Azione - Settimanale di Migros Ticino Il Pinocchio di Latella

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Azione - Settimanale di Migros Ticino Il Pinocchio di Latella
Il Pinocchio di Latella,
pretenzioso e confuso
Una riscrittura a sei mani del capolavoro di Collodi
/ 30.01.2017
di Giovanni Fattorini
Nella sua introduzione a Le avventure di Pinocchio (BUR, 1976), Pietro Citati scrive: «Possiamo
leggere Pinocchio sia come una crudele storia realistica, sia come una storia esoterica».
Personalmente sono propenso a leggerla come una storia realistica, e condivido appieno le
considerazioni con cui Citati sigilla, in quell’introduzione, il nitido ritrattino di Collodi: «Nessun libro
è più toscano del suo. La conoscenza amara, crudele e senza luce della realtà, la riduzione di ogni
fantasia, di ogni sogno, di ogni favola, di ogni desiderio infantile, di ogni mostro leggendario entro
limiti più famigliari (solo Collodi poteva entrare nel ventre di una balena per ritrovarvi gli odori di
una trattoria fiorentina): la perfetta geometria della costruzione, della narrazione e del dialogo, –
tutto questo fa delle Avventure di Pinocchio il capolavoro della letteratura toscana dopo Galileo».
Naturalmente non mi sfugge che a partire dal sedicesimo capitolo – dove compare la «bella bambina
dai capelli turchini» – il protagonista sembra percorrere una diversa strada, che molti definiscono
«iniziatica». Ma anche dopo l’entrata in scena della figura femminile in cui Citati vede «l’immortale
Signora degli Animali, La Regina delle Metamorfosi, la prudente e scrupolosa Tessitrice dei destini»
(e che per Giorgio Manganelli è la «querula, anche crudele, […] paziente, irriducibile nemica del
burattino Pinocchio»), ciò che più mi interessa, mi colpisce, mi seduce, è l’asciuttezza della scrittura
collodiana, la concretezza delle immagini, la sobria descrizione di esterni e interni toscani della
seconda metà dell’Ottocento.
Non c’è memoria alcuna di tali luoghi nella scena di Giuseppe Stellato: un ampio spazio dove spesso
nevica e non splende mai la vivida luce dei giorni di sole. Sospeso a mezz’aria, parallelo al proscenio,
attira subito l’attenzione un grande tronco (che mi ha ricordato quelli del Macbeth e del Faust di
Nekrosius), dal quale si stacca e cade a terra il ciocco che racchiude in sé lo spirito di Pinocchio. A
sinistra, verso il fondo, una lastra metallica e due vecchie macchine da rumorista proclamano fin dal
principio, e con fragore: «Questo è metateatro». (Quando si deciderà concordemente, nella
Repubblica teatrale italiana, che per cinque anni almeno non si debba più riproporre la logora
formula registica del «teatro nel teatro»?). Tra i pochi grandi oggetti presenti sulla scena ha
particolare rilievo un bancone munito di sega circolare, dal quale fuoriesce a fatica, come al termine
di un parto laborioso, il Pinocchio del trentenne Christian La Rosa, interamente vestito di nero
(boxer, T-shirt, calze, scarpe, mezziguanti, nonché ginocchiere e gomitiere che simulano le
articolazioni del burattino) e con appeso al collo – per ricordarci la sua natura lignea, vegetale – il
ciocco da cui è stato estratto e che lo accompagnerà fin quasi alla fine. Un Pinocchio che non si
trasformerà nell’angelico, malinconico e ben pettinato fanciullo dell’ingannevole locandina. Il
Pinocchio inscenato da Antonio Latella e prodotto dal Piccolo Teatro di Milano non è uno spettacolo
per bambini.
In una conversazione, pubblicata nel programma di sala, fra Andrea Bajani e Antonio Latella
(costantemente inclini al reciproco elogio), diverse affermazioni mi sono sembrate confuse o
contestabili. Nel Pinocchio neo-nato di Latella, ad esempio, io non vedo «il generatore instancabile di
linguaggio» che a detta di Bajani «sabota il mondo sbagliando la grammatica». Ci vedo invece un
facitore di giochetti linguistici al tempo stesso troppo consapevoli e banali, che in parte, forse,
vorrebbero divertire e non divertono affatto. E quando Latella elogia lo scrittore perché nel suo
ultimo libro – il romanzo Un bene al mondo – riesce a tenere insieme il piano realistico e quello
fantastico, penso che è esattamente ciò che ha saputo fare molto meglio Collodi e non ha saputo fare
Latella nel suo spettacolo esasperatamente e stucchevolmente antinaturalistico, dove il grande
accusato – per ragioni poco convincenti – è Geppetto. E quando Bajani osserva che il Pinocchio di
Latella «da bugiardo per antonomasia, sembra l’unico a dire la verità», mi domando se la verità
risieda nel serrato e ripetitivo turpiloquio con cui il burattino, a un certo punto, reagisce a un
rimprovero della Fata. Ci sarebbe altro da dire sul testo a sei mani di Antonio Latella, Francesco
Bellini e Linda Dalisi. Ad esempio, che la scenetta da commedia dell’arte con Arlecchino, Colombina
e Pulcinella è indicibilmente noiosa. Ad esempio, che non vedo perché mai lo spettatore dovrebbe
disgustarsi del pedagogismo sentenzioso e dei propositi emendativi di Geppetto, del Grillo e della
Fata, e deliziarsi invece delle poco originali divagazioni intellettualistiche e didascaliche dei tre
drammaturghi.
Aggiungo conclusivamente i nomi degli attori, che oltre al già menzionato La Rosa – il migliore
insieme a Massimo Speziani nella parte di Geppetto e Mangiafoco – sono Michele Andrei, Anna
Coppola (Fata), Stefano Laguni, Fabio Pasquini (Grillo parlante), Matteo Pennese e Marta Pizzogallo.
Tutti e otto hanno consentito con bravura al disegno del regista, che ha chiesto loro di parlare a voce
altissima per buona parte dello spettacolo.