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Giuseppe Morgese PRINCIPI DI TUTELA AMBIENTALE E DISCIPLINA DEGLI ORGANISMI GENETICAMENTE MODIFICATI (OGM) NELL’UNIONE EUROPEA II edizione dispensa finalizzata allo studio dell’esame di “Elementi di diritto dell’Unione europea per le biotecnologie”, Facoltà di Scienze biotecnologiche, Università degli Studi di Bari Aldo Moro si ringrazia la dott.ssa Micaela Lastilla per l’aggiornamento di alcune parti della dispensa SOMMARIO: 1. Evoluzione e princìpi del diritto internazionale dell’ambiente. – 2. Evoluzione, obiettivi e princìpi ambientali nell’Unione europea. – 3. Evoluzione storica della disciplina UE sugli OGM. – 4. L’impiego confinato di microrganismi geneticamente modificati (MGM). – 5. L’emissione deliberata nell’ambiente di organismi geneticamente modificati (OGM) e la direttiva 2001/18/CE. – 6. (segue): La particolare procedura per alimenti e mangimi predisposta dal regolamento 1829/2003. – 7. Libera circolazione degli OGM, sistema di salvaguardia e coesistenza tra colture tradizionali e colture OGM. 1. Evoluzione e princìpi del diritto internazionale dell’ambiente. Negli ultimi decenni la protezione dell’ambiente è divenuta un’esigenza sempre più sentita dalla comunità internazionale. Ci si è preoccupati di stabilire linee programmatiche da seguire per garantire la salvaguardia e arginare il deterioramento dell’ambiente. Davanti ai danni causati dall’inquinamento la sola legislazione nazionale si è infatti dimostrata ben presto insufficiente, e per questo motivo l’equilibrio ecologico del pianeta è divenuto oggetto di preoccupazione nei rapporti tra gli Stati. A livello internazionale, l’esigenza di fornire una risposta ai problemi ambientali è emersa soprattutto a partire dalla seconda metà del XX secolo, anche se in precedenza vi sono state convenzioni che disciplinavano specifici aspetti di carattere ambientale. 1 Definizione di diritto internazionale dell’ambiente. Il diritto internazionale dell’ambiente è quel complesso di principi e norme che stabiliscono regole di comportamento per gli Stati al fine di realizzare la tutela dell’ambiente e l’uso equilibrato delle risorse naturali in un contesto di sviluppo economico e sociale. È un diritto che ha ormai assunto una vocazione globale in quanto diretto alla soluzione di problemi che interessano l’intera comunità internazionale. Evoluzione storica. Nella seconda metà del XIX secolo si hanno regolamentazioni internazionali dell’utilizzo delle risorse naturali soprattutto per finalità di navigazione (es. le Commissioni internazionali fluviali per il Reno, il Danubio, l’Oder e l’Elba, create per regolare la navigazione fluviale e ora diventate strumento di tutela ambientale). Agli inizi del XX secolo troviamo i primi trattati bilaterali e multilaterali diretti a proteggere alcune specie faunistiche nonché alcune convenzioni che istituiscono meccanismi di consultazione e facilitano la soluzione delle controversie tra Stati aventi ad oggetto l’uso delle risorse naturali condivise (es. il Trattato tra Stati Uniti e Regno Unito in favore del Canada sulle acque di frontiera del 1909, che intendeva regolare i livelli idrici e la navigabilità dei Grandi laghi e prevedeva anche un obbligo di non inquinare le acque in ciascuno dei due lati di frontiera). Nel periodo tra le due guerre mondiali vengono stipulate alcune convenzioni, quali quella di Londra per la protezione della fauna e della flora naturali in certe parti del mondo considerate a rischio di estinzione (1933) e quella di Washington sulla preservazione della fauna, della flora e delle bellezze panoramiche naturali nei Paesi americani (1940). Viene inoltre a consolidarsi la prassi che mette in luce gli effetti dannosi di un esercizio illimitato della sovranità statale sulle risorse naturali. Si veda ad es. la decisione arbitrale sul caso dei fumi inquinanti della fonderia canadese Smelter (1941) con conseguenze dannose nel territorio degli Stati Uniti: è la prima decisione ad affermare che nessuno Stato ha il diritto di utilizzare il proprio territorio in maniera tale da creare danni al territorio di altri Stati quando vi siano conseguenze serie e il danno sia accertato in modo chiaro e convincente. La Carta delle Nazioni Unite non menziona la tutela dell’ambiente tra gli obiettivi dell’Organizzazione, né viene attribuita una competenza in materia a qualcuno dei suoi Istituti specializzati. Ciò deriva anche dal fatto che, in questa fase, il diritto internazionale era ancora influenzato dal principio di illimitata sovranità territoriale sugli spazi territoriali e marittimi nazionali e dall’indifferenza per la tutela ambientale degli altri spazi (come l’alto mare). 2 Negli anni ‘50 e ‘60 si hanno le prime manifestazioni di una “coscienza ambientale” degli Stati. Tuttavia gli strumenti di questo periodo continuano ad avere un approccio limitato. A titolo esemplificativo, ricordiamo il Trattato di Washington sull’Antartide (1959) e il Trattato sui principi che regolano le attività degli Stati nell’esplorazione e uso dello spazio extra-atmosferico (1967). L’insufficiente attenzione alla tutela ambientale risente peraltro del processo di decolonizzazione, dell’enfasi, posta dai PVS, sul tradizionale principio della piena sovranità territoriale sulle risorse nazionali e della scarsa attenzione a problematiche “collettive” come quelle ecologiche. Dalla Conferenza di Stoccolma (1972) alla Conferenza di Rio (1992). Negli anni ‘70, alcuni fattori conducono a una maggiore attenzione alle problematiche ambientali globali: l’estensione dei fenomeni di inquinamento; la nascita dei movimenti ecologisti; alcuni gravi incidenti ambientali (es. il caso della petroliera Torrey Canyon del 1967 che versa nel Canale della Manica 120.000 tonnellate di petrolio distruggendo gran parte delle risorse biologiche tra Regno Unito e Francia). Viene convocata la Conferenza ONU di Stoccolma sull’ambiente umano (1972), cui prendono parte 113 Stati di cui 108 membri ONU e che inaugura la fase del c.d. funzionalismo ambientale, basato sul principio della prevenzione del danno. Si esplicita il pericolo del degrado ambientale e si evidenzia la necessità di un’azione condivisa a livello internazionale. La Conferenza di Stoccolma adotta una Dichiarazione sull’ambiente umano (che fissa 26 Principi e linee guida politiche cui gli Stati si impegnavano ad attenersi in materia ambientale tanto a livello nazionale quanto internazionale) e un Piano mondiale di azione ambientale (contenente 109 raccomandazioni operative per definire più dettagliatamente gli obiettivi della Dichiarazione). Tra i Principi della Dichiarazione ricordiamo il Principio 1: «L’uomo ha un diritto fondamentale alla libertà, all’eguaglianza e a condizioni di vita soddisfacenti, in un ambiente che gli consenta di vivere nella dignità e nel benessere, ed è altamente responsabile della protezione e del miglioramento dell’ambiente davanti alle generazioni future»; il Principio 2: «Le risorse naturali della Terra, ivi incluse l’aria, l’acqua, la flora, la fauna e particolarmente il sistema ecologico naturale, devono essere salvaguardate a beneficio delle generazioni presenti e future, mediante una programmazione accurata o una appropriata amministrazione»; e l’importante Principio 21 secondo cui «La Carta delle Nazioni Unite e i principi del diritto internazionale riconoscono agli Stati il diritto sovrano di sfruttare le risorse in loro possesso, secondo le loro politiche ambientali, ed il dovere di impedire che le attività svolte entro la propria giurisdizione o sotto il proprio 3 controllo arrechino danni all’ambiente di altri Stati o a zone situate al di fuori dei limiti della loro giurisdizione nazionale». Nel 1972, subito dopo la Conferenza di Stoccolma, l’Assemblea generale ONU crea il Programma delle Nazioni unite per l’ambiente (UNEP). Esso diviene organo sussidiario dell’ONU e ha compiti di studio e operativi, per la fornitura di assistenza tecnica ai Paesi in via di sviluppo (PVS) soprattutto nella legislazione ambientale. In sede UNEP sono state negoziate la Convenzione di Vienna sulla protezione della fascia di ozono (1985) e il relativo Protocollo di Montreal sulle sostanze che impoveriscono l’ozonosfera (1987); è stato predisposto anche il Programma di Montevideo sullo sviluppo del diritto ambientale e il Programma sulla protezione dei mari regionali, che hanno dato origine alla Convenzione di Barcellona sulla tutela del Mar Mediterraneo dall’inquinamento (1976). Le funzioni dell’UNEP sono state ampliate con il c.d. Pacchetto di Cartagena adottato nel 2002. Attualmente, la proposta dell’UE di trasformare l’UNEP in una vera e propria organizzazione internazionale (Organizzazione ONU per l’ambiente) si scontra con l’opposizione di Brasile, India e USA. Nell’arco di un ventennio dopo la Conferenza di Stoccolma, si è avuta una moltiplicazione dei trattati ambientali “settoriali”, tra i quali rileva l’importante Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare (1982) che contiene specifiche norme in materia di protezione dell’ambiente marino e di obblighi di istituire zone di preservazione degli ecosistemi, delle specie faunistiche e floristiche, e della diversità biologica. Questi e altri trattati danno attuazione al principio di cooperazione (inteso come azione di tutti gli Stati nell’esercitare in modo più responsabile la sovranità sulle risorse nazionali nell’interesse delle generazioni future) e pongono obblighi di risultato (norme non direttamente applicabili e che richiedono ulteriore attività normativa statale, non idonee pertanto a garantire uniformità tra le diverse legislazioni nazionali). La Conferenza di Rio (1992) e il principio dello sviluppo sostenibile. La seconda fase del diritto internazionale ambientale, definita del “globalismo ambientale” e caratterizzata dalla conclusione di convenzioni globali fondate sul principio di precauzione, viene anticipata dalla creazione di una commissione di esperti indipendenti, incaricati dalle Nazioni Unite: la c.d. Commissione Brundtland (dal nome del suo presidente) elabora il noto rapporto Our Common Future in cui viene esplicitato il concetto di sviluppo sostenibile. Lo sviluppo sostenibile è un modello di sviluppo che si propone di soddisfare i bisogni della generazione attuale senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare le proprie. 4 La Conferenza ONU di Rio de Janeiro sull’ambiente e lo sviluppo (UNCED), svoltasi dal 3 al 14 giugno 1992, avvia una fase diretta a rendere compatibili le esigenze dello sviluppo economico con quelle di tutela dell’ambiente e a orientare la cooperazione tra Stati alla soluzione dei problemi ambientali di natura globale (cambiamenti climatici, perdita della diversità biologica, deforestazione). La Conferenza di Rio ha adottato tre atti: la Dichiarazione di Rio su ambiente e sviluppo (contenente 27 Principi generali); l’Agenda 21 (documento programmatico non vincolante diretto all’individuazione degli interventi necessari a realizzare il principio dello sviluppo sostenibile e a emanare appropriate raccomandazioni agli Stati); e la c.d. Dichiarazione dei principi per la gestione sostenibile delle foreste (documento anch’esso non vincolante che definisce diverse azioni per la salvaguardia del patrimonio forestale, attraverso uno sfruttamento sostenibile delle risorse forestali). Segue: la Dichiarazione su ambiente e sviluppo e i Principi generali rilevanti. Con la Dichiarazione di Rio su ambiente e sviluppo il diritto ambientale assume una più marcata connotazione per princìpi generali. In particolare, la Dichiarazione ha le caratteristiche di una c.d. lawdeveloping resolution: ha infatti contribuito alla formazione delle norme consuetudinarie in materia ambientale e ha costituito la base per la creazione dei successivi regimi convenzionali. La Dichiarazione non sancisce espressamente un diritto all’ambiente come diritto umano fondamentale, e ciò si pone in discontinuità con le affermazioni (perlomeno di principio) contenute in alcuni trattati internazionali e costituzioni nazionali precedenti. In proposito, il Principio 10 si limita infatti ad affermare un più semplice diritto di accesso dei cittadini alla informazione ambientale. Il contenuto del Principio 10, in linea con alcune indicazioni operative di Agenda 21, è stato sviluppato con la Convenzione sull’accesso alle informazioni, la partecipazione dei cittadini e l’accesso alla giustizia in materia ambientale, comunemente nota come Convenzione di Aarhus, dal nome della città danese in cui è stata aperta alle firme il 25 giugno 1998. Tale trattato rappresenta il primo strumento internazionale dedicato esclusivamente all’informazione del pubblico in materia ambientale, ed è improntato a quanto previsto nella disciplina europea sulla valutazione di impatto ambientale e sulla libertà di accesso alle informazioni ambientali. La Convenzione, di cui è parte anche l’Unione europea, è entrata in vigore il 30 ottobre 2001. L’accordo contempla tre pilastri, relativi all’accesso alle informazioni, alla partecipazione del pubblico ai processi decisionali e all’accesso alla giustizia in materia ambientale. In particolare, prevede per gli Stati aderenti obblighi sia negativi sia positivi in materia di accesso dei cittadini alle informazioni ambientali, e rende inoltre i processi decisionali di governo relativi all’ambiente trasparenti e aperti alla partecipazione del pubblico, realizzando una maggiore “democratizzazione” degli interventi 5 statali in materia ambientale. In base alla Convenzione di Aarhus, gli Stati parti si astengono da comportamenti idonei a impedire il diritto d’accesso alle informazioni ambientali da parte dei cittadini, i quali possono richiedere l’informazione stessa pur in assenza di uno specifico interesse. In base all’art. 4, inoltre, «le informazioni ambientali devono essere rese disponibili al pubblico appena possibile e comunque entro un mese dalla presentazione della richiesta», salvo alcune eccezioni. Tra gli obblighi positivi rilevano, per esempio, la pubblicazione da parte degli Stati, ogni tre o quattro anni, di rapporti nazionali relativi alla qualità dell’ambiente, nonché l’istituzione progressiva di un sistema nazionale coerente di inventari o registri relativi all’inquinamento, basato su una banca dati strutturata, informatizzata e accessibile al pubblico” (art. 5 paragrafi 4 e 9). Inoltre, in caso di minaccia per la salute umana o per l’ambiente, le Parti si impegnano a diffondere tempestivamente «le informazioni in possesso della pubblica autorità, che consentano a chi possa esserne colpito di adottare le misure atte a prevenire o limitare i danni derivanti da tale minaccia» (art. 5). Tornando alla Dichiarazione di Rio, il Principio 2 afferma il diritto di sfruttamento e il dovere di non inquinare altri Stati, che si pone sulla falsariga del Principio 21 di Stoccolma, ma vi aggiunge il diritto degli Stati di sfruttare le proprie risorse anche secondo le loro politiche di sviluppo. Alcuni ritengono che questo diritto-dovere sia ormai una norma di diritto internazionale consuetudinario. Il Principio 2 non impone però un obbligo assoluto di tutela dell’ambiente a prescindere dal divieto di inquinamento transfrontaliero (una proposta in tal senso era stata avanzata in sede di negoziato, ma poi non è stata accolta). Il Principio 4 specifica dal canto suo il concetto di sviluppo sostenibile: «Al fine di pervenire ad uno sviluppo sostenibile, la tutela dell’ambiente costituirà parte integrante del processo di sviluppo e non potrà essere considerata separatamente da questo». Il Principio 3 è invece quello della solidarietà intergenerazionale: «Il diritto allo sviluppo deve essere realizzato in modo da soddisfare equamente le esigenze relative all’ambiente ed allo sviluppo delle generazioni presenti e future». Anche qui si nota però la mancanza di un diritto all’ambiente come diritto umano fondamentale. Due Principi sono dedicati allo sviluppo sostenibile a tutela dei diritti umani. Il Principio 1 afferma che «Gli esseri umani sono al centro delle preoccupazioni relative allo sviluppo sostenibile. Essi hanno diritto ad una vita sana e produttiva in armonia con la natura». Secondo il Principio 5, invece, «Tutti gli Stati e tutti i popoli coopereranno al compito essenziale di 6 eliminare la povertà, come requisito indispensabile per lo sviluppo sostenibile, al fine di ridurre le disparità tra i tenori di vita e soddisfare meglio i bisogni della maggioranza delle popolazioni del mondo». Una serie di Principi affermano poi la progressiva differenziazione tra obblighi ambientali dei Paesi industrializzati e dei PVS. Tra questi si ricorda il principio 7, che ribadisce l’importante criterio della responsabilità comune ma differenziata: «Gli Stati coopereranno in uno spirito di partnership globale per conservare, tutelare e ripristinare la salute e l’integrità dell’ecosistema terrestre. In considerazione del differente contributo al degrado ambientale globale, gli Stati hanno responsabilità comuni ma differenziate. I paesi sviluppati riconoscono la responsabilità che incombe loro nel perseguimento internazionale dello sviluppo sostenibile date le pressioni che le loro società esercitano sull’ambiente globale e le tecnologie e risorse finanziarie di cui dispongono». Molto importante è il Principio 15, che afferma il noto principio di precauzione: «Al fine di proteggere l’ambiente, gli Stati applicheranno largamente, secondo le loro capacità, il principio di precauzione. In caso di rischio di danno grave o irreversibile, l’assenza di certezza scientifica assoluta non deve servire da pretesto per differire l’adozione di misure adeguate ed effettive, anche in rapporto ai costi, dirette a prevenire il degrado ambientale». Esso si affianca al tradizionale principio di prevenzione. Quest’ultimo intende evitare alla fonte un danno ambientale certo (di cui, cioè, si hanno prove scientifiche inoppugnabili) prima che si verifichi. Il principio di precauzione è invece più avanzato e inverte l’ordine della prova: chi lamenta il rischio non deve dimostrare che certe attività danneggiano sicuramente l’ambiente (cioè, mediante prove scientifiche certe), ma al contrario spetta all’autore delle attività rischiose mostrare che esse sicuramente non causano danni irreversibili. Entrambi i principi di precauzione e di prevenzione mirano a evitare gli interventi di correzione successiva del danno. Il principio di precauzione è stato accolto nelle due convenzioni stipulate a Rio nel 1992, la Convenzione sulla diversità biologica e la Convenzione quadro sui cambiamenti climatici (vedi più avanti). Il Principio 16 concerne la c.d. internalizzazione dei costi ambientali: «Le autorità nazionali dovranno adoprarsi a promuovere la “internalizzazione” dei costi per la tutela ambientale e l’uso di strumenti economici, considerando che, in linea di principio, è l’inquinatore a dover sostenere il costo dell’inquinamento, tenendo nel debito conto l’interesse pubblico e senza alterare il commercio e le finanze internazionali». Esso ha l’obiettivo di interrompere la prassi degli Stati di considerare l’ambiente un bene gratuito e di scaricare su altre fasce della società (contribuenti) e sulle 7 generazioni future il costo dell’inquinamento. Rappresenta un’applicazione del generale principio “chi inquina paga”. Il Principio 17 ribadisce invece il concetto della valutazione di impatto ambientale (VIA): «La valutazione d’impatto ambientale, come strumento nazionale, sarà effettuata nel caso di attività proposte che siano suscettibili di avere effetti negativi rilevanti sull’ambiente e dipendano dalla decisione di un’autorità nazionale competente». La VIA era stata già prevista e disciplinata in precedenza (es. Decisione UNEP n. 14/25 del 1987). Non indica una specifica procedura da seguire e quindi lascia ampia discrezionalità agli Stati. Anche la VIA concorre a stabilire se determinate attività comportano la violazione dell’obbligo di non inquinamento di altri Stati. La procedura VIA viene disciplinata nella Convenzione di Espoo sull’impatto ambientale (1991). Altri Principi sottolineano gli obblighi degli Stati in caso di crisi ambientali e inquinamento transfrontaliero, come il Principio 18 secondo cui «Gli Stati notificheranno immediatamente agli altri Stati ogni catastrofe naturale o ogni altra situazione di emergenza che sia suscettibile di produrre effetti nocivi imprevisti sull’ambiente di tali Stati. La comunità internazionale compirà ogni sforzo per aiutare gli Stati così colpiti». Il dovere di notifica tiene in gran conto l’assenza di immediate informazioni durante i primi giorni del disastro nucleare di Chernobyl del 26 aprile 1986, a sèguito del quale era peraltro già stata predisposta una apposita Convenzione di Vienna 1986 sulla notificazione rapida degli incidenti nucleari. Il dovere di assistenza invece è debole in quanto si riferisce genericamente alla comunità internazionale e non ai singoli Stati coinvolti. Segue: le convenzioni ambientali globali di Rio 1992. Durante la Conferenza di Rio sono state aperte alla firma la Convenzione quadro sui cambiamenti climatici e la Convenzione sulla diversità biologica. La Convenzione quadro sui cambiamenti climatici (CQCC) contiene norme-quadro e obblighi di risultato, mentre le forme e i mezzi vengono lasciati agli Stati parte. Essa fissa alcuni impegni generali in materia di limitazione delle emissioni di CO2, principale gas a effetto-serra. La CQCC attua il principio della responsabilità comune ma differenziata creando un doppio regime giuridico. Il primo regime, per i Paesi industrializzati e apparentati, comporta che questi Paesi debbano limitare le emissioni nocive e proteggere le risorse, i processi e le attività che assorbono i gas-serra. Ai PVS invece si applica un secondo regime, più blando, in quanto questi Paesi contribuiscono meno alle emissioni dannose; essi tuttavia devono adottare misure interne per mitigare i cambiamenti climatici. 8 Le misure di attuazione della CQCC sono contenute nel Protocollo di Kyoto del 1997, in cui i Paesi industrializzati si sono impegnati, nel periodo 2008-2012, per una riduzione delle emissioni totali di gas-serra di almeno il 5% rispetto ai livelli del 1990: pur se con una differenziazione tra Paesi UE (8%), Stati Uniti (7%) e Giappone (6%), mentre Russia, Nuova Zelanda e Ucraina hanno solo un obbligo di stabilizzazione e non di riduzione. Questi Paesi devono inoltre predisporre progetti di protezione di boschi, foreste, terreni agricoli che assorbono anidride carbonica. Il sistema prevede anche la possibilità di servirsi di un sistema di meccanismi flessibili per l’acquisizione di crediti di emissioni. Al contrario, i PVS non hanno obblighi di riduzione o stabilizzazione. Il Protocollo di Kyoto è entrato in vigore nel febbraio 2005 a sèguito della ratifica della Russia nel 2004, mentre gli Stati Uniti non hanno ratificato. Il Protocollo è scaduto alla fine del 2012 e, fino alla Conferenza di Durban del 2011, sono fallite tutte le Conferenze convocate per compiere passi avanti. La Convenzione sulla diversità biologica (CDB) si pone come obiettivi la tutela della diversità biologica (o biodiversità), l’utilizzazione durevole dei suoi elementi e l’equa ripartizione dei vantaggi derivanti dallo sfruttamento delle risorse genetiche. Ogni Parte contraente si impegna a cooperare con altre Parti contraenti per la conservazione e l’utilizzazione durevole della diversità biologica. La CDB contempla anche la preparazione e lo svolgimento di programmi di istruzione scientifica e tecnica e di formazione soprattutto nei PVS; la promozione della ricerca che contribuisce alla conservazione e all’utilizzazione durevole della diversità biologica, in particolare nei PVS; lo scambio di informazioni concernenti la conservazione e l’utilizzazione durevole della diversità biologica; il ruolo delle comunità locali e delle popolazioni autoctone in materia di conservazione della biodiversità (queste popolazioni vivono infatti in stretta dipendenza e sulle loro risorse biologiche sono fondate le loro tradizioni). La Conferenza di Johannesburg del 2003. Nel XXI secolo, la questione ambientale è divenuta sempre meno prioritaria per gli Stati. Tra le motivazioni di ciò si ricordano il peggioramento della situazione economica internazionale (i Paesi industrializzati temono che obblighi ambientali più stringenti comportino un costo aggiuntivo per le loro imprese, mentre i PVS guardano con diffidenza a impegni giuridici ambientali idonei a limitare il loro sviluppo economico) e la difficoltà a fornire risposte adeguate alle esigenze ambientali in chiave di sviluppo sostenibile. La Conferenza di Johannesburg (26 agosto – 4 settembre 2003) ha costituito l’occasione per fare una verifica a dieci anni di distanza da Rio. La Conferenza ha adottato una Dichiarazione sullo sviluppo sostenibile, più generica di quella adottata a Rio e non idonea a sviluppare ulteriormente i Principi in materia ambientale. In essa vengono riaffermati i pilastri interdipendenti dello sviluppo sostenibile (sviluppo economico, sviluppo sociale e protezione 9 ambientale) e si esprime la volontà di raggiungere gli obiettivi fondamentali dello sradicamento della povertà, del cambiamento dei modelli di consumo e produzione insostenibili e della protezione e gestione delle risorse naturali. Vi è poi un Piano d’azione sullo sviluppo sostenibile articolato in 10 capitoli che si occupano di riproporre e attualizzare i programmi di Agenda 21. Nonostante ciò, la Conferenza di Johannesburg rappresenta un mancato passo in avanti, se non proprio un passo indietro. Essa infatti prende atto del profondo disaccordo tra Stati sulle principali tematiche ambientali: ad es. non raggiunge un accordo vincolante sull’incremento delle fonti di energia rinnovabili, mentre gli impegni sull’acqua potabile sono minimi e rinviati nel tempo. La Conferenza di Durban del 2011. La Conferenza di Durban sui cambiamenti climatici si è svolta in Sudafrica dal 27 novembre all’11 dicembre 2011. La situazione all’apertura della Conferenza vedeva il Protocollo di Kyoto del 1997 in scadenza alla fine del 2012 senza che nelle due precedenti Conferenze di Copenaghen del 2009 e Cancùn del 2010 fosse stata raggiunta una qualche intesa. Le opzioni sul tavolo a Durban erano prorogare il Protocollo, predisporre un nuovo strumento con obblighi più stringenti oppure lasciar perdere tutto. Il Canada (per via del petrolio da estrarre dalla sabbia bituminosa), il Giappone (per via della tragedia di Fukushima, che ha imposto il ritorno ai combustibili fossili) e la Russia non intendevano firmare un impegno per il periodo a partire dal 2013; gli Stati Uniti non avevano mai sottoscritto Kyoto; i Paesi di nuova industrializzazione (dal 2008 responsabili della maggior parte delle emissioni-serra) continuavano a ribadire il principio delle “responsabilità comuni ma differenziate” per sottrarsi a impegni vincolanti; la Cina invece, per via del forte inquinamento, stava assumendo una posizione sempre più orientata alle tecnologie verdi. A causa dei veti incrociati, ci si aspettava un fallimento. Alla fine è stata invece raggiunta un’intesa, seppur scadenzata per tappe. Segue: contenuto dell’intesa di Durban. In virtù dell’intesa di Durban, dal 2013 è partita una seconda fase degli impegni di Kyoto, aventi lo scopo di prorogare il Protocollo dal 2013 al 2020. A questa seconda fase però aderiscono solo l’Europa e una parte dei Paesi industrializzati, mentre Canada, Russia e Giappone hanno rifiutato e gli Stati Uniti continuano a rimanere fuori; si segnala invece la partecipazione delle nuove economie come Cina, Brasile e India. Entro il 2015, si giungerà a definire uno strumento giuridico (“un protocollo, uno strumento legale o una soluzione concertata avente forza di legge”) applicabile a tutte le Parti della CQCC: quindi, non solo agli Stati ratificanti il Protocollo di Kyoto. Il processo è stato definito Piattaforma d’azione di Durban e i lavori sono condotti da un gruppo di lavoro che ha iniziato a operare dal 2012. Il nuovo strumento giuridico avrà il compito di aumentare i livelli di riduzione delle emissioni 10 di gas serra. Su richiesta dell’Unione europea e dell’Alleanza dei piccoli Stati insulari (AOSIS), i delegati di Durban hanno concordato di avviare un piano di lavoro per identificare le opzioni per colmare il divario tra l’impegno di riduzione delle emissioni per il 2020 e l’obiettivo di mantenere il riscaldamento globale sotto i 2 gradi. Tuttavia, non si è riusciti a estendere gli impegni di riduzione delle emissioni contenuti nei precedenti documenti di Copenaghen nel 2009 e di Cancun nel 2010. Il nuovo strumento dovrebbe essere adottato nell’ambito della Conferenza di Parigi, convocata per dicembre 2015, e poi diventare esecutivo dal 2020. Si è deciso inoltre di rendere operativo un Fondo verde da 100 miliardi di dollari l’anno per aiutare i Paesi più poveri a sostenere il salto tecnologico necessario ad abbattere le emissioni-serra. Verso il vertice di Parigi 2015. A vent’anni dalla Conferenza di Rio del 1992, l’Assemblea generale dell’ONU ha convocato la Conferenza sullo sviluppo sostenibile, nota come Rio+20, con l’obiettivo di rinnovare l’impegno politico per lo sviluppo sostenibile verificando lo stato di attuazione degli impegni internazionali assunti negli ultimi due decenni. La conferenza, tenutasi dal 20 al 22 giugno 2012, si è concentrata soprattutto sui temi della c.d. green economy, intesa come strumento atto a scongiurare le minacce globali connesse all’inquinamento ambientale e a promuovere un benessere sociale ed economico, nonché sul sistema di governance globale per lo sviluppo sostenibile. Il vertice si è concluso con l’approvazione di un documento di 53 pagine intitolato Il futuro che vogliamo, che contiene un piano per aiutare un miliardo di persone a uscire dalla povertà e per curare la biosfera. Nonostante ciò, gli impegni assunti sono stati ritenuti troppo vaghi e fragili da molti governi e organizzazioni non governative. Dal 26 novembre all’8 dicembre dello stesso anno si è tenuta a Doha la Conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico. Durante il vertice è stato stabilito un piano di lavoro nel quadro delle decisioni prese a Durban al fine di elaborare, per tappe, il nuovo accordo globale vincolante sul clima da adottare nel 2015 in occasione della Conferenza di Parigi. La Conferenza di Doha è stata essenziale per le sorti del Protocollo di Kyoto, i cui impegni, ratificati sinora da 193 Stati, sono stati infatti prorogati fino al 2020. Ulteriore tappa verso il vertice di Parigi 2015 è stata la Conferenza di Varsavia sui cambiamenti climatici, svoltasi dall’11 al 26 novembre 2013 e i cui esiti sono tuttavia poco rilevanti a causa dello scontro sulle scadenze entro cui Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo dovrebbero ridurre i gas a effetto serra. Gli unici negoziati climatici che in tale sede si sono conclusi con successo sono stati quelli relativi alla riduzione delle emissioni da deforestazione (Warsaw Redd+Framework for Action). 11 Infine, il 23 settembre 2014 ha avuto luogo a New York il Vertice straordinario sul clima, promosso dal Segretario generale dell’ONU Ban Ki Moon per dare nuovo impulso ai negoziati sul clima in vista di Parigi 2015. 2. Evoluzione, obiettivi e princìpi ambientali nell’Unione europea Il diritto dell’ambiente negli Stati membri dell’Unione europea presenta ormai, nel complesso, una sostanziale uniformità derivante dalla normativa UE. Da questo punto di vista, mentre il diritto internazionale ambientale è formato per la sua gran parte da principi e norme programmatiche, non vincolanti, e che quindi non impongono obblighi diretti per gli Stati, il diritto UE dell’ambiente invece recepisce le norme internazionali rilevanti e le rende vincolanti per i suoi Stati membri. Il diritto ambientale UE può essere definito come l’insieme delle norme sia primarie (Trattati) sia secondarie (atti) che disciplinano l’azione dell’Unione europea in materia ambientale. Giova sottolineare che tale diritto, pur dotato di una certa specificità in ragione della materia trattata, non rappresenta un ordinamento a sé stante rispetto al più generale diritto UE, ma si colloca nel più ampio spettro di obiettivi cui tende l’Unione europea. Evoluzione storica. Nella fase precedente l’Atto Unico Europeo (AUE), le questioni ambientali nell’allora Comunità europea avevano un ruolo piuttosto limitato. La Politica comunitaria di carattere generale, inaugurata col Vertice di Parigi del 1972, aveva prodotto il Primo Programma di Azione per l’ambiente (1973), che aveva il “limitato” obiettivo di evitare che i diversi sistemi nazionali in materia di protezione dell’ambiente fossero idonei a falsare la concorrenza nel mercato comune. Il Programma non era vincolante, ma la sua importanza consisteva nella aderenza ai Principi della Dichiarazione di Stoccolma del 1972. La politica ambientale viene per la prima volta disciplinata a livello di diritto primario nell’AUE del 1986. L’ambiente viene espressamente menzionato nell’art. 100A TCE (ora art. 114 TFUE sul mercato interno) e viene introdotto un nuovo Titolo VII dedicato all’ambiente (artt. 130R, 130 S e 130T, ora artt. 191-193 TFUE). Tuttavia la protezione dell’ambiente non è ancora inclusa formalmente tra gli obiettivi della Comunità. Con il Trattato di Maastricht del 1992 veniva introdotto all’art. 2 TCE l’obiettivo di assicurare una crescita sostenibile che rispettasse l’ambiente; 12 veniva previsto il principio di precauzione accanto a quello di prevenzione; e si riconosceva la necessità di coordinare l’azione comunitaria a tutela dell’ambiente con quella a livello globale. Con il Trattato di Amsterdam del 1997 veniva inserito tra gli obiettivi dell’art. 2 TCE un vero e proprio riferimento alla tutela dell’ambiente: «La Comunità ha il compito di promuovere […] un elevato livello di protezione dell’ambiente ed il miglioramento della qualità di quest’ultimo». A sua volta, l’art. 6 TCE affermava che «Le esigenze connesse con la tutela dell’ambiente devono essere integrate nella definizione e nell’attuazione delle politiche e azioni comunitarie di cui all’articolo 3, in particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile». Il Trattato di Nizza del 2001 non contiene invece modifiche di rilievo. Nel c.d. Trattato costituzionale del 2004, mai entrato in vigore, si hanno alcune innovazioni. Lo sviluppo sostenibile, basato tra l’altro sul miglioramento della qualità dell’ambiente, è compreso tra gli obiettivi dell’Unione (art. I-3, par. 3), come anche la sua promozione a livello globale (art. I-3, par. 4): esso diventa peraltro una materia di competenza concorrente (art. I-13). Inoltre, nel Preambolo della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione, l’UE dichiara di promuovere uno sviluppo equilibrato e sostenibile; viene inoltre espressa la necessità di integrare la protezione dell’ambiente nelle politiche dell’Unione (art. II-37). Infine, nella Parte III, dedicata alle politiche ed al funzionamento dell’Unione, gli artt. III-129, III-130 e III-131 sono in linea di principio identici ai precedenti artt. 174-176 TCE. Il principio-obiettivo dello sviluppo sostenibile nella riforma di Lisbona. Quello dello sviluppo sostenibile è considerato ormai, a sèguito di tutte le modifiche introdotte nei Trattati, un principio-obiettivo dell’Unione europea. Secondo l’art. 3, par. 3 TUE (obiettivi intra-UE), «L’Unione […] si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato […] su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente». Nello stesso senso l’art. 3, par. 5 TUE (obiettivi extra-UE) secondo cui «Nelle relazioni con il resto del mondo l’Unione […] contribuisce […] allo sviluppo sostenibile della Terra». Lo sviluppo sostenibile deve essere tenuto presente nella generale azione esterna dell’Unione: l’art. 21, par. 2, lett. f) TUE ribadisce infatti che «L’Unione definisce e attua politiche comuni e azioni e opera per assicurare un elevato livello di cooperazione in tutti i settori delle relazioni internazionali al fine di […] contribuire all’elaborazione di misure internazionali volte a preservare e migliorare la qualità dell’ambiente e la gestione sostenibile delle risorse naturali mondiali, al fine di assicurare lo sviluppo sostenibile». Ciò posto, bisogna comunque sottolineare che il principio-obiettivo dello sviluppo sostenibile nella politica ambientale UE tiene conto principalmente dell’equilibrio 13 attuale tra sviluppo economico e protezione dell’ambiente, mentre sembra meno pressante sembra l’esigenza di salvaguardare gli interessi delle generazioni future. Gli altri obiettivi della politica ambientale UE. Secondo l’art. 191, par. 1 TFUE, «La politica dell’Unione in materia ambientale contribuisce a perseguire i seguenti obiettivi: salvaguardia, tutela e miglioramento della qualità dell’ambiente; protezione della salute umana; utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali; promozione sul piano internazionale di misure destinate a risolvere i problemi dell’ambiente a livello regionale o mondiale e, in particolare, a combattere i cambiamenti climatici. Segue: salvaguardia, tutela e miglioramento della qualità dell’ambiente. La nozione di ambiente non viene definita nei Trattati. Il termine va inteso pertanto nel senso più ampio possibile, secondo quanto evidenziato in una Dichiarazione del Consiglio europeo del giugno 1990: l’ambiente comprende in particolare la qualità dell’aria, dei fiumi, dei laghi, delle acque costiere e marine, la qualità del cibo e dell’acqua potabile, la lotta all’erosione del suolo, la conservazione degli habitat, della flora, della fauna e del paesaggio. Da notare che il perseguimento di questo obiettivo ha condotto l’UE a adottare atti con efficacia anche al di fuori del territorio UE. Si pensi ad es. all’importazione ed esportazione di determinati prodotti nocivi; alla sorveglianza dei rifiuti provenienti dall’esterno o diretti verso l’esterno; alla protezione di fauna e flora selvatiche mediante il controllo del loro commercio. Segue: protezione della salute umana. Qui basta sottolineare che le misure ambientali a tutela della salute devono essere coordinate con le altre misure a tutela della salute basate sul principio dell’azione preventiva (prevenzione delle malattie ed eliminazione delle fonti di pericolo). Segue: utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali. Attraverso questo terzo obiettivo, il diritto ambientale dell’Unione europea condivide i medesimi obiettivi della Dichiarazione di Stoccolma del 1972 e della Carta mondiale della natura del 1982. In particolare, utilizzazione accorta e razionale significa uso sostenibile delle risorse, che l’UE ha concretizzato soprattutto con la politica a favore delle aree protette. Segue: lotta globale ai problemi dell’ambiente, soprattutto ai cambiamenti climatici. L’Unione europea è l’unica “potenza” ad aver cercato di ridurre con un certo successo le emissioni di gas-serra in base al Protocollo di Kyoto. Questo quarto obiettivo ha una chiara valenza sul piano esterno: implica infatti un impegno delle istituzioni UE e degli Stati membri ad agire sullo scenario internazionale dando priorità e importanza soprattutto al tema dei cambiamenti climatici. Ma riveste anche una qualche 14 valenza interna, espressa in alcuni atti quali il VI Programma d’Azione in materia ambientale (2001), modificato dal VII Programma d’Azione in materia ambientale (2013); i due Programmi europei per il cambiamento climatico (2000 e 2005); due Comunicazioni della Commissione del 2007; una serie di direttive finalizzate all’istituzione di sistemi di scambio di quote di emissioni di gas-serra all’interno dell’UE (direttive 2003/87/CE, 2003/101/CE e 2009/29/CE); la decisione 406/2009/CE concernente gli sforzi degli Stati membri per ridurre le emissioni dei gas a effetto serra al fine di adempiere agli impegni UE in materia di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra entro il 2020; il regolamento UE 911/2010 relativo al programma europeo di monitoraggio della terra (GMES) e alla sua fase iniziale di operatività (2011-2013). Segue: il sistema di scambio delle quote di emissione. La principale misura adottata dall’UE in attuazione del Protocollo di Kyoto è rappresentata dal Sistema di scambio di quote di emissione (European Union Emissions Trading Scheme EU ETS). In base a tale sistema, introdotto dalla direttiva 2003/87/CE, dal 1° gennaio 2005 gli impianti termoelettrici ed industriali grandi emissori dell’UE possono funzionare esclusivamente previa autorizzazione alle emissioni di gas serra. Gli impianti autorizzati devono compensare ogni anno le proprie emissioni con quote che possono essere acquistate (nell’àmbito di aste pubbliche europee o sul mercato) e vendute. L’obiettivo perseguito dal sistema è quello di ridurre del 20% le emissioni rispetto ai livelli del 1990 entro il 2020. A tal fine l’UE stabilisce il quantitativo totale delle quote in circolazione nel sistema. Peraltro, durante la Conferenza di Doha del 2012, l’Unione ha confermato il proprio impegno a partecipare alla seconda fase del Protocollo di Kyoto, contemplando in tale sede la possibilità di elevare la percentuale di riduzione delle emissioni di gas serra dal 20% al 30%. Gli altri princìpi della politica ambientale UE. Ai sensi dell’art. 191, par. 2 TFUE, «La politica dell’Unione in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni dell’Unione. Essa è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio «chi inquina paga». La norma si limita a una semplice enunciazione dei principi senza definirli né riempirli di contenuto. Di ciò se ne sono occupate invece, seppur parzialmente, la dottrina e soprattutto la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea. Da notare che l’ordine dei principi non è cronologico (da quello introdotto per primo fino ad arrivare al più recente) bensì gerarchico (dal più “forte” al più “debole”). I due principi di prevenzione e precauzione sono infatti regole di natura preventiva, in grado di essere più efficaci rispetto agli altri due, di natura al contrario successiva e risarcitoria: viene quindi anche simbolicamente data preferenza alla tutela 15 di carattere preventivo. Questi quattro principi riflettono tre diversi modelli di tutela dell’ambiente: 1) il curative model è basato sull’intervento successivo al verificarsi del danno ambientale e ha carattere meramente risarcitorio (ne fanno parte il principio di correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente e quello “chi inquina paga”); 2) il preventive model è invece basato sull’intervento preventivo, che si verifica solo in presenza di dati scientifici certi sul nesso causale tra rischio e danno previsto (ne è espressione il principio dell’azione preventiva); 3) l’anticipatory model, infine, è il più moderno e avanzato, ed è basato sull’intervento preventivo in presenza di rischi solo potenziali benché plausibili (principio di precauzione). Segue: il principio di precauzione. È stato introdotto nel sistema UE con il Trattato di Maastricht del 1992, anche in ragione del suo contemporaneo inserimento nella Dichiarazione di Rio del 1992 (Principio 15). Esso viene meglio definito nella Comunicazione della Commissione del 2000 sul principio di precauzione. Secondo questa Comunicazione, il ricorso al principio di precauzione dovrebbe avvenire unicamente in un’ipotesi di rischio potenziale anche se questo rischio non può essere interamente dimostrato, o la sua portata quantificata o i suoi effetti determinati per l’insufficienza o il carattere non concludente dei dati scientifici. Però il rischio pur incerto deve essere sufficientemente documentato sulla base di dati scientifici noti, esaustivi ed affidabili: difatti, il principio di precauzione si propone di evitare i rischi potenziali (sulla base di dati scientifici noti, esaustivi ed affidabili, benché non assolutamente certi) ma non quelli meramente eventuali (fondati su ipotesi scientifiche neanche sufficientemente provate oppure, addirittura, solo su vaghi timori). Dal punto di vista operativo, sono gli Stati membri a decidere quando utilizzare misure basate sul principio di precauzione, ma questa discrezionalità non è assoluta. Le misure devono infatti essere proporzionate rispetto al livello prescelto di protezione (non devono cioè andare oltre quanto strettamente necessario per evitare il rischio ambientale); non discriminatorie nella loro applicazione; coerenti con eventuali misure analoghe già adottate; basate su un esame dei potenziali vantaggi e oneri dell’azione o dell’inazione (compresa, ove ciò sia possibile e adeguato, un’analisi economica costi/benefici); soggette a revisione alla luce dei nuovi dati scientifici; in grado di attribuire la responsabilità per la produzione delle prove scientifiche necessarie per una più completa valutazione del rischio (ad es. i Paesi UE che impongono il requisito della previa approvazione dei prodotti considerati a priori pericolosi devono prevedere l’inversione dell’onere della prova: tali prodotti verranno cioè considerati pericolosi almeno sino a quando gli operatori economici non abbiano compiuto le ricerche necessarie per dimostrare che sono sicuri). 16 La Corte di giustizia ha spesso esaminato le misure nazionali di precauzione soprattutto alla luce del criterio di proporzionalità, fermo restando che il controllo del giudice sovranazionale si limita a un controllo sulla mancanza di errori manifesti, sull’assenza di sviamento di potere e sul rispetto dei limiti del potere discrezionale da parte delle autorità. Ad esempio, nel caso Mucca pazza (1997) il divieto precauzionale disposto dalla Commissione di esportazione dal Regno Unito le carni bovine sospettate di aver contratto il morbo della BSE (encefalopatia spongiforme) è stato ritenuto proporzionato alla necessità di tutelare la salute pubblica. In altri casi, invece, la Corte ha sanzionato misure nazionali solo apparentemente motivate da ragioni di precauzione e che invece perseguivano interessi protezionistici. Come si vede, oggi come oggi il principio di precauzione nell’Unione europea investe settori non solamente ambientali (soprattutto quello alimentare anche alla luce della disciplina del commercio degli OGM). Segue: il principio dell’azione preventiva. Le misure adottate in base al principio di prevenzione sono di natura anticipatoria come quelle basate sulla precauzione. Tuttavia, nel caso che ci interessa il rischio che presuppone la misura deve essere sufficientemente provato e, pertanto, la misura preventiva si deve basare sulla certezza scientifica del verificarsi di un evento dannoso. Qui il danno è certo e imminente, mentre nella precauzione il danno è solo incerto e potenziale, ancorché probabile. Il principio di prevenzione ha ricevuto applicazione soprattutto nell’accertamento preventivo connesso con la disciplina di valutazione di impatto ambientale (VIA). Segue: il principio di correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente. È stato introdotto con l’Atto Unico Europeo del 1986. Questo principio è diretto a evitare che un danno ambientale, già prodottosi, possa amplificarsi. È espressione di una tutela successiva al verificarsi del danno, e impone che quest’ultimo sia arginato il più possibile vicino alla sua fonte di produzione. Per la sua applicazione rilevano i principi di sussidiarietà e di prossimità: ad es. nel settore dei rifiuti la Corte di giustizia ha detto che spetta a ciascuna regione, comune o altra entità locale adottare le misure adeguate al fine di garantire l’accoglimento, il trattamento e lo smaltimento dei propri rifiuti, in quanto devono essere smaltiti quanto più possibile nel luogo di produzione. Segue: il principio “chi inquina paga”. Era previsto già nel Primo Programma d’Azione del 1973. È un principio di natura economica che ha l’obiettivo di addebitare ai responsabili i costi delle misure dirette a evitare (se imminenti) o a riparare (se successive) il danno ambientale. Ha una chiara funzione dissuasiva delle violazioni delle norme ambientali. Da questo punto di vista, il principio “chi inquina paga” ha una duplice 17 declinazione quale criterio di efficienza economica (il costo sociale del danno ambientale, per la parte monetizzabile, grava direttamente sui suoi responsabili) e criterio di responsabilità civile (riconosce il diritto al risarcimento del danno derivante dall’attività inquinante). C’è da dire tuttavia che il criterio di efficienza economica è quello prevalente nell’ambito della legislazione dell’Unione, mentre quello di responsabilità civile riceve meno attenzione. Il principio è stato attuato con la direttiva 2004/35/CE sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale. I danni ambientali sono definiti come danni, diretti o indiretti, arrecati all’ambiente acquatico; danni, diretti o indiretti, arrecati alle specie e agli habitat naturali; contaminazione, diretta o indiretta, dei terreni che crea un rischio significativo per la salute umana. Sono sottoposte obbligatoriamente al regime di responsabilità le attività definite nell’Allegato III della direttiva (e cioè le attività agricole; industriali sottoposte ad autorizzazione ambientale; che comportano il rilascio di sostanze nocive nell’aria e nelle acque; relative alla gestione dei rifiuti, alla produzione di sostanze chimiche pericolose o OGM). 3. Evoluzione storica della disciplina UE sugli OGM. La regolamentazione giuridica del rilascio di OGM nell’ambiente deriva dalla ormai diffusa opinione per cui essi non sono intrinsecamente pericolosi ma che, prima di commercializzarli, se ne deve valutare caso per caso la sicurezza per l’ambiente, la salute umana e la salute animale. Simile necessità è storicamente derivata dalle prime sperimentazioni dell’ingegneria genetica nel settore farmaceutico e agricolo. L’applicazione delle tecniche di modificazione biotecnologica, infatti, portava con sé considerazioni meta-scientifiche (economiche, politiche, etiche e giuridiche). Nel 1986 l’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) pubblicava un rapporto sulla sicurezza dell’impiego del DNA ricombinante. Vi si evidenziava che la valutazione dei rischi derivanti dall’impiego degli OGM si era sviluppata soprattutto negli impieghi industriali (e meno in quelli ambientali o agricoli). Questo rapporto ha rappresentato il punto di partenza per le regolamentazioni in materia di rilascio di OGM. Nella prima metà degli anni ‘80 vengono alla luce una serie di normative nazionali che regolavano il fenomeno con soluzioni differenti tra di loro. Per questo motivo, nel novembre 1986 la Commissione europea predispone una Comunicazione al Consiglio dal titolo Un quadro comunitario per la regolamentazione della biotecnologia. Vi si adottava un approccio più restrittivo di quello richiesto dalle industrie del settore biotecnologico e dagli Stati membri più interessati. La Comunicazione del 18 1986 ha rappresentato la base per una disciplina comunitaria sull’impiego dell’ingegneria genetica a fini scientifici e commerciali che riguardava sia l’impiego confinato dei microrganismi geneticamente modificati (MGM) sia l’emissione nell’ambiente e l’immissione in commercio degli OGM. Nel 1990 vengono quindi adottate due direttive: la direttiva 90/219/CEE sull’impiego confinato di microrganismi geneticamente modificati (che è stata sostituita dalla direttiva 2009/41/CE sull’impiego confinato di microrganismi geneticamente modificati); e la direttiva 90/220/CEE sull’emissione deliberata nell’ambiente di organismi geneticamente modificati (successivamente sostituita dalla direttiva 2001/18/CE sull’emissione deliberata nell’ambiente di organismi geneticamente modificati). La direttiva 2001/18 è stata poi parzialmente modificata per venire incontro agli specifici problemi dell’alimentazione umana e animale dal regolamento 1829/2003 relativo agli alimenti e ai mangimi geneticamente modificati e dal regolamento 1830/2003 concernente la tracciabilità e l’etichettatura di organismi geneticamente modificati e la tracciabilità di alimenti e mangimi ottenuti da organismi geneticamente modificati. Segue: vantaggi e svantaggi dell’utilizzo degli OGM. Attualmente il dibattito scientifico e politico relativo agli impieghi di OGM, soprattutto in campo agroalimentare, è quanto mai vivace. Gli aspetti ritenuti positivi dell’uso degli OGM nel settore agroalimentare possono essere sintetizzati come segue. In primo luogo si rileva che tali prodotti sarebbero sottoposti a controlli più rigorosi degli alimenti convenzionali, dalla fase di produzione a quella dell’immissione in commercio, risultando più sicuri di questi ultimi. Inoltre, utilizzando gli OGM si ridurrebbe l’uso di pesticidi chimici dannosi per l’organismo umano, e dunque il loro uso potrebbe rivelarsi funzionale alla tutela dei prodotti tipici da parassiti e malattie virali e così alla salvaguardia del made in Italy. Ulteriore aspetto positivo consisterebbe nel contributo dato dall’uso degli OGM in agricoltura alla conservazione della biodiversità: emblematico è il caso della Papaya Rainbow, modificata geneticamente per resistere a un virus che, alla fine degli anni ’90, ne comprometteva la sopravvivenza commerciale nello Stato delle Hawaii. Infine, gli OGM potrebbero contribuire a risolvere problemi di malnutrizione di intere popolazioni: si pensi, ad es., alla qualità di riso golden rice, progettato al fine di sopperire alla carenza di vitamina A, causa di morte per 2,5 milioni di bambini all’anno. D’altro canto, in campo agroalimentare vengono evidenzianti anche taluni rischi per la salute umana e animale. Il timore principale riguarda l’insorgere di allergie e patologie tumorali, sebbene attualmente non vi 19 siano univoci studi scientifici in materia. Un altro rischio sarebbe quello di creare popolazioni di agenti patogeni resistenti ai pesticidi a causa di un eccessivo uso di antiparassitari, cosa che porterebbe a un impoverimento della biodiversità per via di fenomeni di trasferimento genico orizzantale. Tali preoccupazioni non riguardano solo i consumatori (a tal proposito, si noti che il 66% dei cittadini europei è scettico sull’uso di OGM nel settore agroalimentare) ma anche gli agricoltori e i singoli Stati. I primi sarebbero preoccupati dalla possibile diminuizione dei consumi dei loro prodotti per effetto di previsioni allarmistiche su eventuali contaminazioni genetiche; i secondi sarebbero invece interessati a preservare un’economia agricola basata sul consumo e l’esportazione dei prodotti tipici. 4. L’impiego confinato di microrganismi geneticamente modificati (MGM). La direttiva 2009/41 ha l’obiettivo di far sì che gli Stati UE adottino tutte le misure necessarie per impedire che l’impiego confinato di MGM determini conseguenze negative sulla salute umana e sull’ambiente. Ciò perché gli sviluppi in campo biomedico (genomica, neuroscienze, oncologia molecolare, ecc.) e l’innovazione tecnologica (diagnostica medica, biotecnologie, informatica sanitaria, ecc.) indirizzano sempre più la sperimentazione e le sue applicazioni terapeutiche verso l’utilizzo dei MGM. Definizioni. Per microorganismo geneticamente modificato si intende un microrganismo il cui materiale genetico è stato modificato in un modo non naturale mediante moltiplicazione e/o ricombinazione naturale. Per impiego confinato ci si riferisce invece a ogni attività nella quale i microrganismi sono modificati geneticamente o nella quale tali MGM sono messi in coltura, conservati, trasportati, distrutti, smaltiti o altrimenti utilizzati, e per la quale vengono usate misure specifiche di contenimento al fine di limitare il contatto degli stessi con la popolazione e con l’ambiente e per garantire a questi ultimi un livello elevato di sicurezza. Valutazione degli impieghi, classificazione del rischio e misure di contenimento. Ogni utilizzatore di MGM deve procedere a una valutazione degli impieghi confinati di MGM. Questa valutazione si ottiene dalla classificazione del rischio in quattro classi e le relative misure di contenimento da applicare sono pertanto classificate in quattro livelli: la classe 1 presuppone un rischio nullo o trascurabile; la classe 2 implica un basso rischio; la classe 3 indica invece un rischio moderato; e infine la classe 4 prevede un alto rischio. Qualora sussista un dubbio su quale classe sia appropriata per l’impiego confinato proposto, devono applicarsi le 20 misure di protezione più rigorose (cioè della classe immediatamente superiore), a meno che vi sia prova sufficiente che giustifichi l’applicazione di misure meno rigorose. L’impiego confinato di MGM richiede una verifica delle misure di contenimento e di protezione adottate per prevenire la diffusione. Gli Stati membri devono designare l’autorità o le autorità competenti che hanno il compito di esaminare la conformità delle notifiche; l’accuratezza e la completezza delle informazioni fornite; la correttezza della valutazione dei rischi e dell’attribuzione della classe di impiego confinato; l’adeguatezza delle misure di contenimento e delle altre misure di protezione, della gestione dei rifiuti e delle misure relative alle situazioni di emergenza. Procedura. Quanto alla procedura applicabile, esiste anzitutto una regola di sicurezza per tutti i tipi di impiego. Quando si procede per la prima volta in un determinato impianto a un impiego confinato, l’utilizzatore è tenuto a sottoporre alle autorità competenti, prima di iniziare tale impiego, una notifica contenente almeno una serie di informazioni relative all’impianto (elencate nell’Allegato V della direttiva). Dopo la notifica appena ricordata, gli impieghi di classe 1 (rischio nullo o trascurabile) possono avere luogo senza ulteriori notifiche; tuttavia gli utilizzatori devono redigere un verbale relativo a ciascuna valutazione e presentare tale verbale alle competenti autorità a loro richiesta. Quanto alla classe 2 (rischio basso), se si tratta di primo impiego in quell’impianto appena notificato, l’impiego confinato può avere luogo, in assenza di indicazioni contrarie da parte dell’autorità competente, 45 giorni dopo la presentazione della notifica; il richiedente può comunque chiedere all’autorità competente una decisione sulla concessione di un’autorizzazione formale, che deve essere presa entro e non oltre 45 giorni dalla notifica. Se invece si tratta di successivi impieghi di classe 2 in quell’impianto già notificato, e sono stati rispettati eventuali obblighi previsti dall’autorizzazione formale, l’impiego confinato può aver luogo subito dopo la notifica relativa a ogni successivo impiego. Per quanto riguarda infine le classi 3 e 4, qualunque impiego confinato che comporta un rischio moderato o alto non può aver luogo senza l’approvazione dell’autorità competente, che essa ha l’obbligo di comunicare per iscritto. Ciò posto, se si tratta di primo impiego di classe 3 o 4 in quell’impianto appena notificato, la decisione scritta deve essere comunicata entro e non oltre 90 giorni dalla presentazione della notifica; se invece si tratta di successivi impieghi di classe 3 o 4 in quell’impianto già notificato e sono stati rispettati eventuali obblighi previsti dall’autorizzazione formale, la comunicazione deve avvenire entro e non oltre 45 giorni dalla presentazione di ogni nuova notifica. Piano di emergenza e procedura in caso di incidenti. Prima che un impiego confinato abbia inizio, gli Stati membri devono assicurare che sia elaborato un piano di emergenza per rispondere in modo efficace in caso di 21 incidente. Si intende per incidente ogni evento imprevisto che comporti una diffusione significativa e non intenzionale di MGM nel corso del loro impiego confinato e che possa presentare un pericolo, immediato o differito, per la salute dell’uomo o per l’ambiente. Inoltre, le persone che potrebbero essere coinvolte in un incidente devono essere informate su tutti gli aspetti relativi alla loro sicurezza. In caso di incidente, l’utilizzatore deve informare immediatamente l’autorità competente e fornire tutte le informazioni necessarie a valutare le conseguenze e ad adottare le misure appropriate; dal canto suo, lo Stato membro interessato deve informare la Commissione e qualsiasi altro Stato membro che possa essere coinvolto nell’incidente. La Commissione europea mantiene un registro degli incidenti, che contiene un’analisi delle cause di tali incidenti, informazioni circa l’esperienza acquisita nonché le misure adottate per evitare simili incidenti in futuro. 5. L’emissione deliberata nell’ambiente di organismi geneticamente modificati (OGM) e la direttiva 2001/18/CE. Introduzione. In base alla direttiva 90/220, nei primi anni erano stati autorizzati al rilascio deliberato nell’ambiente 17 organismi diversi, tra cui 14 piante (varietà di mais, colza e soia). Inoltre, un certo numero di prodotti derivati da OGM ma non contenenti OGM (in altre parole, ricavati da piante geneticamente modificate ma non contenenti i semi modificati) erano entrati nel mercato europeo a seguito di una procedura di autorizzazione semplificata basata sul principio di sostanziale equivalenza: venivano autorizzati in via semplificata tutti quei prodotti che non presentavano alcuna differenza dal punto di vista nutrizionale, organolettico e tossicologico rispetto ai rispettivi prodotti “convenzionali”. Tra il 1990 e il 1997, tuttavia, il crescente movimento anti-OGM rese sempre più impopolari all’opinione pubblica gli alimenti transgenici. Nel 1997 alcuni Stati membri rifiutarono l’autorizzazione all’uso di OGM nei propri confini nazionali appellandosi alla “clausola di salvaguardia” dell’art. 16 della direttiva 90/220. Questa clausola affermava che «Se uno Stato membro ha un motivo valido di ritenere che un prodotto che è stato opportunamente notificato e ha ricevuto un consenso scritto ai sensi della presente direttiva costituisce un rischio per la salute umana o per l’ambiente, esso può limitarne o proibirne provvisoriamente l’uso e/o la vendita sul proprio territorio». L’art. 16 della direttiva 90/220 non menzionava alcuna condizione particolare, la qual cosa aveva consentito agli Stati di vietare le immissioni precedentemente autorizzate pur in mancanza di nuove prove scientifiche relative alla loro pericolosità. A seguito delle dichiarazioni anti-OGM di 12 degli allora 15 Stati membri, la Commissione inoltre provvide a bloccare la procedura di autorizzazione dei 22 nuovi OGM. La c.d. moratoria “di fatto” è durata dal 1998 al 2004, quando infine la Commissione ha autorizzato la commercializzazione (e di conseguenza l’importazione) nel mercato europeo del mais dolce Bt11, fresco o in scatola, sulla base dell’attestazione che esso non fosse nocivo per la salute umana e per l’ambiente. Nel periodo di vigenza, la moratoria di fatto ha comportato la reazione dei principali partners commerciali dell’UE (soprattutto di Stati Uniti, Canada e Argentina, che nel 2003 hanno proposto un ricorso agli organi di risoluzione delle controversie dell’Organizzazione mondiale del commercio) e una notevole riduzione delle attività di ricerca biotecnologica in Europa (le prove sperimentali sono diminuite da alcune centinaia l’anno a poche decine). Per tutti questi motivi, le istituzioni UE hanno deciso di avviare una nuova fase legislativa che ha portato alla sostituzione della direttiva 90/220 con la nuova direttiva attualmente in vigore. La direttiva 2001/18 contiene la più importante disciplina in materia di OGM nell’Unione europea. Essa è suddivisa in quattro parti concernenti le disposizioni di carattere generale; le emissioni nell’ambiente; le immissioni nel mercato; e le disposizioni finali. Scopo della direttiva (art. 1). La direttiva, nel rispetto del principio precauzionale, mira al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri e alla tutela della salute umana e dell’ambiente quando si emettono deliberatamente nell’ambiente OGM a scopo diverso dall’immissione in commercio all’interno dell’UE oppure quando si immettono in commercio all’interno dell’UE OGM come tali o contenuti in prodotti. Definizioni (art. 2). Si intende per organismo qualsiasi entità biologica capace di riprodursi o di trasferire materiale genetico. Per organismo geneticamente modificato (OGM), invece, un organismo, diverso da un essere umano, il cui materiale genetico è stato modificato in modo diverso da quanto avviene in natura con l’accoppiamento e/o la ricombinazione genetica naturale. L’emissione deliberata è poi qualsiasi introduzione intenzionale nell’ambiente di un OGM o una combinazione di OGM per la quale non vengono usate misure specifiche di confinamento, al fine di limitare il contatto con la popolazione e con l’ambiente e per garantire un livello elevato di sicurezza per questi ultimi (es. sperimentazioni sul terreno oppure coltivazione di piante OGM). L’immissione in commercio riguarda infine la messa a disposizione di terzi, dietro compenso o gratuitamente. A tal proposito, però, non rappresentano immissione in commercio le attività di impiego confinato di MGM (in quanto sottoposte alla direttiva 2009/41); la messa a disposizione di OGM (diversi dai MGM) per attività in cui si attuano misure rigorose e specifiche di confinamento atte a limitare il contatto con la popolazione e con l’ambiente e a garantire un livello elevato di sicurezza per questi ultimi 23 (questi impieghi però si dovrebbero basare sulle regole di sicurezza della direttiva 2009/41); e la messa a disposizione di OGM da utilizzarsi esclusivamente per emissioni deliberate nell’ambiente. Esclusioni dall’applicazione della direttiva (art. 3). In generale, le regole della direttiva 2001/18 non si applicano agli organismi ottenuti attraverso la mutagenesi e la fusione cellulare (inclusa la fusione di protoplasti) di cellule vegetali di organismi che possono scambiare materiale genetico anche con metodi di riproduzione tradizionali. Stesso discorso per le attività di trasporto di OGM per ferrovia, su strada, per vie navigabili interne, per mare o per via aerea. Obblighi generali degli Stati membri (art. 4). Nel rispetto del principio di precauzione, gli Stati membri UE devono adottate tutte le misure atte ad evitare effetti negativi sulla salute umana e sull’ambiente che potrebbero derivare dall’emissione deliberata o dall’immissione in commercio di OGM. In particolare, anzitutto possono consentire gli impieghi solo degli OGM precedentemente autorizzati in base alle diverse procedure della direttiva 2001/18. In secondo luogo, devono valutare caso per caso (così come la Commissione, qualora chiamata in causa) gli effetti negativi, sia diretti che indiretti, sulla salute umana e sull’ambiente, eventualmente provocati dal trasferimento di un gene dall’OGM ad un altro organismo: si deve soprattutto tener conto dell’impatto ambientale in funzione del tipo di organismo introdotto e dell’ambiente ospite. Ancora, gli Stati devono adoperarsi per eliminare entro la fine del 2008 gli OGM contenenti marcatori di resistenza agli antibiotici a causa della loro particolare pericolosità per la salute umana. Grande importanza ha l’obbligo di designare apposite autorità competenti che hanno le principali responsabilità a livello nazionale (esaminano le notifiche degli impieghi di OGM; compiono ispezioni; adottano altre misure di controllo per garantire l’osservanza della direttiva). Infine, devono assicurarsi che siano adottate tutte le misure necessarie per fronteggiare eventuali emissioni o immissioni di OGM non autorizzate. Tracciabilità ed etichettatura degli OGM. Prima della direttiva 2001/18, la normativa UE si era occupata della sola etichettatura dei prodotti contenenti OGM. La direttiva 2001/18 introduce invece obblighi generali di etichettatura e tracciabilità per tutte le immissioni in commercio di organismi transgenici. Quanto all’etichettatura, i prodotti contenenti o costituiti da OGM devono indicare con chiarezza sull’etichetta la presenza di un OGM (in particolare, sull’etichetta o nel documento che accompagna il prodotto o altri prodotti contenenti OGM deve apparire la dicitura “questo prodotto contiene organismi geneticamente modificati”). Per quanto riguarda invece la tracciabilità, l’art. 4, par. 6 affermava genericamente che gli Stati membri dovessero adottare misure volte a garantire la tracciabilità 24 in tutte le fasi dell’immissione in commercio di OGM autorizzati. Nel timore che gli Stati membri godessero di eccessiva discrezionalità, l’UE ha emanato soprattutto il regolamento 1830/2003 che ha abrogato l’art. 4, par. 6 della direttiva 2001/18. Segue: la disciplina del regolamento 1830/2003. Questo regolamento intende garantire la tracciabilità degli OGM lungo tutta la catena alimentare, anche per quanto riguarda i prodotti trasformati nei quali il processo di fabbricazione ha distrutto o alterato il DNA geneticamente modificato (ad es. gli olii). Tutti i prodotti disciplinati dal regolamento sono soggetti all’obbligo di etichettatura e di tracciabilità: da questo punto di vista, il regolamento 1830/2003 si applica a tutti i prodotti contenenti o consistenti in OGM nonché ai prodotti alimentari e ai mangimi ottenuti da OGM ma non contenenti o consistenti in OGM. Per quanto riguarda i prodotti contenenti o consistenti in OGM, le disposizioni sulla tracciabilità obbligano tutti gli operatori della filiera a trasmettersi l’un l’altro per iscritto specifiche informazioni concernenti l’indicazione che i prodotti sono OGM o ne contengono e l’identificatore unico (tipo codice a barre) assegnato a tali OGM (le informazioni devono essere conservate per 5 anni); quanto all’etichettatura dei prodotti preconfezionati, sull’etichetta deve figurare l’indicazione “Questo prodotto contiene organismi geneticamente modificati” o “Questo prodotto contiene (nome dell’organismo)”; infine, l’etichettatura dei prodotti non confezionati comporta per l’operatore l’obbligo di trasmettere le pertinenti informazioni unitamente al prodotto (es. documenti di accompagnamento). La disciplina per i prodotti alimentari e ai mangimi ottenuti da OGM ma non contenenti o consistenti in OGM comporta invece che, in ogni passaggio della catena distributiva, gli operatori commerciali si debbano trasmettere una serie di informazioni (quali l’indicazione di ogni ingrediente alimentare prodotto utilizzando OGM e l’indicazione di ogni materia prima o additivo per alimenti per animali prodotti utilizzando OGM); se non vi è un elenco di ingredienti, sul prodotto si deve indicare che è stato elaborato utilizzando OGM; anche tali informazioni devono essere conservate per 5 anni. L’importante questione della presenza accidentale di OGM viene risolta stabilendo che, per i prodotti contenenti tracce di OGM non eccedenti lo 0,9%, non si applicano gli obblighi di tracciabilità ed etichettatura, purché tuttavia la loro presenza sia involontaria e tecnicamente inevitabile. OGM e principio di precauzione. Come si è già detto, il principio di precauzione consente di sospendere un trattamento o la diffusione di un prodotto se vi è un rischio per l’ambiente anche in assenza di dati scientifici certi sulla pericolosità. Ci si trova in presenza di un’inversione dell’onere della prova: per poter prendere una misura basata su questo principio, è necessaria e sufficiente l’assenza di prove scientifiche sulla nonpericolosità. Il principio opera dunque come una specie di clausola di 25 salvaguardia, qualora non vi siano elementi certi sulla non-pericolosità di un trattamento o prodotto. La direttiva 2001/18 si basa sul principio di precauzione: secondo l’art. 1, gli obiettivi della direttiva devono essere raggiunti «Nel rispetto del principio precauzionale»; stesso discorso per le misure dell’art. 4, par. 1, da adottare «nel rispetto del principio precauzionale». Peraltro, come si è già detto, il principio di precauzione viene ribadito a livello di diritto primario nell’art. 191, par. 2 TFUE secondo cui «La politica dell’Unione in materia ambientale […] è fondata sui principi della precauzione […]». Inoltre, i giudici UE hanno ribadito da tempo che il principio di precauzione è principio generale di diritto UE che estende la sua efficacia in ogni ambito in cui è possibile che vi siano danni per l’ambiente, compresi gli OGM. Ad esempio, nel caso Mucca pazza (1997), la Corte di giustizia ha affermato che «Si deve ammettere che, quando sussistono incertezze riguardo all’esistenza o alla portata di rischi per la salute delle persone, le istituzioni possono adottare misure protettive senza dover attendere che siano esaurientemente dimostrate la realtà e la gravità di tali rischi. Questa considerazione è corroborata dall’art. [191, par. 1, TFUE], secondo il quale la protezione della salute umana rientra tra gli obiettivi della politica della Comunità in materia ambientale. Il n. 2 del medesimo articolo dispone che questa politica, che mira ad un elevato livello di tutela, è fondato segnatamente sui principi della precauzione e dell’azione preventiva […]». La già ricordata Comunicazione della Commissione del 2000 sul principio di precauzione ha messo in luce requisiti ed elementi sui quali basarsi per una valutazione del rischio alla luce del principio stesso. Peraltro, nel caso Alpharma (2002) il Tribunale ha ricordato che, poiché la Comunicazione contiene regole di condotta stabilite dalla Commissione, quest’ultima è tenuta ad applicarle. Secondo il giudice UE, infatti, la Comunicazione del 2000 può essere considerata come una codificazione dello stato del diritto UE sul principio di precauzione e la Commissione non può prendere decisioni di divieto non basate su dati scientifici noti, esaustivi ed affidabili, benché non assolutamente certi: in altri termini, l’assenza di qualsivoglia dato scientifico non consente provvedimenti precauzionali. Due aspetti della Comunicazione devono essere presi in considerazione in rapporto alla direttiva 2001/18. Anzitutto, si è già detto che vi deve essere proporzionalità tra danno da scongiurare e misura adottata. In questo, la direttiva 2001/18 sembra conforme: secondo l’art. 4, par. 3 «Gli Stati membri e, ove opportuno, la Commissione assicurano che i potenziali effetti negativi, sia diretti che indiretti, sulla salute umana e sull’ambiente, eventualmente provocati dal trasferimento di un gene dall’OGM ad un altro organismo, siano attentamente valutati caso per caso. Tale valutazione è effettuata a norma dell’allegato II, tenendo conto dell’impatto ambientale in funzione del tipo di organismo introdotto e dell’ambiente ospite». Così 26 anche il Tribunale nel caso Land Oberösterreich (2005), secondo cui il principio di precauzione non autorizza una interdizione generalizzata di una specifica immissione in commercio di OGM, in quanto ogni restrizione deve essere esaminata individualmente e in base alla finalità dell’impiego. In secondo luogo, con riguardo alla revisione delle misure precauzionali alla luce di nuovi dati scientifici, la Comunicazione afferma che gli effetti di tali misure sono necessariamente limitati nel tempo e cessano alla luce dei nuovi dati scientifici che confermano o smentiscono definitivamente il provvedimento di divieto di emissione o immissione. Anche in questo caso la direttiva 2001/18 pare conforme, in quanto prevede piani di monitoraggio, autorizzazioni a termine per le immissioni di OGM in commercio e aggiornamento degli allegati tecnici. OGM e principio della valutazione del rischio ambientale. La direttiva 90/220 stabiliva l’obbligo per gli Stati membri di adottare le misure idonee a prevenire gli eventuali effetti dannosi di un impiego di OGM ma non specificava i criteri per la valutazione del rischio. La direttiva 2001/18 ha invece colmato la lacuna. Ai sensi dell’art. 4, par. 3, appena ricordato, «Gli Stati membri e, ove opportuno, la Commissione assicurano che i potenziali effetti negativi, sia diretti che indiretti, sulla salute umana e sull’ambiente, eventualmente provocati dal trasferimento di un gene dall’OGM ad un altro organismo, siano attentamente valutati caso per caso. Tale valutazione è effettuata a norma dell’allegato II, tenendo conto dell’impatto ambientale in funzione del tipo di organismo introdotto e dell’ambiente ospite». L’Allegato II contiene i principi per la valutazione del rischio ambientale. L’obiettivo di una valutazione del rischio ambientale è, caso per caso, quello di individuare e valutare gli effetti potenzialmente negativi dell’OMG, sia diretti sia indiretti, immediati o differiti, sulla salute umana e sull’ambiente, provocati dall’emissione deliberata o dall’immissione sul mercato di OGM. La valutazione del rischio ambientale deve essere effettuata al fine di determinare se è necessario procedere ad una gestione del rischio e, in caso affermativo, reperire i metodi più appropriati da impiegare. L’Allegato II contiene solo un elenco esemplificativo dei tipi di effetti ritenuti dannosi in relazione a) agli OGM diversi dalle piante e b) alle piante superiori geneticamente modificate (PSGM). L’unico divieto assoluto è invece contenuto, come detto, nell’art. 4, par. 2 relativamente agli OGM contenenti marcatori di resistenza agli antibiotici. La procedura di autorizzazione per l’emissione deliberata nell’ambiente per qualsiasi fine diverso dal commercio. La direttiva 2001/18 prevede diverse procedure di autorizzazione a seconda che si tratti di emissione deliberata nell’ambiente (Parte B) o di immissione in commercio (Parte C) di un OGM. Con riferimento all’emissione deliberata 27 per fini non commerciali, la Parte B contempla una procedura normale, una procedura differenziata e una procedura sul trattamento delle modifiche e delle nuove informazioni. La procedura normale (art. 6) prevede che chiunque voglia effettuare un’emissione deliberata di un OGM nell’ambiente debba presentare una notifica all’autorità nazionale. Questa notifica deve contenere, tra l’altro, la valutazione del rischio ambientale e un piano di monitoraggio e di controllo dell’OGM che si intende introdurre nell’ambiente (il piano di monitoraggio deve seguire le indicazioni contenute nell’Allegato VII, che hanno l’obiettivo di effettuare una valutazione dei potenziali effetti a lungo termine derivanti dall’interazione dell’OGM con altri organismi o con l’ambiente). Ricevuta la notifica, l’autorità nazionale ne dà comunicazione alla Commissione e agli altri Stati membri, con possibilità di presentare osservazioni. Entro 90 giorni dalla notifica, l’autorità nazionale si pronuncia in forma scritta accogliendo o respingendo la notifica. Il notificante, di conseguenza, può procedere all’emissione solamente dopo l’autorizzazione scritta e rispettando tutte le condizioni in essa precisate. La procedura differenziata (art. 7) può essere invece utilizzata se si dispone di sufficiente esperienza riguardo alle emissioni di taluni OGM in determinati ecosistemi e se questi OGM soddisfano i criteri enunciati nell’Allegato V. Infine, la procedura sul trattamento delle modifiche e delle nuove informazioni (art. 8) viene utilizzata: 1) quando, dopo l’autorizzazione scritta dell’autorità nazionale, si verifica una modifica o variazione non intenzionale dell’emissione deliberata con possibili conseguenze sui rischi per la salute umana e per l’ambiente; e 2) qualora si rendano disponibili nuove informazioni sui rischi mentre l’autorità nazionale sta esaminando la notifica o ha già rilasciato l’autorizzazione scritta. In questi casi il notificante deve adottare le misure necessarie per la tutela della salute umana e dell’ambiente, informare immediatamente l’autorità nazionale e riesaminare le misure già proposte nella notifica. In presenza di modifiche o nuove informazioni, inoltre, l’autorità nazionale può imporre al notificante di modificare le modalità dell’emissione, di sospenderla o di interromperla definitivamente informandone il pubblico. L’immissione in commercio di OGM o di prodotti contenenti OGM. La procedura di autorizzazione della direttiva 2001/18. Attualmente, la disciplina sull’autorizzazione per l’immissione in commercio di OGM è ripartita tra la Parte C della direttiva 2001/18 (procedure per i prodotti commercializzati a fini di coltivazione, come le sementi) e il regolamento 1829/2003 (che contiene le procedure per gli OGM relativi ad alimenti umani e mangimi animali). Quanto alla procedura della Parte C della direttiva 2001/18, essa si compone di una fase nazionale preponderante rispetto a quella sovranazionale. 28 Partendo dalla fase nazionale, chiunque voglia effettuare un’immissione di OGM in commercio deve presentare una notifica all’autorità nazionale. Ricevuta la notifica, quest’autorità elabora una valutazione del rischio per l’ambiente della proposta di immissione: se la valutazione è negativa, la notifica viene respinta già in questa fase; se invece è positiva, si apre la fase sovranazionale. In questo caso, l’autorità nazionale trasmette alla Commissione e alle altre autorità competenti la sintesi del fascicolo di notifica e la relazione di valutazione del rischio per l’ambiente. La Commissione può chiedere ulteriori informazioni, mentre le altre autorità possono formulare obiezioni e chiedere ulteriori informazioni. In mancanza di obiezioni da parte delle altre autorità, l’autorità nazionale che ha ricevuto la notifica concede l’autorizzazione all’immissione in commercio. In caso di obiezioni, invece, la Commissione e le autorità nazionali cercano di trovare un accordo sull’immissione. Se le obiezioni vengono ritirate, l’autorità nazionale procede all’autorizzazione. Se esse al contrario vengono mantenute, la Commissione chiede il parere scientifico dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA, e in particolare dell’apposito Gruppo OGM): si noti che in questa procedura l’EFSA si limita a concentrare la propria analisi soprattutto sui punti scientifici divergenti. Qualora le obiezioni vengano mantenute anche dopo il parere dell’EFSA, si apre la fase della procedura “comunitarizzata” per le obiezioni. La Commissione ha 4 mesi per adottare un progetto di decisione, che viene sottoposto all’approvazione, in primo grado, del Comitato permanente per la catena alimentare e la salute degli animali (SCFCAH), composto dai rappresentanti di tutti gli Stati membri UE. In mancanza di accordo, si procede in appello davanti a un apposito Comitato d’appello, anch’esso composto da rappresentanti degli Stati membri ma a un livello più elevato. In caso di mancato raggiungimento della maggioranza qualificata in seno ai due Comitati, la decisione finale sull’autorizzazione all’immissione in commercio spetta tuttavia alla Commissione. 6. Segue: la particolare procedura per alimenti e mangimi predisposta dal regolamento 1829/2003. Il regolamento 1829/2003 ha l’obiettivo di far sì che alimenti e mangimi geneticamente modificati siano autorizzati ai fini dell’immissione sul mercato soltanto dopo una valutazione scientifica del più alto livello possibile (da effettuarsi sotto la responsabilità dell’EFSA) dei rischi che essi eventualmente presentino per la salute umana e animale o per l’ambiente. Esso si divide in due sezioni rispettivamente dedicate agli alimenti e ai mangimi. In proposito, giova sottolineare che uno degli elementi maggiormente innovativi rispetto alle regolamentazioni precedenti è proprio 29 relativa ai mangimi, che fino a quel momento non erano in alcun modo disciplinati né nella direttiva 2001/18 né altrove. Il regolamento 1829/2003 si applica al posto della direttiva 2001/18 in presenza di 1) OGM destinati all’alimentazione umana o animale oppure OGM che possono essere utilizzati come alimento o come materiale di base per la produzione di alimenti o mangimi; 2) alimenti e ai mangimi contenenti o costituenti OGM; 3) alimenti o mangimi prodotti a partire da o che contengono ingredienti prodotti a partire da OGM ma che non consistono o contengono OGM. A differenza della direttiva 2001/18, la procedura di autorizzazione del regolamento 1829/2003 è sostanzialmente centralizzata a livello UE, in quanto la valutazione del rischio è condotta dall’EFSA (e non dall’autorità nazionale) e il provvedimento di autorizzazione è sovranazionale e non nazionale. La fase nazionale, abbastanza marginale, prevede che il richiedente presenti la sua domanda per qualsiasi prodotto alimentare o mangime contenente OGM all’autorità nazionale competente. Da notare che si può presentare un’unica domanda per gli utilizzi alimentari e per la coltivazione: la domanda così presentata assorbe quella della direttiva 2001/18; tuttavia, nel caso di utilizzazione anche per coltivazione si devono rispettare anche le disposizioni della direttiva 2001/18 (ciò significa che l’OGM che ha ottenuto un’autorizzazione può essere utilizzato sia nell’alimentazione sia per la coltivazione o l’emissione deliberata nell’ambiente). Alla domanda di autorizzazione va allegato un dossier che riporti tutte le informazioni scientifiche disponibili al fine di consentire la valutazione della sicurezza per la salute umana, animale e dell’ambiente. L’autorità nazionale informa l’EFSA e le trasmette la domanda con le eventuali informazioni supplementari fornite dal richiedente. A questo punto si apre la fase sovranazionale, di gran lunga più importante. L’EFSA, ricevuto l’incartamento, informa la Commissione e le altre autorità nazionali; rende accessibile al pubblico una sintesi del dossier; predispone un parere scientifico sull’autorizzazione conducendo una valutazione del rischio ambientale; può chiedere all’autorità nazionale di predisporre la propria valutazione del rischio ambientale (in caso di OGM notificati per coltivazione ai sensi anche della direttiva 2001/18, la valutazione nazionale deve essere chiesta); e trasmette il suo parere alla Commissione, alle altre autorità nazionali e al richiedente (allegando una relazione in cui descrive la sua valutazione dell’alimento e comunica i motivi del parere e le informazioni su cui esso si basa, compresi i pareri delle autorità competenti consultate). La Commissione europea, sulla base del parere dell’EFSA, propone di accogliere o rifiutare la domanda. Il già ricordato Comitato permanente per la catena alimentare e la salute degli animali decide se concedere o meno l’autorizzazione. Se non vi si raggiunge il consenso, la decisione viene rimandata in seconda istanza al Comitato 30 d’appello. In mancanza di consenso, la decisione finale spetta alla Commissione. 7. Libera circolazione degli OGM, sistema di salvaguardia e coesistenza tra colture tradizionali e colture OGM. Libera circolazione degli OGM autorizzati. Una volta ottenuta l’autorizzazione all’immissione in commercio, all’OGM o al prodotto che consiste o lo contiene deve essere garantito il più ampio accesso al territorio UE. Vige infatti la regola della libera circolazione di cui all’art. 22 della direttiva 2001/18, secondo il quale «gli Stati membri non possono vietare, limitare o impedire l’immissione in commercio di OGM, come tali o contenuti in prodotti, conformi ai requisiti della presente direttiva». Tuttavia, vi sono delle eccezioni a tale regola, contenute nei sistemi di salvaguardia della direttiva 2001/18 e del regolamento 1829/2003. Il sistema di salvaguardia della direttiva 2001/18. Ai sensi dell’art. 23 della direttiva 2001/18: «1. Qualora uno Stato membro, sulla base di nuove o ulteriori informazioni divenute disponibili dopo la data dell’autorizzazione e che riguardino la valutazione di rischi ambientali o una nuova valutazione delle informazioni esistenti basata su nuove o supplementari conoscenze scientifiche, abbia fondati motivi di ritenere che un OGM come tale o contenuto in un prodotto debitamente notificato e autorizzato per iscritto in base alla presente direttiva rappresenti un rischio per la salute umana o l’ambiente, può temporaneamente limitarne o vietarne l’uso o la vendita sul proprio territorio. Lo Stato membro provvede affinché, in caso di grave rischio, siano attuate misure di emergenza, quali la sospensione o la cessazione dell’immissione in commercio, e l’informazione del pubblico. Lo Stato membro informa immediatamente la Commissione e gli altri Stati membri circa le azioni adottate a norma del presente articolo e motiva la propria decisione, fornendo un nuovo giudizio sulla valutazione di rischi ambientali, indicando se e come le condizioni poste dall’autorizzazione debbano essere modificate o l’autorizzazione debba essere revocata e, se necessario, le nuove o ulteriori informazioni su cui è basata la decisione». A differenza dell’art. 16 della precedente direttiva 90/220, dunque, la nuova clausola di salvaguardia non può essere utilizzata in maniera assolutamente discrezionale ma solo in presenza di «nuove o ulteriori informazioni divenute disponibili dopo la data dell’autorizzazione e che riguardino la valutazione di rischi ambientali o una nuova valutazione delle informazioni esistenti basata su nuove o supplementari conoscenze scientifiche». Lo Stato membro continua tuttavia a godere di una 31 significativa discrezionalità in quanto 1) può prendere una misura di salvaguardia di propria iniziativa e direttamente, senza previa notifica e autorizzazione della Commissione; b) può anche decidere di non prendere la misura di salvaguardia pur in presenza di «fondati motivi di ritenere che un OGM come tale o contenuto in un prodotto debitamente notificato e autorizzato per iscritto in base alla presente direttiva rappresenti un rischio per la salute umana o l’ambiente». Lo Stato membro ha solo l’obbligo di informare immediatamente la Commissione e gli altri Stati membri delle misure intraprese, e deve inoltre indicare se e come le condizioni poste dall’autorizzazione debbano essere modificate oppure l’autorizzazione essere revocata. La decisione definitiva sulla modifica o sulla revoca dell’autorizzazione viene presa attraverso lo stesso procedimento previsto per il rilascio dell’autorizzazione, passando dunque per il Comitato permanente per la catena alimentare e la salute degli animali, eventualmente per il Comitato d’appello, o infine anche da una decisione della Commissione. Il sistema di salvaguardia del regolamento 1829/2003. Nel sistema del regolamento 1829/2003, invece, gli Stati membri conservano poteri di vigilanza sulle condizioni e restrizioni imposte dall’autorizzazione UE e possono richiedere la modifica, sospensione o revoca di un’autorizzazione. Tuttavia, il potere di adottare misure di salvaguardia è molto ridotto rispetto alle corrispondenti previsioni della direttiva 2001/18. Secondo l’art. 34 del regolamento, infatti, «Quando sia manifesto che prodotti autorizzati dal presente regolamento o conformemente allo stesso possono comportare un grave rischio per la salute umana, per la salute degli animali o per l’ambiente ovvero qualora, alla luce di un parere [dell’EFSA], sorga la necessità di sospendere o modificare urgentemente un’autorizzazione, sono adottate misure conformemente alle procedure previste agli articoli 53 e 54 del regolamento (CE) n. 178/2002». Il regolamento 178/2002 è quello sulla sicurezza alimentare: ciò significa che, a differenza del sistema della direttiva 2001/18, gli Stati membri in questo caso non hanno poteri unilaterali di restrizione o limitazione delle autorizzazioni emesse dalla Commissione. Solo la Commissione può adottare misure di salvaguardia, mentre gli Stati membri devono informare ufficialmente la Commissione della necessità di adottare misure di salvaguardia e possono intervenire autonomamente solo in caso di inerzia della Commissione (però tali misure, una volta adottate, devono essere notificate immediatamente alla Commissione e agli altri Stati membri). Nel caso Monsanto SAS (2011), la Corte di giustizia si è espressa in una causa avente ad oggetto le misure di salvaguardia francesi dirette a sospendere la cessione e l’utilizzo di sementi di mais MON 810 e poi a vietare la coltivazione delle medesime sementi. La Corte ha affermato che uno Stato membro non può utilizzare la clausola di salvaguardia prevista 32 dalla direttiva 2001/18 al fine di adottare misure che sospendano e, in un secondo momento, vietino provvisoriamente l’utilizzo o l’immissione in commercio di un OGM autorizzato in base al regolamento 1829/2003. Nella richiesta di misure alla Commissione, gli Stati membri devono dimostrare l’urgenza e l’esistenza di un rischio manifesto per la salute umana, la salute degli animali o l’ambiente. Inoltre, nonostante il loro carattere provvisorio e preventivo, tali misure possono essere adottate solamente se fondate su una valutazione dei rischi quanto più possibile completa tenuto conto delle circostanze specifiche del caso di specie, che dimostrino che tali misure sono necessarie. Segue: la proposta di modifica della direttiva 2001/18. Negli ultimi anni, un numero crescente di Stati ha varato provvedimenti atti a limitare la coltivazione di OGM nel proprio territorio, invocando sempre più frequentemente la clausola di salvaguardia dell’art. 23 direttiva 2001/18 o le misure di emergenza dell’art. 34 regolamento 1829/2003. Ciò ha messo in luce le lacune dell’attuale normativa, che non attribuisce agli Stati membri la necessaria flessibilità per decidere se approvare o meno la coltivazione di OGM nel proprio territorio. Per rimediare a tale carenza, la Commissione europea ha avviato l’iter di modifica della direttiva 2001/18 mediante la proposta di regolamento COM(2010)375, che dovrebbe permettere agli Stati di limitare o vietare la coltivazione di OGM, autorizzati a livello di Unione, in tutto il proprio territorio o in parte di esso. Secondo il progetto di modifica, tuttavia, tali misure devono essere 1) giustificate da ragioni diverse da quelle previste nella valutazione dei rischi ambientale e sanitari; 2) conformi al TUE e al TFUE, soprattutto in riferimento al principio di non discriminazione tra prodotti nazionali e non nazionali; 3) conformi agli obblighi internazionali dell’Unione nel quadro dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. In particolare, la proposta di regolamento COM(2010)375, se approvata, aggiungerà alla direttiva n. 2001/18 l’art. 26-ter, che lascerebbe un margine di valutazione più ampio agli Stati in tema di coltivazione di OGM in base alle rispettive specificità: da un lato, si ridurrebbe il ricorso “strumentale” alle misure di salvaguardia, mentre dall’altro si ridimensionerebbe il carico di lavoro della Commissione e dell’EFSA. Tra i possibili motivi per vietare o limitare gli OGM si annoverano ragioni socioeconomiche, di destinazione specifica dei suoli, di assetto territoriale, obiettivi della politica agricola e questioni di ordine pubblico. Gli Stati intenzionati ad adottare tali misure dovranno comunicarle (assieme alle relative motivazioni) alla Commissione e agli altri Stati membri un mese prima della loro adozione, non a fini autorizzativi bensì meramente informativi. 33 Il testo della proposta del 2010 è all’ordine del giorno dei lavori del Consiglio. In occasione del Consiglio dei ministri del 12 giugno 2014, i Ministri dell’Ambiente dei 28 Stati membri hanno raggiunto l’accordo politico sul testo. La coesistenza tra colture tradizionali e OGM. L’utilizzo di OGM, com’è ampiamente noto, è suscettibile di porre problemi particolari nel settore agroalimentare con riferimento alla scelta tra prodotti derivanti da colture tradizionali/biologiche e colture OGM. La raccomandazione della Commissione 2003/556/CE mette in evidenza il principio della coesistenza tra le diverse colture. Essa ha fissato orientamenti generali (pur se non vincolanti) per definire regolamentazioni e prassi nazionali idonee a garantire la coesistenza: in sostanza, contempla misure idonee a garantire la possibilità di utilizzo degli OGM autorizzati per tutti quegli operatori economici che lo desiderino. Il termine coesistenza indica per l’appunto la «possibilità di scelta degli agricoltori tra colture convenzionali, organiche e geneticamente modificate nel rispetto delle obbligazioni legali riguardanti gli standards di purezza e di etichettatura». In proposito, la direttiva 2001/18 lascia ampia discrezionalità agli Stati membri. Secondo l’art. 26-bis, «1. Gli Stati membri possono adottare tutte le misure opportune per evitare la presenza involontaria di OGM in altri prodotti. 2. La Commissione raccoglie e coordina le informazioni basate su studi condotti a livello comunitario e nazionale, osserva gli sviluppi quanto alla coesistenza negli Stati membri e, sulla base delle informazioni e delle osservazioni, sviluppa orientamenti sulla coesistenza di colture geneticamente modificate, convenzionali e organiche». Si assiste pertanto a una riespansione della competenza degli Stati membri e delle autorità pubbliche locali o regionali, con possibilità di stabilire misure specifiche di coesistenza. In particolare, agli Stati membri (e alle loro articolazioni interne) spetta in base al principio di sussidiarietà il compito di stabilire misure di dettaglio che impongano il divieto di coltura di OGM in determinate aree, giustificato da caratteristiche intrinseche, morfologiche e naturali delle medesime; stabilire misure di regolamentazione di sconfinamento delle aree interessate dalla produzione OGM; introdurre sistemi di responsabilità civile da danni conseguenti allo sconfinamento di prodotti OGM. Alla Commissione spetta invece un limitato compito di raccolta e coordinamento delle informazioni sulle misure nazionali esistenti; e di produzione di indirizzi di soft law quali raccomandazioni e linee guida. Alcuni Stati membri hanno introdotto normative nazionali particolarmente restrittive che in alcuni casi giungono a dichiarare intere zone di territorio libere da coltivazioni OGM. In Italia il sistema deriva dalla legge n. 5/2005. Le Regioni devono introdurre specifici piani di coesistenza delle diverse colture. La violazione dei piani di coesistenza regionali 34 comporta apposite sanzioni amministrative e penali, e inoltre fino all’adozione dei piani di coesistenza la legge ha introdotto un bando per le colture transgeniche. Attualmente, anche a seguito di una sentenza della Corte costituzionale del 2006, il quadro in Italia è questo: a) nessuna Regione può vietare in linea di principio la coltivazione di OGM (ciò contravverrebbe alla normativa UE); b) tuttavia l’imposizione di norme di coesistenza più o meno rigide rende di fatto difficile l’instaurarsi di colture OGM sul territorio. Peraltro, anche se attualmente non ci sono colture OGM in Italia (se non a livello sperimentale), la gran parte dei mangimi utilizzati negli allevamenti italiani (esclusi gli allevamenti biologici) è prodotta a partire da soia e mais geneticamente modificati importati da Stati Uniti, Canada e America Latina. Segue: il problema della contaminazione accidentale. La Corte di giustizia, nel caso Bablok (2011), ha trattato la questione delle conseguenze della contaminazione accidentale. Il sig. Bablok, apicoltore amatoriale, aveva fatto causa al Land Baviera perché nel 2005 nei suoi prodotti apistici (posti a una distanza di 500 metri da terreni pubblici coltivati a mais OGM) era stata riscontrata la presenza di polline di mais il cui DNA era riconducibile al mais MON 810 e ad altre proteine transgeniche. Tuttavia il polline di mais OGM aveva perso capacità di fecondazione. La Corte, da un lato, ha affermato che non rientra più nella nozione di OGM una sostanza quale il polline derivante da una varietà di mais geneticamente modificato, la quale abbia perso la sua capacità riproduttiva e che sia priva di ogni capacità di trasferire il materiale genetico da essa contenuto. Dall’altro, però, ha ricordato che prodotti come il miele contenenti siffatto polline costituiscono alimenti che contengono ingredienti prodotti a partire da OGM ai sensi del regolamento 1829/2003. In altri termini, il polline di mais non è un corpo estraneo né una semplice impurità rispetto al miele, bensì un suo normale componente, e dev’essere effettivamente qualificato come “ingrediente”. Se ciò è vero, il polline rientra nell’ambito di applicazione del regolamento e dev’essere assoggettato al regime di autorizzazione da questo previsto per poter essere immesso in commercio. Di conseguenza, anche il miele contenente polline di mais prodotto a partire da OGM deve essere soggetto alla procedura di autorizzazione del regolamento 1829/2003 nonostante la contaminazione accidentale. 35