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Guerra fredda (e non solo) anni Sessanta
Anni
1960: si consuma la crisi dei rapporti URSS-Cina con il ritiro dei tecnici URSS dal paese e la
Sessanta sospensione degli accordi di cooperazione. La crisi era cominciata anni prima, dopo la svolta
imposta da Cruscev nel 1956: la Cina di Mao rimaneva legata all’ortodossia stalinista e contraria
alla riabilitazione di Tito, proponendosi come guida alternativa al comunismo internazionale.
Nel corso degli anni Sessanta la Cina si muove nella direzione della collettivizzazione e della
razionalizzazione dell’agricoltura con obiettivi ambiziosi che però non vengono raggiunti,
determinando una crisi agricola cui si accompagna un inasprimento del carattere poliziesco del
regime, che comunque si garantisce il consenso attraverso una martellante propaganda. Tra il
1966 e il 1968 Mao promuove la cosiddetta rivoluzione culturale, frutto di una sollecitazione
dall’alto che invita i giovani a mettere in discussione la classe dirigente e le élite culturali,
arrivando a imporre questi ultimi forme di internamento in campi di “rieducazione” in
condizioni durissime (si parla di circa un milione di morti, ma i dati sono difficili da verificare). Il
vero scopo è epurare il regime dai moderati o da possibili forme di dissenso e accentuare
l’omologazione ideologica e culturale.
1960: l’abbattimento di un U2, aereo da ricognizione USA, nello spazio aereo URSS, provoca
un’accesa discussione nel corso di un’assemblea dell’ONU, dove Cruscev batte una scarpa sul
banco per enfatizzare il suo discorso di protesta. (Gli USA avevano cercato sino all’ultimo di
negare l’accaduto.) Si consolida la strategia USA di gestione delle crisi diplomatiche all’insegna
di strategie di rischio calcolato che valutano le opzioni del contendente, un metodo che è
studiato nella teoria dei giochi e che considera i momenti di crisi come occasioni per guadagnare
posizioni in un confronto a somma zero, in cui un punto guadagnato equivale a un punto perso
dall’avversario.
1961: Invano il giovane presidente democratico neoeletto Kennedy si reca a Berlino per
difendere il principio del libero accesso alla città (con il famoso discorso “Ich bin ein Berliner”).
La risposta URSS è la costruzione del muro di Berlino, a fronte del fenomeno crescente delle
fughe di cittadini dell’est che cercavano rifugio a Berlino ovest (perlopiù tecnici, medici,
insegnanti; nei primi mesi del 1961 si era arrivati a più di mille fughe al giorno). (Film: Le vite
degli altri, Goodbye Lenin, Il ponte delle spie)
1960-63: crisi di Cuba. Il regime di Castro a Cuba trova sostegno nell’URSS, che concede massicci
prestiti. Il comunismo penetra per la prima volta nell’emisfero occidentale. Gli USA impongono
l’embargo sulle importazioni di zucchero cubano. Il nuovo presidente Kennedy nel 1961
autorizza un tentativo di sbarco sull’isola di volontari anticastristi addestrati dai servizi segreti
(crisi della “baia dei porci”), il cui fallimento spinge Kennedy a mutare strategia e varare un
piano di aiuti per il Sudamerica che esclude però Cuba. Nel 1962 l’URSS pianifica l’installazione
di basi missilistiche a Cuba; Kennedy risponde ordinando il blocco delle navi dirette a Cuba con
forniture militari. Il mondo intero teme un conflitto nel caso l’URSS avesse forzato il blocco, ma
si trova un compromesso che prevede lo smantellamento delle basi in cambio del
riconoscimento del regime di Castro da parte degli USA e del ritiro dei missili in Turchia e Italia.
La guerra fredda sembra allentarsi, si abbandona la dottrina del roll back e della massive
retaliation per adottare quella della “risposta flessibile” (flexible response). Si giunge
nell’agosto 1963 a un trattato tra USA, URSS e GB per la messa al bando di esperimenti nucleari
che avrà scarsa efficacia per il rifiuto di firmarlo di Francia e Cina, che si stavano dotando di armi
atomiche. Il trattato era stato tanto sollecitato dal papa Giovanni XXIII anche nell’enciclica
Pacem in terris di quello stesso anno. Kennedy viene assassinato nel 1963 a Dallas in
circostanze poco chiare. L’assassinio blocca il suo programma di riforme in campo assistenziale,
assicurativo e sul fronte del riconoscimento dei diritti che aveva creato ostilità tra i conservatori.
Kennedy, primo cattolico alla Casa Bianca, si ispirava a una tradizione progressista orientata
all’attualizzazione del concetto ottocentesco di frontiera, concepita come una frontiera
scientifica, spirituale e culturale. L’URSS riprende la corsa agli armamenti per superare il divario
tecnologico che la distanzia dagli USA.
1958-63: pontificato di Giovanni XXIII, simbolo di una stagione del dialogo internazionale e di
apertura al rinnovamento della tradizione millenaria grazie al Concilio Vaticano II, avviato nel
1962 e concluso da Paolo VI nel 1965: si avvia una valorizzazione della collegialità, viene dato
spazio alle chiese locali, ci si apre al dialogo interreligioso e si attenua l’ostilità nei confronti del
comunismo; riforma liturgica con abbandono del latino.
1964-67: si costituisce l’OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina) a tutela delle
popolazioni arabe evacuate dai territori occupati dal nuovo stato israeliano che avevano
mantenuto la loro identità palestinese. Si concentra in particolare nella regione di Gaza e in
Cisgiordania. L’Egitto di Nasser alimenta le tensioni anti israeliane nell’area. Nel 1967 scoppia un
nuovo conflitto quando Nasser annuncia l’intento di chiudere il golfo di Aquaba alle navi
israeliane: Israele attacca a sorpresa Egitto, Giordania e Siria con la sua aviazione nella famosa
guerra dei sei giorni, che consente a Israele di occupare il Sinai, la striscia di Gaza, la
Cisgiordania e il Golan, triplicando il territorio di Israele e inglobando circa un milione di Arabi.
Una risoluzione ONU invita Israele a ritirarsi dai territori occupati, ma resta inosservata.
1965: la Francia di De Gaulle si mostra insofferente verso la politica americana che spesso
estromette gli alleati europei da decisioni nevralgiche, come avvenuto con la crisi di Cuba;
inoltre lamenta lo stato di minorità dell’Europa nei confronti del protettore USA; la Francia non
trova sostegno in Europa e si astiene dalla partecipazione alle riunioni comunitarie dal 1965,
evidenziando un problema di conflitto tra organismi e politiche comunitarie da un lato e
sovranità nazionali dall’altro, tema di grande attualità.
1963-67: La marcia di Washington per i diritti civili ed economici degli afro-americani promossa
dal leader nero M.L. King, pastore battista seguace della non violenza (“I have a dream…”), apre
nel 1963 una intensa stagione di lotte e proteste che nel corso del decennio si moltiplicano e
danno voce al disagio dei ghetti dove regna povertà, analfabetismo e incombe la leva per il
Vietnam. Malcolm X si fa promotore del contropotere nero (Black Power), ma viene assassinato
nel 1965 (King nel 1968). Si aggiungono movimenti giovanili contro l’autoritarismo e il
conformismo USA, movimenti femministi che contestavano il ruolo domestico assegnato alle
donne, rivendicando pari diritti e opportunità, movimenti pacifisti contro l’intervento in
Vietnam. Nel 1967 un’enorme manifestazione per la pace a Washington culmina in scontri tra
dimostranti ed esercito. Tali fermenti consentono di raggiungere importanti conquiste sul fronte
dei diritti. Il presidente Johnson, succeduto a Kennedy, abolisce la segregazione razziale e le
restrizioni al diritto di voto, estende benefici assistenziali e investe nella scolarizzazione,
concretizzando in parte i progetti di Kennedy.
In questo periodo si va definendo una cultura alternativa che esprime un profondo rifiuto nei
confronti della società industrializzata e dell’omologazione sociale che prende corpo con
l’occupazione dell’Università di Berkeley avvenuta già nel 1964. Gli studenti rivendicano il diritto
di riunirsi e di esprimersi liberamente nel campus universitario. Tali sollecitazioni si intrecciano
alle rivendicazioni dei neri afroamericani e ai movimento contro la guerra in Vietnam. Intorno al
1968 la rivolta giovanile si estende anche a diversi paesi europei e del mondo. Qui le proteste
assumono varie connotazioni ideologiche ispirate talvolta a un marxismo radicale, al
terzomondismo o al modello della rivoluzione culturale cinese. Tratto comune è il rifiuto
dell’establishment sociale, del consumismo, del moralismo, dell’autoritarismo e
dell’imperialismo, che tuttavia si radica in forme di consumismo espressione di una cultura
giovanile orientata a un certo mercato musicale e a una certa industria dell’abbigliamento
(jeans, minigonne). L’epicentro delle culture giovanili sono le università, sull’onda d’urto di una
scolarizzazione sempre più di massa della baby boom generation, cresciuta all’ombra della
bomba atomica (come osserva H. Arendt). A Parigi il quartiere latino e la Sorbona sono teatro di
ripetuti scontro tra studenti e polizia. Gli slogan del maggio francese fanno il giro del mondo
(“tutto è possibile”, “vietato vietare”, “l’immaginazione al potere”, “siate realisti, chiedete
l’impossibile”). Il movimento non ottiene risultati politici concreti e tangibili ed anzi genera
tendenzialmente uno spostamento a destra dell’elettorato, ma produce trasformazioni
profonde della società, nella mentalità e nei costumi, incidendo sui rapporti di potere nelle
istituzioni e nelle famiglie e preparando il terreno a una maggiore democratizzazione della
società.
1964-73 guerra del Vietnam tra nord comunista e sud appoggiato da USA; dopo il ritiro dei
francesi dalla penisola indocinese, nel filo-occidentale Vietnam del Sud si era costituito da
tempo un fronte nazionale di liberazione impegnato in azioni di guerriglia chiamato
comunemente Vietcong e appoggiato dal nord. Intervengono gli USA con il nuovo presidente
Lyndon Johnson subentrato a Kennedy (che comunque aveva già inviato un contingente).
L’intervento è costoso e logorante, minando le certezze dell’opinione pubblica USA, turbata
anche dalle notizie sull’uso di armi che colpiscono la popolazione civile (ad esempio il napalm,
già sperimentato durante il secondo conflitto mondiale e in Corea). Una sequenza televisiva che
riprendeva l’esecuzione a sangue freddo di un ufficiale vietcong da parte di un ufficiale
sudvietnamita viene vista da 20 milioni di persone; l’immagine della bambina nuda e piangente
che fugge dalle devastazioni si aggiunge a una nuova modalità di raccontare la guerra nei suoi
aspetti più crudi che probabilmente ha rari precedenti. Si giunge ai negoziati avviati nel 1968,
che preludono a un graduale disimpegno dall’area. Si avvia una fase di politica del low profile
con il presidente Nixon. L’accordo definitivo risale al 1973. (Film: Il cacciatore). La guerra civile
prosegue fino al 1975 con la vittoria del nord, che unifica il paese.
1968: carri armati URSS a Praga stroncano tentativo riformista (“primavera di Praga”)
1969: uomo sulla Luna, tappa cruciale di una gara tra USA e URSS per la supremazia non solo
terrestre, ma anche aerospaziale. Il primo successo è dell’URSS che nel 1957 aveva lanciato
inaspettatamente il primo satellite artificiale, lo Sputnik, precedendo di un anno il lancio USA
dell’Explorer. Ancora un primato URSS per l’invio del primo astronauta, Yuri Gagarin, in una
missione spaziale nel 1961. La NASA a questo punto si impegna per mettere a punto il progetto
dello sbarco sulla Luna, che vedrà Neil Armstrong e Edwin Aldrin arrivare sulla Luna con la
navicella Apollo 11. (C’è ancora chi ritiene si sia trattato di un falso inscenato per puri motivi
propagandistici.) La corsa allo spazio proseguirà negli anni successivi con la messa in orbita di
satelliti meteorologici e per le telecomunicazioni, sonde spaziali, stazioni orbitanti, anche in
funzione militare.
I costi della corsa agli armamenti e dell’equilibrio del terrore pongono seri problemi di bilancio
alle superpotenze. L’aumento delle spese sociali si aggiunge alle spese militari aggravando il
deficit dei conti pubblici e creando per la prima volta segni di rallentamento nell’economia e
una forte polarizzazione sociale. Nonostante ciò, gli anni Sessanta sono ricordati come un
decennio di prosperità e di crescita senza uguali, pur tra le mille contraddizioni che li
contraddistinguono.
Osservazioni generali sulla decolonizzazione
L’origine del termine “terzo mondo” risale a un testo dell’economista e demografo francese Alfred Sauvy
del 1952 che aveva colto prima della conferenza di Bandung come la complessità globale non fosse esaurita
dal bipolarismo USA-URSS. Sauvy osserva che i paesi del terzo mondo, come il terzo stato della Rivoluzione
francese, sono “tutto”, ma non contano niente, pur costituendo la maggior parte dei popoli della terra. Cina
e India hanno tuttavia avviato una stagione di decolonizzazione che nel giro di pochi anni avrebbe portato
all’indipendenza la quasi totalità dei paesi asiatici e africani. Il modello di stato-nazione si sostituisce
dunque agli imperi coloniali, dando forma a esperienze senza precedenti e arricchendo l’ONU di paesi di
nuova costituzione.
Come ha osservato il grande studioso ispanico-indiano Raimon Panikkar, gli anni Sessanta del Novecento
hanno chiuso un ciclo che si era aperto mezzo millennio prima: una vera e propria età europea
contrassegnata dalle scoperte geografiche del Cinquecento e dall’egemonia tecnologica, commerciale e
militare del vecchio continente. Nuovi soggetti irrompono in questo decennio sulla scena della storia. A
partire dagli anni Sessanta gli studi sul fenomeno della decolonizzazione si concentrano sulle figure chiave
di Gandhi e Mao Zedong.
Se molti studiosi sottolineano come l’impatto traumatico della penetrazione europea e occidentale abbia
scosso le società rurali tradizionali contribuendo a formare élite dirigenti capaci di affermare e diffondere
l’aspirazione all’autogoverno e all’indipendenza, altri colgono nel processo di decolonizzazione segnali di
riscoperta di identità e vocazioni tradizionali del mondo locale schiacciate dal dominio straniero. I
movimenti giovanili del Sessantotto dispiegano una logica terzomondista che assegna alle nuove nazioni un
ruolo rivoluzionario che indicherebbe la direzione anche alle masse dei paesi sviluppati, impostazione
tuttavia messa in discussione dall’evoluzione di molti paesi decolonizzati. Tra gli elementi da considerare,
che rendono conto della complessità della questione:
1) In primo luogo i processi di impetuosa crescita economica dei NICS (Newly industrialized countries)
del sudest asiatico come ad esempio Singapore, Taiwan, Corea del sud, Hong Kong, nel quadro e sul
modello della globalizzazione finanziaria e produttiva del mondo capitalistico occidentale, hanno
fatto parlare di fine del terzo mondo (Nigel Harris, The end of the third world) come termine riferito
alle valenze rivendicative dell’accezione di Sauvy. (Eppure la forbice delle disuguaglianze in questi
paesi è molto accentuata).
2) In secondo luogo, esiste la complessa interazione tra culture economiche e politiche occidentali e la
barriera rappresentata da culture millenarie refrattarie a innovazione e competizione (per il caso
cinese emblematico il film Al di là delle montagne del 2016)
3) In terzo luogo è cresciuta una storiografia del caso africano che coglie in alcuni casi una singolare
continuità tra formazioni tribali pre-coloniali e la degenerazione contemporanea di certi stati
postcoloniali in stati corrotti e predatori privi di capacità redistributiva e asserviti a fazioni. Altri
studiosi sottolineano invece la perdurante frattura introdotta dalla dominazione coloniale e dunque
le pesanti responsabilità dei paesi sviluppati nella cooptazione di élite indigene che si prestavano al
mantenimento di rapporti economici ineguali. Ad esempio le tribù centroafricane Tutsi e Hutu,
protagoniste di un caso di genocidio nei primi anni Novanta, parlano la stessa lingua e sono vissute
in pace per secoli prima della colonizzazione. Secondo la regola aurea del divide et impera i
dominatori prima tedeschi e poi belgi delegarono i reticoli periferici dell’amministrazione statale
alla minoranza aristocratica di pastori guerrieri tutsi contro la maggioranza contadina hutu,
completamente esclusa dal potere, generando le tensioni che sarebbero sfociate nei massacri degli
anni successivi. Molte delle guerre che insanguinano il continente africano vedono alle spalle dei
signori della guerra locali l’ingerenza sotterranea ma decisiva di interessi privati occidentali nella
gestione e sfruttamento delle risorse naturali presenti sul territorio. In questo senso la natura dello
stato postcoloniale africano si dispiega in circuiti politici formati da istituzioni, milizie pubbliche e
private, signori della guerra locali, compagnie multinazionali, del tutto indipendenti da qualsiasi
forma di legittimazione popolare dal basso che segnano un profondo scollamento tra élite e società
civile.
Asia
Il modello di riferimento per la decolonizzazione nell’area asiatica resta l’India, sebbene il primo
paese asiatico a raggiungere l’indipendenza nel secondo dopoguerra siano le Filippine (1946). La
conquista dell’indipendenza indiana nel 1947 apre una fase nuova e difficile che impone la
gestione di due problemi: le tensioni religiose tra induisti e musulmani e la modernizzazione del
paese, oltre alla lotta contro la fame. Gandhi, leader carismatico del Partito nazionalista del
congresso che da decenni si batteva per l’indipendenza, è favorevole a uno stato unitario che
consenta una convivenza pacifica tra fedi religiose. D’altro canto le autorità britanniche avevano
alimentato le divisioni religiose per indebolire gli indipendentisti. A questo proposito, Hobsbawm
osserva che gli inglesi con tale operazione dissiparono anche la già debole legittimazione morale
che discendeva dall’essere riusciti a gestire il subcontinente indiano in una condizione di relativa
pace, nonostante le divisioni religiose. La divisione tra Unione indiana a maggioranza induista e
Pakistan a maggioranza musulmana determina un flusso massiccio di popolazione accompagnato
da violenze. Gandhi stesso è vittima di un fanatico induista a causa della sua eccessiva tolleranza
verso l’Islam. Dopo l’indipendenza l’India è stata governata per quarant’anni dal partito del
congresso. Il primo ministro Nehru, al potere sino al 1964, avvia un processo di modernizzazione
all’insegna di una certa neutralità, sebbene gli USA stanzino aiuti. Nehru ha una formazione
europea (aveva studiato anche a Cambridge) e si sforza di informare la sua azione ai principi
della democrazia: sopprime il sistema delle caste, già avversato da Gandhi, promuove
l’uguaglianza giuridica e la giustizia sociale, non trascurando di stimolare l’economia anche nella
direzione dell’industrializzazione del paese.
Mentre Filippine e Giappone diventano il terreno di attuazione della strategia di imperialismo
informale da parte degli USA, la GB gestisce con alterne vicende il distacco dalla Birmania e dalla
Malesia, dove si sviluppano fenomeni di guerriglia comunista, piuttosto diffusi in tutta l’area
asiatica. Tali attività di guerriglia sono riconducibili alla natura contadina dei movimenti di
resistenza armata, in quanto le campagne soffrivano più acutamente gli squilibri generati dal
contatto con le economie europee.
Africa
In Africa il movimento di decolonizzazione si evidenzia con un certo ritardo, intorno alla seconda
metà degli anni Cinquanta. In generale, salvo le eccezioni del Kenya, dell’Algeria e del Congo,
dove l’indipendenza fu accompagnata da forti violenze, il processo avviene in forma non
particolarmente traumatica, considerando che nel giro di un decennio vengono coinvolti 35
paesi africani. In assenza di una tradizione nazionale, l’Africa ha costruito le proprie strutture
statali “dall’esterno verso l’interno e dall’alto verso il basso”, come osserva T.H von Laue, ovvero
riproducendo modelli occidentali disancorati dalle tradizioni locali e che non promuovono la
partecipazione della società civile, peraltro più caratterizzata da appartenenze tribali che da
appartenenze politiche. Tale debolezza favorisce involuzioni autoritarie e colpi di stato che si
moltiplicano sull’intero continente, una fragilità politica cui si accompagna il persistere di forme
neocoloniali di subordinazione e sfruttamento.
Proprio il neocolonialismo diventa oggetto di una denuncia della terza conferenza panafricana
nel 1961, che lamenta il diffondersi di governi-fantoccio controllati da potenze ex-coloniali,
conflitti finanziati dall’esterno con presenza di mercenari occidentali, strapotere di imprese
straniere, ingerenze economiche legate allo sfruttamento delle materie prime, presenza di basi
militari e di pressioni ricattatorie da parte dei due blocchi. Lo sviluppo africano sembra
condannato alla dipendenza dai mercati esteri e al ruolo di esportatori di materie prime.
Un capitolo a parte è costituito dall’indipendenza del Sudafrica (1961) perché viene proclamata
dalle minoranze bianche che di fatto detenevano il potere. Il partito nazionalista sudafricano si
era consolidato dopo il secondo conflitto mondiale sancendo il lungo predominio degli afrikaner
e l’avvio di un regime di apartheid. Il Partito nazionale del congresso, promotore
dell’opposizione alla segregazione dei neri, viene messo fuori legge e i suoi leader arrestati (tra
costoro spicca Nelson Mandela che resta in carcere dal 1962 al 1990). Con la fine della guerra
fredda viene meno la connivenza da parte di alcuni paesi occidentali che ritenevano il regime
dell’apartheid un argine alla diffusione del comunismo nell’area. Si avvia una fase di dialogo che
conduce alla scarcerazione di Mandela e alle prime elezioni libere nel 1994. Mandela diventa
presidente della repubblica e decide di avviare una originale esperienza di riconciliazione
istituendo la Commissione per la verità e la riconciliazione fondata sulla confessione pubblica
delle violazioni dei diritti umani resa di fronte alle vittime come condizione per godere
dell’amnistia.
America I paesi dell’America Latina erano indipendenti da oltre un secolo, per cui la priorità diventa
Latina
smarcarsi dalla dipendenza economica da paesi stranieri, in particolare gli USA, che li
condannava al rango di esportatori di materie prime. Si moltiplicano in questa fase esperienze
populiste, come quella di Juan Domingo Peròn in Argentina, e colpi di stato, sul cui sfondo
permangono i vincoli determinati dai capitali stranieri.
In questo contesto la situazione di Cuba introduce elementi di novità: negli anni Cinquanta il
generale Batista aveva posto fine a un esperimento populista del presidente San Martin,
impegnato a nazionalizzare l’industria dello zucchero. Batista avvia una alleanza con gli USA che
pone Cuba in una condizione di subordinazione rispetto agli interessi americani, ma un
movimento di guerriglia guidato da Fidel Castro, giovane avvocato, ottiene l’appoggio delle
masse rurali promettendo una riforma agraria, la lotta all’analfabetismo, alla disoccupazione e
all’imperialismo. La rivoluzione mette in fuga Batista nel 1959. Inizialmente Castro cerca un
dialogo con gli USA, affermando che la sua rivoluzione era umanitaria e non comunista, ma il
danno economico subito dagli americani in seguito alle politiche varate dal nuovo governo,
orientato alla nazionalizzazione delle industrie e delle terre, induce il gelo nei rapporti portando
Cuba a una vicinanza con l’URSS di Cruscev. Dopo l’episodio della baia dei porci Castro aderisce
apertamente al socialismo e respinge il programma di investimenti pubblici e privati varato da
Kennedy per l’America latina. Cuba si distingue in quegli anni come avamposto nella lotta
all’analfabetismo, ma fallisce nel rilancio economico e avvia un regime caratterizzato da un
controllo poliziesco contro ogni forma di dissenso.
La vittoria castrista ispira altri movimenti rivoluzionari che trovano nella figura di Ernesto “Che”
Guevara, medico argentino compagno d’armi di Castro che troverà la morte combattendo in
Bolivia nel 1967, un leader carismatico. I sandinisti in Nicaragua, i tupamaros in Uruguay, i
montoneros in Argentina si riconoscono nella parola d’ordine lanciata da Guevara nel 1966:
“creare due, tre, molti Vietnam”. Salvo eccezioni, raramente la guerriglia produrrà esiti
significativi e sarà anzi motivo per le classi dirigenti per orientare in senso autoritario i propri
regimi.