non guarderò mai più l`orologio… prenderò d`anticipo il mattino.(VC)

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non guarderò mai più l`orologio… prenderò d`anticipo il mattino.(VC)
Rev numero 18: FFUH!
Non siamo pazzi, in realtà nel pensare il titolo ci è venuta in mente prima di tutto la copertina:
fffuh! ovvero il rumore della mano di un uomo che si scrolla di dosso la polvere.
Dopo una caduta.
Un uomo in giacca e cravatta... magari una cravatta un po' allentata.
FFFUH! è il momento prima della rinascita o piuttosto è il momento della nascita della
speranza. Quando questa ancora non si concretizza, ma è soltanto un'idea vaga. Non è il
domani delle promesse (domani smetto, domani dico, domani inizio, domani vado... ), il
momento in cui tutto cambierà o almeno sappiamo che proveremo a farlo cambiare.
FFFUH! non è domani, FFFUH! piuttosto è questa stasera.
È il momento in cui cadiamo e ci rialziamo, facciamo mente locale e scrollandoci la polvere
dalla giacca decidiamo di ripartire.
FFFUH è il seguito del numero precedente, da un numero incazzato e per certi versi
pessimisticamente cattivo, ora diamo uno strappo e guardiamo avanti.
FFFUH! sarà un numero di soli racconti. niente articoli o interviste. solo storie.
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Premesse
Voglio essere là quando in curva sentirò fischiare il treno. Tutti i treni. Perché
là i treni che ho perso ripasseranno uno dopo l’altro, come le stagioni. Voglio
essere là perchè là non sbaglierò più un congiuntivo. Voglio essere là per
crederci davvero, per riconoscermi allo specchio. Voglio essere là perché qui
non ci sto bene, perché per alzarsi la mattina bisogna averci un buon motivo
e per vivere di notte ci vuole coraggio… e io non ho più nessuna delle due
cose. Perché non voglio che mio figlio si vergogni più di me. Voglio essere là
perché qui non c’è mai abbastanza vino per dimenticare e soprattutto perché
non c’è mai un vero motivo per cominciare a bere. Voglio essere là per un
bicchiere d’acqua fresca, per un sorriso spontaneo, per un bel giorno di sole.
Voglio essere là, dove vanno ad asciugarsi le lacrime, dove vanno a
nascondersi i sogni dimenticati e le promesse infrante, là dove sta il meglio di
noi. Voglio essere là, nel punto esatto in cui mi sono perso.
Voglio essere là per ricominciare
/Alessandro Corazzi/
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MIRAGGIO
Pigiò forte sul pedale del freno, la macchina inchiodò e i pneumatici (o quel che ne rimaneva)
stridettero sollevando una nuvola di polvere rossa. Aprì la portiera arrugginita la quale fece resistenza
emettendo un pigro cigolio, un lamento di risveglio dopo secoli di disuso. Erano ore che vagava senza
meta attraverso l’outback e finché era stata notte non aveva fatto caso all’aridità del paesaggio intorno a
lui, mentre ora il solo guardarsi intorno gli seccava la gola e la visione di un po’ d’acqua corrente gli
ingombrava la vista come un miraggio. Fortunatamente aveva trovato un punto di ristoro, che chiamare
stazione di servizio era veramente troppo; una baracca di lamiera era affiancata da una pompa di
carburante, il tutto avvolto da una nube di calore che si alzava dal terreno ocra smosso da rari segni di
pneumatici.
Si accorse che la porta non esisteva, l’entrata era sul lato opposto a quello affianco al quale si era
fermato, e consisteva in un foglio di lamiera piegato a 45 gradi rispetto al resto, incastrato nel terreno e
pericolante nella sua parte superiore.
Entrò.
Nella penombra, alla quale i suoi occhi non si abituarono subito, scorse la figura che sedeva dietro il
bancone di truciolato i cui bordi sembravano mozzicati dando l’idea di un appoggio alquanto periglioso.
Il torso dell’uomo era coperto da una canotta bianca che mostrava aloni gialli di sudore nella parte
adiacente al petto e poi anche alle due ascelle, la parte inferiore del corpo non era visibile, ma in testa
portava un berretto a retina dal quale uscivano qua e là ciocche di capelli arricciati dalla sporcizia e di
colore nero e bianco; il volto era occupato per la maggior parte da un naso grosso e bitorzoluto,
affiancato da due occhi semichiusi dalle sopracciglia cadenti e sovrastante due labbra carnose spaccate
dalle piaghe dovute al sole; le guance sembravano quelle di un cane boxer ed erano solcate da profonde
rughe nelle quali le goccioline di sudore s’incanalavano come in un sistema di chiuse fluviali.
Naturalmente era un tipo di poche parole, a lui interessava solo rendersi conto il prima possibile di
quanto si doveva muovere dal suo posto per servire i pochi clienti che riceveva, e farlo il più in fretta
possibile, per poi ritornare al suo ambito sgabello a fissare la porta che non c’era.
Lui invece aveva voglia di parlare e riuscì a farsi dire che dall’altra parte della strada c’era un paese,
incuriosito uscì fuori attraverso la non-porta e scrutò in direzione della carreggiata opposta.
Capì perché prima non si era accorto di un assembramento degno del nome di paese, semplicemente
non c’era un paese ma 4 o 5 roulotte parcheggiate stabilmente in mezzo al nulla.
Rientrò nella baracca appoggiandosi alla pseudo porta e chiese se lo si stesse prendendo in giro ma
l’uomo gli rispose che il “paese” (esistente quanto la porta) aveva anche un nome e gli mostrò la il
messaggio di benvenuto stampato su etichetta adesiva che vendeva.
Sorpreso, notò l’espressione spazientita del suo interlocutore, evidentemente ansioso di tornare alla sua
prolifica occupazione antecedente, così chiese da bere e del ghiaccio a parte.
I cubetti erano gialli, ma una cosa lo sorprese ancor di più: accanto al refrigeratore da dove il gentile
personaggio aveva preso bibite e ghiaccio c’era quello che, nella penombra, lui aveva scambiato per un
armadio ma che ora si rendeva conto essere una bara. Chiese delle spiegazioni e si sentì rispondere che
la bara era in offerta, e si riceveva un ulteriore sconto se ci si scavava la fossa da soli. Naturalmente
l’uomo non aveva intenzione di dare ulteriori spiegazioni ma la situazione era veramente
incomprensibile e, sfidando lo sguardo bramante inedia, chiese il perché di un’offerta talmente inusuale.
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è per gli aborigeni!
Rispose una terza persona entrando dalla porta che non c’era; vestiva soltanto una salopette di jeans
blu, con il colore e il tessuto consumati sulle cosce, niente scarpe, testa calva e una folta e lunga barba
bianca; guardandolo meglio si accorse che la salopette era retta da una sola bretella, incrociata sul petto
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per raggiungere il bottone opposto, lasciando penzolare l’altro lembo che scopriva così il capezzolo
scuro circondato da ciuffetti di candidi peli. L’uomo al bancone tirò un sospiro di sollievo e rientrò nel
suo stato simil-catatonico lasciando al vecchio l’incombenza delle spiegazioni.
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vede, qui siamo nel bel mezzo di una delle più trafficate “vie dei canti”, gli itinerari ripercorsi
dagli aborigeni sulle tracce dei loro antenati mitologici, questa “via”, in particolare, è piuttosto
estenuante dato che si estende nel mezzo del deserto e incontra anche diversi dislivelli; inoltre
gli aborigeni sono soliti percorrerla in età avanzata, quando sentono che la morte è vicina e che
per loro potrebbe essere l’ultima occasione per farla tutta o per morire con il massimo degli
onori nei luoghi toccati dal progenitore della propria tribù.
Continuava a sfuggirgli qualcosa, ma vide che il vecchio calvo stava ricominciando a parlare dopo aver
sorseggiato una buona metà della sua bibita.
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permetta che beva sotto suo pagamento visto che la gola mi si sta seccando per soddisfare la
sua curiosità… comunque questo è il punto in cui di solito arrivano stremati e poco dopo si accasciano morenti al suolo. In questo modo si stava formando u vero e proprio cimitero a cielo
aperto con relative nefande conseguenze, così, visto che io sono falegname ho cominciato a costruire bare in cui mettere quei poveretti, ma poi sono diventato troppo vecchio per scavare anche le buche, e il mio amico, qui, ha il suo lavoro, che come vedi lo tiene impegnato per tutta la
giornata, quindi consigliamo a chi vuole un riposo dignitoso nell’aldilà di scavarsi una buca da
solo, assicurando che se si muore nello sforzo, verrà comunque sepolto anche se non si assicura
che questo avvenga immediatamente. Ecco tutto!
Si alzò, aprì la copertura di quel letto eterno e d’un tratto gli apparve la soluzione a tutti i suoi problemi,
tutto sommato anche lui stava facendo un lungo viaggio e quel posto fuori dal mondo gli sembrava
adatto a porre fine al suo vagabondare, pensò che un cuscino su cui appoggiare la testa e una tavola di
legno a proteggergli la testa dalla pioggia erano sempre meglio del niente con cui si ritrovava ora. Chiese
il prezzo ma si rese conto di non avere i soldi necessari, però aveva ancora la macchina, e i due
accettarono lo scambio senza farsi troppe domande su cosa volesse fare quel viaggiatore con la bara…
Visto che la porta non c’era, portò agevolmente la bara fuori dalla baracca, dopo essersi fatto dare una
pala dai due, che gli avevano inoltre indicato dove poter andare a scavare (soprattutto per sapere dove
andare a recuperare la pala e chiudere la buca). Se la legò in vita con una lunga corda e la trascinò verso
la meta come fanno i centometristi con i pneumatici in allenamento. Fu già faticoso arrivare sul posto
in quel modo, e doveva pure scavare ora; la maglietta l’aveva legata in testa, per proteggersi dal sole e
mentre scavava in quel deserto sembrava un arabo in cerca del petrolio.
La terra era dura, la fatica enorme e il sudore scendeva prima a rivoli sul suo corpo e poi cominciò a
traspirare direttamente a chiazze, come fossero laghi emergenti spontaneamente dalla terra; lo scavo,
però, lo teneva occupato, concentrato, ci provava gusto e ne rimase addirittura soddisfatto, pensava ci
avrebbe messo chissà quanto e invece aveva già finito, gettò la bara nella fossa e pensò che un bel
sonno se l’era proprio meritato, pensava di addormentarsi e quindi di non sentire niente quando
sarebbe morto soffocato per mancanza d’aria dopo che il vecchio pelato avrebbe completato l’opera, si
rimise la maglietta e si stese beato, si addormentò pensando a quei poveri aborigeni in fin di vita che
dovevano fare tutta quella fatica per avere una morte dignitosa, mentre lui aveva sbrigato la pratica in
poco tempo e con invidiabile vigore, ma allora… si addormentò con un pensiero incompiuto nella
testa, d’altronde aveva guidato tutta la notte e ora era così soddisfacentemente stanco da non riuscire a
finire i suoi stessi ragionamenti…
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TUD! TUD! TUD! TUD! TUD!
Pensò di essersi svegliato nell’aldilà, e incuriosito aprì gli occhi per vedere come fosse: buio e stretto
come una cassa da morto,
TUD! TUD! TUD! TUD! TUD!
D’un tratto fu preso dal panico, “mi sta sotterrando vivo!” pensò, “cosa sentirò quando comincerà a
mancarmi l’aria?” si chiese nel panico,
TUD! TUD! TUD! TUD! TUD!
“Io volevo morire nel sonno, non volevo accorgermi di niente!”,
TUD! TUD! TUD! TUD! TUD!
D’un tratto la fine del pensiero incompiuto col quale si era addormentato gli si rivelò: ma allora perché
non restare lì a scavare le fosse per i morituri? Si poteva far dare la differenza di prezzo che sottraevano
a chi acquistava la casse da morto, non era molto, ma in quel posto non è che avesse bisogno di chissà
cosa, giusto di una baracca di lamiera senza porta nella quale dormire e della soddisfazione che aveva
trovato nello scavarsi la fossa… TUD! TUD! TUD! TUD! TUD! TUD! TUD! TUD! TUD! TUD!
TUD! TUD! TUD! TUD! TUD!
-
AIUTO! AIUTO! AIUTO! NON VOGLIO MORIRE! TIRATEMI FUORI DI QUI!
TUD! TUD! TUD! TUD! TUD! Il vecchio non lo sentiva…
-
AIUTO! AIUTO! AIUTO! NON VOGLIO MORIRE! TIRATEMI FUORI DI QUI!
TUD! TUD! TUD! TUD! TUD! Niente…
-
AIUTO! AIUTO! AIUTO! NON VOGLIO MORIRE! TIRATEMI FUORI DI QUI! AIUTO! AIUTO! AIUTO! NON VOGLIO MORIRE! TIRATEMI FUORI DI QUI! AIUTO!
AIUTO! AIUTO! NON VOGLIO MORIRE! TIRATEMI FUORI DI QUI!
Provò con tutto il fiato che gli permetteva quello spazio ormai povero d’aria… TUD! TUD! TUD!
TUD! TUD! Tu...
ho capito bene, vuole essere tirato fuori?
si, si la prego…
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era calmo ora, in piedi sul ciglio della fossa a guardare quella che era stata la sua tomba per un tempo
breve ma più che sufficiente; espose la sua idea al vecchio
si può fare, nel frattempo potrei anche insegnarle a costruire bare, ormai sono vecchio e se la
piace il lavoro manuale si potrebbe anche appassionare all’idea…
-
-
può darsi, per ora mi accontenterò di scavare fosse…
-
venga, allora, la aiuterò anche a mettere insieme della lamiera per costruire la sua nuova casa, ne
abbiamo ancora un po’ laggiù, c’è avanzata dalla costruzione dell’emporio. C’è solo un problema…
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quale?
-
Non abbiamo porte…
/Ivan Cusella/
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HUFF!
Doveva scrivere il suo pezzo per REV di novembre.
Si ridusse all'ultimo istante.
Un classico.
Era un freddo, freddissimo sabato sera di fine novembre. Pensava che il calore domestico
avrebbe favorito la sua creatività.
Invece niente.
Il tema del mese era bello, intrigante, eppure non riusciva a trovare il modo giusto per dar vita
in forma scritta ai suoi pensieri.
Sapeva di cosa parlare. Sapeva la storia che voleva, anzi che doveva raccontare.
Invece niente.
Non era ancora pronto. Era evidente.
FFUH era un bel suono e da tempo riecheggiava nella sua testa, ma non era purtroppo il suono
che sentiva in quel momento.
Non era pronto a ripartire.
Non era pronto a scostarsi di dosso la polvere, sistemarsi giacca e cravatta e andare avanti.
Non si sentiva un FFUH.
Per niente.
Era forse un PLOFF, un COFF, un CRACKZ, ma di certo, proprio non si sentiva un FFUH.
Al limite quello era il rumore che poteva fare togliendosi la forfora dalla giacca. Ma il chimico
shampoo da 3 euro e 95 comprato alla Standa si stava rivelando più efficace del previsto.
Niente di niente
Non gli restava che prendere coscienza della realtà ammettendo a se stesso la sconfitta,
dichiarandola al mondo (ai circa mille lettori di REV sparsi per il mondo, sarebbe più corretto e
meno presuntuoso) per iscritto.
Si rese così conto di aver comunque scritto un pezzo.
Il suo lavoro per questo numero era pronto. Non era quello che voleva, ma almeno era riuscito,
ancora una volta per il rotto della cuffia a tirarsi fuori brillantemente da una scadenza
imminente. Salvò il file, spense il computer e si alzò soddisfatto dalla sedia.
Prese le chiavi della macchina, si mise la giacca, se la sistemò per bene e uscì. Nessun FFUH,
piuttosto un sospiro stanco e quasi al limite. Un sospiro di chi ha perso e aspetta di toccare il
fondo per capire verso quale direzione rilanciarsi.
Un sospiro pesante
HUFF!
Per la mia P, chè tra 11 mesi le scade l'abbonamento in palestra
/Federico Vergari/
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Ho sognato di ucciderti e ho smesso di essere innamorata di te
"Ho sognato di ucciderti e ho smesso di essere innamorata di te."
"Eh?"
"Eh sì."
"Tu sei matta!"
Però era andata proprio così.
Quella notte Magda aveva sognato Enrico nella casa dei suoi genitori. Enrico e Valentina, la donna da
lui inseguita e, stando ai fatti, amata ma senza esserne ricambiato. Il corridoio era immerso nell'oscurità,
solo la luce dello specchio a parete illuminava il piccolo spazio a protezione delle camere da letto abitate
e silenziose.
Enrico e Valentina erano molto piccoli. Due piccoli nani.
Io ero incredibilmente grande però, pensò Magda. I due piccoli nani parlottavano fra loro, piagnucolavano
seduti per terra. Magda era insofferente ai due, una sensazione così reale. Come il dolore provato per
quell'uomo, amato senza esserne ricambiata, piuttosto spolpata.
Ricordava le sue mani grandi che scendevano prima su Valentina. Poi su Enrico. Ricordava soprattutto
la forza delle sue mani.
Ricordo di averla strangolata piano, tirandola su con un gesto secco dal pavimento.
L'aveva appiccicata alla carta da parati bianca come un brutto quadro vinto alla fiera del patrono. E poi
aveva cominciato a stringere. La pelle del viso era diventata lentamente rossa, poi viola. Tutto sempre
molto lentamente. Una volta morta, Magda aveva lasciato il collo e l'aveva fatta scivolare ai suoi piedi,
inutile e inoffensiva. Toccava a lui. Tirò su Enrico con facilità, digrignando i denti con cattiveria, e cominciò a stringere. Come prima la pelle si fece rossa e sotto la carnagione olivastra di lui, quel colore lo
rese ancora più bello. Anche il viola gli donava molto. Prima di andarsene, Enrico portò le mani su
quelle di Magda. Un
inatteso gesto di tenerezza che fece scrocchiare le ossa del collo di Enrico, definitivamente. Non mi
sono controllata, è stato più forte di me. I due corpi accasciati sul pavimento marrone, in quella debole
luce, sembravano solo un mucchio di panni sporchi. Ho sorriso, ricordò Magda, e sono andata a dormire.
"Stamattina mi sentivo triste e cattiva. Poi solo cattiva. E poi più niente. Mi sono liberata di te uccidendoti nel sonno. Ecco, non riuscivo a trovare una ragione per sbatterti fuori dalla mia vita. Così ho dovuto ucciderti." "Cioè davvero tu oggi, dopo questo sogno non provi più niente?"
"Sì. È così. Fico, no?"
/Stefania Leo/
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STOP AND GO.
Erano passati due giorni e ancora si sentiva sotto choc. Le sue speranze e i suoi progetti per il futuro
miseramente crollati come castelli di carte.
Si sentiva stupido ed immaturo, sapeva di non poter attribuire il suo fallimento alla sfortuna, e si
rendeva conto che si era illuso di aver già vinto nonostante non aveva fatto altro che proclamare che
non era la persona che si illudeva facilmente.
Quei due giorni di solitario esilio forzato gli avevano dato fin troppe occasioni per riflettere, i tanti
errori che aveva commesso in quella vicenda non finivano di balzargli agli occhi e mescolandosi con
altri errori del più svariato genere anche non legati a quella vicenda, diventavano carnefici della sua
autostima.
La pochezza del suo piano e l'approssimazione con la quale lo aveva condotto lo disarmavano tanto
da renderlo impotente. La spavalderia e la presunzione che aveva dimostrato in quegli ultimi
mesi un'aggravante alla sua colpa.
I suoi avversari erano assai numerosi e molto più forti di lui, ora lo sapeva, ma l'avrebbe dovuto sapere
anche prima. E prima di gettarsi a capofitto in un'immane battaglia avrebbe dovuto trovarsi qualche
alleato o perlomeno preparasi ad una ritirata.
Ora non poteva nemmeno tornare indietro e doveva contare solo su se stesso.
Ma quale reazione poteva avere ancora, lui, che si sentiva così distrutto?
Era avviato ad una sconfitta certa e ne era consapevole, la meditazione lo convinceva di ciò, e si
dispiacque anche di non credere in dio, sì che avrebbe potuto sperare in un miracolo.
Ogni tanto provava a chiamare qualcuno dei suoi cari per raccontargli l'accaduto, ma non trovava
conforto in ciò né lo cercava così come non cercava commiserazione (già gli bastava la propria), forse
cercava solo risposte che già sapeva impossibili.
Del resto era tutto già ineluttabilmente deciso e lui non aveva altro da fare che raccogliere le sue ultime
forze e tentare una strenua disperata difesa. Ma si sentiva impotente ed incapace a ripartire.
Decise di uscire, per passeggiare e sottrarsi alla deprimente voluttuosità del suo divano, arrivò
all'alimentari vicino casa. Si comprò la cena ed in fila alla cassa non poteva fare a meno di guardare gli
altri clienti e le cassiere, chissà se nella sua stessa situazione si sarebbero comportati meglio o peggio di
lui, e chissà se c'erano un meglio ed un peggio.
Tornando incontrò un suo amico, non un suo grandissimo amico, ma godeva della sua fiducia, o forse
soltanto uno che sapeva ascoltare, e chiedere con garbo anche. Così, di getto, gli raccontò tutto,
chiaramente e senza aggiustamenti, come non aveva fatto con nessuno fin'ora e tutti gli eventi si
rivelarono pienamente nel loro significato, e sembrarono passati.
“Cosa farai ora?” Gli chiese il suo amico al termine del resoconto, tutto l'impeto della spiegazione svanì
improvvisamente, poi rifletté e finalmente rispose:
“Guardo n'nanzi, perchè arretu nun pozo scire” e almeno per un attimo l'impotenza svanì.
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Catture/
/Ilaria Palmas/
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L’INEDITO CAPOLAVORO
(piccola storia per un film)
Milano 2007. Una pioggia fine e insistente sbatte contro l’insegna del Cinema Valentino. Renato, un
uomo di sessantasette anni, alto e magro, capelli bianchi e spettinati, cerca con fatica di aprire la vecchia
serranda. Dopo vari tentativi riesce nell’impresa ed entra accendendo le luci di questo piccolo cinema
della periferia milanese. Le pareti sono tappezzate di locandine e foto di Rodolfo Valentino. Renato con
meticolosa meccanicità esegue una serie di operazioni per poi sedersi alla cassa.
Trafelato entra Oscar, quarant’anni e pochi capelli. Si scusa per il ritardo ma ogni volta che va dalla
madre il pranzo si trasforma in un sequestro. Oscar si informa sull’affluenza della serata precedente ma
conosce già la risposta: neanche una persona. Oscar Comincia uno dei suoi proverbiali monologhi di
lamentela: non ci sono clienti, lo sfratto è imminente ed il loro è l’unico cinema a proiettare i film di
Rodolfo Valentino. Renato tenta a fatica di difendere la rispettabilità artistica del suo conterraneo ma
poi stanco e abbandonato se ne va, lasciando Oscar nell’insperata attesa di qualche cliente, almeno per
le proiezioni serali.
In un tramonto di pioggia fine Renato cammina lentamente come se i passi seguissero i pensieri che gli
increspano la fronte.
Stancamente si prepara una cena frettolosa e poco invitante. A letto fa il segno della croce e spegne la
luce.
Le immagini di un vecchio film di Rodolfo Valentino scorrono a vuoto sullo schermo. Renato è seduto
su una delle poltroncine, solo e sconfortato nella sala cinematografica.
“Dovremmo trasformarlo in un cinema porno, è una vita che te lo dico”. Oscar lo accoglie nell’atrio
con queste parole ed una busta da lettere in mano. È l’ennesima ingiunzione di sfratto, che Renato
senza aprire nasconde in un cassetto già pieno di avvisi.
Oscar e Renato chiudono la serranda, e passeggiano lungo il marciapiede. Oscar espone il suo progetto:
trasformare Il Cinema Valentino in un cinema porno sarebbe un’operazione economica notevole, che
gli permetterebbe di pagare gli arretrati. Ha già in mente il nome: Valentine’s House of Love. Renato
però ribatte di non aver dedicato la propria vita al cinema per poi trasformare la propria sala in un
rifugio di masturbatori. I due si lasciano, dandosi appuntamento al giorno dopo. “hai qualche problema
con il sesso” è il congedo di Renato.”Il problema è che non lo faccio mai” è la semplice ma incisiva
risposta di Oscar.
In una casa piccola e arredata con poco gusto Oscar scaccia la solitudine con le trasmissioni
patinatamene erotiche di qualche televisione privata.
Renato, stanco e pensieroso, guarda il tg della notte sdraiato in poltrona. Per ultima una notizia di
cinema. Si parla di un misterioso inedito di Rodolfo Valentino, gli occhi di Renato, rimpiccioliti dal
sonno si spalancano improvvisamente.
Alla fermata dell’autobus il vento spettinava i capelli di un sorridente Renato. Appena salito sull’autobus
però il suo sorriso si affievolisce infatti un ragazzo si alza per fargli posto. Renato lo guarda un attimo
in silenzio, attonito, poi si siede con rassegnazione e lo ringrazia con rammarico.
Nell’atrio del cinema Renato passeggia nervosamente. Oscar entra, Renato gli si fa incontro con
entusiasmo. Ha la soluzione a tutti i problemi: ha visto l’inedito di cui parlavano al tg, l’ha visto e sa
dov’è: a Castellaneta. Oscar in tutto questo non trova niente di particolarmente esaltante, anche se fosse
vero ciò non migliorerebbe la loro condizione. Renato è invece convinto del contrario, una volta
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trovato l’inedito potrebbero venderlo a una qualsiasi cineteca o fondazione mondiale. Renato sprona
Oscar a partire il prima possibile, Oscar invece trova il tutto una follia e con decisione rifiuta l’idea di
unirsi al viaggio.
La Volvo di Oscar fatica ad ingranare la quarta lungo l’autostrada. Oscar, guida con fare svogliato,
accanto a lui Renato ha gli occhi che brillano di entusiasmo. Parla in continuazione con la vitalità di un
bambino in gita. Racconta per filo e per segno in quale occasione ha visto il film: l’ha visto con la sua
fidanzatina dell’epoca nel cinema all’aperto che il prete organizzava in parrocchia. Renato racconta nei
minimi dettagli i ricordi di quell’estate lontana. L’estate in cui si innamorò perdutamente di quella
ragazza e soprattutto l’estate in cui lavorò come assistente volontario con una troupe cinematografica
venuta a girare proprio a Castellaneta. Renato racconta nel dettaglio a un infastidito Oscar la prima
volta che si trovò a dare l’azione sul set
All’interno di un autogrill affollato, Renato si diverte a provare una serie di occhiali da sole. Oscar,
invece è alla cassa del bar. Paga e si avvia, scontrino in mano, al bancone per l’ordinazione. Il bancone è
affollato di gente frettolosa e vociante. Non riesce ad imporsi nel marasma: gli passano avanti, lo
sovrastano con la voce e quando sembra avere uno spiraglio il barista, distratto, non lo sente. Renato,
con indosso un paio di sgargianti occhiali da sole, lo chiama: è ora di andare, sono indietro nella tabella
di marcia. Oscar dà un’occhiata al bancone ancora assediato, poi rassegnato, getta lo scontrino nel
cestino e, frustrato, esce dal bar senza aver consumato la colazione pagata.
Nel parcheggio dell’autogrill vengono avvicinati dall’esuberante Sara, giovane aspirante attrice,
ventottenne e autostoppista, con un provino da affrontare l’indomani a Roma. Si unisce al viaggio dei
due uomini e porta nell’auto una certa briosità. Parla, canticchia e tutto ciò fa emergere in Oscar un
certo gusto per il viaggio. Gli piace la freschezza, nonché il gradevole aspetto, di Sara, gli piace quella
voce squillate ma calda. Una voce che crede di aver già sentito. All’improvviso squilla il cellulare di Sara,
che risponde e comincia a dire una serie di volgarità tipiche di un hot line telefonica. Renato rimane
colpito ma divertito da quell’assurda telefonata, per Oscar è una folgorazione. È lei, Jenny Love, la
compagna di tante nottate passate davanti alla televisione. Terminata la telefonata Sara gli spiega che è
lei a dare la voce ma non le forme a Jenny Love.
La notte scende sul viaggio dei tre. Fanno sosta in un piccolo albergo ai bordi dell’autostrada. Cenano al
ristorante al piano di sotto. L’ambiente è spoglio e male arredato. Poche persone ai tavoli, tanto da farlo
sembrare più vuoto di quanto non sia. Ad uno degli angoli è allestita una pedana, con un pianola.
Dietro la pianola, un uomo magro e triste che cerca di coinvolgere i pochi clienti in un’improbabile
serata di karaoke. Seduti ad uno dei tavoli ci sono Renato, Oscar e Sara. Dopo aver aggiornato Sara
sugli sviluppi che hanno portato i due amici a mettersi in viaggio, Renato mostra una vecchia foto
stropicciata, che mostra il ragazzo e la ragazza, che abbiamo visto correre all’inizio del film. Sono
Renato e Marta, la sua fidanzata di allora, con gli abiti d’epoca. La foto è una semplice copia che ha nel
portafoglio, l’originale più grande e ben conservato ce l’ha a casa. Renato racconta la storia di questa
foto: durante una fiera estiva a Castellaneta, una bancarella scattava foto con vestiti d’epoca e loro dopo
aver preso la foto sono scappati con ancora i vestiti addosso. Marta è il suo grande e unico amore,
iniziato non molto prima di quella lontana estate e finito subito dopo. Un amore così breve e così
importante a cui Renato non ha mai smesso di pensare. Sara è affascinata dal racconto. Oscar è
totalmente in balia di Sara, la fissa, non riesce proferire parola. Renato racconta di non vedere Marta da
più di cinquant’anni e di non essere mai tornato a Castellaneta, Sara è curiosa di sapere perché, ma
Renato taglia corto: è una lunga storia. Finita la cena Sara scatta sulla pedana: è l’unica a partecipare al
karaoke, la sua allegria contagia però sia Renato che un impacciato Oscar. I tre cantano con stonato
divertimento una famosa canzone degli anni cinquanta.
In camera insieme Oscar e Renato non riescono a prendere sonno. Renato pensa già al suo arrivo al
paese. Si immagina il ritrovamento dell’inedito ma soprattutto si immagina Marta, il suo primo amore,
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l’unico vero e sincero. Oscar ha altri pensieri, o meglio ne ha uno insistente: Sara. Saperla sola nell’altra
stanza, saperla così vicina e per una sola sera non lo fa dormire. Dovrebbe provare almeno a
corteggiarla ma non sa farlo, non ne ha l’esperienza. Ognuno parla del proprio amore, passato o
presente, senza ascoltare l’altro. Renato, spacciandosi per degno erede del seduttore Rodolfo Valentino,
decide di istruire Oscar a dovere ma i risultati sono disastrosi. Una volta entrato nella stanza di Sara
l’impaccio di Oscar è già evidente, dopo di che è una serie di frasi balbettate, occhi bassi e sorrisi
forzati. Sara mostra simpatia nei confronti dell’uomo e quello che il timido Oscar ottiene è un casto
bacio della buona notte.
I giovani Renato e Marta escono dall’arena cinematografica allestita nella parrocchia del paese. Renato è
eccitatissimo per aver visto l’inedito di Valentino. Si tengono per mano e passeggiano fino ad un’altura.
Seduti per terra fantasticano sul proprio futuro. Renato si vede regista famoso e apprezzato da pubblico
e critica. Marta si immagina come sua moglie, con tanti bambini e una bella casa. Renato le racconta la
straordinaria esperienza che sta vivendo sul set, poi si blocca e rubando una battuta al film su cui sta
lavorando si avvicina alla labbra di Marta e la bacia.
I tre sono di nuovo in viaggio. Oscar guida concentrato, Sara ripassa la parte per il provino insieme a
Renato che dimostra di avere una particolare dote per la recitazione, cosa che non si può dire di Sara.
Proprio mentre sta dando le battute a Sara, Renato sente mancare il respiro, chiede ad Oscar di fermare
la macchina, una volta sceso, si poggia al cofano con la fronte perlata di sudore ed il volto pallido.
Nel bar dell’ospedale Sara telefona alla produzione chiedendo di posticipare di qualche ora il provino.
Oscar è al bancone cercando ancora una volta di farsi valere tra i vari avventori. Gli si avvicina Sara e
gli mostra come imporsi tra la folla. Consumano un pasto fugace, Oscar è preoccupato per Renato,
questo viaggio gli stava dando quella vitalità persa da anni. Tornano nella sala d’aspetto, gli si fa
incontro il medico: Renato ha il cuore malandato e vista l’età è meglio che cominci a riguardarsi con
maggiore accuratezza. Li invita a non allarmarsi troppo ma nello stesso tempo ad essere prudenti e
sospendere il viaggio che Renato gli ha già raccontato nei minimi dettagli.
Renato getta gli occhiali giovanili comprati all’autogrill in un cassonetto all’uscita dell’ospedale. Il
viaggio verrà interrotto dopo aver accompagnato Sara al provino: Roma è ormai a pochi chilometri.
C’è silenzio in auto, Sara ripassa a bassa voce la parte, Renato fissa avvilito l’asfalto.
Renato e Oscar salutano Sara davanti al portone dell’ufficio in cui sosterrà il provino. Renato dopo un
affettuoso saluto si rintana in macchina lasciando una certa intimità tra i due. Oscar e Sara si salutano in
un misto di affetto e timidezza. Prima di entrare nel portone Sara poggia furtivamente le labbra sulla
bocca di Oscar che rimane imbambolato anche dopo che il portone si è chiuso alle spalle della ragazza.
“c’è stato un tempo tra me e Marta, troppo bello e troppo breve, un tempo di troppo”. Avevo
diciassette anni e lei quindici, ci fu un solo bacio ma non l’ho mai dimenticata”. Il viaggio verso il
capolavoro di Valentino è per Renato un viaggio nel tempo, alla ricerca di quel breve amore, di quel
tempo perfetto, di quell’estate magica mai più tornata. Quello che Renato sta cercando più che la
pellicola è il momento migliore della sua vita e non ha intenzione di fermarsi proprio ora. Sono queste
le ragioni che Renato, con ritrovato vigore, sta ponendo ad Oscar nel tentativo di convincerlo a
proseguire il viaggio verso Castellaneta. Ma Oscar ha già preso la strada di ritorno per Milano e non
vuole sentire ragioni. Renato ha bisogno di riposo e non vuole prendersi responsabilità . Renato insiste:
questo viaggio dopo tanti anni è riuscito a stanarli da quel buco di cinema e ora non possono
arrendersi. Oscar in viaggio ha trovato l’amore di Sara, che gli ha lasciato il suo numero, si rivedranno.
E Renato l’amore vuole andarselo a riprendere, perché non è mai troppo tardi. Oscar non risponde,
guida senza più controbattere, il suo sguardo però ha mutato aspetto, sembra più contratto. Lungo la
strada incontrano lo svincolo per l’inversione di marcia, Oscar gira lo sterzo. Il viaggio continua.
13
Renato si è assopito, Oscar guida pensieroso. Improvvisamente squilla un cellulare sul sedile posteriore,
Renato si sveglia di colpo. È il telefono di Sara, l’ha dimenticato. Renato si allunga, prende il cellulare e
dopo un attimo di esitazione risponde. Dall’ altra parte c’è uno degli eccitati ammiratori di Jenny Love.
L’uomo comincia a dire una serie di volgarità ad un attonito Renato, che non sa cosa rispondere, un pò
divertito e un pò imbarazzato. Posa il cellulare vicino l’orecchio di Oscar così che anche lui possa
sentire. Oscar interrompe le volgarità dell’uomo fingendo di essere il centralino di radio Maria. L’uomo
attacca inorridito, I due amici ridono con complicità per lo scherzo e per una ritrovata serenità.
Il bivio per Castellaneta è vicino e anche la sera. Renato confessa ad Oscar di provare una certa
agitazione. Non torna nel suo paese da quasi cinquant’anni e il passato che si è lasciato alle spalle non è
stato roseo come l’ha raccontato finora, o perlomeno non solo. Quell’estate in cui amoreggiò con
Marta, infatti, le cose si complicarono. Il fidanzamento divenne ufficiale immediatamente visto che in
paese circolavano voci sulla loro relazione. Si sarebbero sposati in autunno o al massimo l’inverno e
Renato sarebbe entrato a lavorare nella ditta di confetti del suocero. Ciò che in realtà fece fu fuggire a
Roma insieme alla troupe che aveva ormai terminato le riprese. In questo modo disonorò la sua
famiglia e per questo non ebbe più rapporti con i genitori che non gli perdonarono mai quel gesto che
consideravano vile. Non è tornato neanche ai funerali dei propri genitori e ha paura ad affrontare tutto
il dolore e le speranze spezzate lasciate a Castellaneta. Oscar è preso dal racconto di Renato, si
frequentano quotidianamente da anni ma nessuno si era mai inoltrato nella vita altrui. Oscar vuole
saperne di più: cos’ha fatto una volta fuggito a Roma. Renato gli racconta di aver lavorato per quella
produzione fino al fallimento negli anni sessanta, di aver bazzicato qualche altro set fino all’occasione
della sua vita. Non gliel’ha mai detto ma lui ha diretto un film, che purtroppo non è mai uscito nelle
sale. Oscar è sbalordito e anche un po’ offeso per non saperne niente. Renato giustifica il fatto di non
avergliene mai parlato perché la ferita gli brucia ancora. Girare un film senza avere la possibilità di farlo
vedere è un dolore troppo grande da raccontare ma ora che con questo viaggio hanno condiviso tutto,
gli promette che di ritorno a Milano gli mostrerà il film, ne ha una copia a casa. Oscar vorrebbe
continuare questa intensa conversazione ma di fronte a lui, all’arrivo a Castellaneta ha una visione: Sara.
Ferma alla piazza. Con il suo solito sorriso gli si fa incontro. Non è una visione, è proprio lei. Il provino
è andato male e aveva bisogno di stare tra amici e recuperare il cellulare. Il treno è più veloce della
Volvo scassata di Oscar e per questo è riuscita anche a precederli. Oscar non sta nella pelle, la abbraccia
mostrando una maggiore intraprendenza. Renato li guarda abbracciarsi e scherzare con una smorfia di
innocua invidia.
Alloggiano in una piccola ma ben curata pensione del paese. Oscar accudisce Renato, si sincera che
abbia preso le pasticche ordinategli dal medico e gli da la buona notte: domani è il gran giorno,
troveranno l’inedito e troveranno Marta. Renato sia addormenta sereno, Oscar si sposta nella stanza di
Sara, consumando con lei un’intensa e tenera notte d’amore.
Oscar racconta a Renato tutti i dettagli della serata passata con Sara, Renato infastidito da tanto
entusiasmo cerca di placare la vulcanicità di Oscar, anche perché sono all’interno di una Chiesa. Sara li
attende fuori, certi posti le danno ansia. Sono lì per incontrare l’ottuagenario parroco: è lui il custode
dell’ormai celebre inedito. L’anziano parroco sta celebrando la messa. Renato va per fare la comunione,
accanto a lui non c’è più Oscar, che invece inginocchiato nel confessionale continua il racconto della
nottata passata con Sara. Il prete porge l’ostia a Renato che gli sorride non riconosciuto.
Finita la messa sono accolti nell’ufficio parrocchiale. Il parroco ora l’ha riconosciuto ed è contento di
vederlo: meglio tardi che mai è il saggio e banale commento. Renato gli parla dell’inedito, vorrebbe
acquistarlo per poi offrirlo alle cineteche di tutto il mondo. L’anziano prete ride amaramente: è bruciato
più di vent’anni fa insieme a tutta la vecchia Chiesa. Una stupida bombola del gas ha bruciato un luogo
sacro ed un capolavoro della cinematografia popolare. Renato e Oscar si guardano delusi.
14
Renato passeggia solo per le vie del paese, qualcuno lo saluta, qualcuno non lo riconosce, altri fanno
finta di ignorarlo. Prende un largo viale e si ritrova di fronte alla vetrina di un negozio di fiori, dietro
alla quale c’è Marta, il viso è stropicciato dalle rughe ma gli occhi azzurri sono gli stessi di cinquant’anni
fa. Renato rimane fermo sul marciapiede a fissarla con un lieve sorriso bloccato sulle labbra. La donna
si accorge dell’insistente sguardo dell’uomo, non l’ha riconosciuto ed infatti, infastidita, gli chiede cosa
abbia da guardare. Il sorriso di Renato si spegne, esita per un po’ ed infine si allontana senza svelare la
propria identità
Sara e Oscar lo rimproverano per non essersi fatto avanti, era una bella occasione. Renato racconta di
aver avuto paura, ha sentito tremare le gambe, forse è meglio tornarsene a casa: l’inedito è andato in
polvere e anche l’idea di cercare Marta forse è stata una follia. A questo punto Sara si scaglia
verbalmente contro Renato, non può arrendersi ora, non deve. È arrivato il momento di affrontare la
realtà., non può fuggire da Marta una seconda volta. È stato tutti questi anni a rivangare il passato e non
si può stare troppo lontani da chi si ama, non si deve. Renato ascolta assorto, sa che Sara ha ragione.
Anche Oscar lo invita ad incontrare Marta, Renato guarda i suoi due amici e annuisce risoluto.
Renato torna nel negozio in cui ha visto Marta, entra per chiedere informazioni, il paese è piccolo, è
probabile che sappiano dirgli dove abita la cliente vista il giorno prima. Renato si imbatte nella
proprietaria che nel giro di poche battute scopre essere la figlia di Marta, rimane senza parole e si
allontana stordito.
Bussa ad un portone, ad aprire è Marta, che avvertita dalla figlia, accoglie l’uomo misterioso. Ma il
mistero si scioglie in pochi secondi, ora anche Marta l’ha riconosciuto. Decidono di andare a fare due
passi. Poche parole, molti sguardi furtivi. I due camminano guardando per terra come a contare i passi.
C’è imbarazzo e commozione. Poi giusto il tempo per Marta di accendersi una sigaretta e si trovano a
parlare del passato, dei rimpianti e dei rancori. Renato le confessa di non averla mai dimenticata: non ha
mai smesso di pensare a lei, ha immaginato ogni attimo della loro vita insieme… di quella che sarebbe
potuta essere. Sa che è stato tanto tempo fa e per troppo poco e sa di aver sempre sbagliato i tempi con
lei. L’ha cercata nei momenti sbagliati e si è fatto da parte dalla parte sbagliata. Marta interrompe la
dichiarazione di Renato accusandolo di essere fuggito, di averla fatta soffrire e ora non può pensare di
risolvere tutto cinquant’anni dopo. Marta gli confessa di aver atteso il suo ritorno per più di due anni
ma poi ha cercato di superare il dolore e di andare avanti perché la vita non dura un’ora e venti, la vita
dura una vita e non è un film. “Purtroppo” è la risposta istintiva di Renato. “Per fortuna” è invece la
convinzione di Marta. Ha avuto una figlia bellissima e ora due fantastici nipotini. E soprattutto un
marito dolce che le sta ancora accanto con amore. Marta non ha voglia di riaffrontare un passato che
l’ha fatta soffrire. Per Marta il passato non esiste più, o se esiste è fatto male, è imperfetto, proprio
come si chiama il verbo. Esiste solo il presente per Marta, quello che ha cercato di vivere ogni giorno da
quando Renato l’ha lasciata senza una parola o una spiegazione. Marta è dura e risoluta ma la sua
durezza lascia trapelare un’intensa commozione. Renato le chiede scusa, si è trovato di fronte ad un
bivio ed ha scelto il cinema, per questa passione ha rinunciato a tutto, ha rinunciato ad una vita vera.
Rapporti brevi e inconsistenti con le donne e contatto con la realtà praticamente nullo. Si è rintanato in
un nascondiglio di ricordi e passioni giovanili. Sa di essere arrivato tardi ma non voleva perdere
l’occasione di poterle dichiarare il proprio amore, ancora una volta, anche dopo così tanti anni.
Camminando e parlando sono arrivati all’altezza di una semaforo pedonale, l’arancione lampeggia
ripetutamente. Renato allunga il passo e attraversa la strada, Marta si ferma nel momento in cui scatta il
rosso. Arrivato sull’altro marciapiede Renato si volta e vede Marta ferma dall’altra sponda con una
lacrima nera di trucco a macchiarle la guancia, mentre le poche macchine sfrecciano lungo strada che li
divide. Renato fa per attraversare con il rosso ma viene bloccato da una macchina che corre a tutta
velocità. Passa un camioncino per pulire la strada e spruzza l’acqua addosso a Renato. Quando rialza lo
sguardo, Marta non c’è più.
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Un dignitoso sole autunnale illumina la spiaggia deserta di Castellaneta Marina. Seduti sulla sabbia ci
sono Sara, Oscar e Renato, in ogni modo rinfrancato dal confronto con Marta. Voleva rivederla e l’ha
fatto. Avrebbe desiderato un altro epilogo ma come dice Marta la vita non è un film e va accettato.
Renato confida poi ad Orlando di essere d’accordo a trasformare il cinema Valentino in un cinema
erotico, ed è pronto a cedergli la direzione. Oscar è commosso e divertito dall’idea. “Sarebbe bello
essere il personaggio di un film. Ancora meglio sarebbe essere registi della propria vita, ma non sempre
è possibile, anzi quasi mai. La maggior parte delle volte ci accontentiamo di fare le comparse, figuranti
che entrano ed escono di campo senza neanche essere messi bene a fuoco”. E’ questa la riflessione che
Renato condivide con i suoi amici. “Il cinema è un’altra cosa: è un mosaico di arti, è un circo viaggiante
di ombre colorate e fantasmi senza catene. Il cinema è un sogno ad occhi aperti che dà coraggio pure a
chi ha paura del buio. È un mondo perfetto, perché è fatto di niente. Il cinema è qualcosa di magico, il
cinema è musica per gli occhi”. Renato racconta che questo è uno dei monologhi presenti nel film da
lui girato e mai proiettato. Sara ammette che anche lei deve decidersi fare i conti con le sue scarse doti
di attrice e seriamente accettare il fatto di dedicarsi a qualcos’altro. Istintivamente propone ai due di
non trasformare il loro spazio in un volgare cinema porno, ma di trasformalo in un’innovativa agenzia
per anime sole, idea sicuramente più moderna e redditizia. Entusiasta dell’idea comincia a cantare la
canzone eseguita da tutti e tre durante il karaoke ad inizio viaggio, poi si alza e corre a gettarsi in acqua.
Orlando la guarda tuffarsi poi guarda Renato, desideroso allo stesso tempo di seguire la sua donna e di
non lasciare solo il suo amico. Renato gli fa cenno di seguirla. Oscar si getta goffamente in acqua. Tra le
piccole onde di un mare praticamente piatto Sara e Oscar si schizzano e si rincorrono sorridenti e
innamorati. Renato assiste a questa romantica scena. Li fissa con insistenza e con malinconico
rimpianto. Sorride con amarezza, poi si alza, si volta e si allontana, incidendo sulla sabbia il suo passo
stanco. Improvvisamente cade al suolo.
Renato è sdraiato sul letto di una stanza d’ospedale. Il ticchettio delle macchine fa eco al suo respiro
faticoso. Lo sguardo è fisso verso la luce al neon del soffitto.
Castellaneta, anni ’50. Renato e Marta da giovani. Sono seduti nell’arena parrocchiale e assistono
all’inedito di Rodolfo Valentino, di cui sentiamo solamente le classiche musiche delle colonne sonore di
quegli anni. Renato è incantato dallo schermo, Marta ha il suo profilo delicato poggiato sulla spalla di
Renato che la cinge con il braccio. I due si guardano per un’istante, giovani e innamorati
Gli occhi del vecchio Renato si fanno più piccoli, lo sguardo vacuo e sulle labbra gli si disegna uno
strano
sorriso.
Il
ticchettio
dei
macchinari
si
interrompe
bruscamente.
Nella sala d’attesa Oscar e Sara si abbracciano sfogando il dolore l’uno nell’altra, nel salone irrompe
anche Marta che dopo aver parlato con Oscar scoppia a piangere. Milano, 2007. L’insegna del Cinema
Valentino ha lasciato il posto alla sgargiante scritta: “Valentine’s House of Love”. Gli interni sono
rimodernati, alla cassa c’è Sara con un bel pancione che le esce dalla camicetta estiva. Sul muro alle sue
spalle c’è appesa la foto di Renato e Marta da giovani con i vestiti d’epoca rubati alla fiera. Oscar è al
telefono proprio con Marta: sono pronti a raggiungerla a Castellaneta, gli affari vanno così bene che
possono permettersi di chiudere l’agenzia per tutta l’estate. Oscar aiuta Sara a sedersi nell’auto
famigliare nuova di zecca, carica i bagagli e la pellicola di un film. Castellaneta, 2007. Il giardino
parrocchiale è pieno di persone, di fronte a loro uno schermo cinematografico bianco e teso. Oscar e
Sara sono seduti accanto a Marta, sua figlia, i nipotini ed il marito. Le luci si spengono e sullo schermo
appare Renato a trent’anni, affascinate e magnetico, fantastico interprete del suo inedito capolavoro.
/Alessandro Corazzi/ in collaborazione con Gianluca Minucci
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Credits
Hanno partecipato al numero 18 di Rev
Alessandro Corazzi
Ivan Cusella
Carmine Fiume
Federico Vergari
Lorenzo Galieni
Alessandro Ibba
Stefania Leo
Gianluca Minucci
Alessandra Scamurra
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Questo numero di REV è dedicato ad Alessandro il miglior compagno di stadio che si possa
desiderare, alla sua famiglia, ma soprattutto a suo papà.
Dal 25 novembre la redazione di REV ha una dottoressa in più. Congratulazioni Ale!
veglierò per sempre… dormirò vestito… non guarderò mai più l’orologio… prenderò
d’anticipo il mattino.(V.C.)
Grazie a:
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