prima satira con versione moderna

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prima satira con versione moderna
A messer Alessandro Ariosto et
a messer Ludovico da Bagno
Spiegazione libera
Io desidero intendere da voi,
Alessandro fratel, compar mio Bagno,
s'in corte è ricordanza più di noi;
Vorrei sapere da voi, fratello Alessandro e amico
Bagno, se alla corte si parla di noi;
se più il signor me accusa; se compagno
per me si lieva e dice la cagione
per che, partendo gli altri, io qui rimagno;
se il signore (il caridnale Ippolito) ce l’ha con me
e se qualcuno mi difende e spiega perchè ioabbia
voluto rimanere qui mentre gli altri sono partiti;
o, tutti dotti ne la adulazione
(l'arte che più tra noi si studia e cole),
l'aiutate a biasmarme oltra ragione.
o sono tutti così esperti nell’adulazione (l’arte tra
noi più praticata), che anche voi li aiutate a
biasimarmi oltre ogni limite?
Pazzo chi al suo signor contradir vole,
se ben dicesse c'ha veduto il giorno
pieno di stelle e a mezzanotte il sole.
Si sa che è pazzo chi contraddice il suo signore,
anche se questi affermasse di aver visto il giorno
pieno di stelle e il sole a mezzanotte.
O ch'egli lodi, o voglia altrui far scorno,
di varie voci subito un concento
s'ode accordar di quanti n'ha dintorno;
Che il signore lodi qualcuno o lo voglia
calunniare, ecco che immediatamente si alza un
coro da parte di tutti quelli che gli ronzano
attorno;
e chi non ha per umiltà ardimento
la bocca aprir, con tutto il viso applaude
e par che voglia dir: "anch'io consento".
e chi non ha il coraggio di aprir bocca, fà
un’espressione talmente beota che sembra voglia
dire: “Sono d’accordo anch’io”.
Ma se in altro biasmarme, almen dar laude
dovete che, volendo io rimanere,
lo dissi a viso aperto e non con fraude.
Ma se proprio volete biasimarmi, almeno
apprezzate il fatto di aver detto a viso aperto e
non con sotterfugi, di voler rimanere.
Dissi molte ragioni, e tutte vere,
de le quali per sé sola ciascuna
esser mi dovea degna di tenere.
Addussi molte ragioni tutte vere a tal punto che
ciascuna di esse sarebbe di per sè a trattenermi
qui.
Prima la vita, a cui poche o nessuna
cosa ho da preferir, che far più breve
non voglio che 'l ciel voglia o la Fortuna.
Prima di tutto c’è la vita stessa, che preferisco più
di ogni altra cosa e non la voglio certo accorciare
più di quanto lo faccia già il cielo o il Destino.
Ogni alterazione, ancor che leve,
ch'avesse il mal ch'io sento, o ne morei,
o il Valentino e il Postumo errar deve.
Un peggioramento del mio male (di stomaco)
potrebbe uccidermi, a meno che i medici
(Valentino e il Postumo) non abbiano sbagliato
diagnosi.
Oltra che 'l dicano essi, io meglio i miei
casi de ogni altro intendo; e quai compensi
mi siano utili so, so quai son rei.
Comunque io conosco meglio di loro la mia
situazione (casi); e so cosa mi fa male o mi fa bene.
So mia natura come mal conviensi
co' freddi verni; e costà sotto il polo
gli avete voi più che in Italia intensi.
So come soffro al freddo dell’inverno; e lì da voi,
che siete sotto il polo, è più rigido che in Italia.
E non mi nocerebbe il freddo solo;
ma il caldo de le stuffe, c'ho sì infesto,
che più che da la peste me gli involo.
Non solo mi nuocerebbe il freddo; ma anche il
caldo delle stufe, che è così deleterio che me ne
guardo come dalla peste.
Né il verno altrove s'abita in cotesto
paese: vi si mangia, giuoca e bee,
e vi si dorme e vi si fa anco il resto.
Ma non solo lì da voi fa freddo, si mangia, si gioca,
si beve, si dorme e si fa anche tutto il resto.
Che quindi vien, come sorbir si dee
l'aria che tien sempre in travaglio il fiato
de le montagne prossime Rifee?
Quindi chi giuge lì dalle nostre terre, come può
sopportare l’aria travagliata di quei monti bui e
freddi? (Rifee: i fantastici monti della Scizia, cfr
Dante).
Dal vapor che, dal stomaco elevato,
fa catarro alla testa e cala al petto,
mi rimarei una notte soffocato.
Rimarrei soffocato nel giro di una notte per gli
uomori che salirebbero dallo stomaco, i quali
formerebbero nella testa un catarro tale che poi
occluderebbe i polmoni.
E il vin fumoso, a me vie più interdetto
che 'l tòsco, costì a inviti si tracanna,
e sacrilegio è non ber molto e schietto.
E il vino, che a me è vietato, lì si tracanna a ogni
invito ed sarebbe offensivo non berlo puro e in
quantità.
Tutti li cibi sono con pepe e canna
di amomo e d'altri aròmati, che tutti
come nocivi il medico mi danna.
Tutti i cibi sono aromatizzati con pepe, cannella e
altre spezie che il medico mi ha vietato come
nocive.
Qui mi potreste dir ch'io avrei ridutti,
dove sotto il camin sedria al foco,
né piei, né ascelle odorerei, né rutti;
A questo punto mi potreste dire che avrei delle
stanze nelle quali potrei stare al caldo di un
focolare senza dover sentire odore di piedi, di
ascelle e rutti;
e le vivande condiriemi il cuoco
come io volessi, et inacquarmi il vino
potre' a mia posta, e nulla berne o poco.
e il cuoco mi condirebbe le vivande come le vorrei
e potrei annacquare il vino oppure berne poco o
addirittura per nulla.
Dunque voi altri insieme, io dal matino
alla sera starei solo alla cella,
solo alla mensa come un certosino?
Dunque voi sareste insieme mentre io dovrei
restare solo dalla mattina alla sera nella mia
cella, come un frate certosino?
Bisognerieno pentole e vasella
da cucina e da camera, e dotarme
di masserizie qual sposa novella.
E poi dovrei avere pentole e massrizie in gran
quantità, come una novella sposa!
Se separatamente cucinarme
vorà mastro Pasino una o due volte,
quattro e sei mi farà il viso da l'arme.
Se il cuoco (Paisino) vorrà cucinare per me una
o due volte, tutte le altre mi pianterà il muso.
S'io vorò de le cose ch'avrà tolte
Francesco di Siver per la famiglia,
potrò matina e sera averne molte.
Certo, se vorrò, potrò avere ciò che Francesco
di Sivero avrà acquistato per la famiglia del
cardinale.
S'io dirò: "Spenditor, questo mi piglia,
che l'umido cervel poco notrisce;
questo no, che 'l catar troppo assottiglia"
Ma se dirò: “Spenditore, questo va bene perchè
non infiamma il cervello, quest’altro no perchè
assottiglia i fluidi”
per una volta o due che me ubidisce,
quattro e sei mi si scorda, o, perché teme
che non gli sia accettato, non ardisce.
mi darà retta una volta o due, le successive farà
finta di scordarsene, oppure non avrà il
coraggio di accontentarmi per paura che la sua
spesa non sia approvata dal Cardinale.
Io mi riduco al pane; e quindi freme
la colera; cagion che alli dui motti
gli amici et io siamo a contesa insieme.
Così sarei ridotto a mangiar pane, sarei sempre
collerico e litigherei con gli amici a ogni piè
sospinto.
Mi potreste anco dir: "De li tuoi scotti
fa che 'l tuo fante comprator ti sia;
mangia i tuoi polli alli tua alari cotti".
Mi potreste ancora ribattere: “Fatti comprare il
cibo che ti serve e mangia il tuo pollame
cucinato a casa tua”.
Io, per la mala servitude mia,
non ho dal Cardinale ancora tanto
ch'io possa fare in corte l'osteria.
Ma io, per il mio lavoro, non percepisco dal
Cardinale così tanto da poter installare
un’osteria alla sua corte.
Apollo, tua mercé, tua mercé, santo
collegio de le Muse, io non possiedo
tanto per voi, ch'io possa farmi un manto.
Oh Apollo e sacra congrega delle Muse (che
ispirano la poesia di Ariosto), quel poco che
possiedo non mi è dato per merito vostro (cioè
delle arti letterarie).
"Oh! il signor t'ha dato..." io ve 'l conciedo,
tanto che fatto m'ho più d'un mantello;
ma che m'abbia per voi dato non credo.
“Oh, il signor ti ha dato...” (Apollo e le muse
replicano), d’accordo, ve lo concedo, tanto che
mi sono fatto più di un vestito; ma non mi ha
mica retribuito per le mie doti letterarie.
Egli l'ha detto: io dirlo a questo e a quello
voglio anco, e i versi miei posso a mia posta
mandare al Culiseo per lo sugello.
Egli (il Cardinale) l’ha anche detto: posso
recitare i miei versi ai quattro venti e utilizzarli
come carta igenica (al Culiseo per lo sugello).
Non vuol che laude sua da me composta
per opra degna di mercé si pona;
di mercé degno è l'ir correndo in posta.
(Il Cardinale) non vuole che una mia composizione
in suo onore sia pagata come opera degna; è degno
di essere retribuito solo l’affannarsi per lui.
A chi nel Barco e in villa il segue, dona,
a chi lo veste e spoglia, o pona i fiaschi
nel pozzo per la sera in fresco a nona;
Elargisce solo a chi gli corre dietro nelle sue terre
(Barco: i possedimenti), a chi lo veste e lo spoglia, o
a chi alla sera mette il vino in fesco nel pozzo;
vegghi la notte, in sin che i Bergamaschi
se levino a far chiodi, sì che spesso
col torchio in mano addormentato caschi.
o ancora a chi veglia la notte a furia di batter chiodi
come fanno i Bergamaschi (erano abili fabbri), che
spesso si addormentano con il torchio in mano.
S'io l'ho con laude ne' miei versi messo,
dice ch'io l'ho fatto a piacere e in ocio;
più grato fòra essergli stato appresso.
Se io lo lodo nei mei versi, dice che l’ho fatto solo
per soddisfare il mio piacere e per di più in ozio e
che sarebbe stato meglio se gli fossi stato appresso.
E se in cancellaria m'ha fatto socio
a Melan del Constabil, sì c'ho il terzo
di quel ch'al notaio vien d'ogni negocio,
E se mi ha associato alla cancelleria arcivescovile di
Milano, in modo che guadagno un terzo su ogni suo
commercio,
gli è perché alcuna volta io sprono e sferzo
mutando bestie e guide, e corro in fretta
per monti e balze, e con la morte scherzo.
è solo per il fatto che io per lui sprono e frusto
bestie e guide per correre in fretta e furia fra monti e
balze rischiando la pelle.
Fa a mio senno, Maron: tuoi versi getta
con la lira in un cesso, e una arte impara,
se beneficii vuoi, che sia più accetta.
Dà retta a me Marone (un poeta di corte): i tuoi
versi gettali nel cesso e impara un lavoro che sia più
accettabile, se vuoi trarne dei benefici.
Ma tosto che n'hai, pensa che la cara
tua libertà non meno abbi perduta
che se giocata te l'avessi a zara;
Ma quando questo lavoro ce l’avrai, pensa alla tua
cara libertà, che avrai persa come se te la fossi
giocata ai dadi (zara, da lì: azzardo);
e che mai più, se ben alla canuta
età vivi e viva egli di Nestorre,
questa condizïon non ti si muta.
e anche se vivrai fino alla veneranda età di Nestore,
il tuo stato non potrà certo mutare.
E se disegni mai tal nodo sciorre,
buon patto avrai, se con amore e pace
quel che t'ha dato si vorà ritorre.
E quand’anche tu volessi comunque cambiare le
cose, potrai farlo solo se restituirai serenamente ciò
che il Cardinale ti ha dato.
(...)
(...)
più tosto che arricchir, voglio quïete:
più tosto che occuparmi in altra cura,
sì che inondar lasci il mio studio a Lete.
piuttosto di arricchirmi o occuparmi di cose
politiche, che lascerebbero il mio studio nel
dimenticatoio, desidero tranquillità.
Il qual, se al corpo non può dar pastura,
lo dà alla mente con sì nobil ésca,
che merta di non star senza cultura.
Se lo studio (il quale) non nutre il corpo, grazie a
questa nobile esca, nutre però la mente, che non
può restare senza cultura (lo studio è l’esca della
culturaa sua volta nutrimento dell’ntelletto).
Fa che la povertà meno m'incresca,
e fa che la ricchezza sì non ami
che di mia libertà per suo amor esca;
Fa che la povertà non mi rincresca e che non ami
così tanto la ricchezza da perdere la mia libertà;
quel ch'io non spero aver, fa ch'io non brami,
che né sdegno né invidia me consumi
perché Marone o Celio il signor chiami;
fa che non desideri ciò che non spero di
possedere, che non sia sdegnato o invidioso per il
fatto che il Cardinale prefersica avere intorno il
Marone o il Celio (poeti di corte);
ch'io non aspetto a mezza estade i lumi
per esser col signor veduto a cena,
ch'io non lascio accecarmi in questi fumi;
che non trascorra il tempo a cercare di essere
visto a cena con il signore e che non sia accecato
da questa fumosa gloria;
ch'io vado solo e a piedi ove mi mena
il mio bisogno, e quando io vo a cavallo,
le bisaccie gli attacco su la schiena.
che invece possa andare a piedi da solo per la mia
strada, e quando monto a cavallo, lo faccia solo
con i miei mezzi (con le mie bisacce).
E credo che sia questo minor fallo
che di farmi pagar, s'io raccomando
al principe la causa d'un vasallo;
E credo che questo sia un male minore che farmi
pagare come se raccomandassi la causa di un
vassallo al principe;
(...)
(...)
Pur ne dirò anco un'altra: che patire
non debbo che, levato ogni sostegno,
casa nostra in ruina abbia a venire.
Un’altra ragione (per cui resto qui): è che, una
volta senza sostegno, casa nostra cadrebbe in
rovina.
De cinque che noi siàn, Carlo è nel regno
onde cacciaro i Turchi il mio Cleandro,
e di starvi alcun tempo fa disegno;
Dei cinque che siamo, Carlo è a Napoli
(Cleandro è personaggio di una commedia) e
conta di restarvi per un po’;
Galasso vuol ne la città di Evandro
por la camicia sopra la guarnaccia;
e tu sei col signore ito, Alessandro.
Galasso è a Roma per abbracciare la carriera
ecclesiastica e tu, Alessandro, sei partito con il
Cardinale.
Ecci Gabriel; ma che vuoi tu ch'ei faccia?
che da fanciullo la sua mala sorte
lo impedì de li piedi e de le braccia.
E Gabriele che cosa vuoi che faccia? lui che fin
da piccolo ha avuto la sfortuna di essere
paralizzato alle gambe e alle braccia.
Egli non fu né in piazza mai, né in corte,
et a chi vuol ben reggere una casa
questo si può comprendere che importe.
Non è mai neppure potuto uscire e si può capire
come tutto questo pesi su chi amministra la casa.
Alla quinta sorella che rimasa
n'era, bisogna apparecchiar la dote,
che le siàn debitori, or che se accasa.
Ora che si sposa, alla quinta sorella rimasta
occore predisporre la dote di cui le siamo
debitori.
L'età di nostra matre mi percuote
di pietà il core; che da tutti un tratto
senza infamia lasciata esser non puote.
E poi mi si stringe il cuore a pensare a nostra
madre, che alla sua età lasciarla sola sarebbe una
vigliaccheria.
Io son de dieci il primo, e vecchio fatto
di quarantaquattro anni, e il capo calvo
da un tempo in qua sotto il cuffiotto appiatto.
Io sono il primo di dieci fratelli , ho
quarataquattro anni, e anche il capo calvo,
nascosto già da qualche stagione sotto il
cuffiotto.
La vita che mi avanza me la salvo
meglio ch'io so: ma tu che diciotto anni
dopo me t'indugiasti a uscir de l'alvo,
Il tempo che mi rimane l’amministro meglio che
posso: ma tu che sei venuto al mondo diciotto
anni dopo di me,
gli Ongari a veder torna e gli Alemanni,
per freddo e caldo segui il signor nostro,
servi per amendua, rifà i miei danni.
torna pure a vedere gli Ungheresi e i Tedeschi,
segui il nostro signore al freddo e al caldo, servilo
per entrambi e ripara così ai miei danni.
(...)
(...)
Uno asino fu già, ch'ogni osso e nervo
mostrava di magrezza, e entrò, pel rotto
del muro, ove di grano era uno acervo;
e tanto ne mangiò, che l'epa sotto
si fece più d'una gran botte grossa
fin che fu sazio, e non però di botto.
Temendo poi che gli sien péste l'ossa,
si sforza di tornar dove entrato era,
ma par che 'l buco più capir nol possa.
Mentre s'affanna, e uscire indarno spera,
gli disse un topolino: "Se vuoi quinci
uscir, tràtti; compar, quella panciera:
a vomitar bisogna che cominci
ciò c'hai nel corpo, e che ritorni macro,
altrimenti quel buco mai non vinci".
Or, conchiudendo, dico che, se 'l sacro
Cardinal comperato avermi stima
con li suoi doni, non mi è acerbo et acro
renderli, e tòr la libertà mia prima.