbe la dizione letterale dell’art. 60, comma
3, lett. n), secondo cui l’avvocato è tenuto ad informare il cliente, prima
dell’instaurazione del giudizio, « della possibilità [e non dell’obbligo] di
avvalersi dell’istituto della conciliazione nonché di ricorrere agli organismi di conciliazione » (37).
Inoltre, nessun passaggio della legislazione delegante conterrebbe
espressamente il riferimento « all’intento deflattivo del contenzioso giurisdizionale », con la conseguenza che l’invocata condizione di procedibilità
« non costituirebbe un mero sviluppo delle scelte effettuate in sede di delega, né una fisiologica attività di riempimento o di coordinamento normativo ».
(33) Al riguardo, si veda SOLDATI, Mediazione: in attesa del giudice delle leggi immutato il quadro normativo di riferimento, in Guida al diritto, n. 17, 2011, 14 ss.
(34) SCARSELLI, L’incostituzionalità della mediazione di cui al d. leg. 28/10, in Foro
it., 2001, V, 54 ss.; CAPONI, op. cit.
(35) La dottrina è concorde nel ritenere che il D.Lgs. n. 28/2010 non sia preclusivo
dell’accesso alla giurisdizione statale, anche alla luce della sentenza della Corte di Giustizia
dell’Unione Europea, IV, 18 marzo 2010, richiamata da CAPONI, op. cit.
(36) Dello stesso avviso del TAR Lazio, ZINGALES, La fase di mediazione obbligatoria nel quadro delle garanzie costituzionali, in www.judicium.it; SCARSELLI, op. cit. In senso
contrario, CAPONI, op. cit.
(37) ZINGALES, op. cit.; ZIINO - VAJANA, Sul dovere dell’avvocato di informare il
cliente della possibilità di avvalersi della mediazione finalizzata alla conciliazione. Spunti
sull’ambito di applicazione del nuovo istituto della mediazione, in www.judicium.it; PUNZI,
Mediazione e conciliazione, in Riv. dir. proc., 2009, 845; CONSOLO, La improcrastinabile radicale riforma della Legge-Pinto, la nuova mediazione ex D.Lgs. n. 28/2010 e l’esigenza del
dialogo con il Consiglio d’Europa sul rapporto tra repubblica italiana e art. 6 Cedu, in Corr.
giur., 2010, 431; CAPONI, La giustizia civile alla prova della mediazione (a proposito del
d.leg. 4 marzo 2010 n. 28). Quadro generale, in Foro it., 2010, V, 92; PAGNI, Mediazione e
processo nelle controversie civili e commerciali: risoluzione negoziale delle liti e tutela giudiziale dei diritti, in Società, 2010, 620.
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Né varrebbe la pena affermare che l’art. 60 della Legge n. 69/2009
sarebbe caratterizzato da un intento integralmente recettivo della direttiva
2008/52/CE.
Ciò in quanto « il silenzio del legislatore delegante » non potrebbe in
ogni caso « assentire la meccanica introduzione nell’ordinamento statale
delle opzioni comunitarie ».
Poste queste premesse, appare opportuno focalizzare l’attenzione su
alcuni aspetti della citata fonte sovranazionale, in quanto se da un lato —
giurisprudenza costituzionale alla mano — la ratio che informa il citato art.
60 non appare trascurabile, dall’altro, è la stessa legge delega a precisare
che la mediazione deve essere disciplinata « nel rispetto della normativa
comunitaria ».
Ebbene, si può con ragionevole certezza ritenere che l’obiettivo principale della direttiva 2008/52/CE fosse quello di « agevolare un miglior
accesso alla giustizia » tramite il ricorso alla mediazione, che la legislazione degli Stati membri ben può rendere obbligatorio ovvero soggetto ad
incentivi o sanzioni, « purché tale legislazione non impedisca alle parti di
esercitare il diritto di accesso al sistema giudiziario » (38).
Numerosi sono i richiami in tal senso (39), alcuni dei quali (40) non si
limitano a prescrivere l’utilizzo dello strumento deflattivo alle sole controversie transfrontaliere (41), bensı̀ ne estendono la portata applicativa anche
ai singoli Paese dell’U.E.
D’altra parte, la descritta fonte comunitaria (42) contiene la previsione
(38) La norma citata nel testo si ricava dal punto n. 8 delle premesse, successivamente codificato nell’art. 5 della direttiva 2008/52/CE.
(39) Il punto n. 2 delle premesse recita: « al fine di agevolare un miglior accesso alla
giustizia, il consiglio europeo [...] ha invitato gli Stati membri ad istituire procedure extragiudiziali e alternative »; il punto n. 3 prevede che « l’istituzione di principi fondamentali
[nel settore dei metodi alternativi di risoluzione delle controversie sia] un passo essenziale
[...] per semplificare e migliorare l’accesso alla giustizia »; il punto n. 5 ribadisce che
« l’obiettivo di garantire un miglior accesso alla giustizia [...] dovrebbe comprendere l’accesso ai metodi giudiziali ed extragiudiziali di risoluzione delle controversie »; il punto n. 6
prescrive che « la mediazione può fornire una risoluzione extragiudiziale conveniente e rapida delle controversie in materia civile e commerciale »; l’incipit del punto n. 7 menziona
la locuzione: « Al fine di promuovere ulteriormente l’utilizzo della mediazione [...] ».
(40) Il punto n. 6 delle premesse, ultimo capoverso, stabilisce che i benefici della
mediazione « diventano anche più evidenti nelle situazioni che mostrano elementi di portata
transfrontaliera »; il punto n. 8 cosı̀ recita: « le disposizioni della presente direttiva dovrebbero applicarsi soltanto alla mediazione nelle controversie transfrontaliere, ma nulla dovrebbe vietare agli Stati membri di applicare disposizioni anche ai procedimenti di mediazione interni ».
(41) L’art. 3 della direttiva in esame definisce « transfrontaliera » una controversia
in cui almeno una delle parti è domiciliata o risiede abitualmente in uno Stato membro diverso da quello di qualsiasi altra parte.
(42) Nel testo ci si riferisce al punto n. 25 delle premesse della direttiva in esame.
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dell’onere dei professionisti di informare i loro clienti « della possibilità [e
non dell’obbligo] di mediazione ».
Da un confronto tra le disposizioni della direttiva 2008/52/CE e quelle
contenute nella Legge n. 69/2009, si evince, ictu oculi, la loro perfetta specularità, nonostante la normativa statale, a differenza di quella europea, non
preveda espressamente né la finalità deflattiva del contenzioso, né l’eventuale obbligatorietà della mediazione.
Entrambi i provvedimenti in esame, infatti, pongono come unico limite negativo all’impiego dell’istituto di nuovo conio quello di « non impedire l’accesso alla giustizia statale » (43) ed entrambi menzionano, come
contenuto dell’informativa che l’avvocato è tenuto a fornire al cliente, la
« possibilità » (44) (e non l’obbligo) di ricorrere alla predetta mediazione (45).
Quanto appena rilevato sarebbe di per sé sufficiente a far ritenere che
il legislatore nazionale si sia quindi limitato, nel delegare il Governo, a recepire pedissequamente, seppure in maniera sommaria, i contenuti della direttiva 2008/52/CE, della quale ha inevitabilmente inteso condividere la ratio.
Ma anche a voler prescindere dal superiore argomento, la giurisprudenza della Corte costituzionale (46) ha più volte affermato che i principi ed
i criteri direttivi enucleati dalle leggi di delega « sono dettati in aggiunta a
quelli contenuti nelle direttive da attuare » (47).
Ciò implica, quindi, non tanto una determinazione per relationem —
pure ammessa dalla Corte (48) — dei vincoli funzionali cui il legislatore
delegato deve attenersi, « quanto piuttosto una parziale abdicazione del
parlamento al compito di determinarli » (49).
È stato, inoltre, osservato (50) come le norme contenute nelle fonti di
diritto comunitario da recepire nel nostro ordinamento finiscano per diven-
(43) CAPONI, op. cit.
(44) ZINGALES, op. cit.
(45) Sul punto, si veda Trib. Varese, Sez. I civ., ordinanza del 1o marzo 2011, con
nota di MARINARO, in Guida al diritto, 2011, Mediazione civile, cit., X ss.
(46) IANNUCCILLI, in BELLOCCI, GIOVANNETTI, IANNUCCILLI, La delega legislativa, Parte
II, L’evoluzione « politipica » della delega legislativa nella giurisprudenza costituzionale, in
www.cortecostituzionale.it. In tal senso, nell’opera vengano richiamate, tra le altre, le seguenti sentenze della Corte: n. 341/2007, n. 32/2005, n. 132/1996, n. 285/1983.
(47) IANNUCCILLI, in BELLOCCI, GIOVANNETTI, IANNUCCILLI, op. cit.
(48) BELLOCCI, in BELLOCCI, GIOVANNETTI, IANNUCCILLI, op. cit., Parte I, La delega legislativa, in www.cortecostituzionale.it. L’Autore richiama le seguenti sentenze della Corte:
n. 200/1999, n. 383/1998, n. 126/1996, n. 156/1987.
(49) IANNUCCILLI, in BELLOCCI, GIOVANNETTI, IANNUCCILLI, op. cit.
(50) IANNUCCILLI, in BELLOCCI, GIOVANNETTI, IANNUCCILLI, op. cit.
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tare il « parametro interposto » (51), rispetto all’art. 76 della Carta, nell’eventuale giudizio di legittimità costituzionale sul decreto legislativo attuativo della delega a tal fine predisposta (52).
La giurisprudenza costituzionale si mostra, infatti, nettamente orientata a privilegiare la conformità della decretazione governativa alle direttive
europee, pur a scapito dei principi e criteri direttivi posti dal parlamento,
« considerando questi ultimi recessivi rispetto a quelli desumibili dalla
normativa comunitaria da attuare » (53).
In altre parole, è come se la produzione sovranazionale regolasse direttamente il rapporto di delegazione, senza necessità di interrogarsi, in
maniera precipua, sulla relazione intercorrente tra le scelte governative e
quelle parlamentari.
In questa prospettiva, il carattere vincolante delle indicazioni fornite
dal parlamento dipenderebbe dalla loro conformità al provvedimento legislativo europeo, dovendo dunque il governo ispirarsi prioritariamente alle
disposizioni dettate dall’organo sovranazionale (54).
Ne deriva che « la delega per l’adeguamento al diritto comunitario
sembra comunque privilegiare una sorta di rapporto diretto tra direttiva
comunitaria e legislazione delegata, che finisce per fare sostanzialmente a
meno dell’intermediazione parlamentare » (55).
Alla luce di quanto precede, appare condivisibile l’opinione (56) secondo la quale il rilievo di incostituzionalità della mediazione obbligatoria
per eccesso di delega potrebbe non cogliere nel segno (57): la direttiva
2008/52/CE, che contempla anche l’ipotesi dell’obbligatorietà e si prefigge
espressamente di garantire un miglior accesso alla giustizia statale, riempirebbe di contenuto la legge delega n. 69/2009.
3.
Il secondo aspetto (58) che induce il giudice a quo a solleci-
(51) IANNUCCILLI, in BELLOCCI, GIOVANNETTI, IANNUCCILLI, op. cit. L’espressione nel testo è dell’Autore.
(52) Spunti in PALADIN, Diritto Costituzionale, Torino, 1998, 180 ss.; MARTINES, Diritto costituzionale, Milano, 2005, 33 ss.; CARETTI, DE SIERVO, Istituzioni di diritto pubblico,
Torino, 2004, 496 ss.
(53) IANNUCCILLI, in BELLOCCI, GIOVANNETTI, IANNUCCILLI, op. cit.
(54) In tal senso, si veda IANNUCCILLI, in BELLOCCI, GIOVANNETTI, IANNUCCILLI, op. cit.
(55) IANNUCCILLI, in BELLOCCI, GIOVANNETTI, IANNUCCILLI, op. cit.
(56) In dottrina si veda CAPONI, op. cit. In giurisprudenza, si veda Trib. Prato, decreto
30 marzo 2011, con nota di SOLDATI, in Guida al diritto, 2011, Mediazione civile cit., IV ss.
L’Autore rileva come la mediazione sia in linea con i principi della legge delega, che a loro
volta rinviano sul punto alla normativa comunitaria ed alla disciplina della conciliazione societaria.
(57) ZINGALES, op. cit.; CAPONI, op. cit.
(58) SOLDATI, Al vaglio l’obbligo del « previo esperimento », in Guida al diritto, 17,
2011, 32 ss. Secondo l’Autore, qualora la Corte ravvisasse nella questione di rilevanza costi-
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tare lo scrutinio di legittimità costituzionale investe l’art. 16, comma 1, del
D.Lgs. n. 28/2010 ed in particolare la previsione secondo cui la mediazione
deve essere condotta da organismi, pubblici o privati, che diano garanzie di
« serietà » ed « effıcienza » (59).
Sotto tale profilo, l’eccesso di delega si evincerebbe dal raffronto tra
il tenore letterale della riferita disposizione e l’art. 60, lett. b), della Legge
n. 69/2009, posto che tra i principi ed i criteri direttivi elaborati dal Parlamento vi erano quelli di « professionalità » ed « indipendenza » (60).
D’altra parte, l’art. 4 del D.M. n. 180/2010 (attuativo dell’art. 16 del
D.Lgs. n. 28/2010) non recherebbe in sé alcun criterio volto a delineare « i
requisiti attinenti alla specifica professionalità giuridico-professionale del
mediatore » (61).
A parere del TAR Lazio — che da ciò ricava la « rilevanza » della
pronuncia della Corte costituzionale ai fini della decisione del caso concreto portato alla sua attenzione — il legislatore delegato, nel costruire la
mediazione, avrebbe, quindi, « lasciato aperto l’interrogativo di quale sia
il ruolo che l’ordinamento giuridico nazionale intenderebbe effettivamente
affıdare » all’istituto in esame, determinando una dicotomia tra due diversi
e distinti modelli possibili.
Il primo, fondato sull’art. 5 del D.Lgs. n. 28/2010, inquadrerebbe la
mediazione, per un vasto ambito di materie, come strumento preventivamente obbligatorio per l’esercizio del diritto di difesa, « suscettibile, in
ogni suo sviluppo, di conformare definitivamente i diritti soggettivi in essa
coinvolti ».
In tal caso, il mediatore non potrebbe essere scevro dei canoni tecnici
e professionali richiesti dalla legge delega, onde evitare di pregiudicare la
residua giustiziabilità, nelle sedi istituzionali, dei diritti soggettivi azionati.
Il secondo, fondato sull’art. 16 del D.Lgs. n. 28/2010 e sull’art. 4 del
D.M. n. 180/2010, delineerebbe la mediazione come uno strumento di carattere generale, normativamente predisposto, che lasci tuttavia impregiudicata la libertà del privato ad utilizzarla ed a sopportarne i relativi costi.
tuzionale potrebbe emanare una sentenza addittiva, affermando che l’art. 16 D.Lgs. n. 28/
2010 è incostituzionale nella parte in cui non prevede che in sede di iscrizione gli organismi
di mediazione debbano offrire, oltre a serietà ed efficienza, anche garanzie di competenza e
professionalità.
(59) FABIANI, LEO, Prime riflessioni sulla « mediazione finalizzata alla conciliazione
delle controversie civili e commerciali », cit.; CAPONI, La mediazione obbligatoria, cit.; SCARSELLI, La nuova mediazione, cit. Spunti in IMPAGNATIELLO, La domanda di mediazione: forma,
contenuto ed effetti, in www.judicium.it.
(60) VACCÀ, MARTELLO, La mediazione delle controversie, Milanofiori Assago, 2010,
110; IMPAGNATIELLO, La domanda di mediazione, cit.; SANTI in, SANTI, COVATA, DI ROCCO, MARUCCI, MINELLI, TARRICONE, La mediazione per la composizione delle controversie civili e
commerciali, a cura di BOVE, Padova, 2011, 280.
(61) Spunti in PORRECA, Enti di formazione, cit.
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In tale ottica, il profilo della competenza tecnica del mediatore sbiadirebbe ed « il diritto positivo [verrebbe] in evidenza solo sullo sfondo,
come cornice esterna ovvero come limite generale alla convenibilità delle
posizioni giuridiche in essa coinvolte ».
Prima di valutare la bontà di tali rilievi, occorre analizzare, per le ragioni già esposte nel paragrafo precedente, l’impianto della direttiva 2008/
52/CE, con particolare riferimento alla funzione della mediazione ed al
ruolo dei soggetti chiamati ad amministrarla (62).
La fonte di diritto comunitario recepita dal nostro ordinamento tramite
l’art. 60 della Legge n. 69/2009 guarda all’istituto stragiudiziale come
un’alternativa « non deteriore [rispetto] al procedimento giudiziario » (63),
caratterizzato da « un grado minimo di compatibilità con le norme di procedura civile » (64), sia in ordine alla « riservatezza » (65) del procedimento, sia alla « decadenza » ed alla « prescrizione » dei diritti (66).
La necessità di un siffatto coordinamento con il processo statale nasce
anche dall’esigenza di vedere garantita la possibilità di ottenere, in via giudiziale, l’omologazione dell’accordo raggiunto all’esito del procedimento
di mediazione (67).
Sul punto, la pronuncia in commento evidenzia come il verbale omologato, « rientrando [per espressa dizione comunitaria] a pieno titolo tra gli
atti aventi gli stessi effetti giuridici tipici delle statuizioni giurisdizionali »,
(62) ZINGALES, op. cit.; CAPONI, op. cit.
(63) Si veda il punto n. 19 delle premesse della direttiva 2008/52/CE.
(64) Si veda il punto n. 23 delle premesse della direttiva 2008/52/CE. Esigenze di
coordinamento tra l’attività di mediazione ed il processo civile si manifestano, ad esempio,
in riferimento alla trascrizione della domanda giudiziale nelle more dell’esperimento del tentativo obbligatorio.
(65) Amplius, si veda il punto n. 23 delle premesse ed il relativo art. 8 della direttiva
2008/52/CE. In dottrina, BORGHESI, Prime note su riservatezza e segreto nella mediazione, in
www.judicium.it.
(66) D’altra parte, l’art. 6 della direttiva comunitaria è rubricato « esecutività degli
accordi risultanti dalla mediazione »; l’art. 7 disciplina la riservatezza del procedimento e
l’art. 8 gli effetti dell’istanza sulla prescrizione e sulla decadenza.
(67) Al riguardo, si veda il punto n. 19 delle premesse ed il relativo art. 6 della direttiva 2008/52/CE, che recita: « Gli Stati membri assicurano che le parti, o una di esse con
l’esplicito consenso delle altre, abbiano la possibilità di chiedere che il contenuto di un accordo scritto risultante da una mediazione sia reso esecutivo. Il contenuto di tale accordo è
reso esecutivo salvo se, nel caso in questione, il contenuto dell’accordo è contrario alla
legge dello Stato membro in cui viene presentata la richiesta o se la legge di detto Stato
membro non ne prevede l’esecutività. Il contenuto dell’accordo può essere reso esecutivo in
una sentenza, in una decisione o in un atto autentico da un organo giurisdizionale o da
un’altra autorità competente in conformità del diritto dello Stato membro in cui è presentata
la richiesta ». In dottrina, spunti in TISCINI, Nuovi (ma non troppo) modelli di titolo esecutivo
per le prestazioni derivanti dal contratto di lavoro, cit.; CAPPONI, Un nuovo titolo esecutivo,
cit.
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non possa non essere emanato da un soggetto privo di specifiche competenze giuridiche.
Le superiori considerazioni sembrano, quindi, presentare all’interprete
un modello di A.D.R. (68) pensato, sin dalla sua genesi europea, con finalità inevitabilmente conformative dei diritti soggettivi in esso coinvolti (69),
postulando, pertanto, la competenza tecnica del mediatore e la « professionalità » degli organismi abilitati all’erogazione del servizio di mediazione (70).
D’altro canto, la generica definizione di « mediatore » fornita dalla
direttiva 2008/52/CE (71) non contiene alcuna espressa indicazione in ordine ai requisiti necessari per poter acquisire la qualifica in parola.
I richiami comunitari alla « qualità » della mediazione, alla « formazione » ed alla « competenza » dei soggetti chiamati a gestirne il procedimento ben si attagliano, quindi, ai criteri di « professionalità » e di « indipendenza » fissati dalla Legge n. 69/2009.
Tirando le fila del discorso, il giudizio di « non manifesta infondatezza » formulato dal TAR Lazio in ordine alla qualifica del « mediatore »
appare condivisibile, posto che l’attività di mediazione non sembrerebbe
poter prescindere da organismi e da mediatori professionali, competenti,
imparziali ed indipendenti.
4. La decisione in commento è stata salutata con estremo favor dal
mondo dell’avvocatura, che ha ravvisato in essa il preludio alla declaratoria di incostituzionalità, con effetto demolitorio, dell’intero impianto della
mediazione civile e commerciale.
È, infatti, verosimile ritenere che, qualora venisse meno l’obbligatorietà della descritta fase pre-processuale, si ridurrebbero drasticamente le
possibilità di successo dell’istituto.
L’intervenuta investitura del giudice ad quem non deve, però, essere
sopravvalutata: il giudizio espresso dal TAR Lazio, inserendosi, infatti, all’interno di un sistema di controllo che, sotto il profilo della rimessione in
via incidentale alla Corte costituzionale, può senz’altro definirsi « diffuso (72) », non costituisce, nel nostro ordinamento, un parere relativo alla
(68) Amplius JULINI, La mediazione nelle controversie civili e commerciali, Forlı̀,
2010, 43 ss.
(69) FABIANI, Profili critici, cit.
(70) Spunti in CAPOBIANCO, I criteri, cit.
(71) L’art. 3, lett. b), della direttiva 2008/52/CE recita: « per “mediatore” si intende
qualunque terzo cui è chiesto di condurre la mediazione in modo effıcace, imparziale e competente, indipendentemente dalla denominazione o dalla professione di questo terzo nello
Stato membro interessato e dalle modalità con cui è stato nominato o invitato a condurre la
mediazione ».
(72) PALADIN, Diritto Costituzionale, cit., 180 ss.; CARETTI, DE SIERVO, Istituzioni di
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probabile incostituzionalità delle norme censurate (73), bensı̀ si limita a
sancire — appunto — la « non manifesta infondatezza » della questione
portata alla sua attenzione.
Inoltre, gli argomenti precedentemente esposti inducono a ritenere —
sotto il profilo dell’obbligatorietà della mediazione — che l’emanazione di
una sentenza di accoglimento (74) da parte del Giudice delle leggi non sia
cosı̀ scontata.
In ogni caso, giova notare come il Parlamento potrebbe ovviare alla
pronuncia della Corte, emanando una delega c.d. « integrativa/correttiva (75) » di quella di cui all’art. 60 della Legge n. 69/2009, con l’intento di
sanare, ex post, l’eventuale violazione dell’art. 77 Cost.
Non resta, quindi, che attendere i futuri sviluppi della vicenda, confidando che venga rimosso, quanto prima, lo stato di incertezza che aleggia
sulla fase introduttiva del processo civile.
CHRISTIAN CORBI
diritto pubblico, cit., Torino, 2004, 378. Gli Autori citati rilevano come il sistema italiano di
verifica della legittimità delle leggi rappresenti un tertium genus tra il modello americano,
c.d. diffuso, e quello austriaco, c.d. accentrato. Sotto il profilo dell’accesso alla Corte, il modello italiano assume i tratti di quello americano (diffuso), mentre sotto il profilo dell’unicità
ed esclusività dell’organo decisionale, assume i tratti di quello austriaco (accentrato).
(73) SOLDATI, Mediazione: in attesa del giudice delle leggi, cit., 2011, 14 ss. L’Autore evidenzia come la decisione del TAR Lazio rappresenti solo un primo punto di arrivo.
Per un commento sulle motivazioni dell’ordinanza, si veda PONTE, Continua il braccio di
ferro sul nuovo istituto. Segnato un punto a favore di chi lo avversa, in Guida al diritto, 17,
2011, 29 ss.
(74) Sugli effetti delle sentenze di accoglimento della Corte costituzionale si veda
CARETTI, DE SIERVO, Istituzioni di diritto pubblico, cit., Torino, 2004, 496 ss.
(75) IANNUCCILLI, in BELLOCCI, GIOVANNETTI, IANNUCCILLI, op. cit.
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II)
STRANIERA
Sentenze annotate
STATI UNITI D’AMERICA - SUPREME COURT; sentenza 27 aprile 2010 —
Stolt Nielsen S.A. ed altri c. Animalfeeds International Corp.
Class action - Arbitrato - Clausola compromissoria contenuta in contratto individuale - Mancata esplicita autorizzazione a devolvere un’eventuale
azione di classe ad arbitri - Illegittima imposizione dell’arbitrato di classe
alle parti.
Imporre l’arbitrato di classe alle parti, quando queste non lo hanno autorizzato in modo esplicito nella clausola compromissoria, è in contrasto con il Federal Arbitration Act, il cui scopo fondamentale è dare attuazione alle convenzioni
arbitrali nel rispetto della volontà delle parti.
CENNI DI FATTO. — Animalfeeds International Corp. (da ora Animalfeeds), una
società che fornisce generi alimentari grezzi a produttori di mangimi per animali,
stipula un contratto di trasporto con Stolt-Nielsen, uno spedizioniere marittimo
operativo nel mercato mondiale dei parcel tankers, imbarcazioni dotate di cisterne
per il trasporto di liquidi. Il contratto contiene una clausola che prevede la devoluzione ad arbitri in caso di controversia individuale, ma che nulla dispone in caso di
controversia collettiva (*).
A seguito di un’istruttoria condotta dall’autorità antitrust americana, emerge
che Stolt-Nielsen ha preso parte ad un cartello per la fissazione dei prezzi delle
spedizioni via mare. Animalfeeds promuove quindi nella Federal District Court
una azione di classe contro Stolt-Nielsen ed altri spedizionieri marittimi al fine di
ottenere il risarcimento dei danni causati dalla condotta anti-concorrenziale.
Le parti acconsentono a devolvere la controversia ad arbitri, pur riconoscendo
(*) La clausola compromissoria era cosı̀ formulata: « Arbitration. Any dispute arising from the making, performance or termination of this Charter Party shall be settled in
New York, Owner and Charterer each appointing an arbitrator, who shall be a merchant,
broker or individual experienced in the shipping business; the two thus chosen, if they cannot agree, shall nominate a third arbitrator who shall be an Admiralty lawyer. Such arbitration shall be conducted in conformity with the provisions and procedure of the United States Arbitration Act [Federal Arbitration Act], and a judgment of the Court shall be entered
upon any award made by said arbitrator ».
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il difetto di esplicita devoluzione all’arbitrato di classe. Il collegio arbitrale, in linea con la giurisprudenza post-Bazzle, stabilisce che la clausola compromissoria,
anche se silent on class arbitration, autorizza l’arbitrato di classe.
La District Court annulla il lodo arbitrale perché viziato da manifest disregard
of the law, in quanto gli arbitri hanno mancato di applicare il principio del federal
maritime law in base al quale l’interpretazione del contratto deve tener conto delle
consuetudini e degli usi commerciali. Animalfeeds propone appello contro la decisione della District Court; la Circuit Court of Appeals riforma la decisione negando
che essa avesse alcun supporto normativo e giurisprudenziale.
Stolt-Nielsen ricorre alla Corte Suprema americana affinché questa decida se
l’imposizione dell’arbitrato di classe alle parti, in mancanza di una espressa autorizzazione in tal senso, è legittima alla luce del Federal Arbitration Act (FAA), 9
U.S.C. § 1 ss.
MOTIVI DELLA DECISIONE. — (Omissis). The panel’s conclusion is fundamentally
at war with the foundational FAA principle that arbitration is a matter of consent.
In certain contexts, it is appropriate to presume that parties that enter into an
arbitration agreement implicitly authorize the arbitrator to adopt such procedures as
are necessary to give effect to the parties’ agreement. Thus, we have said that
« “procedural” questions which grow out of the dispute and bear on its final disposition’ are presumptively not for the judge, but for an arbitrator, to decide. » Howsam v. Dean Witter Reynolds, Inc., 537 U.S. 79, 84 (2002) (quoting John Wiley &
Sons, Inc. v. Livingston, 376 U.S. 543, 557 (1964)). This recognition is grounded
in the background principle that « [w]hen the parties to a bargain sufficiently defined to be a contract have not agreed with respect to a term which is essential to a
determination of their rights and duties, a term which is reasonable in the circumstances is supplied by the court. » Restatement (Second) of Contracts § 204 (1979).
An implicit agreement to authorize class-action arbitration, however, is not a
term that the arbitrator may infer solely from the fact of the parties’ agreement to
arbitrate. This is so because class-action arbitration changes the nature of arbitration to such a degree that it cannot be presumed the parties consented to it by simply agreeing to submit their disputes to an arbitrator. In bilateral arbitration, parties
forgo the procedural rigor and appellate review of the courts in order to realize the
benefits of private dispute resolution: lower costs, greater efficiency and speed, and
the ability to choose expert adjudicators to resolve specialized disputes. See Gilmer
v. Interstate/Johnson Lane Corp., 500 U.S. 20, 31 (1991); Mitsubishi Motors, 473
U.S., at 628; see also 14 Penn Plaza LLC v. Pyett, 556 U.S. (2009) (slip. op., at
7-8) (« Parties generally favor arbitration precisely because of the economics of dispute resolution » (citing Circuit City Stores, Inc. v. Adams, 532 U.S. 105, 123
(2001)); Gardner-Denver, supra, at 57 (« Parties usually choose an arbitrator because they trust his knowledge and judgment concerning the demands and norms
of industrial relations »). But the relative benefits of class-action arbitration are
much less assured, giving reason to doubt the parties’ mutual consent to resolve disputes through class-wide arbitration. Cf. First Options, supra, at 945 (noting that
« one can understand why courts might hesitate to interpret silence or ambiguity on
the “who should decide arbitrability” point as giving the arbitrators that power, for
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doing so might too often force unwilling parties to arbitrate » contrary to their expectations).
Consider just some of the fundamental changes brought about by the shift
from bilateral arbitration to class-action arbitration. An arbitrator chosen according
to an agreed upon procedure, see, e.g., supra, at 2, no longer resolves a single dispute between the parties to a single agreement, but instead resolves many disputes between hundreds or perhaps even thousands of parties. See App. 86a (« [W]e
believe domestic class members could be in the hundreds » and that « [t]here could
be class members that ship to and from the U.S. who are not domestic who we
think would be covered »); see also, e.g., Bazzle, 351 S. C., at 251, 569 S. E. 2d,
at 352-353 (involving a class of 1,899 individuals that was awarded damages, fees,
and costs of more than $14 million by a single arbitrator). Under the Class Rules,
« the presumption of privacy and confidentiality » that applies in many bilateral arbitrations « shall not apply in class arbitrations, » see Addendum to Brief for American Arbitration Association as Amicus Curiae 10a (Class Rule 9(a)), thus potentially frustrating the parties’ assumptions when they agreed to arbitrate. The arbitrator’s award no longer purports to bind just the parties to a single arbitration
agreement, but adjudicates the rights of absent parties as well. Cf. Ortiz v. Fibreboard Corp., 527 U.S. 815, 846 (1999) (noting that « the burden of justification rests on the exception » to the general rule that « one is not bound by a judgment in
personam in a litigation in which he is not designated as a party or to which he has
not been made a party by service of process » (internal quotation marks omitted)).
And the commercial stakes of class-action arbitration are comparable to those of
class-action litigation, cf. App. in No. 06-3474-cv (CA2), at A-77, A-79, 30, 31, 40,
even though the scope of judicial review is much more limited, see Hall Street, 552
U.S., at 588. We think that the differences between bilateral and class action arbitration are too great for arbitrators to presume, consistent with their limited powers
under the FAA, that the parties’ mere silence on the issue of class-action arbitration
constitutes consent to resolve their disputes in class proceedings.
The dissent minimizes these crucial differences by characterizing the question
before the arbitrators as being merely what « procedural mode » was available to
present AnimalFeeds’ claims. Post, at 9. If the question were that simple, there
would be no need to consider the parties’ intent with respect to class arbitration.
See Howsam, supra, at 84 (committing « procedural questions » presumptively to
the arbitrator’s discretion (internal quotation marks omitted)). But the FAA requires more. Contrary to the dissent, but consistent with our precedents emphasizing
the consensual basis of arbitration, we see the question as being whether the parties agreed to authorize class arbitration. Here, where the parties stipulated that
there was « no agreement » on this question, it follows that the parties cannot be
compelled to submit their dispute to class arbitration.
V
For these reasons, the judgment of the Court of Appeals is reversed, and the case
is remanded for further proceedings consistent with this opinion.
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Recenti sviluppi sulla class action arbitration negli Stati Uniti.
1. Nell’aprile del 2010, la Corte Suprema americana è intervenuta
nuovamente sulla questione della devoluzione delle azioni di classe ad arbitri (la c.d. class action arbitration) in mancanza di una espressa autorizzazione delle parti nella clausola compromissoria. Si tratta di una decisione
che, a sette anni dalla celebre pronuncia Bazzle, fa mutare sensibilmente le
prospettive dell’arbitrato di classe, offrendo numerosi spunti di riflessione.
Il ricorso all’arbitrato di classe è una prassi ormai consolidata negli
Stati Uniti che permette di estendere i vantaggi dei metodi alternativi di risoluzione delle controversie alla tutela di classe. L’ambito applicativo della
class action arbitration è quello della tutela risarcitoria dei diritti contrattuali nascenti dall’inadempimento del contraente forte, in presenza di un
fatto lesivo dei diritti di molti.
In questi casi, il divario fra il potere economico e negoziale della società danneggiante e quello dei danneggiati, spesso piccole o medie imprese o singoli consumatori, è tale da costituire un deterrente decisivo per
la tutela dei diritti lesi, ancor più in presenza di controversie di modico valore, allorché il ricorso alla tutela individuale risulterebbe eccessivamente
oneroso rispetto alla modesta entità dei singoli danni arrecati. In questo
contesto, la riunione di una molteplicità di interessi individuali mediante
un’azione di classe permette di aumentare la forza negoziale dei singoli,
offrendo un valido strumento di accesso alla giustizia, oltre che realizzare
un effetto di prevenzione e controllo sui comportamenti imprenditoriali illeciti.
Per ricorrere all’arbitrato di classe occorre tuttavia che la volontà delle
parti in merito alla ammissibilità della class action arbitration sia manifestata chiaramente nella clausola compromissoria, senza lasciare alcun dubbio interpretativo. A tale proposito, la valutazione sul contenuto del patto
arbitrale può apparire di pronta soluzione nei casi in cui le parti autorizzino
ovvero escludano espressamente la devoluzione di un’eventuale azione di
classe ad arbitri. Più controversa è invece l’ipotesi in cui le parti non si
pronuncino affatto sulla ammissibilità dell’arbitrato di classe (si parla di
« arbitration clause silent on class arbitration »), situazione che, di fatto,
può verificarsi assai di frequente.
In tale caso, l’interpretazione dell’arbitro sul contenuto della clausola
compromissoria inserita nel contratto è di importanza fondamentale, potendo aprire ovvero chiudere le porte alla class arbitration, con risvolti assai significativi ai fini della tutela dei singoli.
Con la decisione che si annota, la Corte Suprema, richiamandosi ai
principi del Federal Arbitration Act, ha fornito indicazioni precise sul
modo di interpretare il silenzio delle parti nella clausola compromissoria,
prendendo le distanze da quell’orientamento giurisprudenziale che dal si118
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lenzio aveva fatto discendere la possibilità di autorizzare l’arbitrato di
classe.
Ma prima di andare oltre, occorre soffermarsi sulla pronuncia Bazzle
con la quale la Corte Suprema ha esaminato per la prima volta la questione
della devoluzione delle azioni di classe ad arbitri e che è stata oggetto di
ulteriore approfondimento nella recente sentenza Stolt-Nielsen.
2. Nel caso Bazzle, i signori Bazzle ed i signori Lackey stipulano
due distinti contratti di finanziamento con la società Green Tree Financial
Corporation, contenenti una identica clausola arbitrale (1). Quindi agiscono
separatamente in giudizio con due azioni di classe contro Green Tree, lamentando la violazione della legge dello Stato della South Carolina (2). Le
azioni di classe sono rimandate dai giudici alla decisione di un arbitro per
poi concludersi con due condanne a carico di Green Tree.
I lodi arbitrali vengono confermati dalla trial court e dalla South Carolina Supreme Court, che aveva avocato e quindi riunito i procedimenti
pendenti davanti alla corte d’appello.
La Corte Suprema federale viene poi chiamata a decidere se, nel silenzio della clausola compromissoria, sia ammissibile o meno l’arbitrato di
classe. La Corte Suprema stabilisce che, in presenza di clausole compromissorie silent on class arbitration, è compito dell’arbitro — e non della
corte — determinare la volontà delle parti in merito alla effettiva devoluzione ad arbitri di una azione di classe. Si tratta di una pronuncia in linea
con la dottrina della kompetenz-kompetenz, in base alla quale gli arbitri
sono competenti a decidere sulla propria competenza, essendo ad essi riservata in prima battuta l’interpretazione del contratto e, come nel caso di
specie, la valutazione su eventuali domande esorbitanti dai limiti della
clausola compromissoria.
Da un punto di vista pratico, l’importanza della pronuncia Bazzle sta
nell’aver riconosciuto, contrariamente a quanto ritenuto fino a quel momento, che l’arbitrato di classe possa essere ammissibile — su valutazione
dell’arbitro — anche nel silenzio delle parti. La giurisprudenza americana
era invece orientata ad autorizzare l’arbitrato di classe solo ove acconsentito espressamente dalle parti nella clausola compromissoria.
Tale decisione, in armonia con la forte politica federale a favore del-
(1) Green Tree Financial Corp. v. Bazzle, 539 U.S. 444 (2003). La clausola compromissoria inserita nei contratti prevedeva che « all disputes, claims, or controversies arising
from or relating to this contract or the relationships which result from this contract... shall
be resolved by binding arbitration by one arbitrator selected by us [Green Tree] with consent of you [Green Tree Customer] ».
(2) Green Tree aveva omesso di fornire ai propri clienti un documento informativo
obbligatoriamente previsto per legge, sulla possibilità di indicare un legale di fiducia ed una
compagnia assicuratrice.
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l’arbitrato, ha determinato significative ripercussioni sul comportamento
delle società commerciali, fra le quali è andata diffondendosi la prassi di
escludere espressamente l’arbitrato di classe nella clausola compromissoria
mediante i c.d. class arbitration waivers, al fine di evitare i rischi connessi
alle clausole arbitrali silent on class arbitration.
Inoltre, la decisione della Corte Suprema americana ha rappresentato
un punto di riferimento per successivi interventi normativi, inducendo la
prestigiosa American Arbitration Association a recepirne i principi di diritto
proponendo nuove regole procedurali in tema di arbitrato di classe, regole
applicabili — per l’appunto — anche quando la clausola compromissoria
non faccia riferimento alcuno a eventuali azioni di classe.
Si tratta delle Supplementary Rules for Class Arbitration (3), la cui
novità più rilevante è rappresentata dall’introduzione di un accertamento
preliminare da parte dell’arbitro sul contenuto della clausola compromissoria e, nello specifico, sulla effettiva volontà di devolvere ad arbitri future
azioni di classe (il clause construction award), decisione impugnabile dinanzi al competente organo giurisdizionale entro trenta giorni dalla sua
emanazione. Tale accertamento precede la tradizionale struttura bifasica tipica della class action americana, caratterizzata da una fase di filtro sulla
ammissibilità della azione di classe e dall’eventuale giudizio sul merito (4).
Quando si pronuncia sulla ammissibilità della azione di classe (con il
clause determination award, anch’esso impugnabile entro trenta giorni
dalla sua emanazione) l’arbitro segue una valutazione in grandissima parte
analoga a quella prevista per l’azione di classe ordinaria, disciplinata dalla
Rule 23 delle Federal Rules of Civil Procedure. In aggiunta ai noti requisiti di ammissibilità della class action contenuti nella Rule 23 (5), le Supplementary Rules prevedono, inoltre, che la valutazione sulla adequacy of
representation debba investire non soltanto il rappresentante della classe
(3) Le Supplementary Rules for Class Arbitration sono disponibili sul sito http://
www.adr.org/sp.asp?id=21936. Si veda anche la nota programmatica pubblicata dalla American Arbitration Association il 14 luglio 2005, in accompagnamento alle Supplementary Rules, sul sito http://www.adr.org/Classarbitrationpolicy.
(4) Sulla azione di classe americana, vedi VIGORITI, Class action e azione collettiva
risarcitoria. La legittimazione ad agire ed altro, in Contratto e impr., 2008, 729. Vedi anche
CASONI, Problemi attuali in tema di mass litigation. Note comparative, in Futuro Giustizia
Azione Collettiva Mediazione, VIGORITI e CONTE (a cura di), Torino, 2010, 319.
(5) I requisiti previsti dalla Rule 23 (a) per l’emanazione del certification order sono
la numerosity (classe cosı̀ numerosa da rendere impraticabile il litisconsorzio), la commonality (presenza di questioni di fatto o di diritto comuni alla classe), la typicality (pretese dei
rappresentanti della classe tipiche rispetto a quelle della classe) e la adequacy of representation (adeguata tutela degli interessi della classe da parte dei rappresentanti). A tali requisiti si
aggiungono quelli previsti dalla Rule 23 (b), e cioè la predominance (le questioni di fatto o
di diritto comuni ai membri della classe sono predominanti rispetto alle questioni individuali)
e la superiority (la class action rappresenta lo strumento di tutela più efficiente per la decisione della lite).
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ma anche il difensore tecnico della classe (Rule 4, part v), e che le clausole
compromissorie inserite nei singoli contratti conclusi dai membri della
classe debbano essere sostanzialmente simili fra loro e rispetto alla clausola
compromissoria del rappresentante della classe (Rule 4, part vi).
3. Veniamo dunque alla pronuncia che ci occupa. In Stolt-Nielsen la
Corte Suprema federale si è discostata da quell’orientamento giurisprudenziale che aveva fatto discendere dal precedente Bazzle una presunzione a
favore dell’arbitrato di classe nel silenzio delle parti. La giurisprudenza
post-Bazzle aveva infatti dichiarato ripetutamente che la clausola arbitrale
silent on class arbitration non fosse di ostacolo all’arbitrato di classe (6).
Ed a tale orientamento si era conformato anche il collegio arbitrale nel caso
Stolt-Nielsen, accogliendo le argomentazioni di Animalfeeds in favore dell’arbitrato di classe, la quale sosteneva che « the clause is silent on the issue of class treatment and, without express prohibition, class arbitration is
permitted under Bazzle ».
Nella sentenza che si annota la Corte Suprema ha invece sostenuto
che il collegio arbitrale aveva frainteso la portata del precedente Bazzle. Infatti, tale pronuncia ha stabilito soltanto che la valutazione sulla ammissibilità dell’arbitrato di classe — nel silenzio delle parti — debba essere
compiuta dall’arbitro e non dalla corte, senza tuttavia enunciare la regola
di diritto da seguire nel compiere detta valutazione.
La Corte Suprema ha rilevato che il collegio arbitrale nel caso StoltNielsen si è allineato all’orientamento giurisprudenziale post-Bazzle, senza
però verificare l’esistenza di una specifica regola di diritto ricavata dal
FAA, ovvero da altre fonti normative, in base alla quale interpretare la
clausola compromissoria in senso favorevole all’arbitrato di classe in difetto di una esplicita devoluzione. Pertanto, il collegio arbitrale ha imposto
alle parti « its own policy choice », eccedendo nei suoi poteri.
Ebbene, la pronuncia Stolt-Nielsen ha affrontato le questioni lasciate
aperte dal precedente Bazzle, ricostruendo il quadro normativo di riferimento per accertare la ammissibilità dell’arbitrato di classe nel silenzio
delle parti. A tale proposito, la Corte Suprema ha richiamato i principi generali del Federal Arbitration Act (FAA) ed in particolare la Section 2,
dove si prevede che il patto arbitrale è « valid, irrevocable, and enforcea-
(6) Nel Brief of American Arbitration Association as Amicus Curiae in support of
neither party si legge come delle 283 class arbitrations introdotte fino a quel momento davanti alla AAA, in 135 casi sia stato necessario ricorrere ad una interpretazione della clausola compromissoria (attraverso il clause construction award); di questi, in 95 casi (70%) gli
arbitri hanno stabilito che la clausola compromissoria autorizzava l’arbitrato di classe, in 33
casi (24%) le parti si sono successivamente accordate nel senso di consentire l’arbitrato di
classe, mentre in soli 7 casi (5%) gli arbitri hanno disposto che non si poteva procedere con
l’arbitrato di classe.
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ble, save upon such grounds as exist at law or in equity for the revocation
of any contract ». Scopo fondamentale del FAA, si legge in motivazione, è
assicurare che sia data attuazione alle convenzioni arbitrali secondo i termini adottati dalle parti e nel rispetto del legittimo affidamento di queste
sulla corretta esecuzione del contratto.
In virtù di questi principi, la Corte Suprema ha stabilito che una
azione di classe possa essere devoluta ad arbitri soltanto in presenza di un
chiaro presupposto contrattuale, ribadendo che l’arbitrato « is a matter of
consent, not of coercion ». Ed in particolare, ha osservato la Corta Suprema, non è ragionevole desumere un accordo tacito a favore dell’arbitrato
di classe dal semplice fatto che le parti abbiano stipulato una convenzione
arbitrale, dal momento che l’arbitrato di classe è cosa ben diversa rispetto
all’arbitrato bilaterale.
Nel corso del giudizio arbitrale, le parti stesse avevano convenuto che
il silenzio del patto compromissorio in merito all’arbitrato di classe non era
casuale, bensı̀ voluto, avendo le parti inteso evitare contrasti sul punto. Di
questa affermazione si fa carico la Corte Suprema la quale stabilisce che,
alla luce dei principi del FAA, l’arbitrato di classe non doveva avere luogo.
Secondo una diversa interpretazione, fatta propria dalla dissenting
opinion e condivisa da taluni autori, una clausola arbitrale silent on class
arbitration porrebbe invece una questione di carattere meramente procedurale, circa il tipo di procedura scelto dalle parti, questione che in via presuntiva è rimessa alla competenza degli arbitri, i quali hanno la facoltà di
adottare le regole più opportune per lo svolgimento del procedimento (7).
4. La ragione di fondo della nuova impostazione della Corte Suprema deriva dalla convinzione che l’arbitrato di classe stravolga la natura
dell’arbitrato bilaterale. A questo riguardo, la pronuncia Stolt-Nielsen si è
soffermata sugli elementi che contraddistinguono la class action arbitration, elementi di un rilievo tale da rendere irragionevole ricondurre al mero
silenzio delle parti la volontà tacita di procedere con l’arbitrato di classe (8).
Ritenere infatti che le parti, nello stipulare una convenzione arbitrale, intendano devolvere ad arbitri anche una eventuale azione di classe significherebbe di fatto forzarne la volontà contrattuale, a meno che non sussistano ulteriori elementi da cui evincere un comune accordo in tal senso.
In effetti, le aspettative delle parti sulla celerità del giudizio arbitrale,
(7) Vedi SMIT, Does a « Silent » Arbitration Clause Preclude a Class Action? The
Supreme Court’s View, in 20 Am. Rev. Int’l. Arb. 461, (2009).
(8) Si legge in motivazione « [an] implicit agreement to authorize class-arbitration,
however, is not a term that the arbitrator may infer solely from the fact of the parties’ agreement to arbitrate. This is so because class-arbitration changes the nature of arbitration to
such a degree that it cannot be presumed that the parties consented to it by simply agreeing
to submit their dispute to an arbitrator ».
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sui costi del procedimento e sulle conseguenze di una eventuale soccombenza — soprattutto per la società convenuta — si discostano nettamente
dalla realtà dell’arbitrato di classe. Basti pensare alle implicazioni giuridiche ed economiche connesse ai due lodi arbitrali resi nel caso Bazzle, che
anziché vincolare le sole parti del patto arbitrale hanno poi prodotto effetti
nei confronti di una classe di 1899 individui, con un importo complessivo
di venti milioni di dollari da versare a titolo di class damages. Analogamente, i tempi ed i costi dell’arbitrato di classe variano in maniera determinante rispetto a quanto potevano ragionevolmente prevedere le parti al
momento della stipula del patto arbitrale, naturale conseguenza della aggregazione di centinaia o persino migliaia di posizioni giuridiche in un unico
procedimento.
Inoltre, nelle Supplementary Rules for Class Arbitrations adottate
dalla AAA viene meno un altro presupposto essenziale del giudizio arbitrale, quello della segretezza del procedimento. Le Supplementary Rules
contengono infatti una disposizione che prevede espressamente la pubblicità delle udienze e la pubblicazione di tutti i documenti inerenti al procedimento (9), circostanza del resto inevitabile vista l’esigenza di dare adeguata pubblicità della azione di classe a tutti coloro che vi sono interessati,
onde consentire loro di autoescludersi dal giudizio (esercitando il diritto di
opt-out) e successivamente mantenere i membri della classe informati sullo
svolgimento del procedimento arbitrale.
5. La pronuncia Stolt-Nielsen rappresenta certamente un cambio di
rotta rispetto alla giurisprudenza arbitrale formatasi a seguito del caso Bazzle. Il principale risvolto pratico di questa decisione sarà presumibilmente
quello di limitare l’ambito applicativo dell’arbitrato di classe, circoscrivendo la libertà di interpretazione dell’arbitro sul contenuto del contratto e,
più precisamente, sulla possibilità di desumere dal silenzio delle parti un
accordo tacito a favore della class arbitration (10).
In linea di principio, sembra ragionevole ritenere che sarà ancora possibile autorizzare l’arbitrato di classe sulla base di una clausola arbitrale silent on class arbitration, ma a tale fine sarà necessario dimostrare la concreta volontà delle parti di devolvere una azione di classe ad arbitri, mediante elementi induttivi ulteriori rispetto alla mera stipulazione di un patto
arbitrale.
In definitiva, fra i giudici della Corte Suprema è prevalso un approc(9) La Rule 9 delle AAA Supplementary Rules for Class Arbitrations prevede espressamente che « (a) The presumption of privacy and confidentiality in arbitration proceedings
shall not apply in class arbitrations (...); (b) The AAA shall maintain on its Web site a Class
Arbitration Docket of arbitrations filed as class arbitrations (...) ».
(10) Tanto che taluni esperti della materia hanno accolto la pronuncia Stolt-Nielsen
come un « death blow to class actions in arbitration ». Vedi SMIT, op. cit., 463.
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cio più cauto, basato sulle norme di riferimento in tema di interpretazione
della volontà delle parti e sui principi del Federal Arbitration Act, oltre che
sui numerosi aspetti di sostanziale differenza che connotano l’arbitrato di
classe rispetto all’arbitrato bilaterale.
Mentre ancora pendeva il giudizio davanti alla Corte Suprema, la
stessa Camera di Commercio degli Stati Uniti d’America aveva auspicato
una decisione di questo tenore, evidenziando fra l’altro la preoccupazione
per il rischio di una compressione del diritto al giusto processo (11).
Nelle azioni di classe, infatti, la corte opera quale supervisore del corretto trattamento degli interessi degli absent class members nel corso dell’intero procedimento; in particolare, attraverso la facoltà di rimuovere il
rappresentante della classe quando questi non la rappresenti adeguatamente
ed attraverso un ruolo attivo in sede di composizione della lite. La Rule 23
(e) prevede infatti che il contenuto dell’eventuale accordo transattivo raggiunto dalle parti sia sottoposto alla ratifica del giudice (12), il quale opera
una valutazione sulla congruità e sulla ragionevolezza dell’accordo, circostanza che assume un rilievo ancora maggiore alla luce del fatto che la
quasi totalità delle azioni di classe intraprese negli Stati Uniti termina con
un settlement (13). A tale proposito sono stati sollevati dei dubbi sulla effettiva capacità degli arbitri di accertare liberamente tali questioni, posto che
gli stessi arbitri sono nominati anche dal rappresentante della classe. È
inoltre significativo che i membri della classe vengano estromessi completamente dal procedimento di nomina degli arbitri, a dispetto di quanto previsto dalle clausole compromissorie inserite nei singoli contratti individuali.
È pur vero, tuttavia, che le Supplementary Rules della American Arbitration Association tengono conto della necessità di tutelare adeguatamente i diritti degli absent class members e della società convenuta, per la
quale (soprattutto) i costi del giudizio ed il valore della posta in gioco aumentano in maniera esponenziale. Infatti, come si è accennato in precedenza, sono previste delle speciali garanzie a tutela della correttezza del
procedimento, grazie alla possibilità di impugnare davanti ad un organo
giurisdizionale le decisioni rese dall’arbitro sulla interpretazione del patto
arbitrale e sulla sussistenza dei requisiti di ammissibilità della azione di
classe.
(11) Vedi Brief of the Chamber of Commerce of the United States of America as
Amicus Curiae in support of petitioners.
(12) La Rule 23 (e) prevede, fra l’altro, che il giudice si pronunci sulla congruità e
sulla ragionevolezza dell’accordo, a seguito di una audizione delle parti (la cosiddetta fairness hearing).
(13) La percentuale delle azioni di classe che si conclude con una transazione si aggira attorno al 95%. MACEY - MILLER, Judicial Review of Class Action Settlements, New York
University School of Law, Law and Economic research Paper Series, Working Paper No. 0734, 2.
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Infine, una interessante questione su cui la Corte Suprema non si è
pronunciata, ma che potrebbe avere importanti conseguenze pratiche, attiene alla eventualità che, a seguito di una decisione di non autorizzare
l’azione di classe in arbitrato (per espressa esclusione delle parti o perché
la clausola arbitrale non ne fa menzione alcuna), possa ritenersi altresı̀ precluso il ricorso alla azione di classe davanti agli organi giurisdizionali ordinari. Se cosı̀ fosse, le grandi società commerciali avrebbero l’opportunità
di proteggersi da insidiose azioni collettive, sia in sede arbitrale che dinanzi
agli organi giurisdizionali, mediante la semplice previsione di una clausola
compromissoria silent on class arbitration. In caso contrario (14), la portata
innovativa della pronuncia Stolt-Nielsen verrebbe sostanzialmente ridimensionata, perché se da un lato la società convenuta in un giudizio arbitrale
potrebbe invocare la suddetta sentenza per escludere la devoluzione di
un’azione di classe ad arbitri, dall’altro sarebbe comunque esposta a possibili azioni collettive davanti alle sedi giurisdizionali ordinarie, indipendentemente dalla previsione di una convenzione arbitrale.
GIORGIO CASONI
(14) È di questo avviso SMIT, il quale sostiene che « [a] class action in court cannot
be contractually excluded, whether directly, by a clause to that effect, or indirectly, by a
clause providing for arbitration that excludes a class action. A contract cannot legally modify procedures prescribed by the law for adjudication of class-actions claims ». SMIT, AT&T
Mobility v. Conception: Can Class Actions Be Brought in Arbitration?, in 20 Am. Rev. Int’l.
Arb. 469, (2009).
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RASSEGNE E COMMENTI
L’arbitrato dei consumatori
e la sindrome dell’« anatra zoppa »
TOMASO GALLETTO
1.
Premessa.
L’arbitrato nelle controversie dei consumatori appare come « un’anatra zoppa », nel senso che in questo contesto non può dispiegare appieno le
sue potenzialità.
Da un lato, infatti, secondo una diffusa opinione la clausola compromissoria inserita nei contratti con il consumatore sarebbe potenzialmente
una clausola abusiva, come tale inefficace poiché colpita dalla c.d. nullità
di protezione che presidia l’asimmetria sostanziale della posizione contrattuale del consumatore rispetto a quella del professionista.
Da altro lato, la previsione di una clausola compromissoria nella materia considerata configgerebbe con il c.d. principio di libertà che presidia
il diritto di adire la giurisdizione competente per la risoluzione della controversia, garantito senza eccezioni dall’art. 6 CEDU.
L’opzione arbitrale sarebbe percorribile soltanto qualora il consumatore la accetti esplicitamente, in piena conoscenza di causa ed in una fase
posteriore all’insorgere della controversia.
Da ciò consegue che la stipulazione di un compromesso arbitrale per
la risoluzione di una controversia tra un professionista ed un consumatore
sarebbe tendenzialmente ammissibile (ma l’ipotesi si avvicina di più al caso
di scuola che all’esperienza reale), mentre l’operatività di una clausola
compromissoria è assai problematica.
Queste prime considerazioni sono sufficienti a dare conto delle difficoltà operative in cui si colloca il fenomeno dell’arbitrato nel diritto dei
consumatori.
La difficoltà di utilizzare lo strumento arbitrale per la risoluzione delle
controversie dei consumatori è una constatazione apparentemente sorprendente.
Il ricorso a strumenti alternativi alla giurisdizione ordinaria per la gestione delle controversie dei consumatori, infatti, sembrerebbe essere la soluzione più appropriata, in quanto i costi e soprattutto la durata del processo
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civile ordinario costituiscono in molti ordinamenti (e certamente nel nostro,
secondo unanime opinione) un serio ostacolo ad una efficace tutela delle
ragioni del consumatore.
Ma i pur innegabili vantaggi che il ricorso a procedure di arbitrato per
la risoluzione delle controversie dei consumatori tenderebbe ad assicurare
devono essere attentamente riconsiderati alla luce dell’innegabile squilibrio
delle posizioni in conflitto, essendo evidente che consentire al soggetto
economicamente più forte (il professionista) di imporre negozialmente al
consumatore il ricorso a procedure di arbitrato, con esclusione dell’accesso
alla giustizia ordinaria, potrebbe comportare un significativo e non auspicabile vantaggio per il contraente più forte.
2.
Un approccio cauto all’arbitrato dei consumatori.
Per le ragioni sinteticamente enunciate in precedenza i legislatori
hanno avvertito la necessità di un approccio molto cauto alla materia dell’arbitrabilità delle controversie tra professionisti e consumatori, giungendo
in talune esperienze a negarla ed in altre a regolamentarla in una prospettiva di adeguata tutela degli interessi della parte economicamente più debole.
Il difficile contemperamento degli interessi in gioco ha comportato
l’adozione di soluzioni assai diverse tra loro, tutte connotate peraltro da una
particolare attenzione alla peculiarità del rapporto possibile oggetto di arbitrato.
Il punto nodale è costituito, evidentemente, dalla vincolatività (o
meno) della clausola compromissoria introdotta dal professionista nei contratti standard sottoscritti per adesione dai consumatori.
Soltanto nell’esperienza statunitense, a quanto consta, l’introduzione
di clausole compromissorie nei contratti standard con i consumatori è ritenuta ammissibile senza l’adozione di particolari cautele, diverse da quelle
previste per gli ordinari contratti commerciali (l’orientamento della Corte
Suprema Federale sembra invero consolidato nel ritenere che il Federal Arbitration Act inibisca ai singoli Stati di imporre il ricorso alla giustizia ordinaria per le controversie dei consumatori) (1).
In Europa, invece, quanto meno nell’ambito dei Paesi appartenenti all’Unione Europea, i singoli ordinamenti, che pure adottano diverse solu-
(1) Per una sintetica — ma efficace — illustrazione della evoluzione dell’ordinamento nord-americano in tema di arbitrabilità delle controversie tra produttori e consumatori
v. MARENGO, Clausola compromissoria e contratti dei consumatori, in questa Rivista, 2006,
57 ss., spec. 63 ss.
Nel senso del testo v. ad esempio la decisione della Suprema Corte 21 febbraio 2006,
Buckleye Check Cashing Corp. Vs. John Cardegna, 546 US 440 = 126 S. Ct. 1204 (2006).
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zioni quanto all’arbitrabilità delle controversie tra professionisti e consumatori, risentono indiscutibilmente gli effetti della politica comunitaria in materia che è particolarmente cauta nella prospettiva di non pregiudicare una
effettiva ed efficace tutela dei diritti dei consumatori (2).
Anche l’ordinamento italiano, come si cercherà di illustrare sinteticamente nel prosieguo, riflette il difficile contemperamento delle esigenze in
conflitto in tema di arbitrabilità delle controversie dei consumatori e non
offre soluzioni appaganti.
3.
Il quadro di riferimento comunitario.
Per quanto rileva ai fini dell’indagine in tema di arbitrabilità delle
controversie dei consumatori, e senza pretesa di completezza, l’illustrazione del quadro di riferimento comunitario può prendere le mosse dalla
direttiva del Consiglio 5 aprile 1993, 93/13/CEE, concernente le clausole
abusive nei contratti stipulati con i consumatori e dai risultati del coevo Libro verde « L’accesso dei consumatori alla giustizia e la risoluzione delle
controversie in materia di consumo nell’ambito del mercato unico » COM
(93) 576 del 16 novembre 1993. L’art. 3, n. 1, della menzionata direttiva
dispone che: « una clausola contrattuale, che non è stata oggetto di negoziato individuale, si considera abusiva se, malgrado il requisito della
buona fede, determina, a danno del consumatore, un significativo squilibrio
dei diritti e degli obblighi delle parti derivanti dal contratto ».
L’allegato alla direttiva contiene un elenco indicativo delle clausole
che possono essere dichiarate abusive. Tra queste, il n. 1, lett. q), dell’allegato annovera le clausole che hanno per oggetto o per effetto di « sopprimere o limitare l’esercizio di azioni legali o vie di ricorso del consumatore,
in particolare obbligando il consumatore a rivolgersi esclusivamente a una
giurisdizione di arbitrato non disciplinata da disposizioni giuridiche, limitando indebitamente i mezzi di prova a disposizione del consumatore imponendogli un onere della prova che, ai sensi della legislazione applicabile,
incomberebbe a un’altra parte del contratto ».
L’indicazione, da parte del legislatore comunitario, nell’elenco delle
clausole che possono essere dichiarate abusive di quelle che obbligano « il
consumatore a rivolgersi esclusivamente a una giurisdizione di arbitrato
non disciplinata da disposizioni giuridiche » ha posto e pone tuttora delicati problemi interpretativi ai quali le diverse legislazioni nazionali, in sede
di recepimento della direttiva, hanno dato soluzioni difformi.
Alcuni ordinamenti nazionali, tra i quali quello italiano, non hanno
(2) Le diverse opinioni che in tema di arbitrabilità delle controversie dei consumatori sono state accolte nell’ambito degli ordinamenti dei Paesi aderenti all’Unione Europea
sono richiamate in MARENGO, op. cit., passim.
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preso direttamente in considerazione tale indicazione, mentre altri hanno
positivamente legiferato in materia di arbitrato delle controversie dei consumatori.
Rinviando al prosieguo l’esame della normativa interna italiana in
materia, può completarsi il sintetico e non esaustivo richiamo al quadro di
riferimento comunitario in materia ricordando la Raccomandazione della
Commissione delle Comunità Europee del 30 marzo 1998, riguardante i
principı̂ applicabili agli organi responsabili per la risoluzione extragiudiziale delle controversie in materia di consumo e la Risoluzione del Consiglio dell’Unione Europea del 25 maggio 2000, relativa ad una rete comunitaria di organi nazionali per la risoluzione extragiudiziale delle controversie in materia di consumo.
Emerge con evidenza dal sintetico richiamo degli orientamenti comunitari in materia un preciso indirizzo di politica legislativa che, pur consapevole degli innegabili vantaggi per i consumatori derivanti dalla previsione di strumenti extra giudiziali di risoluzione delle controversie di consumo, sottolinea nel contempo l’esigenza di non vincolare il consumatore
al ricorso esclusivo a tali strumenti alternativi di risoluzione delle controversie se non successivamente all’insorgenza di esse e nella piena consapevolezza delle implicazioni che ne derivano sotto il profilo della rinuncia
alla tutela giurisdizionale dei diritti.
Si tratta di indirizzi dell’azione comunitaria a tutela dei consumatori
che non assurgono al rango di fonte del diritto, ma che tuttavia non possono essere ignorati.
La direzione verso la quale sembra muovere l’azione comunitaria è
nel senso di consentire, a certe condizioni (e cioè con il rispetto dei principı̂ ai quali si è fatto cenno in precedenza), il ricorso a procedure extra
giudiziali di risoluzione vincolante delle controversie in materia di consumo e quindi di ammettere in astratto anche il ricorso a procedure di arbitrato, fermo restando peraltro il divieto di vincolare ex ante il consumatore a ricorrere esclusivamente a tale strumento di tutela delle proprie ragioni.
Nello sforzo di ricercare un punto di equilibrio tra benefici e rischi
della incentivazione del ricorso a procedure extra giudiziali di risoluzione
delle controversie in materia di consumo (ritenute maggiormente efficienti,
ma suscettibili di pregiudicare la tutela del consumatore, parte debole del
rapporto) gli organi comunitari sembrano suggerire una soluzione asimmetrica: da un lato il ricorso alla procedura extra giudiziale potrebbe essere
vincolante per il professionista ma, dall’altro, non dovrebbe esserlo per il
consumatore.
Quest’ultimo avrebbe la facoltà, dopo l’insorgenza della lite, di optare
per la procedura extra giudiziale (purché assistita dalle garanzie enunciate
nei principı̂ in precedenza richiamati) oppure di adire direttamente l’autorità giudiziaria.
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Si tratta, come è evidente, di una soluzione che presenta rilevanti difficoltà applicative e che può comportare seri ostacoli alla diffusione delle
ADR in materia, ma che tuttavia ha trovato riscontro da parte dei legislatori nazionali, ivi compreso quello italiano, come si accennerà nel prosieguo.
4.
Arbitrato e clausole vessatorie nella prospettiva del recepimento della
direttiva comunitaria 93/13.
Con Legge 6 febbraio 1996 n. 52 è stata recepita nell’ordinamento
italiano la direttiva 93/13 introducendo nel codice civile gli artt. da 1469bis a 1469-sexies destinati a disciplinare i contratti del consumatore.
Per quanto in questa sede rileva l’art. 1469-bis n. 18) non ha riprodotto il testo della direttiva (o meglio dell’allegato ad essa) che qualifica
come abusive le clausole che obbligano il consumatore « a rivolgersi esclusivamente a una giurisdizione di arbitrato non disciplinata da disposizioni
giuridiche », ma ha invece considerato abusiva la clausola che sancisca
« deroghe alla competenza dell’Autorità Giudiziaria ».
Il mancato esplicito richiamo, nel novero delle clausole che si presumono abusive sino a prova contraria, della clausola compromissoria ha posto la questione della corretta interpretazione da assegnarsi alla locuzione
« deroghe alla competenza dell’Autorità Giudiziaria ».
Che la disposizione in esame non fosse intesa a sancire l’abusività
delle clausole di deroga alla competenza territoriale dell’Autorità Giudiziaria era reso evidente dal successivo numero 19 dell’art. 1469-bis, il quale
appunto si riferiva esplicitamente alle deroghe alla competenza territoriale,
che attribuissero la controversia ad un foro diverso da quello in cui il consumatore aveva residenza o domicilio elettivo.
L’ambiguità del testo normativo consentiva diverse interpretazioni
quanto alla abusività della clausola compromissoria eventualmente inserita
in un contratto standard tra professionista e consumatore.
Deve infatti considerarsi che il recepimento della direttiva non aveva
inciso sulla disciplina codicistica delle condizioni generali di contratto (art.
1341 c.c.) nel cui ambito, come è noto, si dispone che in ogni caso non
hanno effetto, se non sono specificamente approvate per iscritto, le condizioni che, tra l’altro, stabiliscono « clausole compromissorie o deroghe alla
competenza dell’Autorità Giudiziaria ».
Il testo dell’art. 1341 c.c. sembrava dimostrare che il legislatore ritenesse distinte le clausole di devoluzione della controversia ad arbitrato e
quelle di deroga alla competenza dell’Autorità Giudiziaria, rendendo di
fatto ambigua la scelta operata in sede di recepimento della direttiva in cui,
come detto, le clausole compromissorie e più in generale il ricorso all’arbitrato non sono menzionate tra le clausole presuntivamente abusive.
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Le evidenti difficoltà interpretative connesse alla ambigua formula legislativa riferita genericamente alle deroghe alla competenza dell’Autorità
Giudiziaria si sono inevitabilmente riflesse sia in sede dottrinale che giurisprudenziale, nei termini di cui si farà sinteticamente cenno qui di seguito (3).
5.
Le opinioni della dottrina e della giurisprudenza.
Pur non essendo possibile in questa sede dare conto in modo esauriente delle variegate opinioni che si sono affacciate in dottrina in ordine
alla abusività o meno delle clausole compromissorie inserite nei contratti
dei consumatori a fronte dell’ambiguo testo legislativo di recepimento della
direttiva, è peraltro possibile indicare schematicamente tre indirizzi fondamentali (4).
Secondo un primo indirizzo tutte le clausole compromissorie, siano
esse rituali o irrituali, sono da considerarsi abusive (5).
Un secondo orientamento circoscrive invece l’abusività alle sole clausole compromissorie per arbitrato irrituale (6).
Un terzo orientamento, infine, che propende per la vessatorietà delle
clausole compromissorie all’esito di un’indagine da effettuarsi caso per
caso, ferma restando la possibilità per il professionista di dimostrare che
l’introduzione di tali clausole è stata oggetto di una specifica trattativa con
il consumatore (7).
Le ragioni che sorreggono gli orientamenti sopra indicati si rinvengono, quanto al primo orientamento, nella necessità di una interpretazione
della norma di recepimento in coerenza ai principı̂ ispiratori della direttiva
che indurrebbero a ritenere comunque presuntivamente abusive tutte le
clausole compromissorie in quanto potenzialmente svantaggiose per il consumatore; quanto al secondo orientamento, nella netta distinzione, nel nostro ordinamento, tra arbitrato rituale ed irrituale, quest’ultimo non disciplinato da regole legislative e come tale confliggente con l’indirizzo comuni-
(3) Per una interessante ed efficace sintesi delle complesse questioni che si agitano
intorno al tema della arbitrabilità delle controversie dei consumatori v. ZUCCONI GALLI FONSECA, in AA.VV., Arbitrato, Commentario diretto da F. CARPI, II ed., Bologna, 2007, sub art.
806 c.p.c., 93 ss.
(4) Secondo la ricostruzione rinvenibile in ALPA, Le clausole arbitrali nei contratti
dei consumatori, in questa Rivista, 2006, 619 ss., spec. 623.
(5) DE NOVA, Le clausole vessatorie, Milano, 1996, 26; più recentemente, MARENGO,
op. cit., 73.
(6) GABRIELLI, Clausola compromissoria e contratti per adesione, in Riv. dir. civ.,
1993, 1555 ss.; CONSOLO e DE CRISTOFARO, Clausole abusive e processo, in Corr. giur., 1997,
468.
(7) ALPA, op. cit., 623.
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tario che considera abusive le convenzioni arbitrali non regolate da norme
giuridiche; quanto, infine, al terzo orientamento, nella constatazione che
l’orientamento del legislatore comunitario tende a favorire, per quanto possibile, la soluzione extra giudiziale delle controversie dei consumatori e
quindi nella necessità di verificare in ogni singola situazione se effettivamente vi sia uno squilibrio delle posizioni con conseguente necessità di
proteggere il consumatore.
Ulteriore linfa al dibattito dottrinale sul punto è stata poi apportata da
un lato dal noto orientamento della Suprema Corte che ascrive il fenomeno
arbitrale alla sfera dell’autonomia privata, tanto con riferimento all’arbitrato rituale quanto a quello irrituale, e, da altro lato, dalla recente novella
legislativa in tema di arbitrato (D.Lgs. 2 febbraio 2006 n. 40) che invece
sembra ricondurre il ricorso all’arbitrato rituale ad una vera e propria deroga alla competenza dell’Autorità giudiziaria.
A fronte degli orientamenti dottrinali ai quali si è fatto rapido cenno
in precedenza, la posizione della giurisprudenza edita risulta maggiormente
omogenea nell’affermare l’abusività delle clausole compromissorie inserite
nei contratti dei consumatori, siano esse riferite all’arbitrato rituale ovvero
a quello irrituale.
Il Tribunale di Roma, ad esempio, sin dal 1998 si è espresso nel senso
che la clausola compromissoria riveste natura vessatoria in quanto diretta a
sancire a carico del consumatore « deroghe alla competenza dell’Autorità
Giudiziaria » e lo stesso Tribunale si è ancora recentemente espresso nel
senso che « si presume vessatoria la clausola che prevede la devoluzione a
arbitrato irrituale delle controversie insorgende relativamente ad un contratto di servizi di investimento stipulato tra un privato ed un intermediario finanziario » (8).
In senso sostanzialmente conforme si sono pronunciati altri Giudici di
merito.
Particolarmente interessante si rivela la recente decisione della Corte
di Appello di Genova del 30 gennaio 2008 (in Nuova Giurisprudenza Ligure, 2008, 5 ss.), che a quanto consta è la seconda decisione di secondo
grado edita in materia (l’altra è App. Roma 7 maggio 2002, in Foro it.,
2002, I, 2823 ss.).
Si legge nella menzionata decisione, in punto vessatorietà della clausola compromissoria quanto segue:
« L’art. 1469-bis c.c., sorto in attuazione della direttiva CE n. 93/13,
considera tra l’altro al n. 18 vessatorie sino a prova contraria (e pertanto
ineffıcaci per effetto dell’art. 1469-quinquies c.c.) le deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria. L’espressione si discosta alquanto dal testo
(8) Cfr. rispettivamente Trib. Roma 8 maggio 1998 in Foro it., 1998, I, 1989 e Trib.
Roma, 18 agosto 2006 in Banca, borsa, tit. cred., 2008, 110 ss.
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della direttiva che considera abusive le clausole che obbligano il consumatore a rivolgersi esclusivamente a una giurisdizione di arbitrato; ma non
par dubbio che essa vada interpretata in senso estensivo, comprensivo anche delle clausole compromissorie che demandino ad un arbitrato, sia esso
rituale o irrituale, la cognizione di una controversia che dovesse sorgere
tra le parti.
Anche la clausola compromissoria per arbitrato irrituale, infatti, implica la rinunzia preventiva, sia pure temporanea, alla tutela giudiziaria
del consumatore; il che è contrario allo spirito della direttiva che si propone l’obiettivo di rimuovere la situazione di inferiorità del medesimo cui
vengono imposte clausole onerose ».
Non constano, per quanto è dato conoscere, decisioni in sede di legittimità che risolvano il nodo interpretativo relativo alla inclusione o meno
nella locuzione « deroghe alla competenza dell’Autorità Giudiziaria » delle
clausole compromissorie inserite nei contratti dei consumatori.
Una recente decisione della Suprema Corte, per la verità, ha sfiorato
l’argomento giudicando in tema di clausole inserite nei contratti assicurativi che devolvono ad una perizia contrattuale la formulazione di un apprezzamento tecnico che le parti si impegnano ad accettare (cfr. Cass., Sez. III,
22 maggio 2007 n. 11876 in Foro it., 2008, 1164 ss.).
Nella citata decisione i giudici di legittimità, dopo aver ricordato che
la clausola che prevede una perizia contrattuale non ha carattere compromissorio o, comunque, derogativo della competenza del giudice ordinario,
per cui non rientra fra quelle da approvarsi specificamente per iscritto a
norma degli artt. 1341 e 1342 c.c., ed aver rilevato che tali clausole hanno
natura sostanziale e non processuale, hanno ritenuto non applicabile comunque ratione temporis la disciplina sui contratti dei consumatori, in
quanto il contratto oggetto della controversia era stato stipulato anteriormente all’entrata in vigore della legge di recepimento della direttiva comunitaria.
Manca quindi, allo stato, un precedente giurisprudenziale di legittimità al quale fare riferimento; tuttavia non può non rilevarsi che l’orientamento assolutamente prevalente dei giudici di merito (anche di secondo
grado) è fermo nel ritenere la vessatorietà delle clausole compromissorie
introdotte nei contratti dei consumatori, senza porre alcuna distinzione tra
arbitrato rituale ed irrituale.
6.
Il codice del consumo e l’occasione mancata.
Nel 2005, come è noto, è stato emanato il Codice del Consumo
(D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206) che ha accorpato la normativa in tema di
tutela dei consumatori, abrogando tra l’altro le disposizioni sui contratti dei
consumatori introdotte un decennio prima nel codice civile.
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Per quanto riguarda la materia in esame l’art. 33 comma 2 lett. t) del
Codice del Consumo riproduce fedelmente le disposizioni previste dall’abrogato art. 1469-bis n. 18 di cui si è trattato in precedenza (supra § 5).
Ricordato incidentalmente che la sanzione riferita alla clausole abusive, a suo tempo consistente nella inefficacia di esse, viene ridefinita quale
nullità (di protezione) rilevabile anche d’ufficio al solo vantaggio del consumatore (art. 36 comma 3 del Codice), si osserva che la definizione normativa è rimasta immutata sul punto e che conseguentemente si reputano
nulle (nel senso sopra precisato) le clausole che comportano « deroga alla
competenza dell’autorità giudiziaria ».
Si ripropongono quindi le medesime problematiche già esaminate in
precedenza con riferimento alla legge di recepimento della direttiva comunitaria.
Si è persa peraltro l’occasione per fare chiarezza sulla sorte delle
clausole compromissorie eventualmente inserite nei contratti standard destinati a regolare i rapporti tra professionisti e consumatori.
Altri ordinamenti, come è noto, hanno nel tempo provveduto a chiarire, in un senso o nell’altro, la disciplina delle clausole compromissorie nei
contratti dei consumatori (spesso sottoponendole a particolari prescrizioni
e limitazioni), mentre il nostro legislatore è rimasto inerte pur a fronte di
un panorama disomogeneo di opinioni nella dottrina, circostanza che certamente avrebbe reso auspicabile un chiarimento legislativo.
Ma la situazione, pur essendo rimasta immutata la previsione normativa, si è arricchita di spunti problematici che ne rendono difficile la decifrazione.
Il legislatore, infatti, ha introdotto nel Codice del Consumo specifici
riferimenti agli orientamenti comunitari in tema di risoluzione extra giudiziale delle controversie dei consumatori (sui quali v. supra § 2) evidentemente condividendo l’opinione che valuta positivamente l’incentivazione di
strumenti alternativi di risoluzione delle controversie dei consumatori.
L’art. 141 del Codice del Consumo, infatti, intitolato alla « composizione extra giudiziale delle controversie », ipotizza la formazione di un
elenco di organi di composizione extra giudiziale delle controversie in materia di consumo, reputando senz’altro di ascrivere tra questi quelli costituiti presso le Camere di Commercio ai sensi dell’art. 2 comma 4 della
Legge 29 dicembre 1993 n. 580, il quale dispone che le Camere di Commercio possono « promuovere la costituzione di commissioni arbitrali e
conciliative per la risoluzione delle controversie tra imprese e tra imprese
e consumatori ed utenti ».
Il citato art. 141 del Codice dispone altresı̀ la non vessatorietà delle
clausole inserite nei contratti dei consumatori che prevedano il ricorso ad
organi di composizione extra giudiziale istituiti in conformità alle previsioni del medesimo articolo.
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Ma il comma 5 dell’art. 141 prevede che il consumatore non possa
essere privato in nessun caso del diritto di adire il giudice competente qualunque sia l’esito della procedura di composizione extra giudiziale.
Il complesso delle disposizioni in precedenza richiamate evidenzia,
ancora una volta, l’ambiguità del legislatore che da un lato sembra voler
promuovere il ricorso a metodi alternativi di risoluzione delle controversie
dei consumatori (tra i quali si annovera senza dubbio l’arbitrato) e, da altro lato, introduce una disposizione dirompente quale quella di cui al
comma 5 dell’art. 141, secondo cui all’esito della procedura extra giudiziale resta fermo il diritto di adire il giudice competente.
Per la verità quest’ultimo principio è fatto proprio anche a livello di
orientamenti comunitari, sia pure non dotati di efficacia normativa, come si
è già ricordato in precedenza (supra § 4).
Ma la codificazione di un orientamento, che come tale è ancora passibile di rimeditazione a livello comunitario, è suscettibile di inficiare
l’obiettivo che in altra parte della medesima disposizione si vuole perseguire: è evidente infatti che la previsione di non vincolatività dell’esito
della procedura extra giudiziale rende poco plausibile la diffusione di sistemi alternativi di risoluzione delle controversie.
È probabile che il legislatore avesse in mente procedure extra giudiziali di natura conciliativa e non decisorie, ma resta la constatazione che,
se questo era l’obiettivo, esso è stato perseguito in modo confuso.
Non si vuole qui sottovalutare la delicatezza dei problemi connessi all’arbitrabilità delle controversie dei consumatori, che rendono arduo un
contemperamento degli interessi in gioco, ma occorre pur prendere atto che
il legislatore non è riuscito ad uscire da una ambiguità che non giova ad
una efficace tutela degli interessi dei consumatori.
7.
Arbitrati amministrati nei settori dei servizi bancari e finanziari.
Nel delicato settore dei servizi finanziari e bancari, il percorso di avvicinamento del nostro legislatore a sistemi alternativi di risoluzione delle
controversie relative ai contratti dei consumatori si è recentemente arricchito di novità interessanti.
In attuazione della delega prevista dalla Legge 28 dicembre 2005 n.
262, recante disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari, è stato recentemente emanato il D.Lgs. 8 ottobre 2007 n.
179, finalizzato alla istituzione di procedure di conciliazione e di arbitrato
e a un sistema di indennizzo e fondo di garanzia per i risparmiatori e gli
investitori.
Il decreto istituisce presso la Consob una Camera di conciliazione e
arbitrato per l’amministrazione dei procedimenti promossi per la risolu136
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zione di controversie tra i risparmiatori e gli intermediari finanziari per la
violazione da parte di questi ultimi degli obblighi di informazione, correttezza e trasparenza previsti nei rapporti contrattuali con gli investitori.
Il regolamento della Camera è stato adottato dalla Consob nel dicembre 2008 e lo Statuto è stato approvato nel marzo 2010 (9).
Per quanto riguarda specificamente l’arbitrato amministrato dalla
Consob il decreto dispone che il regolamento disciplini la procedura di arbitrato tenendo conto delle norme dettate in tema di arbitrato societario
(artt. 34, 35 e 36 D.Lgs. 17 gennaio 2003 n. 5).
Il procedimento arbitrale avrà natura rituale ed il relativo lodo sarà
sempre impugnabile per violazione di norme di diritto.
Ma gli aspetti più interessanti ed innovativi del decreto in esame sono
altri.
L’art. 3, infatti, nel prevedere, in caso di inadempimento dell’intermediario, il riconoscimento di un indennizzo a favore del risparmiatore sulla
base di criteri predefiniti dalla Consob con proprio regolamento, fa salvo il
diritto del risparmiatore di adire l’autorità giudiziaria ordinaria anche per il
riconoscimento del risarcimento del maggior danno subito in conseguenza
dell’inadempimento. Ai fini della determinazione dell’indennizzo potrà procedersi anche mediante lodo non definitivo.
(9) Il regolamento è stato adottato dalla Consob con delibera n. 16763 in data 29 dicembre 2008. In data 22 marzo 2010 sono state pubblicate nella Gazzetta Uffıciale (n. 67) le
deliberazioni Consob n. 17204 e n. 17205 recanti rispettivamente l’approvazione dello Statuto della Camera di Conciliazione e Arbitrato ed il Codice Deontologico dei conciliatori e
degli arbitri Consob. I commenti sulla disciplina della Camera di Conciliazione ed Arbitrato
presso la Consob sono già numerosi. Senza alcuna pretesa di completezza cfr., da ultimo,
BASTIANON, La tutela dell’investitore (non professionale) alla luce delle nuove disposizioni in
materia di conciliazione ed arbitrato presso la Consob, in Resp. civ. prev., 2010, 4 ss.; NASCOSI, La nuova Camera di Conciliazione ed Arbitrato presso la Consob, in Nuove leggi civ.
comm., 2009, 963 ss.; in argomento v. altresı̀ CARPI, Servizi finanziari e tutela giurisdizionale,
in Giur. comm., 2008, 1049 ss.; CAVALLINI, La Camera di conciliazione e di arbitrato della
Consob: « prima lettura » del D.Lgs. 8 ottobre 2007, n. 179, in Riv. soc., 2007, 1445 ss.; COLOMBO, La Consob e la soluzione extragiudiziale delle controversie in materia di servizi di
investimento, in Società, 2007, 8 ss.; GUERINONI, La conciliazione e l’arbitrato per le controversie nell’intermediazione finanziaria, in Contratti, 2008, 301 ss.: AMOROSINO, Funzioni e
poteri della Consob « nouvelle », in Banca, borsa, tit. cred., 2008, 137 ss.: CUOMO ULLOA, La
camera di conciliazione di arbitrato istituita presso la Consob, in Contratti, 2008, 1178 ss.;
ENRICQUES, Il ruolo delle Autorità di vigilanza sui mercati mobiliari nelle controversie economiche, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2009, 705; SOLDATI, La camera arbitrale presso la Consob per le controversie tra investitori ed intermediari, in Contratti, 209, 423 ss.; CARLEO, Gli
strumenti di tutela di risparmiatori e investitori istituiti presso la Consob: procedure di conciliazione e arbitrato, sistema di indennizzo, fondo di garanzia, in AA.VV., Disciplina dei
mercati finanziari e tutela del risparmio, a cura di Martorano e De Luca, Milano, 2008, 361
ss.; BRUSCHETTA, Le controversie bancarie e finanziarie, in I Contratti, n. 4/2010, 422 ss. e
ivi un raffronto tra la conciliazione specialistica in materia finanziaria e il sistema ordinario
di conciliazione).
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Il lodo, per acquistare efficacia, dovrà conseguire il visto di regolarità
formale della Consob oltre al decreto di esecutività di cui all’art. 825 c.p.c.
Un secondo profilo di particolare interesse concerne la previsione dell’art. 6 del decreto, intitolato « Clausola compromissoria », secondo cui la
clausola compromissoria inserita nei contratti stipulati con gli investitori
(risparmiatori), compresi i contratti di gestione collettiva del risparmio, è
vincolante solo per l’intermediario, a meno che questo non provi che sia
frutto di una trattativa diretta.
Per quanto possa apparire macchinosa, la disciplina del procedimento
arbitrale (di recente attivazione) nei rapporti tra risparmiatori e intermediari
finanziari disegnata dal decreto n. 179/2007 sembra effettivamente rispettosa degli orientamenti comunitari in materia.
Il caposaldo della tutela del consumatore rispetto alle clausole compromissorie si rinviene, secondo i citati orientamenti comunitari, nella constatazione che il diritto di ricorrere all’autorità giudiziaria, riconosciuto
dall’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo è incomprimibile, con la conseguenza che in tanto la rinuncia all’azione giudiziale è valida, in quanto essa sia espressa successivamente all’insorgere della lite.
In questa prospettiva la previsione secondo cui la clausola compromissoria inserita nei contratti tra risparmiatori e intermediari è vincolante
solo per questi ultimi, a meno che non si provi che essa è frutto di una trattativa diretta, è rispettosa dei principı̂ ispiratori dell’azione comunitaria in
tema di risoluzione extra giudiziale delle controversie dei consumatori.
La norma, infatti, consente al consumatore di aderire o meno, successivamente all’insorgere della controversia, alla procedura arbitrale nel convincimento che cosı̀ operando il consumatore eserciti consapevolmente la
rinuncia ad adire l’autorità giudiziaria ordinaria, potendo soppesare gli effetti positivi e negativi che tale scelta può comportare.
Anche per le controversie in materia di trasparenza delle operazioni e
dei servizi bancari è stato previsto un sistema alternativo di risoluzione
delle controversie.
L’art. 29 del D.Lgs. n. 262/2005, infatti, ha introdotto all’interno del
T.U. bancario (D.Lgs. 1o settembre 1993 n. 385) un nuovo art. 128-bis che
ha delegato il Comitato Interministeriale per il Credito ed il Risparmio
(CICR) d’intesa con la Banca d’Italia la determinazione dei criteri procedurali di risoluzione delle controversie nella materia de qua e di composizione dell’organo decidente finalizzate ad assicurare la rapidità, l’economicità della soluzione delle controversie e l’effettività della tutela.
In attuazione della delega il CICR, con delibera 29 luglio 2008 n. 275,
ha dettato la disciplina procedimentale e la Banca d’Italia, a sua volta, con
comunicato in data 18 giugno 2009 ha dettato ulteriori profili regolamentari e disciplinato i relativi profili organizzativi dando vita cosı̀ al nuovo organismo denominato Arbitro Bancario Finanziario (ABF).
L’Arbitro Bancario e Finanziario è divenuto operativo in data 15 ot138
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tobre 2009 ed è destinato ad occuparsi, nella materia relativa ad operazioni
e servizi bancari e finanziari, delle controversie:
i) relative all’accertamento di situazioni giuridiche (divieti, obblighi e
facoltà) qualunque sia il valore della controversia;
ii) relative all’adempimento di diritti di credito aventi ad oggetto una
somma di denaro non superiore a € 100.000,00.
Questo nuovo istituto rischia di sovrapporre le proprie competenze,
almeno in parte, con quelle attribuite alla Camera di Conciliazione e Arbitrato presso la Consob, di cui in precedenza si è fatto cenno.
Ciò è tanto vero che si prevede la stipulazione di un protocollo di intesa tra i due organismi al fine di precisare quali controversie possano essere sottoposte all’uno o all’altro (10).
Non è possibile in questa sede affrontare nel dettaglio la normativa
regolamentare dell’arbitrato bancario e finanziario.
Ciò che preme sottolineare è che la configurazione di tale nuovo organismo lo colloca certamente al di fuori del fenomeno della conciliazione
stragiudiziale delle controversie poiché il relativo procedimento da un lato
prevede, quale condizione di procedibilità della domanda, il preventivo
esaurimento della fase di reclamo avanti all’ufficio reclami dell’intermediario finanziario interessato e, dall’altro, qualora il reclamo non abbia avuto
esito soddisfacente per il cliente, l’organismo, attraverso le sue emanazioni
territoriali, provvede a decidere il ricorso con soluzione aggiudicativa.
Ove l’intermediario non si adegui alla decisione, l’inadempienza
viene resa pubblica secondo le modalità stabilite dalla Banca d’Italia.
Si tratta quindi di una creatura ibrida che vorrebbe coniugare la conciliazione e la risoluzione con formula aggiudicativa delle controversie e
che invece, per come è stata concepita, non coglie nessuna delle due opportunità.
Da un lato non promuove affatto la conciliazione tra cliente ed intermediario finanziario, rinviandola eventualmente nell’ambito della fase del
reclamo presso quest’ultimo e, da altro lato, il procedimento sfocia in una
decisione priva di effettività, essendo rimesso alla mera volontà dell’intermediario l’adempimento o meno ad essa.
Non si tratta quindi né di conciliazione, né di arbitrato.
8.
Il ruolo delle Camere di Commercio.
Indipendentemente dagli interventi legislativi che interessano singoli
settori (quali quello del risparmio a cui si è fatto cenno in precedenza),
(10) Sulle competenze e sulla struttura dell’Arbitro Bancario Finanziario v. SOLDATI,
L’Arbitrato Bancario Finanziario della Banca d’Italia (ABF), in I Contratti, 2009, 853;
BRUSCHETTA, Le controversie bancarie finanziarie in I Contratti, 2010 422, ss.; GUCCIONE RUSSO, L’arbitro bancario finanziario, in Nuove leggi civ. comm., 2010, 475 ss.; S.RUPERTO,
L’arbitro bancario finanziario, in Banca, borsa, tit. cred., 2010, 325 ss.
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l’arbitrato nei contratti dei consumatori offre alle Camere di Commercio un
significativo spazio di intervento, assegnando ad esse un ruolo fondamentale.
Si è visto infatti che il Codice del Consumo reputa legittimati ad amministrare procedure di arbitrato e conciliazione nelle controversie dei consumatori gli organismi che le Camere di Commercio possono a tal fine istituire ai sensi dell’art. 2 comma 4 della Legge 29 dicembre 1993 n. 580.
È allora auspicabile che le Camere di Commercio assumano un ruolo
attivo procedendo alla istituzione degli organismi destinati ad amministrare
l’arbitrato e la conciliazione in questa materia, ispirando la loro regolamentazione ai principı̂ regolatori chiaramente enunciati nella raccomandazione
della Commissione del 30 marzo 1998, riguardanti i principı̂ applicabili
agli organi responsabili per la risoluzione extra giudiziale delle controversie in materia di consumo.
Rinviando a quanto in precedenza si è riferito in ordine a tali principı̂
(supra § 2) si può osservare che, allo stato, soltanto questi organismi istituiti presso le Camere di Commercio sembrano compatibili con le previsioni dell’art. 141 del Codice del Consumo, che infatti li menziona.
Altri organismi deputati alla amministrazione di procedure arbitrali
nella materia dei contratti dei consumatori, istituiti su base volontaria e
sotto forma associativa, non sembrano compatibili con le preclusioni che
derivano dall’art. 141 Codice del Consumo.
In ogni caso essi rischiano di ricadere nell’ambito delle « giurisdizioni
di arbitrato non disciplinate da disposizioni giuridiche » con la conseguenza
che le clausole compromissorie che ad essi si riferiscano potrebbero ritenersi vessatorie ai sensi del n. 1 lett. q) dell’Allegato alla Direttiva 93/13.
In tal senso si è recentemente espresso un giudice di merito, con riferimento ad una clausola compromissoria che deferiva l’amministrazione
dell’arbitrato al regolamento arbitrale della Camera di Commercio di Milano, che non è un organismo istituito ai sensi dell’art. 2 comma 4 della
Legge n. 580/1993 (cfr. Trib. Roma, 18 agosto 2006, cit.).
9.
Arbitrato dei consumatori e Corte di Giustizia UE.
In epoca recente il tema della arbitrabilità delle controversie in materia di consumo è stato posto — sia pure in modo indiretto — alla attenzione
dei giudici comunitari dai quali ha ricevuto una risposta che, pur avendo
sollevato qualche perplessità in ragione delle peculiarità della fattispecie,
deve essere presa in attenta considerazione.
Si tratta della vicenda nota come caso Mostaza riferita ad un rinvio
pregiudiziale operato dai giudici spagnoli (11).
(11)
Corte giust. CE 26 ottobre 2006 C-168/05, che può leggersi in questa Rivista,
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La controversia che ha dato origine al rinvio pregiudiziale riguardava
il caso di una consumatrice che, avendo stipulato un contratto di abbonamento ad una linea di telefonia mobile, non ne aveva poi rispettato i termini di durata.
La società fornitrice del servizio aveva attivato la clausola compromissoria contenuta nel contratto che devolveva le controversie ad un arbitrato amministrato.
La consumatrice non si era avvalsa del termine assegnatole dalla istituzione arbitrale per rifiutare l’arbitrato e si era difesa nel merito; l’arbitrato
si era poi concluso in senso a lei sfavorevole. Impugnato il lodo da parte
della consumatrice che sosteneva la nullità della clausola compromissoria
in quanto essa avrebbe assunto carattere abusivo, la competente autorità
giudiziaria spagnola da un lato reputava effettivamente abusiva la clausola
compromissoria de qua, ma dall’altro lato rilevava che secondo la disciplina dell’arbitrato vigente all’epoca dei fatti il giudice dell’impugnazione
del lodo non avrebbe potuto rilevare ex offıcio la nullità dell’accordo compromissorio non eccepita nelle prime difese nell’ambito del procedimento
arbitrale.
Di qui il rinvio pregiudiziale incentrato sulla conformità o meno al diritto comunitario di tale preclusione processuale con riferimento ai contratti
dei consumatori.
Nel decidere la questione pregiudiziale la Corte ha innanzitutto ricordato che spetta soltanto al giudice nazionale determinare se una clausola
contrattuale possiede i requisiti per essere qualificata abusiva ai sensi della
direttiva sulla protezione dei consumatori ed ha constatato, nel contempo,
che effettivamente il giudice del rinvio aveva accertato il carattere abusivo
della clausola compromissoria contenuta nel contratto concluso dalla consumatrice.
Poiché il sistema di tutela istituito dalla direttiva è fondato sull’idea
che il consumatore si trovi in una situazione di inferiorità rispetto al professionista per quanto riguarda sia il potere nelle trattative che il grado di
informazione, situazione che lo induce ad aderire alle condizioni predisposte dal professionista senza poter incidere sul contenuto delle stesse la
Corte, richiamando alcuni suoi precedenti, ha ritenuto che la facoltà per il
giudice di esaminare d’ufficio il carattere abusivo di una clausola è necessaria per garantire al consumatore una tutela effettiva, tenuto conto del rischio non trascurabile che questi ignori i suoi diritti o incontri difficoltà per
2006, 673 ss., con nota di D’ALESSANDRO, Sui rapporti tra la sentenza Mostaza - Claro e gli
artt. 817, comma 2, ed 829, n. 1, c.p.c.. Per un approfondimento, v. SALOMONE, La Corte di
Giustizia sulla clausola arbitrale nei contratti dei consumatori: riflessioni sull’ordine pubblico comunitario e sull’impugnazione dei lodi, in Riv. dir. proc. civ., 2008, 701 ss.
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esercitarli, quali ad esempio i costi che un’azione giudiziaria comporterebbe.
La direttiva comunitaria in materia di contratti dei consumatori dispone che le clausole abusive « non vincolano il consumatore » e tale
norma deve essere considerata di natura imperativa in quanto volta ad assicurare un equilibrio sostanziale e non soltanto formale tra le parti.
La natura imperativa di tale disposizione consente, anche alla luce del
principio di effettività (che non tollera limitazioni che rendono impossibile
o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti previsti dall’ordinamento
comunitario), di affermare che il giudice nazionale sia tenuto a valutare
d’ufficio la natura abusiva di una clausola contrattuale, indipendentemente
dalle preclusioni processuali a tale rilievo eventualmente previste dall’ordinamento nazionale.
La decisione della Corte si pone quindi su di un piano più propriamente processuale, evocando il concetto di ordine pubblico comunitario il
cui rispetto non tollera preclusioni, e non affronta ex professo la questione
se la clausola compromissoria costituisca una clausola abusiva (circostanza
presupposta dal giudice del rinvio pregiudiziale).
Ciò nonostante si avverte fra le righe della motivazione un orientamento tendenzialmente sfavorevole alla devoluzione in arbitrato delle controversie dei consumatori, motivato dalla preoccupazione — più volte ribadita — che la rinuncia all’esercizio dei propri diritti davanti all’autorità
giudiziaria da parte del consumatore possa derivare da ignoranza delle conseguenze potenzialmente negative di un ricorso alla procedura di arbitrato:
è possibile che questo tendenziale disfavore per l’arbitrato trovi giustificazione negli orientamenti degli organi comunitari ai quali si è fatto cenno in
precedenza.
Più recentemente la Corte di Giustizia è stata chiamata ad affrontare,
sempre in via di pronuncia pregiudiziale ai sensi dell’art. 234 CE, un delicato profilo relativo alla facoltà per il giudice nazionale dell’esecuzione di
rilevare d’ufficio la nullità di una clausola compromissoria abusiva.
Si tratta della vicenda Asturcom, originata anche in questo caso da un
rinvio operato dai giudici spagnoli (12).
La vicenda trae origine da una controversia nell’ambito della quale la
società Asturcom Telecomunicaciones ha proposto ricorso per l’esecuzione
forzata di un lodo arbitrale divenuto definivo che condannava una cliente
al pagamento di somme dovute in esecuzione di un contratto di abbonamento alla telefonia mobile.
(12) Corte giust. CE (Prima Sezione) 6 ottobre 2009, C-40/08, annotata da E.
D’ALESSANDRO, La Corte di Giustizia sancisce il dovere, per il giudice, di rilevare d’uffıcio
l’invalidità della clausola compromissoria stipulata tra il professionista ed il Consumatore
rimasto contumace nel processo arbitrale, in www.iudicium, 2010.
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Il giudice spagnolo investito della domanda per l’esecuzione forzata
del lodo arbitrale che aveva acquisito autorità di cosa giudicata, emesso in
assenza del consumatore, rilevato che la clausola compromissoria contenuta
nel contratto di abbonamento aveva carattere abusivo e constatato che la
legge processuale spagnola non prevede alcuna disposizione relativa alla
valutazione del carattere abusivo della clausola compromissoria ad opera
del giudice competente a statuire su un ricorso per l’esecuzione forzata di
un lodo arbitrale divenuto definitivo, dubitava della compatibilità della normativa nazionale con il diritto comunitario.
Investita della questione pregiudiziale, la Corte si è dovuta confrontare con tale peculiare situazione, in cui l’inerzia della consumatrice aveva
determinato la formazione del giudicato sulla pronuncia arbitrale e il rilievo
della abusività della clausola compromissoria era effettuato, d’ufficio, soltanto in fase di esecuzione forzata del lodo.
È evidente, in questa prospettiva, la diversità rispetto al caso Mostaza,
poiché in quella vicenda il rilievo d’ufficio della nullità della clausola compromissoria era stato sollevato in sede di esame della impugnativa del lodo
arbitrale.
In questo caso, invece, si era in presenza di norme processuali interne
che attribuivano l’autorità di cosa giudicata alla decisione arbitrale.
Nell’esaminare la vicenda la Corte ha innanzi tutto ribadito il principio secondo cui il diritto comunitario non impone ad un giudice nazionale
di disapplicare norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa
giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario. Ha tuttavia ricordato che tali
norme non debbono essere meno favorevoli di quelle che riguardano situazioni analoghe di natura interna (principio di equivalenza) né rendere impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio di diritti conferiti dall’ordinamento comunitario (principio di effettività).
Avendo constatato che le norme spagnole non violavano il principio
di effettività, con riferimento al principio di equivalenza la Corte ha considerato che la tutela accordata al consumatore dall’art. 6 della direttiva
93/13 è posta da una norma imperativa, da assimilare alle norme di ordine
pubblico dell’ordinamento interno di ciascun Stato membro.
Da ciò consegue che, qualora un giudice nazionale investito di una
domanda per l’esecuzione forzata di un lodo arbitrale definitivo debba, secondo le norme procedurali interne, valutare d’ufficio la contrarietà di una
clausola compromissoria con le norme nazionali d’ordine pubblico, egli è
parimenti tenuto a valutare d’ufficio il carattere abusivo di detta clausola
alla luce dell’art. 6 della direttiva 93/13, a partire dal momento in cui dispone degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine.
In questa prospettiva la Corte ha quindi risolto la questione dichiarando che la direttiva 93/13 deve essere interpretata nel senso che un giudice nazionale investito di una domanda per l’esecuzione forzata di un lodo
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arbitrale che ha acquisito autorità di cosa giudicata, emesso in assenza del
consumatore, è tenuto, a partire dal momento in cui dispone degli elementi
di diritto e di fatto necessari a tal fine, a valutare d’ufficio il carattere abusivo della clausola compromissoria contenuta in un contratto stipulato tra
un professionista e un consumatore, qualora, secondo le norme procedurali
nazionali, egli possa procedere a tale valutazione nell’ambito di ricorsi
analoghi di natura interna. In tal caso, incombe a detto giudice di trarre
tutte le conseguenze che ne derivano secondo il diritto nazionale affinché il
consumatore di cui trattasi non sia vincolato da detta clausola.
La soluzione della Corte rafforza la tutela del consumatore nei confronti delle clausole compromissorie abusive e sottolinea l’importanza che,
a livello comunitario, si annette alla ricerca di un equilibrio sostanziale
delle posizioni delle parti nelle controversie dei consumatori.
E se è vero, dal punto di vista formale, che la Corte assegna al giudice nazionale del rinvio (come del resto aveva fatto nel caso Mostaza)
l’esclusiva competenza a valutare l’abusività di una clausola compromissoria contenuta in un contratto sottoscritto dal consumatore, è tuttavia innegabile, dal punto di vista sostanziale, che fra le righe della motivazione può
intravvedersi una particolare cautela dei giudici comunitari rispetto all’inserimento di clausole compromissorie nei contratti dei consumatori.
I casi in precedenza ricordati riguardavano, sia pure sotto specifici
profili, il tema della arbitrabilità delle controversie con i consumatori.
Ma vi sono stati recenti interventi della Corte di Giustizia sul delicato
tema del rilievo d’ufficio della abusività di clausole contrattuali che debbono essere ricordati.
Nel caso Pannon del 2009 (13) la Corte ha ribadito l’obbligo per il
giudice nazionale di rilevare d’ufficio l’abusività di una clausola contrattuale (nella specie, di foro convenzionale coincidente con quello del professionista) quando dispone degli elementi di fatto e di diritto necessari a
tal fine.
Nel più recente caso Pènzügyi del 2010 (14) la Corte si è spinta oltre,
affermando che: « Il giudice nazionale deve adottare d’uffıcio misure istruttorie al fine di accertare se una clausola attributiva di competenza giurisdizionale territoriale esclusiva contenuta nel contratto, che costituisce
l’oggetto della controversia di cui è investito e che è stato concluso tra un
professionista e un consumatore, rientri nell’ambito di applicazione della
direttiva 93/13 e, in caso affermativo, valutare d’uffıcio il carattere eventualmente abusivo di una siffatta clausola ».
(13) Corte giust. CE, Sez. IV, 4 giugno 2009, causa C-243/08, che può leggersi in
Foro it., 2009, IV, 489 ss. con nota redazionale di PALMIERI.
(14) Corte giust. UE, Grande Sezione, 9 novembre 2010, causa C-137/2008 in I contratti, 2011, 113 ss. con commento di PATTI.
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Anche in questo caso si discuteva in tema di foro convenzionale (diverso da, ma vicino a, quello della professionista), ma l’aspetto più rilevante della pronuncia è certamente quello che attribuisce al giudice nazionale l’obbligo di adottare d’ufficio misure istruttorie per verificare l’abusività di una clausola contrattuale.
A quanto consta è la prima volta che la Corte mette in discussione il
principio dell’autonomia dell’ordinamento processuale di ciascun Stato
membro, ritenuto recessivo rispetto al dovere del giudice di supplire ad una
inadeguata attività processuale del contraente debole.
Qui il principio dell’effettività della tutela del consumatore è ritenuto
prevalente su ogni altro e quindi idoneo a derogare al principio dispositivo
delle prove, che in altre occasioni era stato invece considerato un ostacolo
insuperabile.
Si tratta di una ulteriore espansione del concetto di ordine pubblico
processuale comunitario già enunciato, da ultimo, nel caso Asturcom, che
depone inequivocabilmente nel senso di una necessaria prevalenza (secondo la Corte) del diritto comunitario dei consumatori sugli ordinamenti
processuali dei singoli Stati membri.
È una nuova prospettiva del rapporto tra diritto comunitario e normativa processuale degli Stati membri sulla quale occorre una approfondita riflessione.
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DOCUMENTI E NOTIZIE
Il nuovo Regolamento Arbitrale dell’UNCITRAL
Si pubblica qui di seguito, riservando ai prossimi fascicoli della Rivista appropriati commenti, la nuova versione delle « UNCITRAL Arbitration Rules »,
adottata il 29 giugno 2010 ed in vigore dal 15 agosto 2010 (sui lavori della Commissione UNCITRAL che hanno condotto a tale nuova versione v. già il saggio di
V. VIGORITI, in questa Rivista, 2009, 575 ss.).
UNCITRAL ARBITRATION RULES
(as revised in 2010)
Section I.
Introductory rules
Scope of application (1)
ARTICLE 1. — 1. Where parties have agreed that disputes between them in respect of a defined legal relationship, whether contractual or not, shall be referred to
arbitration under the UNCITRAL Arbitration Rules, then such disputes shall be
settled in accordance with these Rules subject to such modification as the parties
may agree.
2. The parties to an arbitration agreement concluded after 15 August 2010
shall be presumed to have referred to the Rules in effect on the date of commencement of the arbitration, unless the parties have agreed to apply a particular version
of the Rules. That presumption does not apply where the arbitration agreement has
been concluded by accepting after 15 August 2010 an offer made before that date.
3. These Rules shall govern the arbitration except that where any of these
Rules is in conflict with a provision of the law applicable to the arbitration from
which the parties cannot derogate, that provision shall prevail.
Notice and calculation of periods of time
ARTICLE 2. — 1. A notice, including a notification, communication or proposal,
(1 )
A model arbitration clause for contracts can be found in the annex to the Rules.
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may be transmitted by any means of communication that provides or allows for a
record of its transmission.
2. If an address has been designated by a party specifically for this purpose or
authorized by the arbitral tribunal, any notice shall be delivered to that party at that
address, and if so delivered shall be deemed to have been received. Delivery by
electronic means such as facsimile or email may only be made to an address so
designated or authorized.
3. In the absence of such designation or authorization, a notice is:
(a) received if it is physically delivered to the addressee; or
(b) deemed to have been received if it is delivered at the place of business,
habitual residence or mailing address of the addressee.
4. If, after reasonable efforts, delivery cannot be effected in accordance with
paragraphs 2 or 3, a notice is deemed to have been received if it is sent to the addressee’s last-known place of business, habitual residence or mailing address by
registered letter or any other means that provides a record of delivery or of attempted delivery.
5. A notice shall be deemed to have been received on the day it is delivered
in accordance with paragraphs 2, 3 or 4, or attempted to be delivered in accordance
with paragraph 4. A notice transmitted by electronic means is deemed to have been
received on the day it is sent, except that a notice of arbitration so transmitted is
only deemed to have been received on the day when it reaches the addressee’s
electronic address.
6. For the purpose of calculating a period of time under these Rules, such period shall begin to run on the day following the day when a notice is received. If
the last day of such period is an official holiday or a non-business day at the residence or place of business of the addressee, the period is extended until the first
business day which follows. Official holidays or non-business days occurring during the running of the period of time are included in calculating the period.
Notice of arbitration
ARTICLE 3. — 1. The party or parties initiating recourse to arbitration (hereinafter called the « claimant ») shall communicate to the other party or parties (hereinafter called the « respondent ») a notice of arbitration.
2. Arbitral proceedings shall be deemed to commence on the date on which
the notice of arbitration is received by the respondent.
3. The notice of arbitration shall include the following:
(a) A demand that the dispute be referred to arbitration;
(b) The names and contact details of the parties;
(c) Identification of the arbitration agreement that is invoked;
(d) Identification of any contract or other legal instrument out of or in relation
to which the dispute arises or, in the absence of such contract or instrument, a brief
description of the relevant relationship;
(e) A brief description of the claim and an indication of the amount involved,
if any;
(f) The relief or remedy sought;
(g) A proposal as to the number of arbitrators, language and place of arbitration, if the parties have not previously agreed thereon.
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4. The notice of arbitration may also include:
(a) A proposal for the designation of an appointing authority referred to in article 6, paragraph 1;
(b) A proposal for the appointment of a sole arbitrator referred to in article 8,
paragraph 1;
(c) Notification of the appointment of an arbitrator referred to in articles 9 or
10.
5. The constitution of the arbitral tribunal shall not be hindered by any controversy with respect to the sufficiency of the notice of arbitration, which shall be
finally resolved by the arbitral tribunal.
Response to the notice of arbitration
ARTICLE 4. — 1. WITHIN 30 DAYS OF THE RECEIPT OF THE NOTICE OF ARBITRATION, THE
RESPONDENT SHALL COMMUNICATE TO THE CLAIMANT A RESPONSE TO THE NOTICE OF ARBITRA-
TION, WHICH SHALL INCLUDE:
(a) The name and contact details of each respondent;
(b) A response to the information set forth in the notice of arbitration, pursuant to article 3, paragraphs 3 (c) to (g).
2. The response to the notice of arbitration may also include:
(a) Any plea that an arbitral tribunal to be constituted under these Rules lacks
jurisdiction;
(b) A proposal for the designation of an appointing authority referred to in article 6, paragraph 1;
(c) A proposal for the appointment of a sole arbitrator referred to in article 8,
paragraph 1;
(d) Notification of the appointment of an arbitrator referred to in articles 9 or
10;
(e) A brief description of counterclaims or claims for the purpose of a set-off,
if any, including where relevant, an indication of the amounts involved, and the relief or remedy sought;
(f) A notice of arbitration in accordance with article 3 in case the respondent
formulates a claim against a party to the arbitration agreement other than the
claimant.
3. The constitution of the arbitral tribunal shall not be hindered by any controversy with respect to the respondent’s failure to communicate a response to the
notice of arbitration, or an incomplete or late response to the notice of arbitration,
which shall be finally resolved by the arbitral tribunal.
Representation and assistance
ARTICLE 5. — Each party may be represented or assisted by persons chosen by
it. The names and addresses of such persons must be communicated to all parties
and to the arbitral tribunal. Such communication must specify whether the appointment is being made for purposes of representation or assistance. Where a person is
to act as a representative of a party, the arbitral tribunal, on its own initiative or at
the request of any party, may at any time require proof of authority granted to the
representative in such a form as the arbitral tribunal may determine.
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Designating and appointing authorities
ARTICLE 6. — 1. Unless the parties have already agreed on the choice of an
appointing authority, a party may at any time propose the name or names of one or
more institutions or persons, including the Secretary-General of the Permanent
Court of Arbitration at The Hague (hereinafter called the « PCA »), one of whom
would serve as appointing authority.
2. If all parties have not agreed on the choice of an appointing authority
within 30 days after a proposal made in accordance with paragraph 1 has been received by all other parties, any party may request the Secretary-General of the PCA
to designate the appointing authority.
3. Where these Rules provide for a period of time within which a party must
refer a matter to an appointing authority and no appointing authority has been
agreed on or designated, the period is suspended from the date on which a party
initiates the procedure for agreeing on or designating an appointing authority until
the date of such agreement or designation.
4. Except as referred to in article 41, paragraph (4), if the appointing authority refuses to act, or if it fails to appoint an arbitrator within 30 days after it receives a party’s request to do so, fails to act within any other period provided by
these Rules, or fails to decide on a challenge to an arbitrator within a reasonable
time after receiving a party’s request to do so, any party may request the SecretaryGeneral of the PCA to designate a substitute appointing authority.
5. In exercising their functions under these Rules, the appointing authority and
the Secretary-General of the PCA may require from any party and the arbitrators
the information they deem necessary and they shall give the parties and, where appropriate, the arbitrators, an opportunity to present their views in any manner they
consider appropriate. All such communications to and from the appointing authority and the Secretary-General of the PCA shall also be provided by the sender to
all other parties.
6. When the appointing authority is requested to appoint an arbitrator pursuant to articles 8, 9, 10 or 14, the party making the request shall send to the appointing authority copies of the notice of arbitration and, if it exists, any response to the
notice of arbitration.
7. The appointing authority shall have regard to such considerations as are
likely to secure the appointment of an independent and impartial arbitrator and
shall take into account the advisability of appointing an arbitrator of a nationality
other than the nationalities of the parties.
Section II.
Composition of the arbitral tribunal
Number of arbitrators
ARTICLE 7. — 1. If the parties have not previously agreed on the number of
arbitrators, and if within 30 days after the receipt by the respondent of the notice
of arbitration the parties have not agreed that there shall be only one arbitrator,
three arbitrators shall be appointed.
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2. Notwithstanding paragraph 1, if no other parties have responded to a party’s proposal to appoint a sole arbitrator within the time limit provided for in paragraph 1 and the party or parties concerned have failed to appoint a second arbitrator in accordance with articles 9 or 10, the appointing authority may, at the request
of a party, appoint a sole arbitrator pursuant to the procedure provided for in article
8, paragraph 2 if it determines that, in view of the circumstances of the case, this
is more appropriate.
Appointment of arbitrators (articles 8 to 10)
ARTICLE 8. — 1. If the parties have agreed that a sole arbitrator is to be appointed and if within 30 days after receipt by all other parties of a proposal for the
appointment of a sole arbitrator the parties have not reached agreement thereon, a
sole arbitrator shall, at the request of a party, be appointed by the appointing authority.
2. The appointing authority shall appoint the sole arbitrator as promptly as
possible. In making the appointment, the appointing authority shall use the following list-procedure, unless the parties agree that the list-procedure should not be
used or unless the appointing authority determines in its discretion that the use of
the list-procedure is not appropriate for the case:
(a) The appointing authority shall communicate to each of the parties an identical list containing at least three names;
(b) Within 15 days after the receipt of this list, each party may return the list
to the appointing authority after having deleted the name or names to which it objects and numbered the remaining names on the list in the order of its preference;
(c) After the expiration of the above period of time the appointing authority
shall appoint the sole arbitrator from among the names approved on the lists
returned to it and in accordance with the order of preference indicated by the parties;
(d) If for any reason the appointment cannot be made according to this procedure, the appointing authority may exercise its discretion in appointing the sole
arbitrator.
ARTICLE 9. — 1. If three arbitrators are to be appointed, each party shall appoint one arbitrator. The two arbitrators thus appointed shall choose the third arbitrator who will act as the presiding arbitrator of the arbitral tribunal.
2. If within 30 days after the receipt of a party’s notification of the appointment of an arbitrator the other party has not notified the first party of the arbitrator it has appointed, the first party may request the appointing authority to appoint
the second arbitrator.
3. If within 30 days after the appointment of the second arbitrator the two arbitrators have not agreed on the choice of the presiding arbitrator, the presiding arbitrator shall be appointed by the appointing authority in the same way as a sole
arbitrator would be appointed under article 8.
ARTICLE 10. — 1. For the purposes of article 9, paragraph 1, where three arbitrators are to be appointed and there are multiple parties as claimant or as respondent, unless the parties have agreed to another method of appointment of arbitra151
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tors, the multiple parties jointly, whether as claimant or as respondent, shall appoint
an arbitrator.
2. If the parties have agreed that the arbitral tribunal is to be composed of a
number of arbitrators other than one or three, the arbitrators shall be appointed according to the method agreed upon by the parties.
3. In the event of any failure to constitute the arbitral tribunal under these
Rules, the appointing authority shall, at the request of any party, constitute the arbitral tribunal and, in doing so, may revoke any appointment already made and appoint or reappoint each of the arbitrators and designate one of them as the presiding arbitrator.
Disclosures by and challenge of arbitrators (2) (articles 11 to 13)
ARTICLE 11. — When a person is approached in connection with his or her
possible appointment as an arbitrator, he or she shall disclose any circumstances
likely to give rise to justifiable doubts as to his or her impartiality or independence.
An arbitrator, from the time of his or her appointment and throughout the arbitral
proceedings, shall without delay disclose any such circumstances to the parties and
the other arbitrators unless they have already been informed by him or her of these
circumstances.
ARTICLE 12. — 1. Any arbitrator may be challenged if circumstances exist that
give rise to justifiable doubts as to the arbitrator’s impartiality or independence.
2. A party may challenge the arbitrator appointed by it only for reasons of
which it becomes aware after the appointment has been made.
3. In the event that an arbitrator fails to act or in the event of the de jure or
de facto impossibility of his or her performing his or her functions, the procedure
in respect of the challenge of an arbitrator as provided in article 13 shall apply.
ARTICLE 13. — 1. A party that intends to challenge an arbitrator shall send notice of its challenge within 15 days after it has been notified of the appointment of
the challenged arbitrator, or within 15 days after the circumstances mentioned in
articles 11 and 12 became known to that party.
2. The notice of challenge shall be communicated to all other parties, to the
arbitrator who is challenged and to the other arbitrators. The notice of challenge
shall state the reasons for the challenge.
3. When an arbitrator has been challenged by a party, all parties may agree to
the challenge. The arbitrator may also, after the challenge, withdraw from his or her
office. In neither case does this imply acceptance of the validity of the grounds for
the challenge.
4. If, within 15 days from the date of the notice of challenge, all parties do
not agree to the challenge or the challenged arbitrator does not withdraw, the party
making the challenge may elect to pursue it. In that case, within 30 days from the
(2) Model statements of independence pursuant to article 11 can be found in the annex to the Rules.
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date of the notice of challenge, it shall seek a decision on the challenge by the appointing authority.
Replacement of an arbitrator
ARTICLE 14. — 1. Subject to paragraph (2), in any event where an arbitrator
has to be replaced during the course of the arbitral proceedings, a substitute arbitrator shall be appointed or chosen pursuant to the procedure provided for in
articles 8 to 11 that was applicable to the appointment or choice of the arbitrator
being replaced. This procedure shall apply even if during the process of appointing
the arbitrator to be replaced, a party had failed to exercise its right to appoint or to
participate in the appointment.
2. If, at the request of a party, the appointing authority determines that, in
view of the exceptional circumstances of the case, it would be justified for a party
to be deprived of its right to appoint a substitute arbitrator, the appointing authority may, after giving an opportunity to the parties and the remaining arbitrators to
express their views: (a) appoint the substitute arbitrator; or (b) after the closure of
the hearings, authorize the other arbitrators to proceed with the arbitration and
make any decision or award.
Repetition of hearings in the event
of the replacement of an arbitrator
ARTICLE 15. — If an arbitrator is replaced, the proceedings shall resume at the
stage where the arbitrator who was replaced ceased to perform his or her functions,
unless the arbitral tribunal decides otherwise.
Exclusion of liability
ARTICLE 16. — Save for intentional wrongdoing, the parties waive, to the fullest extent permitted under the applicable law, any claim against the arbitrators, the
appointing authority and any person appointed by the arbitral tribunal based on any
act or omission in connection with the arbitration.
Section III.
Arbitral proceedings
General provisions
ARTICLE 17. — 1. Subject to these Rules, the arbitral tribunal may conduct the
arbitration in such manner as it considers appropriate, provided that the parties are
treated with equality and that at an appropriate stage of the proceedings each party
is given a reasonable opportunity of presenting its case. The arbitral tribunal, in exercising its discretion, shall conduct the proceedings so as to avoid unnecessary delay and expense and to provide a fair and efficient process for resolving the parties’
dispute.
2. As soon as practicable after its constitution and after inviting the parties to
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express their views, the arbitral tribunal shall establish the provisional timetable of
the arbitration. The arbitral tribunal may, at any time, after inviting the parties to
express their views, extend or abridge any period of time prescribed under these
Rules or agreed by the parties.
3. If at an appropriate stage of the proceedings any party so requests, the arbitral tribunal shall hold hearings for the presentation of evidence by witnesses, including expert witnesses, or for oral argument. In the absence of such a request, the
arbitral tribunal shall decide whether to hold such hearings or whether the proceedings shall be conducted on the basis of documents and other materials.
4. All communications to the arbitral tribunal by one party shall be communicated by that party to all other parties. Such communications shall be made at the
same time, except as otherwise permitted by the arbitral tribunal if it may do so
under applicable law.
5. The arbitral tribunal may, at the request of any party, allow one or more
third persons to be joined in the arbitration as a party provided such person is a
party to the arbitration agreement, unless the arbitral tribunal finds, after giving all
parties, including the person or persons to be joined, the opportunity to be heard,
that joinder should not be permitted because of prejudice to any of those parties.
The arbitral tribunal may make a single award or several awards in respect of all
parties so involved in the arbitration.
Place of arbitration
ARTICLE 18. — 1. If the parties have not previously agreed on the place of arbitration, the place of arbitration shall be determined by the arbitral tribunal having
regard to the circumstances of the case. The award shall be deemed to have been
made at the place of arbitration.
2. The arbitral tribunal may meet at any location it considers appropriate for
deliberations. Unless otherwise agreed by the parties, the arbitral tribunal may also
meet at any location it considers appropriate for any other purpose, including hearings.
Language
ARTICLE 19. — 1. Subject to an agreement by the parties, the arbitral tribunal
shall, promptly after its appointment, determine the language or languages to be
used in the proceedings. This determination shall apply to the statement of claim,
the statement of defence, and any further written statements and, if oral hearings
take place, to the language or languages to be used in such hearings.
2. The arbitral tribunal may order that any documents annexed to the statement of claim or statement of defence, and any supplementary documents or exhibits submitted in the course of the proceedings, delivered in their original language, shall be accompanied by a translation into the language or languages agreed
upon by the parties or determined by the arbitral tribunal.
Statement of claim
ARTICLE 20. — 1. The claimant shall communicate its statement of claim in
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writing to the respondent and to each of the arbitrators within a period of time to
be determined by the arbitral tribunal. The claimant may elect to treat its notice of
arbitration referred to in article 3 as a statement of claim, provided that the notice
of arbitration also complies with the requirements of paragraphs 2 to 4 of this article.
2. The statement of claim shall include the following particulars:
(a) The names and contact details of the parties;
(b) A statement of the facts supporting the claim;
(c) The points at issue;
(d) The relief or remedy sought;
(e) The legal grounds or arguments supporting the claim.
3. A copy of any contract or other legal instrument out of or in relation to
which the dispute arises and of the arbitration agreement shall be annexed to the
statement of claim.
4. The statement of claim should, as far as possible, be accompanied by all
documents and other evidence relied upon by the claimant, or contain references to
them.
Statement of defence
ARTICLE 21. — 1. The respondent shall communicate its statement of defence
in writing to the claimant and to each of the arbitrators within a period of time to
be determined by the arbitral tribunal. The respondent may elect to treat its response to the notice of arbitration referred to in article 4 as a statement of defence,
provided that the response to the notice of arbitration also complies with the
requirements of paragraph 2 of this article.
2. The statement of defence shall reply to the particulars (b) to (e) of the
statement of claim (article 20, paragraph 2). The statement of defence should, as
far as possible, be accompanied by all documents and other evidence relied upon
by the respondent, or contain references to them.
3. In its statement of defence, or at a later stage in the arbitral proceedings if
the arbitral tribunal decides that the delay was justified under the circumstances, the
respondent may make a counterclaim or rely on a claim for the purpose of a setoff provided that the arbitral tribunal has jurisdiction over it.
4. The provisions of article 20, paragraphs 2 to 4 shall apply to a counterclaim, a claim under article 4, paragraph (2) (f) and a claim relied on for the purpose of a set-off.
Amendments to the claim or defence
ARTICLE 22. — During the course of the arbitral proceedings, a party may
amend or supplement its claim or defence, including a counterclaim or a claim for
the purpose of a set-off, unless the arbitral tribunal considers it inappropriate to allow such amendment or supplement having regard to the delay in making it or
prejudice to other parties or any other circumstances. However, a claim or defence,
including a counterclaim or a claim for the purpose of a set-off, may not be
amended or supplemented in such a manner that the amended or supplemented
claim or defence falls outside the jurisdiction of the arbitral tribunal.
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Pleas as to the jurisdiction of the arbitral tribunal
ARTICLE 23. — 1. The arbitral tribunal shall have the power to rule on its own
jurisdiction, including any objections with respect to the existence or validity of the
arbitration agreement. For that purpose, an arbitration clause that forms part. of a
contract shall be treated as an agreement independent of the other terms of the contract. A decision by the arbitral tribunal that the contract is null shall not entail automatically the invalidity of the arbitration clause.
2. A plea that the arbitral tribunal does not have jurisdiction shall be raised no
later than in the statement of defence or, with respect to a counterclaim or a claim
for the purpose of a set-off, in the reply to the counterclaim or to the claim for the
purpose of a set-off. A party is not precluded from raising such a plea by the fact
that it has appointed, or participated in the appointment of, an arbitrator. A plea that
the arbitral tribunal is exceeding the scope of its authority shall be raised as soon
as the matter alleged to be beyond the scope of its authority is raised during the
arbitral proceedings. The arbitral tribunal may, in either case, admit a later plea if
it considers the delay justified.
3. The arbitral tribunal may rule on a plea referred to in paragraph 2 either as
a preliminary question or in an award on the merits. The arbitral tribunal may continue the arbitral proceedings and make an award, notwithstanding any pending
challenge to its jurisdiction before a court.
Further written statements
ARTICLE 24. — The arbitral tribunal shall decide which further written statements, in addition to the statement of claim and the statement of defence, shall be
required from the parties or may be presented by them and shall fix the periods of
time for communicating such statements.
Periods of time
ARTICLE 25. — The periods of time fixed by the arbitral tribunal for the communication of written statements (including the statement of claim and statement
of defence) should not exceed 45 days. However, the arbitral tribunal may extend
the time limits if it concludes that an extension is justified.
Interim measures
ARTICLE 26. — 1. The arbitral tribunal may, at the request of a party, grant interim measures.
2. An interim measure is any temporary measure by which, at any time prior
to the issuance of the award by which the dispute is finally decided, the arbitral tribunal orders a party, for example and without limitation, to:
(a) Maintain or restore the status quo pending determination of the dispute;
(b) Take action that would prevent, or refrain from taking action that is likely
to cause, (i) current or imminent harm or (ii) prejudice to the arbitral process itself;
(c) Provide a means of preserving assets out of which a subsequent award
may be satisfied; or
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(d) Preserve evidence that may be relevant and material to the resolution of
the dispute.
3. The party requesting an interim measure under paragraphs 2 (a) to (c) shall
satisfy the arbitral tribunal that:
(a) Harm not adequately reparable by an award of damages is likely to result
if the measure is not ordered, and such harm substantially outweighs the harm that
is likely to result to the party against whom the measure is directed if the measure
is granted; and
(b) There is a reasonable possibility that the requesting party will succeed on
the merits of the claim. The determination on this possibility shall not affect the
discretion of the arbitral tribunal in making any subs equent determination.
4. With regard to a request for an interim measure under paragraph 2 (d), the
requirements in paragraphs 3 (a) and (b) shall apply only to the extent the arbitral
tribunal considers appropriate.
5. The arbitral tribunal may modify, suspend or terminate an interim measure
it has granted, upon application of any party or, in exceptional circumstances and
upon prior notice to the parties, on the arbitral tribunal’s own initiative.
6. The arbitral tribunal may require the party requesting an interim measure
to provide appropriate security in connection with the measure.
7. The arbitral tribunal may require any party promptly to disclose any material change in the circumstances on the basis of which the interim measure was requested or granted.
8. The party requesting an interim measure may be liable for any costs and
damages caused by the measure to any party if the arbitral tribunal later determines
that, in the circumstances then prevailing, the measure should not have been
granted. The arbitral tribunal may award such costs and damages at any point during the proceedings.
9. A request for interim measures addressed by any party to a judicial authority shall not be deemed incompatible with the agreement to arbitrate, or as a waiver
of that agreement.
Evidence
ARTICLE 27. — 1. Each party shall have the burden of proving the facts relied
on to support its claim or defence.
2. Witnesses, including expert witnesses, who are presented by the parties to
testify to the arbitral tribunal on any issue of fact or expertise may be any individual, notwithstanding that the individual is a party to the arbitration or in any way
related to a party. Unless otherwise directed by the arbitral tribunal, statements by
witnesses, including expert witnesses, may be presented in writing and signed by
them.
3. At any time during the arbitral proceedings the arbitral tribunal may require
the parties to produce documents, exhibits or other evidence within such a period
of time as the arbitral tribunal shall determine.
4. The arbitral tribunal shall determine the admissibility, relevance, materiality and weight of the evidence offered.
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Hearings
ARTICLE 28. — 1. In the event of an oral hearing, the arbitral tribunal shall
give the parties adequate advance notice of the date, time and place thereof.
2. Witnesses, including expert witnesses, may be heard under the conditions
and examined in the manner set by the arbitral tribunal.
3. Hearings shall be held in camera unless the parties agree otherwise. The arbitral tribunal may require the retirement of any witness or witnesses, including
expert witnesses, during the testimony of such other witnesses, except that a witness, including an expert witness, who is a party to the arbitration shall not, in
principle, be asked to retire.
4. The arbitral tribunal may direct that witnesses, including expert witnesses,
be examined through means of telecommunication that do not require their physical presence at the hearing (such as videoconference).
Experts appointed by the arbitral tribunal
ARTICLE 29. — 1. After consultation with the parties, the arbitral tribunal may
appoint one or more independent experts to report to it, in writing, on specific issues to be determined by the arbitral tribunal. A copy of the expert’s terms of reference, established by the arbitral tribunal, shall be communicated to the parties.
2. The expert shall, in principle before accepting appointment, submit to the
arbitral tribunal and to the parties a description of his or her qualifications and a
statement of his or her impartiality and independence. Within the time ordered by
the arbitral tribunal, the parties shall inform the arbitral tribunal whether they have
any objections as to the expert’s qualifications, impartiality or independence. The
arbitral tribunal shall decide promptly whether to accept any such objections. After
an expert’s appointment, a party may object to the expert’s qualifications, impartiality or independence only if the objection is for reasons of which the party becomes aware after the appointment has been made. The arbitral tribunal shall decide promptly what, if any, action to take.
3. The parties shall give the expert any relevant information or produce for his
or her inspection any relevant documents or goods that he or she may require of
them. Any dispute between a party and such expert as to the relevance of the required information or production shall be referred to the arbitral tribunal for decision.
4. Upon receipt of the expert’s report, the arbitral tribunal shall communicate
a copy of the report to the parties, which shall be given the opportunity to express,
in writing, their opinion on the report. A party shall be entitled to examine any
document on which the expert has relied in his or her report.
5. At the request of any party, the expert, after delivery of the report, may be
heard at a hearing where the parties shall have the opportunity to be present and to
interrogate the expert. At this hearing, any party may present expert witnesses in
order to testify on the points at issue. The provisions of article 28 shall be applicable to such proceedings.
Default
ARTICLE 30. — 1. If, within the period of time fixed by these Rules or the arbitral tribunal, without showing sufficient cause:
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(a) The claimant has failed to communicate its statement of claim, the arbitral
tribunal shall issue an order for the termination of the arbitral proceedings, unless
there are remaining matters that may need to be decided and the arbitral tribunal
considers it appropriate to do so;
(b) The respondent has failed to communicate its response to the notice of arbitration or its statement of defence, the arbitral tribunal shall order that the proceedings continue, without treating such failure in itself as an admission of the
claimant’s allegations; the provisions of this subparagraph also apply to a claimant’s failure to submit a defence to a counterclaim or to a claim for the purpose of
a set-off.
2. If a party, duly notified under these Rules, fails to appear at a hearing,
without showing sufficient cause for such failure, the arbitral tribunal may proceed
with the arbitration.
3. If a party, duly invited by the arbitral tribunal to produce documents, exhibits or other evidence, fails to do so within the established period of time, without showing sufficient cause for such failure, the arbitral tribunal may make the
award on the evidence before it.
Closure of hearings
ARTICLE 31. — 1. The arbitral tribunal may inquire of the parties if they have
any further proof to offer or witnesses to be heard or submissions to make and, if
there are none, it may declare the hearings closed.
2. The arbitral tribunal may, if it considers it necessary owing to exceptional
circumstances, decide, on its own initiative or upon application of a party, to reopen the hearings at any time before the award is made.
Waiver of right to object
ARTICLE 32. — A failure by any party to object promptly to any noncompliance with these Rules or with any requirement of the arbitration agreement shall be
deemed to be a waiver of the right of such party to make such an objection, unless
such party can show that, under the circumstances, its failure to object was justified.
Section IV.
The award
Decisions
ARTICLE 33. — 1. When there is more than one arbitrator, any award or other
decision of the arbitral tribunal shall be made by a majority of the arbitrators.
2. In the case of questions of procedure, when there is no majority or when
the arbitral tribunal so authorizes, the presiding arbitrator may decide alone, subject to revision, if any, by the arbitral tribunal.
Form and effect of the award
ARTICLE 34. — 1. The arbitral tribunal may make separate awards on different
issues at different times.
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2. All awards shall be made in writing and shall be final and binding on the
parties. The parties shall carry out all awards without delay.
3. The arbitral tribunal shall state the reasons upon which the award is based,
unless the parties have agreed that no reasons are to be given.
4. An award shall be signed by the arbitrators and it shall contain the date on
which the award was made and indicate the place of arbitration. Where there is
more than one arbitrator and any of them fails to sign, the award shall state the
reason for the absence of the signature.
5. An award may be made public with the consent of all parties or where and
to the extent disclosure is required of a party by legal duty, to protect or pursue a
legal right or in relation to legal proceedings before a court or other competent authority.
6. Copies of the award signed by the arbitrators shall be communicated to the
parties by the arbitral tribunal.
Applicable law, amiable compositeur
ARTICLE 35. — 1. The arbitral tribunal shall apply the rules of law designated
by the parties as applicable to the substance of the dispute. Failing such designation by the parties, the arbitral tribunal shall apply the law which it determines to
be appropriate.
2. The arbitral tribunal shall decide as amiable compositeur or ex aequo et
bono only if the parties have expressly authorized the arbitral tribunal to do so.
3. In all cases, the arbitral tribunal shall decide in accordance with the terms
of the contract, if any, and shall take into account any usage of trade applicable to
the transaction.
Settlement or other grounds for termination
ARTICLE 36. — 1. If, before the award is made, the parties agree on a settlement of the dispute, the arbitral tribunal shall either issue an order for the termination of the arbitral proceedings or, if requested by the parties and accepted by the
arbitral tribunal, record the settlement in the form of an arbitral award on agreed
terms. The arbitral tribunal is not obliged to give reasons for such an award.
2. If, before the award is made, the continuation of the arbitral proceedings
becomes unnecessary or impossible for any reason not mentioned in paragraph 1,
the arbitral tribunal shall inform the parties of its intention to issue an order for the
termination of the proceedings. The arbitral tribunal shall have the power to issue
such an order unless there are remaining matters that may need to be decided and
the arbitral tribunal considers it appropriate to do so.
3. Copies of the order for termination of the arbitral proceedings or of the arbitral award on agreed terms, signed by the arbitrators, shall be communicated by
the arbitral tribunal to the parties. Where an arbitral award on agreed terms is made,
the provisions of article 34, paragraphs 2, 4 and 5 shall apply.
Interpretation of the award
ARTICLE 37. — 1. Within 30 days after the receipt of the award, a party, with
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notice to the other parties, may request that the arbitral tribunal give an interpretation of the award.
2. The interpretation shall be given in writing within 45 days after the receipt
of the request. The interpretation shall form part. of the award and the provisions
of article 34, paragraphs 2 to 6, shall apply.
Correction of the award
ARTICLE 38. — 1. Within 30 days after the receipt of the award, a party, with
notice to the other parties, may request the arbitral tribunal to correct in the award
any error in computation, any clerical or typographical error, or any error or omission of a similar nature. If the arbitral tribunal considers that the request is justified, it shall make the correction within 45 days of receipt of the request.
2. The arbitral tribunal may within 30 days after the communication of the
award make such corrections on its own initiative.
3. Such corrections shall be in writing and shall form part. of the award. The
provisions of article 34, paragraphs 2 to 6, shall apply.
Additional award
ARTICLE 39. — 1. Within 30 days after the receipt of the termination order or
the award, a party, with notice to the other parties, may request the arbitral tribunal to make an award or an additional award as to claims presented in the arbitral
proceedings but not decided by the arbitral tribunal.
2. If the arbitral tribunal considers the request for an award or additional
award to be justified, it shall render or complete its award within 60 days after the
receipt of the request. The arbitral tribunal may extend, if necessary, the period of
time within which it shall make the award.
3. When such an award or additional award is made, the provisions of article
34, paragraphs 2 to 6, shall apply.
Definition of costs
ARTICLE 40. — 1. The arbitral tribunal shall fix the costs of arbitration in the
final award and, if it deems appropriate, in another decision.
2. The term « costs » includes only:
(a) The fees of the arbitral tribunal to be stated separately as to each arbitrator and to be fixed by the tribunal itself in accordance with article 41;
(b) The reasonable travel and other expenses incurred by the arbitrators;
(c) The reasonable costs of expert advice and of other assistance required by
the arbitral tribunal;
(d) The reasonable travel and other expenses of witnesses to the extent such
expenses are approved by the arbitral tribunal;
(e) The legal and other costs incurred by the parties in relation to the arbitration to the extent that the arbitral tribunal determines that the amount of such costs
is reasonable;
(f) Any fees and expenses of the appointing authority as well as the fees and
expenses of the Secretary-General of the PCA.
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3. In relation to interpretation, correction or completion of any award under
articles 37 to 39, the arbitral tribunal may charge the costs referred to in paragraphs
2 (b) to (f), but no additional fees.
Fees and expenses of arbitrators
ARTICLE 41. — 1. The fees and expenses of the arbitrators shall be reasonable
in amount, taking into account the amount in dispute, the complexity of the subject
matter, the time spent by the arbitrators and any other relevant circumstances of the
case.
2. If there is an appointing authority and it applies or has stated that it will
apply a schedule or particular method for determining the fees for arbitrators in international cases, the arbitral tribunal in fixing its fees shall take that schedule or
method into account to the extent that it considers appropriate in the circumstances
of the case.
3. Promptly after its constitution, the arbitral tribunal shall inform the parties
as to how it proposes to determine its fees and expenses, including any rates it intends to apply. Within 15 days of receiving that proposal, any party may refer the
proposal to the appointing authority for review. If, within 45 days of receipt of such
a referral, the appointing authority finds that the proposal of the arbitral tribunal is
inconsistent with paragraph 1, it shall make any necessary adjustments thereto,
which shall be binding upon the arbitral tribunal.
4. (a) When informing the parties of the arbitrators’ fees and expenses that
have been fixed pursuant to article 40, paragraphs 2 (a) and (b), the arbitral tribunal shall also explain the manner in which the corresponding amounts have been
calculated.
(b) Within 15 days of receiving the arbitral tribunal’s determination of fees
and expenses, any party may refer for review such determination to the appointing
authority. If no appointing authority has been agreed upon or designated, or if the
appointing authority fails to act within the time specified in these Rules, then the
review shall be made by the Secretary-General of the PCA.
(c) If the appointing authority or the Secretary-General of the PCA finds that
the arbitral tribunal’s determination is inconsistent with the arbitral tribunal’s proposal (and any adjustment thereto) under paragraph 3 or is otherwise manifestly
excessive, it shall, within 45 days of receiving such a referral, make any adjustments to the arbitral tribunal’s determination that are necessary to satisfy the criteria in paragraph 1. Any such adjustments shall be binding upon the arbitral tribunal.
(d) Any such adjustments shall either be included by the arbitral tribunal in
its award or, if the award has already been issued, be implemented in a correction
to the award, to which the procedure of article 38, paragraph 3 shall apply.
5. Throughout the procedure under paragraphs 3 and 4, the arbitral tribunal
shall proceed with the arbitration, in accordance with article 17, paragraph 1.
6. A referral under paragraph 4 shall not affect any determination in the award
other than the arbitral tribunal’s fees and expenses; nor shall it delay the recognition and enforcement of all parts of the award other than those relating to the determination of the arbitral tribunal’s fees and expenses.
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Allocation of costs
ARTICLE 42. — 1. The costs of the arbitration shall in principle be borne by
the unsuccessful party or parties. However, the arbitral tribunal may apportion each
of such costs between the parties if it determines that apportionment is reasonable,
taking into account the circumstances of the case.
2. The arbitral tribunal shall in the final award or, if it deems appropriate, in
any other award, determine any amount that a party may have to pay to another
party as a result of the decision on allocation of costs.
Deposit of costs
ARTICLE 43. — 1. The arbitral tribunal, on its establishment, may request the
parties to deposit an equal amount as an advance for the costs referred to in article
40, paragraphs 2 (a) to (c).
2. During the course of the arbitral proceedings the arbitral tribunal may request supplementary deposits from the parties.
3. If an appointing authority has been agreed upon or designated, and when a
party so requests and the appointing authority consents to perform the function, the
arbitral tribunal shall fix the amounts of any deposits or supplementary deposits
only after consultation with the appointing authority, which may make any comments to the arbitral tribunal that it deems appropriate concerning the amount of
such deposits and supplementary deposits.
4. If the required deposits are not paid in full within 30 days after the receipt
of the request, the arbitral tribunal shall so inform the parties in order that one or
more of them may make the required payment. If such payment is not made, the
arbitral tribunal may order the suspension or termination of the arbitral proceedings.
5. After a termination order or final award has been made, the arbitral tribunal shall render an accounting to the parties of the deposits received and return any
unexpended balance to the parties.
Annex
Model arbitration clause for contracts
Any dispute, controversy or claim arising out of or relating to this contract, or
the breach, termination or invalidity thereof, shall be settled by arbitration in accordance with the UNCITRAL Arbitration Rules.
Note. Parties should consider adding:
(a) The appointing authority shall be .......... (name of institution or person);
(b) The number of arbitrators shall be .......... (one or three);
(c) The place of arbitration shall be .......... (town and country);
(d) The language to be used in the arbitral proceedings shall be ..........
Possible waiver statement
Note. If the parties wish to exclude recourse against the arbitral award that
may be available under the applicable law, they may consider adding a provision
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to that effect as suggested below, considering, however, that the effectiveness and
conditions of such an exclusion depend on the applicable law.
Waiver
The parties hereby waive their right to any form of recourse against an award
to any court or other competent authority, insofar as such waiver can validly be
made under the applicable law.
Model statements of independence pursuant to article 11 of the Rules
No circumstances to disclose
I am impartial and independent of each of the parties and intend to remain so.
To the best of my knowledge, there are no circumstances, past or present, likely to
give rise to justifiable doubts as to my impartiality or independence. I shall
promptly notify the parties and the other arbitrators of any such circumstances that
may subsequently come to my attention during this arbitration.
Circumstances to disclose
I am impartial and independent of each of the parties and intend to remain so.
Attached is a statement made pursuant to article 11 of the UNCITRAL Arbitration
Rules of (a) my past and present professional, business and other relationships with
the parties and (b) any other relevant circumstances. [Include statement] I confirm
that those circumstances do not affect my independence and impartiality. I shall
promptly notify the parties and the other arbitrators of any such further relationships or circumstances that may subsequently come to my attention during this arbitration.
Note. Any party may consider requesting from the arbitrator the following
addition to the statement of independence:
I confirm, on the basis of the information presently available to me, that I can
devote the time necessary to conduct this arbitration diligently, efficiently and in
accordance with the time limits in the Rules.
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