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Giuseppe Morgese
PRINCIPI DI TUTELA AMBIENTALE E DISCIPLINA DEGLI
ORGANISMI GENETICAMENTE MODIFICATI (OGM)
NELL’UNIONE EUROPEA
II edizione
dispensa finalizzata allo studio dell’esame di “Elementi di diritto
dell’Unione europea per le biotecnologie”, Facoltà di Scienze
biotecnologiche, Università degli Studi di Bari Aldo Moro
si ringrazia la dott.ssa Micaela Lastilla per l’aggiornamento di alcune parti
della dispensa
SOMMARIO: 1. Evoluzione e princìpi del diritto internazionale dell’ambiente. – 2.
Evoluzione, obiettivi e princìpi ambientali nell’Unione europea. – 3.
Evoluzione storica della disciplina UE sugli OGM. – 4. L’impiego confinato
di microrganismi geneticamente modificati (MGM). – 5. L’emissione
deliberata nell’ambiente di organismi geneticamente modificati (OGM) e la
direttiva 2001/18/CE. – 6. (segue): La particolare procedura per alimenti e
mangimi predisposta dal regolamento 1829/2003. – 7. Libera circolazione
degli OGM, sistema di salvaguardia e coesistenza tra colture tradizionali e
colture OGM.
1. Evoluzione e princìpi del diritto internazionale dell’ambiente.
Negli ultimi decenni la protezione dell’ambiente è divenuta
un’esigenza sempre più sentita dalla comunità internazionale. Ci si è
preoccupati di stabilire linee programmatiche da seguire per garantire la
salvaguardia e arginare il deterioramento dell’ambiente. Davanti ai danni
causati dall’inquinamento la sola legislazione nazionale si è infatti
dimostrata ben presto insufficiente, e per questo motivo l’equilibrio
ecologico del pianeta è divenuto oggetto di preoccupazione nei rapporti tra
gli Stati. A livello internazionale, l’esigenza di fornire una risposta ai
problemi ambientali è emersa soprattutto a partire dalla seconda metà del
XX secolo, anche se in precedenza vi sono state convenzioni che
disciplinavano specifici aspetti di carattere ambientale.
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Definizione di diritto internazionale dell’ambiente. Il diritto
internazionale dell’ambiente è quel complesso di principi e norme che
stabiliscono regole di comportamento per gli Stati al fine di realizzare la
tutela dell’ambiente e l’uso equilibrato delle risorse naturali in un contesto
di sviluppo economico e sociale. È un diritto che ha ormai assunto una
vocazione globale in quanto diretto alla soluzione di problemi che
interessano l’intera comunità internazionale.
Evoluzione storica. Nella seconda metà del XIX secolo si hanno
regolamentazioni internazionali dell’utilizzo delle risorse naturali
soprattutto per finalità di navigazione (es. le Commissioni internazionali
fluviali per il Reno, il Danubio, l’Oder e l’Elba, create per regolare la
navigazione fluviale e ora diventate strumento di tutela ambientale).
Agli inizi del XX secolo troviamo i primi trattati bilaterali e
multilaterali diretti a proteggere alcune specie faunistiche nonché alcune
convenzioni che istituiscono meccanismi di consultazione e facilitano la
soluzione delle controversie tra Stati aventi ad oggetto l’uso delle risorse
naturali condivise (es. il Trattato tra Stati Uniti e Regno Unito in favore del
Canada sulle acque di frontiera del 1909, che intendeva regolare i livelli
idrici e la navigabilità dei Grandi laghi e prevedeva anche un obbligo di non
inquinare le acque in ciascuno dei due lati di frontiera).
Nel periodo tra le due guerre mondiali vengono stipulate alcune
convenzioni, quali quella di Londra per la protezione della fauna e della
flora naturali in certe parti del mondo considerate a rischio di estinzione
(1933) e quella di Washington sulla preservazione della fauna, della flora e
delle bellezze panoramiche naturali nei Paesi americani (1940). Viene
inoltre a consolidarsi la prassi che mette in luce gli effetti dannosi di un
esercizio illimitato della sovranità statale sulle risorse naturali. Si veda ad
es. la decisione arbitrale sul caso dei fumi inquinanti della fonderia canadese
Smelter (1941) con conseguenze dannose nel territorio degli Stati Uniti: è la
prima decisione ad affermare che nessuno Stato ha il diritto di utilizzare il
proprio territorio in maniera tale da creare danni al territorio di altri Stati
quando vi siano conseguenze serie e il danno sia accertato in modo chiaro e
convincente.
La Carta delle Nazioni Unite non menziona la tutela dell’ambiente tra
gli obiettivi dell’Organizzazione, né viene attribuita una competenza in
materia a qualcuno dei suoi Istituti specializzati. Ciò deriva anche dal fatto
che, in questa fase, il diritto internazionale era ancora influenzato dal
principio di illimitata sovranità territoriale sugli spazi territoriali e marittimi
nazionali e dall’indifferenza per la tutela ambientale degli altri spazi (come
l’alto mare).
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Negli anni ‘50 e ‘60 si hanno le prime manifestazioni di una
“coscienza ambientale” degli Stati. Tuttavia gli strumenti di questo periodo
continuano ad avere un approccio limitato. A titolo esemplificativo,
ricordiamo il Trattato di Washington sull’Antartide (1959) e il Trattato sui
principi che regolano le attività degli Stati nell’esplorazione e uso dello
spazio extra-atmosferico (1967). L’insufficiente attenzione alla tutela
ambientale risente peraltro del processo di decolonizzazione, dell’enfasi,
posta dai PVS, sul tradizionale principio della piena sovranità territoriale
sulle risorse nazionali e della scarsa attenzione a problematiche “collettive”
come quelle ecologiche.
Dalla Conferenza di Stoccolma (1972) alla Conferenza di Rio
(1992). Negli anni ‘70, alcuni fattori conducono a una maggiore attenzione
alle problematiche ambientali globali: l’estensione dei fenomeni di
inquinamento; la nascita dei movimenti ecologisti; alcuni gravi incidenti
ambientali (es. il caso della petroliera Torrey Canyon del 1967 che versa nel
Canale della Manica 120.000 tonnellate di petrolio distruggendo gran parte
delle risorse biologiche tra Regno Unito e Francia).
Viene convocata la Conferenza ONU di Stoccolma sull’ambiente
umano (1972), cui prendono parte 113 Stati di cui 108 membri ONU e che
inaugura la fase del c.d. funzionalismo ambientale, basato sul principio della
prevenzione del danno. Si esplicita il pericolo del degrado ambientale e si
evidenzia la necessità di un’azione condivisa a livello internazionale. La
Conferenza di Stoccolma adotta una Dichiarazione sull’ambiente umano
(che fissa 26 Principi e linee guida politiche cui gli Stati si impegnavano ad
attenersi in materia ambientale tanto a livello nazionale quanto
internazionale) e un Piano mondiale di azione ambientale (contenente 109
raccomandazioni operative per definire più dettagliatamente gli obiettivi
della Dichiarazione).
Tra i Principi della Dichiarazione ricordiamo il Principio 1: «L’uomo
ha un diritto fondamentale alla libertà, all’eguaglianza e a condizioni di vita
soddisfacenti, in un ambiente che gli consenta di vivere nella dignità e nel
benessere, ed è altamente responsabile della protezione e del miglioramento
dell’ambiente davanti alle generazioni future»; il Principio 2: «Le risorse
naturali della Terra, ivi incluse l’aria, l’acqua, la flora, la fauna e
particolarmente il sistema ecologico naturale, devono essere salvaguardate a
beneficio delle generazioni presenti e future, mediante una programmazione
accurata o una appropriata amministrazione»; e l’importante Principio 21
secondo cui «La Carta delle Nazioni Unite e i principi del diritto
internazionale riconoscono agli Stati il diritto sovrano di sfruttare le risorse
in loro possesso, secondo le loro politiche ambientali, ed il dovere di
impedire che le attività svolte entro la propria giurisdizione o sotto il proprio
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controllo arrechino danni all’ambiente di altri Stati o a zone situate al di
fuori dei limiti della loro giurisdizione nazionale».
Nel 1972, subito dopo la Conferenza di Stoccolma, l’Assemblea
generale ONU crea il Programma delle Nazioni unite per l’ambiente
(UNEP). Esso diviene organo sussidiario dell’ONU e ha compiti di studio e
operativi, per la fornitura di assistenza tecnica ai Paesi in via di sviluppo
(PVS) soprattutto nella legislazione ambientale. In sede UNEP sono state
negoziate la Convenzione di Vienna sulla protezione della fascia di ozono
(1985) e il relativo Protocollo di Montreal sulle sostanze che impoveriscono
l’ozonosfera (1987); è stato predisposto anche il Programma di Montevideo
sullo sviluppo del diritto ambientale e il Programma sulla protezione dei
mari regionali, che hanno dato origine alla Convenzione di Barcellona sulla
tutela del Mar Mediterraneo dall’inquinamento (1976). Le funzioni
dell’UNEP sono state ampliate con il c.d. Pacchetto di Cartagena adottato
nel 2002. Attualmente, la proposta dell’UE di trasformare l’UNEP in una
vera e propria organizzazione internazionale (Organizzazione ONU per
l’ambiente) si scontra con l’opposizione di Brasile, India e USA. Nell’arco
di un ventennio dopo la Conferenza di Stoccolma, si è avuta una
moltiplicazione dei trattati ambientali “settoriali”, tra i quali rileva
l’importante Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare (1982) che
contiene specifiche norme in materia di protezione dell’ambiente marino e
di obblighi di istituire zone di preservazione degli ecosistemi, delle specie
faunistiche e floristiche, e della diversità biologica. Questi e altri trattati
danno attuazione al principio di cooperazione (inteso come azione di tutti
gli Stati nell’esercitare in modo più responsabile la sovranità sulle risorse
nazionali nell’interesse delle generazioni future) e pongono obblighi di
risultato (norme non direttamente applicabili e che richiedono ulteriore
attività normativa statale, non idonee pertanto a garantire uniformità tra le
diverse legislazioni nazionali).
La Conferenza di Rio (1992) e il principio dello sviluppo
sostenibile. La seconda fase del diritto internazionale ambientale, definita
del “globalismo ambientale” e caratterizzata dalla conclusione di
convenzioni globali fondate sul principio di precauzione, viene anticipata
dalla creazione di una commissione di esperti indipendenti, incaricati dalle
Nazioni Unite: la c.d. Commissione Brundtland (dal nome del suo
presidente) elabora il noto rapporto Our Common Future in cui viene
esplicitato il concetto di sviluppo sostenibile.
Lo sviluppo sostenibile è un modello di sviluppo che si propone di
soddisfare i bisogni della generazione attuale senza compromettere la
capacità delle generazioni future di soddisfare le proprie.
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La Conferenza ONU di Rio de Janeiro sull’ambiente e lo sviluppo
(UNCED), svoltasi dal 3 al 14 giugno 1992, avvia una fase diretta a rendere
compatibili le esigenze dello sviluppo economico con quelle di tutela
dell’ambiente e a orientare la cooperazione tra Stati alla soluzione dei
problemi ambientali di natura globale (cambiamenti climatici, perdita della
diversità biologica, deforestazione). La Conferenza di Rio ha adottato tre
atti: la Dichiarazione di Rio su ambiente e sviluppo (contenente 27 Principi
generali); l’Agenda 21 (documento programmatico non vincolante diretto
all’individuazione degli interventi necessari a realizzare il principio dello
sviluppo sostenibile e a emanare appropriate raccomandazioni agli Stati); e
la c.d. Dichiarazione dei principi per la gestione sostenibile delle foreste
(documento anch’esso non vincolante che definisce diverse azioni per la
salvaguardia del patrimonio forestale, attraverso uno sfruttamento
sostenibile delle risorse forestali).
Segue: la Dichiarazione su ambiente e sviluppo e i Principi
generali rilevanti. Con la Dichiarazione di Rio su ambiente e sviluppo il
diritto ambientale assume una più marcata connotazione per princìpi
generali. In particolare, la Dichiarazione ha le caratteristiche di una c.d. lawdeveloping resolution: ha infatti contribuito alla formazione delle norme
consuetudinarie in materia ambientale e ha costituito la base per la creazione
dei successivi regimi convenzionali. La Dichiarazione non sancisce
espressamente un diritto all’ambiente come diritto umano fondamentale, e
ciò si pone in discontinuità con le affermazioni (perlomeno di principio)
contenute in alcuni trattati internazionali e costituzioni nazionali precedenti.
In proposito, il Principio 10 si limita infatti ad affermare un più
semplice diritto di accesso dei cittadini alla informazione ambientale. Il
contenuto del Principio 10, in linea con alcune indicazioni operative di
Agenda 21, è stato sviluppato con la Convenzione sull’accesso alle
informazioni, la partecipazione dei cittadini e l’accesso alla giustizia in
materia ambientale, comunemente nota come Convenzione di Aarhus, dal
nome della città danese in cui è stata aperta alle firme il 25 giugno 1998.
Tale trattato rappresenta il primo strumento internazionale dedicato
esclusivamente all’informazione del pubblico in materia ambientale, ed è
improntato a quanto previsto nella disciplina europea sulla valutazione di
impatto ambientale e sulla libertà di accesso alle informazioni ambientali.
La Convenzione, di cui è parte anche l’Unione europea, è entrata in vigore il
30 ottobre 2001. L’accordo contempla tre pilastri, relativi all’accesso alle
informazioni, alla partecipazione del pubblico ai processi decisionali e
all’accesso alla giustizia in materia ambientale. In particolare, prevede per
gli Stati aderenti obblighi sia negativi sia positivi in materia di accesso dei
cittadini alle informazioni ambientali, e rende inoltre i processi decisionali
di governo relativi all’ambiente trasparenti e aperti alla partecipazione del
pubblico, realizzando una maggiore “democratizzazione” degli interventi
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statali in materia ambientale. In base alla Convenzione di Aarhus, gli Stati
parti si astengono da comportamenti idonei a impedire il diritto d’accesso
alle informazioni ambientali da parte dei cittadini, i quali possono richiedere
l’informazione stessa pur in assenza di uno specifico interesse. In base
all’art. 4, inoltre, «le informazioni ambientali devono essere rese disponibili
al pubblico appena possibile e comunque entro un mese dalla presentazione
della richiesta», salvo alcune eccezioni.
Tra gli obblighi positivi rilevano, per esempio, la pubblicazione da
parte degli Stati, ogni tre o quattro anni, di rapporti nazionali relativi alla
qualità dell’ambiente, nonché l’istituzione progressiva di un sistema
nazionale coerente di inventari o registri relativi all’inquinamento, basato su
una banca dati strutturata, informatizzata e accessibile al pubblico” (art. 5
paragrafi 4 e 9). Inoltre, in caso di minaccia per la salute umana o per
l’ambiente, le Parti si impegnano a diffondere tempestivamente «le
informazioni in possesso della pubblica autorità, che consentano a chi possa
esserne colpito di adottare le misure atte a prevenire o limitare i danni
derivanti da tale minaccia» (art. 5).
Tornando alla Dichiarazione di Rio, il Principio 2 afferma il diritto di
sfruttamento e il dovere di non inquinare altri Stati, che si pone sulla
falsariga del Principio 21 di Stoccolma, ma vi aggiunge il diritto degli Stati
di sfruttare le proprie risorse anche secondo le loro politiche di sviluppo.
Alcuni ritengono che questo diritto-dovere sia ormai una norma di diritto
internazionale consuetudinario. Il Principio 2 non impone però un obbligo
assoluto di tutela dell’ambiente a prescindere dal divieto di inquinamento
transfrontaliero (una proposta in tal senso era stata avanzata in sede di
negoziato, ma poi non è stata accolta).
Il Principio 4 specifica dal canto suo il concetto di sviluppo
sostenibile: «Al fine di pervenire ad uno sviluppo sostenibile, la tutela
dell’ambiente costituirà parte integrante del processo di sviluppo e non potrà
essere considerata separatamente da questo».
Il Principio 3 è invece quello della solidarietà intergenerazionale: «Il
diritto allo sviluppo deve essere realizzato in modo da soddisfare equamente
le esigenze relative all’ambiente ed allo sviluppo delle generazioni presenti
e future». Anche qui si nota però la mancanza di un diritto all’ambiente
come diritto umano fondamentale.
Due Principi sono dedicati allo sviluppo sostenibile a tutela dei diritti
umani. Il Principio 1 afferma che «Gli esseri umani sono al centro delle
preoccupazioni relative allo sviluppo sostenibile. Essi hanno diritto ad una
vita sana e produttiva in armonia con la natura». Secondo il Principio 5,
invece, «Tutti gli Stati e tutti i popoli coopereranno al compito essenziale di
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eliminare la povertà, come requisito indispensabile per lo sviluppo
sostenibile, al fine di ridurre le disparità tra i tenori di vita e soddisfare
meglio i bisogni della maggioranza delle popolazioni del mondo».
Una serie di Principi affermano poi la progressiva differenziazione tra
obblighi ambientali dei Paesi industrializzati e dei PVS. Tra questi si ricorda
il principio 7, che ribadisce l’importante criterio della responsabilità comune
ma differenziata: «Gli Stati coopereranno in uno spirito di partnership
globale per conservare, tutelare e ripristinare la salute e l’integrità
dell’ecosistema terrestre. In considerazione del differente contributo al
degrado ambientale globale, gli Stati hanno responsabilità comuni ma
differenziate. I paesi sviluppati riconoscono la responsabilità che incombe
loro nel perseguimento internazionale dello sviluppo sostenibile date le
pressioni che le loro società esercitano sull’ambiente globale e le tecnologie
e risorse finanziarie di cui dispongono».
Molto importante è il Principio 15, che afferma il noto principio di
precauzione: «Al fine di proteggere l’ambiente, gli Stati applicheranno
largamente, secondo le loro capacità, il principio di precauzione. In caso di
rischio di danno grave o irreversibile, l’assenza di certezza scientifica
assoluta non deve servire da pretesto per differire l’adozione di misure
adeguate ed effettive, anche in rapporto ai costi, dirette a prevenire il
degrado ambientale». Esso si affianca al tradizionale principio di
prevenzione. Quest’ultimo intende evitare alla fonte un danno ambientale
certo (di cui, cioè, si hanno prove scientifiche inoppugnabili) prima che si
verifichi. Il principio di precauzione è invece più avanzato e inverte l’ordine
della prova: chi lamenta il rischio non deve dimostrare che certe attività
danneggiano sicuramente l’ambiente (cioè, mediante prove scientifiche
certe), ma al contrario spetta all’autore delle attività rischiose mostrare che
esse sicuramente non causano danni irreversibili. Entrambi i principi di
precauzione e di prevenzione mirano a evitare gli interventi di correzione
successiva del danno. Il principio di precauzione è stato accolto nelle due
convenzioni stipulate a Rio nel 1992, la Convenzione sulla diversità
biologica e la Convenzione quadro sui cambiamenti climatici (vedi più
avanti).
Il Principio 16 concerne la c.d. internalizzazione dei costi ambientali:
«Le autorità nazionali dovranno adoprarsi a promuovere la
“internalizzazione” dei costi per la tutela ambientale e l’uso di strumenti
economici, considerando che, in linea di principio, è l’inquinatore a dover
sostenere il costo dell’inquinamento, tenendo nel debito conto l’interesse
pubblico e senza alterare il commercio e le finanze internazionali». Esso ha
l’obiettivo di interrompere la prassi degli Stati di considerare l’ambiente un
bene gratuito e di scaricare su altre fasce della società (contribuenti) e sulle
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generazioni future il costo dell’inquinamento. Rappresenta un’applicazione
del generale principio “chi inquina paga”.
Il Principio 17 ribadisce invece il concetto della valutazione di
impatto ambientale (VIA): «La valutazione d’impatto ambientale, come
strumento nazionale, sarà effettuata nel caso di attività proposte che siano
suscettibili di avere effetti negativi rilevanti sull’ambiente e dipendano dalla
decisione di un’autorità nazionale competente». La VIA era stata già
prevista e disciplinata in precedenza (es. Decisione UNEP n. 14/25 del
1987). Non indica una specifica procedura da seguire e quindi lascia ampia
discrezionalità agli Stati. Anche la VIA concorre a stabilire se determinate
attività comportano la violazione dell’obbligo di non inquinamento di altri
Stati. La procedura VIA viene disciplinata nella Convenzione di Espoo
sull’impatto ambientale (1991).
Altri Principi sottolineano gli obblighi degli Stati in caso di crisi
ambientali e inquinamento transfrontaliero, come il Principio 18 secondo
cui «Gli Stati notificheranno immediatamente agli altri Stati ogni catastrofe
naturale o ogni altra situazione di emergenza che sia suscettibile di produrre
effetti nocivi imprevisti sull’ambiente di tali Stati. La comunità
internazionale compirà ogni sforzo per aiutare gli Stati così colpiti». Il
dovere di notifica tiene in gran conto l’assenza di immediate informazioni
durante i primi giorni del disastro nucleare di Chernobyl del 26 aprile 1986,
a sèguito del quale era peraltro già stata predisposta una apposita
Convenzione di Vienna 1986 sulla notificazione rapida degli incidenti
nucleari. Il dovere di assistenza invece è debole in quanto si riferisce
genericamente alla comunità internazionale e non ai singoli Stati coinvolti.
Segue: le convenzioni ambientali globali di Rio 1992. Durante la
Conferenza di Rio sono state aperte alla firma la Convenzione quadro sui
cambiamenti climatici e la Convenzione sulla diversità biologica.
La Convenzione quadro sui cambiamenti climatici (CQCC) contiene
norme-quadro e obblighi di risultato, mentre le forme e i mezzi vengono
lasciati agli Stati parte. Essa fissa alcuni impegni generali in materia di
limitazione delle emissioni di CO2, principale gas a effetto-serra. La CQCC
attua il principio della responsabilità comune ma differenziata creando un
doppio regime giuridico. Il primo regime, per i Paesi industrializzati e
apparentati, comporta che questi Paesi debbano limitare le emissioni nocive
e proteggere le risorse, i processi e le attività che assorbono i gas-serra. Ai
PVS invece si applica un secondo regime, più blando, in quanto questi Paesi
contribuiscono meno alle emissioni dannose; essi tuttavia devono adottare
misure interne per mitigare i cambiamenti climatici.
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Le misure di attuazione della CQCC sono contenute nel Protocollo di
Kyoto del 1997, in cui i Paesi industrializzati si sono impegnati, nel periodo
2008-2012, per una riduzione delle emissioni totali di gas-serra di almeno il
5% rispetto ai livelli del 1990: pur se con una differenziazione tra Paesi UE
(8%), Stati Uniti (7%) e Giappone (6%), mentre Russia, Nuova Zelanda e
Ucraina hanno solo un obbligo di stabilizzazione e non di riduzione. Questi
Paesi devono inoltre predisporre progetti di protezione di boschi, foreste,
terreni agricoli che assorbono anidride carbonica. Il sistema prevede anche
la possibilità di servirsi di un sistema di meccanismi flessibili per
l’acquisizione di crediti di emissioni. Al contrario, i PVS non hanno
obblighi di riduzione o stabilizzazione. Il Protocollo di Kyoto è entrato in
vigore nel febbraio 2005 a sèguito della ratifica della Russia nel 2004,
mentre gli Stati Uniti non hanno ratificato. Il Protocollo è scaduto alla fine
del 2012 e, fino alla Conferenza di Durban del 2011, sono fallite tutte le
Conferenze convocate per compiere passi avanti.
La Convenzione sulla diversità biologica (CDB) si pone come
obiettivi la tutela della diversità biologica (o biodiversità), l’utilizzazione
durevole dei suoi elementi e l’equa ripartizione dei vantaggi derivanti dallo
sfruttamento delle risorse genetiche. Ogni Parte contraente si impegna a
cooperare con altre Parti contraenti per la conservazione e l’utilizzazione
durevole della diversità biologica. La CDB contempla anche la preparazione
e lo svolgimento di programmi di istruzione scientifica e tecnica e di
formazione soprattutto nei PVS; la promozione della ricerca che
contribuisce alla conservazione e all’utilizzazione durevole della diversità
biologica, in particolare nei PVS; lo scambio di informazioni concernenti la
conservazione e l’utilizzazione durevole della diversità biologica; il ruolo
delle comunità locali e delle popolazioni autoctone in materia di
conservazione della biodiversità (queste popolazioni vivono infatti in stretta
dipendenza e sulle loro risorse biologiche sono fondate le loro tradizioni).
La Conferenza di Johannesburg del 2003. Nel XXI secolo, la
questione ambientale è divenuta sempre meno prioritaria per gli Stati. Tra le
motivazioni di ciò si ricordano il peggioramento della situazione economica
internazionale (i Paesi industrializzati temono che obblighi ambientali più
stringenti comportino un costo aggiuntivo per le loro imprese, mentre i PVS
guardano con diffidenza a impegni giuridici ambientali idonei a limitare il
loro sviluppo economico) e la difficoltà a fornire risposte adeguate alle
esigenze ambientali in chiave di sviluppo sostenibile. La Conferenza di
Johannesburg (26 agosto – 4 settembre 2003) ha costituito l’occasione per
fare una verifica a dieci anni di distanza da Rio. La Conferenza ha adottato
una Dichiarazione sullo sviluppo sostenibile, più generica di quella adottata
a Rio e non idonea a sviluppare ulteriormente i Principi in materia
ambientale. In essa vengono riaffermati i pilastri interdipendenti dello
sviluppo sostenibile (sviluppo economico, sviluppo sociale e protezione
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ambientale) e si esprime la volontà di raggiungere gli obiettivi fondamentali
dello sradicamento della povertà, del cambiamento dei modelli di consumo
e produzione insostenibili e della protezione e gestione delle risorse naturali.
Vi è poi un Piano d’azione sullo sviluppo sostenibile articolato in 10
capitoli che si occupano di riproporre e attualizzare i programmi di Agenda
21. Nonostante ciò, la Conferenza di Johannesburg rappresenta un mancato
passo in avanti, se non proprio un passo indietro. Essa infatti prende atto del
profondo disaccordo tra Stati sulle principali tematiche ambientali: ad es.
non raggiunge un accordo vincolante sull’incremento delle fonti di energia
rinnovabili, mentre gli impegni sull’acqua potabile sono minimi e rinviati
nel tempo.
La Conferenza di Durban del 2011. La Conferenza di Durban sui
cambiamenti climatici si è svolta in Sudafrica dal 27 novembre all’11
dicembre 2011. La situazione all’apertura della Conferenza vedeva il
Protocollo di Kyoto del 1997 in scadenza alla fine del 2012 senza che nelle
due precedenti Conferenze di Copenaghen del 2009 e Cancùn del 2010
fosse stata raggiunta una qualche intesa. Le opzioni sul tavolo a Durban
erano prorogare il Protocollo, predisporre un nuovo strumento con obblighi
più stringenti oppure lasciar perdere tutto. Il Canada (per via del petrolio da
estrarre dalla sabbia bituminosa), il Giappone (per via della tragedia di
Fukushima, che ha imposto il ritorno ai combustibili fossili) e la Russia non
intendevano firmare un impegno per il periodo a partire dal 2013; gli Stati
Uniti non avevano mai sottoscritto Kyoto; i Paesi di nuova
industrializzazione (dal 2008 responsabili della maggior parte delle
emissioni-serra) continuavano a ribadire il principio delle “responsabilità
comuni ma differenziate” per sottrarsi a impegni vincolanti; la Cina invece,
per via del forte inquinamento, stava assumendo una posizione sempre più
orientata alle tecnologie verdi. A causa dei veti incrociati, ci si aspettava un
fallimento. Alla fine è stata invece raggiunta un’intesa, seppur scadenzata
per tappe.
Segue: contenuto dell’intesa di Durban. In virtù dell’intesa di
Durban, dal 2013 è partita una seconda fase degli impegni di Kyoto, aventi
lo scopo di prorogare il Protocollo dal 2013 al 2020. A questa seconda fase
però aderiscono solo l’Europa e una parte dei Paesi industrializzati, mentre
Canada, Russia e Giappone hanno rifiutato e gli Stati Uniti continuano a
rimanere fuori; si segnala invece la partecipazione delle nuove economie
come Cina, Brasile e India. Entro il 2015, si giungerà a definire uno
strumento giuridico (“un protocollo, uno strumento legale o una soluzione
concertata avente forza di legge”) applicabile a tutte le Parti della CQCC:
quindi, non solo agli Stati ratificanti il Protocollo di Kyoto. Il processo è
stato definito Piattaforma d’azione di Durban e i lavori sono condotti da un
gruppo di lavoro che ha iniziato a operare dal 2012. Il nuovo strumento
giuridico avrà il compito di aumentare i livelli di riduzione delle emissioni
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di gas serra. Su richiesta dell’Unione europea e dell’Alleanza dei piccoli
Stati insulari (AOSIS), i delegati di Durban hanno concordato di avviare un
piano di lavoro per identificare le opzioni per colmare il divario tra
l’impegno di riduzione delle emissioni per il 2020 e l’obiettivo di mantenere
il riscaldamento globale sotto i 2 gradi. Tuttavia, non si è riusciti a estendere
gli impegni di riduzione delle emissioni contenuti nei precedenti documenti
di Copenaghen nel 2009 e di Cancun nel 2010. Il nuovo strumento dovrebbe
essere adottato nell’ambito della Conferenza di Parigi, convocata per
dicembre 2015, e poi diventare esecutivo dal 2020. Si è deciso inoltre di
rendere operativo un Fondo verde da 100 miliardi di dollari l’anno per
aiutare i Paesi più poveri a sostenere il salto tecnologico necessario ad
abbattere le emissioni-serra.
Verso il vertice di Parigi 2015. A vent’anni dalla Conferenza di Rio
del 1992, l’Assemblea generale dell’ONU ha convocato la Conferenza sullo
sviluppo sostenibile, nota come Rio+20, con l’obiettivo di rinnovare
l’impegno politico per lo sviluppo sostenibile verificando lo stato di
attuazione degli impegni internazionali assunti negli ultimi due decenni. La
conferenza, tenutasi dal 20 al 22 giugno 2012, si è concentrata soprattutto
sui temi della c.d. green economy, intesa come strumento atto a scongiurare
le minacce globali connesse all’inquinamento ambientale e a promuovere un
benessere sociale ed economico, nonché sul sistema di governance globale
per lo sviluppo sostenibile. Il vertice si è concluso con l’approvazione di un
documento di 53 pagine intitolato Il futuro che vogliamo, che contiene un
piano per aiutare un miliardo di persone a uscire dalla povertà e per curare
la biosfera. Nonostante ciò, gli impegni assunti sono stati ritenuti troppo
vaghi e fragili da molti governi e organizzazioni non governative.
Dal 26 novembre all’8 dicembre dello stesso anno si è tenuta a Doha
la Conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico. Durante il
vertice è stato stabilito un piano di lavoro nel quadro delle decisioni prese a
Durban al fine di elaborare, per tappe, il nuovo accordo globale vincolante
sul clima da adottare nel 2015 in occasione della Conferenza di Parigi. La
Conferenza di Doha è stata essenziale per le sorti del Protocollo di Kyoto, i
cui impegni, ratificati sinora da 193 Stati, sono stati infatti prorogati fino al
2020.
Ulteriore tappa verso il vertice di Parigi 2015 è stata la Conferenza di
Varsavia sui cambiamenti climatici, svoltasi dall’11 al 26 novembre 2013 e
i cui esiti sono tuttavia poco rilevanti a causa dello scontro sulle scadenze
entro cui Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo dovrebbero ridurre i
gas a effetto serra. Gli unici negoziati climatici che in tale sede si sono
conclusi con successo sono stati quelli relativi alla riduzione delle emissioni
da deforestazione (Warsaw Redd+Framework for Action).
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Infine, il 23 settembre 2014 ha avuto luogo a New York il Vertice
straordinario sul clima, promosso dal Segretario generale dell’ONU Ban Ki
Moon per dare nuovo impulso ai negoziati sul clima in vista di Parigi 2015.
2. Evoluzione, obiettivi e princìpi ambientali nell’Unione europea
Il diritto dell’ambiente negli Stati membri dell’Unione europea
presenta ormai, nel complesso, una sostanziale uniformità derivante dalla
normativa UE. Da questo punto di vista, mentre il diritto internazionale
ambientale è formato per la sua gran parte da principi e norme
programmatiche, non vincolanti, e che quindi non impongono obblighi
diretti per gli Stati, il diritto UE dell’ambiente invece recepisce le norme
internazionali rilevanti e le rende vincolanti per i suoi Stati membri.
Il diritto ambientale UE può essere definito come l’insieme delle
norme sia primarie (Trattati) sia secondarie (atti) che disciplinano l’azione
dell’Unione europea in materia ambientale.
Giova sottolineare che tale diritto, pur dotato di una certa specificità in
ragione della materia trattata, non rappresenta un ordinamento a sé stante
rispetto al più generale diritto UE, ma si colloca nel più ampio spettro di
obiettivi cui tende l’Unione europea.
Evoluzione storica. Nella fase precedente l’Atto Unico Europeo
(AUE), le questioni ambientali nell’allora Comunità europea avevano un
ruolo piuttosto limitato. La Politica comunitaria di carattere generale,
inaugurata col Vertice di Parigi del 1972, aveva prodotto il Primo
Programma di Azione per l’ambiente (1973), che aveva il “limitato”
obiettivo di evitare che i diversi sistemi nazionali in materia di protezione
dell’ambiente fossero idonei a falsare la concorrenza nel mercato comune. Il
Programma non era vincolante, ma la sua importanza consisteva nella
aderenza ai Principi della Dichiarazione di Stoccolma del 1972.
La politica ambientale viene per la prima volta disciplinata a livello di
diritto primario nell’AUE del 1986. L’ambiente viene espressamente
menzionato nell’art. 100A TCE (ora art. 114 TFUE sul mercato interno) e
viene introdotto un nuovo Titolo VII dedicato all’ambiente (artt. 130R, 130
S e 130T, ora artt. 191-193 TFUE). Tuttavia la protezione dell’ambiente non
è ancora inclusa formalmente tra gli obiettivi della Comunità.
Con il Trattato di Maastricht del 1992 veniva introdotto all’art. 2 TCE
l’obiettivo di assicurare una crescita sostenibile che rispettasse l’ambiente;
12
veniva previsto il principio di precauzione accanto a quello di prevenzione;
e si riconosceva la necessità di coordinare l’azione comunitaria a tutela
dell’ambiente con quella a livello globale.
Con il Trattato di Amsterdam del 1997 veniva inserito tra gli obiettivi
dell’art. 2 TCE un vero e proprio riferimento alla tutela dell’ambiente: «La
Comunità ha il compito di promuovere […] un elevato livello di protezione
dell’ambiente ed il miglioramento della qualità di quest’ultimo». A sua
volta, l’art. 6 TCE affermava che «Le esigenze connesse con la tutela
dell’ambiente devono essere integrate nella definizione e nell’attuazione
delle politiche e azioni comunitarie di cui all’articolo 3, in particolare nella
prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile».
Il Trattato di Nizza del 2001 non contiene invece modifiche di rilievo.
Nel c.d. Trattato costituzionale del 2004, mai entrato in vigore, si hanno
alcune innovazioni. Lo sviluppo sostenibile, basato tra l’altro sul
miglioramento della qualità dell’ambiente, è compreso tra gli obiettivi
dell’Unione (art. I-3, par. 3), come anche la sua promozione a livello
globale (art. I-3, par. 4): esso diventa peraltro una materia di competenza
concorrente (art. I-13). Inoltre, nel Preambolo della Carta dei Diritti
Fondamentali dell’Unione, l’UE dichiara di promuovere uno sviluppo
equilibrato e sostenibile; viene inoltre espressa la necessità di integrare la
protezione dell’ambiente nelle politiche dell’Unione (art. II-37). Infine,
nella Parte III, dedicata alle politiche ed al funzionamento dell’Unione, gli
artt. III-129, III-130 e III-131 sono in linea di principio identici ai precedenti
artt. 174-176 TCE.
Il principio-obiettivo dello sviluppo sostenibile nella riforma di
Lisbona. Quello dello sviluppo sostenibile è considerato ormai, a sèguito di
tutte le modifiche introdotte nei Trattati, un principio-obiettivo dell’Unione
europea. Secondo l’art. 3, par. 3 TUE (obiettivi intra-UE), «L’Unione […]
si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato […] su un elevato
livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente». Nello
stesso senso l’art. 3, par. 5 TUE (obiettivi extra-UE) secondo cui «Nelle
relazioni con il resto del mondo l’Unione […] contribuisce […] allo
sviluppo sostenibile della Terra». Lo sviluppo sostenibile deve essere tenuto
presente nella generale azione esterna dell’Unione: l’art. 21, par. 2, lett. f)
TUE ribadisce infatti che «L’Unione definisce e attua politiche comuni e
azioni e opera per assicurare un elevato livello di cooperazione in tutti i
settori delle relazioni internazionali al fine di […] contribuire
all’elaborazione di misure internazionali volte a preservare e migliorare la
qualità dell’ambiente e la gestione sostenibile delle risorse naturali
mondiali, al fine di assicurare lo sviluppo sostenibile». Ciò posto, bisogna
comunque sottolineare che il principio-obiettivo dello sviluppo sostenibile
nella politica ambientale UE tiene conto principalmente dell’equilibrio
13
attuale tra sviluppo economico e protezione dell’ambiente, mentre sembra
meno pressante sembra l’esigenza di salvaguardare gli interessi delle
generazioni future.
Gli altri obiettivi della politica ambientale UE. Secondo l’art. 191,
par. 1 TFUE, «La politica dell’Unione in materia ambientale contribuisce a
perseguire i seguenti obiettivi: salvaguardia, tutela e miglioramento della
qualità dell’ambiente; protezione della salute umana; utilizzazione accorta e
razionale delle risorse naturali; promozione sul piano internazionale di
misure destinate a risolvere i problemi dell’ambiente a livello regionale o
mondiale e, in particolare, a combattere i cambiamenti climatici.
Segue: salvaguardia, tutela e miglioramento della qualità
dell’ambiente. La nozione di ambiente non viene definita nei Trattati. Il
termine va inteso pertanto nel senso più ampio possibile, secondo quanto
evidenziato in una Dichiarazione del Consiglio europeo del giugno 1990:
l’ambiente comprende in particolare la qualità dell’aria, dei fiumi, dei laghi,
delle acque costiere e marine, la qualità del cibo e dell’acqua potabile, la
lotta all’erosione del suolo, la conservazione degli habitat, della flora, della
fauna e del paesaggio. Da notare che il perseguimento di questo obiettivo ha
condotto l’UE a adottare atti con efficacia anche al di fuori del territorio UE.
Si pensi ad es. all’importazione ed esportazione di determinati prodotti
nocivi; alla sorveglianza dei rifiuti provenienti dall’esterno o diretti verso
l’esterno; alla protezione di fauna e flora selvatiche mediante il controllo del
loro commercio.
Segue: protezione della salute umana. Qui basta sottolineare che le
misure ambientali a tutela della salute devono essere coordinate con le altre
misure a tutela della salute basate sul principio dell’azione preventiva
(prevenzione delle malattie ed eliminazione delle fonti di pericolo).
Segue: utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali.
Attraverso questo terzo obiettivo, il diritto ambientale dell’Unione europea
condivide i medesimi obiettivi della Dichiarazione di Stoccolma del 1972 e
della Carta mondiale della natura del 1982. In particolare, utilizzazione
accorta e razionale significa uso sostenibile delle risorse, che l’UE ha
concretizzato soprattutto con la politica a favore delle aree protette.
Segue: lotta globale ai problemi dell’ambiente, soprattutto ai
cambiamenti climatici. L’Unione europea è l’unica “potenza” ad aver
cercato di ridurre con un certo successo le emissioni di gas-serra in base al
Protocollo di Kyoto. Questo quarto obiettivo ha una chiara valenza sul piano
esterno: implica infatti un impegno delle istituzioni UE e degli Stati membri
ad agire sullo scenario internazionale dando priorità e importanza
soprattutto al tema dei cambiamenti climatici. Ma riveste anche una qualche
14
valenza interna, espressa in alcuni atti quali il VI Programma d’Azione in
materia ambientale (2001), modificato dal VII Programma d’Azione in
materia ambientale (2013); i due Programmi europei per il cambiamento
climatico (2000 e 2005); due Comunicazioni della Commissione del 2007;
una serie di direttive finalizzate all’istituzione di sistemi di scambio di quote
di emissioni di gas-serra all’interno dell’UE (direttive 2003/87/CE,
2003/101/CE e 2009/29/CE); la decisione 406/2009/CE concernente gli
sforzi degli Stati membri per ridurre le emissioni dei gas a effetto serra al
fine di adempiere agli impegni UE in materia di riduzione delle emissioni di
gas a effetto serra entro il 2020; il regolamento UE 911/2010 relativo al
programma europeo di monitoraggio della terra (GMES) e alla sua fase
iniziale di operatività (2011-2013).
Segue: il sistema di scambio delle quote di emissione. La principale
misura adottata dall’UE in attuazione del Protocollo di Kyoto è
rappresentata dal Sistema di scambio di quote di emissione (European
Union Emissions Trading Scheme EU ETS). In base a tale sistema,
introdotto dalla direttiva 2003/87/CE, dal 1° gennaio 2005 gli impianti
termoelettrici ed industriali grandi emissori dell’UE possono funzionare
esclusivamente previa autorizzazione alle emissioni di gas serra. Gli
impianti autorizzati devono compensare ogni anno le proprie emissioni con
quote che possono essere acquistate (nell’àmbito di aste pubbliche europee
o sul mercato) e vendute. L’obiettivo perseguito dal sistema è quello di
ridurre del 20% le emissioni rispetto ai livelli del 1990 entro il 2020. A tal
fine l’UE stabilisce il quantitativo totale delle quote in circolazione nel
sistema. Peraltro, durante la Conferenza di Doha del 2012, l’Unione ha
confermato il proprio impegno a partecipare alla seconda fase del Protocollo
di Kyoto, contemplando in tale sede la possibilità di elevare la percentuale
di riduzione delle emissioni di gas serra dal 20% al 30%.
Gli altri princìpi della politica ambientale UE. Ai sensi dell’art.
191, par. 2 TFUE, «La politica dell’Unione in materia ambientale mira a un
elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle
varie regioni dell’Unione. Essa è fondata sui principi della precauzione e
dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla
fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio «chi inquina
paga». La norma si limita a una semplice enunciazione dei principi senza
definirli né riempirli di contenuto. Di ciò se ne sono occupate invece, seppur
parzialmente, la dottrina e soprattutto la giurisprudenza della Corte di
giustizia dell’Unione europea. Da notare che l’ordine dei principi non è
cronologico (da quello introdotto per primo fino ad arrivare al più recente)
bensì gerarchico (dal più “forte” al più “debole”). I due principi di
prevenzione e precauzione sono infatti regole di natura preventiva, in grado
di essere più efficaci rispetto agli altri due, di natura al contrario successiva
e risarcitoria: viene quindi anche simbolicamente data preferenza alla tutela
15
di carattere preventivo. Questi quattro principi riflettono tre diversi modelli
di tutela dell’ambiente: 1) il curative model è basato sull’intervento
successivo al verificarsi del danno ambientale e ha carattere meramente
risarcitorio (ne fanno parte il principio di correzione, in via prioritaria alla
fonte, dei danni causati all’ambiente e quello “chi inquina paga”); 2) il
preventive model è invece basato sull’intervento preventivo, che si verifica
solo in presenza di dati scientifici certi sul nesso causale tra rischio e danno
previsto (ne è espressione il principio dell’azione preventiva); 3)
l’anticipatory model, infine, è il più moderno e avanzato, ed è basato
sull’intervento preventivo in presenza di rischi solo potenziali benché
plausibili (principio di precauzione).
Segue: il principio di precauzione. È stato introdotto nel sistema UE
con il Trattato di Maastricht del 1992, anche in ragione del suo
contemporaneo inserimento nella Dichiarazione di Rio del 1992 (Principio
15). Esso viene meglio definito nella Comunicazione della Commissione del
2000 sul principio di precauzione. Secondo questa Comunicazione, il
ricorso al principio di precauzione dovrebbe avvenire unicamente in
un’ipotesi di rischio potenziale anche se questo rischio non può essere
interamente dimostrato, o la sua portata quantificata o i suoi effetti
determinati per l’insufficienza o il carattere non concludente dei dati
scientifici. Però il rischio pur incerto deve essere sufficientemente
documentato sulla base di dati scientifici noti, esaustivi ed affidabili: difatti,
il principio di precauzione si propone di evitare i rischi potenziali (sulla base
di dati scientifici noti, esaustivi ed affidabili, benché non assolutamente
certi) ma non quelli meramente eventuali (fondati su ipotesi scientifiche
neanche sufficientemente provate oppure, addirittura, solo su vaghi timori).
Dal punto di vista operativo, sono gli Stati membri a decidere quando
utilizzare misure basate sul principio di precauzione, ma questa
discrezionalità non è assoluta. Le misure devono infatti essere proporzionate
rispetto al livello prescelto di protezione (non devono cioè andare oltre
quanto strettamente necessario per evitare il rischio ambientale); non
discriminatorie nella loro applicazione; coerenti con eventuali misure
analoghe già adottate; basate su un esame dei potenziali vantaggi e oneri
dell’azione o dell’inazione (compresa, ove ciò sia possibile e adeguato,
un’analisi economica costi/benefici); soggette a revisione alla luce dei nuovi
dati scientifici; in grado di attribuire la responsabilità per la produzione
delle prove scientifiche necessarie per una più completa valutazione del
rischio (ad es. i Paesi UE che impongono il requisito della previa
approvazione dei prodotti considerati a priori pericolosi devono prevedere
l’inversione dell’onere della prova: tali prodotti verranno cioè considerati
pericolosi almeno sino a quando gli operatori economici non abbiano
compiuto le ricerche necessarie per dimostrare che sono sicuri).
16
La Corte di giustizia ha spesso esaminato le misure nazionali di
precauzione soprattutto alla luce del criterio di proporzionalità, fermo
restando che il controllo del giudice sovranazionale si limita a un controllo
sulla mancanza di errori manifesti, sull’assenza di sviamento di potere e sul
rispetto dei limiti del potere discrezionale da parte delle autorità. Ad
esempio, nel caso Mucca pazza (1997) il divieto precauzionale disposto
dalla Commissione di esportazione dal Regno Unito le carni bovine
sospettate di aver contratto il morbo della BSE (encefalopatia spongiforme)
è stato ritenuto proporzionato alla necessità di tutelare la salute pubblica. In
altri casi, invece, la Corte ha sanzionato misure nazionali solo
apparentemente motivate da ragioni di precauzione e che invece
perseguivano interessi protezionistici. Come si vede, oggi come oggi il
principio di precauzione nell’Unione europea investe settori non solamente
ambientali (soprattutto quello alimentare anche alla luce della disciplina del
commercio degli OGM).
Segue: il principio dell’azione preventiva. Le misure adottate in
base al principio di prevenzione sono di natura anticipatoria come quelle
basate sulla precauzione. Tuttavia, nel caso che ci interessa il rischio che
presuppone la misura deve essere sufficientemente provato e, pertanto, la
misura preventiva si deve basare sulla certezza scientifica del verificarsi di
un evento dannoso. Qui il danno è certo e imminente, mentre nella
precauzione il danno è solo incerto e potenziale, ancorché probabile. Il
principio di prevenzione ha ricevuto applicazione soprattutto
nell’accertamento preventivo connesso con la disciplina di valutazione di
impatto ambientale (VIA).
Segue: il principio di correzione, in via prioritaria alla fonte, dei
danni causati all’ambiente. È stato introdotto con l’Atto Unico Europeo
del 1986. Questo principio è diretto a evitare che un danno ambientale, già
prodottosi, possa amplificarsi. È espressione di una tutela successiva al
verificarsi del danno, e impone che quest’ultimo sia arginato il più possibile
vicino alla sua fonte di produzione. Per la sua applicazione rilevano i
principi di sussidiarietà e di prossimità: ad es. nel settore dei rifiuti la Corte
di giustizia ha detto che spetta a ciascuna regione, comune o altra entità
locale adottare le misure adeguate al fine di garantire l’accoglimento, il
trattamento e lo smaltimento dei propri rifiuti, in quanto devono essere
smaltiti quanto più possibile nel luogo di produzione.
Segue: il principio “chi inquina paga”. Era previsto già nel Primo
Programma d’Azione del 1973. È un principio di natura economica che ha
l’obiettivo di addebitare ai responsabili i costi delle misure dirette a evitare
(se imminenti) o a riparare (se successive) il danno ambientale. Ha una
chiara funzione dissuasiva delle violazioni delle norme ambientali. Da
questo punto di vista, il principio “chi inquina paga” ha una duplice
17
declinazione quale criterio di efficienza economica (il costo sociale del
danno ambientale, per la parte monetizzabile, grava direttamente sui suoi
responsabili) e criterio di responsabilità civile (riconosce il diritto al
risarcimento del danno derivante dall’attività inquinante). C’è da dire
tuttavia che il criterio di efficienza economica è quello prevalente
nell’ambito della legislazione dell’Unione, mentre quello di responsabilità
civile riceve meno attenzione. Il principio è stato attuato con la direttiva
2004/35/CE sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e
riparazione del danno ambientale. I danni ambientali sono definiti come
danni, diretti o indiretti, arrecati all’ambiente acquatico; danni, diretti o
indiretti, arrecati alle specie e agli habitat naturali; contaminazione, diretta o
indiretta, dei terreni che crea un rischio significativo per la salute umana.
Sono sottoposte obbligatoriamente al regime di responsabilità le attività
definite nell’Allegato III della direttiva (e cioè le attività agricole; industriali
sottoposte ad autorizzazione ambientale; che comportano il rilascio di
sostanze nocive nell’aria e nelle acque; relative alla gestione dei rifiuti, alla
produzione di sostanze chimiche pericolose o OGM).
3. Evoluzione storica della disciplina UE sugli OGM.
La regolamentazione giuridica del rilascio di OGM nell’ambiente
deriva dalla ormai diffusa opinione per cui essi non sono intrinsecamente
pericolosi ma che, prima di commercializzarli, se ne deve valutare caso per
caso la sicurezza per l’ambiente, la salute umana e la salute animale. Simile
necessità è storicamente derivata dalle prime sperimentazioni
dell’ingegneria genetica nel settore farmaceutico e agricolo. L’applicazione
delle tecniche di modificazione biotecnologica, infatti, portava con sé
considerazioni meta-scientifiche (economiche, politiche, etiche e
giuridiche). Nel 1986 l’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo
sviluppo economico) pubblicava un rapporto sulla sicurezza dell’impiego
del DNA ricombinante. Vi si evidenziava che la valutazione dei rischi
derivanti dall’impiego degli OGM si era sviluppata soprattutto negli
impieghi industriali (e meno in quelli ambientali o agricoli). Questo
rapporto ha rappresentato il punto di partenza per le regolamentazioni in
materia di rilascio di OGM.
Nella prima metà degli anni ‘80 vengono alla luce una serie di
normative nazionali che regolavano il fenomeno con soluzioni differenti tra
di loro. Per questo motivo, nel novembre 1986 la Commissione europea
predispone una Comunicazione al Consiglio dal titolo Un quadro
comunitario per la regolamentazione della biotecnologia. Vi si adottava un
approccio più restrittivo di quello richiesto dalle industrie del settore
biotecnologico e dagli Stati membri più interessati. La Comunicazione del
18
1986 ha rappresentato la base per una disciplina comunitaria sull’impiego
dell’ingegneria genetica a fini scientifici e commerciali che riguardava sia
l’impiego confinato dei microrganismi geneticamente modificati (MGM) sia
l’emissione nell’ambiente e l’immissione in commercio degli OGM.
Nel 1990 vengono quindi adottate due direttive: la direttiva
90/219/CEE sull’impiego confinato di microrganismi geneticamente
modificati (che è stata sostituita dalla direttiva 2009/41/CE sull’impiego
confinato di microrganismi geneticamente modificati); e la direttiva
90/220/CEE sull’emissione deliberata nell’ambiente di organismi
geneticamente modificati (successivamente sostituita dalla direttiva
2001/18/CE sull’emissione deliberata nell’ambiente di organismi
geneticamente modificati). La direttiva 2001/18 è stata poi parzialmente
modificata per venire incontro agli specifici problemi dell’alimentazione
umana e animale dal regolamento 1829/2003 relativo agli alimenti e ai
mangimi geneticamente modificati e dal regolamento 1830/2003
concernente la tracciabilità e l’etichettatura di organismi geneticamente
modificati e la tracciabilità di alimenti e mangimi ottenuti da organismi
geneticamente modificati.
Segue: vantaggi e svantaggi dell’utilizzo degli OGM. Attualmente il
dibattito scientifico e politico relativo agli impieghi di OGM, soprattutto in
campo agroalimentare, è quanto mai vivace.
Gli aspetti ritenuti positivi dell’uso degli OGM nel settore
agroalimentare possono essere sintetizzati come segue. In primo luogo si
rileva che tali prodotti sarebbero sottoposti a controlli più rigorosi degli
alimenti convenzionali, dalla fase di produzione a quella dell’immissione in
commercio, risultando più sicuri di questi ultimi. Inoltre, utilizzando gli
OGM si ridurrebbe l’uso di pesticidi chimici dannosi per l’organismo
umano, e dunque il loro uso potrebbe rivelarsi funzionale alla tutela dei
prodotti tipici da parassiti e malattie virali e così alla salvaguardia del made
in Italy. Ulteriore aspetto positivo consisterebbe nel contributo dato dall’uso
degli OGM in agricoltura alla conservazione della biodiversità:
emblematico è il caso della Papaya Rainbow, modificata geneticamente per
resistere a un virus che, alla fine degli anni ’90, ne comprometteva la
sopravvivenza commerciale nello Stato delle Hawaii. Infine, gli OGM
potrebbero contribuire a risolvere problemi di malnutrizione di intere
popolazioni: si pensi, ad es., alla qualità di riso golden rice, progettato al
fine di sopperire alla carenza di vitamina A, causa di morte per 2,5 milioni
di bambini all’anno.
D’altro canto, in campo agroalimentare vengono evidenzianti anche taluni
rischi per la salute umana e animale. Il timore principale riguarda
l’insorgere di allergie e patologie tumorali, sebbene attualmente non vi
19
siano univoci studi scientifici in materia. Un altro rischio sarebbe quello di
creare popolazioni di agenti patogeni resistenti ai pesticidi a causa di un
eccessivo uso di antiparassitari, cosa che porterebbe a un impoverimento
della biodiversità per via di fenomeni di trasferimento genico orizzantale.
Tali preoccupazioni non riguardano solo i consumatori (a tal proposito, si
noti che il 66% dei cittadini europei è scettico sull’uso di OGM nel settore
agroalimentare) ma anche gli agricoltori e i singoli Stati. I primi sarebbero
preoccupati dalla possibile diminuizione dei consumi dei loro prodotti per
effetto di previsioni allarmistiche su eventuali contaminazioni genetiche; i
secondi sarebbero invece interessati a preservare un’economia agricola
basata sul consumo e l’esportazione dei prodotti tipici.
4. L’impiego confinato di microrganismi geneticamente modificati
(MGM).
La direttiva 2009/41 ha l’obiettivo di far sì che gli Stati UE adottino
tutte le misure necessarie per impedire che l’impiego confinato di MGM
determini conseguenze negative sulla salute umana e sull’ambiente. Ciò
perché gli sviluppi in campo biomedico (genomica, neuroscienze, oncologia
molecolare, ecc.) e l’innovazione tecnologica (diagnostica medica,
biotecnologie, informatica sanitaria, ecc.) indirizzano sempre più la
sperimentazione e le sue applicazioni terapeutiche verso l’utilizzo dei
MGM.
Definizioni. Per microorganismo geneticamente modificato si intende
un microrganismo il cui materiale genetico è stato modificato in un modo
non naturale mediante moltiplicazione e/o ricombinazione naturale. Per
impiego confinato ci si riferisce invece a ogni attività nella quale i
microrganismi sono modificati geneticamente o nella quale tali MGM sono
messi in coltura, conservati, trasportati, distrutti, smaltiti o altrimenti
utilizzati, e per la quale vengono usate misure specifiche di contenimento al
fine di limitare il contatto degli stessi con la popolazione e con l’ambiente e
per garantire a questi ultimi un livello elevato di sicurezza.
Valutazione degli impieghi, classificazione del rischio e misure di
contenimento. Ogni utilizzatore di MGM deve procedere a una valutazione
degli impieghi confinati di MGM. Questa valutazione si ottiene dalla
classificazione del rischio in quattro classi e le relative misure di
contenimento da applicare sono pertanto classificate in quattro livelli: la
classe 1 presuppone un rischio nullo o trascurabile; la classe 2 implica un
basso rischio; la classe 3 indica invece un rischio moderato; e infine la
classe 4 prevede un alto rischio. Qualora sussista un dubbio su quale classe
sia appropriata per l’impiego confinato proposto, devono applicarsi le
20
misure di protezione più rigorose (cioè della classe immediatamente
superiore), a meno che vi sia prova sufficiente che giustifichi l’applicazione
di misure meno rigorose. L’impiego confinato di MGM richiede una
verifica delle misure di contenimento e di protezione adottate per prevenire
la diffusione. Gli Stati membri devono designare l’autorità o le autorità
competenti che hanno il compito di esaminare la conformità delle notifiche;
l’accuratezza e la completezza delle informazioni fornite; la correttezza
della valutazione dei rischi e dell’attribuzione della classe di impiego
confinato; l’adeguatezza delle misure di contenimento e delle altre misure di
protezione, della gestione dei rifiuti e delle misure relative alle situazioni di
emergenza.
Procedura. Quanto alla procedura applicabile, esiste anzitutto una
regola di sicurezza per tutti i tipi di impiego. Quando si procede per la prima
volta in un determinato impianto a un impiego confinato, l’utilizzatore è
tenuto a sottoporre alle autorità competenti, prima di iniziare tale impiego,
una notifica contenente almeno una serie di informazioni relative
all’impianto (elencate nell’Allegato V della direttiva). Dopo la notifica
appena ricordata, gli impieghi di classe 1 (rischio nullo o trascurabile)
possono avere luogo senza ulteriori notifiche; tuttavia gli utilizzatori devono
redigere un verbale relativo a ciascuna valutazione e presentare tale verbale
alle competenti autorità a loro richiesta. Quanto alla classe 2 (rischio basso),
se si tratta di primo impiego in quell’impianto appena notificato, l’impiego
confinato può avere luogo, in assenza di indicazioni contrarie da parte
dell’autorità competente, 45 giorni dopo la presentazione della notifica; il
richiedente può comunque chiedere all’autorità competente una decisione
sulla concessione di un’autorizzazione formale, che deve essere presa entro
e non oltre 45 giorni dalla notifica. Se invece si tratta di successivi impieghi
di classe 2 in quell’impianto già notificato, e sono stati rispettati eventuali
obblighi previsti dall’autorizzazione formale, l’impiego confinato può aver
luogo subito dopo la notifica relativa a ogni successivo impiego. Per quanto
riguarda infine le classi 3 e 4, qualunque impiego confinato che comporta
un rischio moderato o alto non può aver luogo senza l’approvazione
dell’autorità competente, che essa ha l’obbligo di comunicare per iscritto.
Ciò posto, se si tratta di primo impiego di classe 3 o 4 in quell’impianto
appena notificato, la decisione scritta deve essere comunicata entro e non
oltre 90 giorni dalla presentazione della notifica; se invece si tratta di
successivi impieghi di classe 3 o 4 in quell’impianto già notificato e sono
stati rispettati eventuali obblighi previsti dall’autorizzazione formale, la
comunicazione deve avvenire entro e non oltre 45 giorni dalla presentazione
di ogni nuova notifica.
Piano di emergenza e procedura in caso di incidenti. Prima che un
impiego confinato abbia inizio, gli Stati membri devono assicurare che sia
elaborato un piano di emergenza per rispondere in modo efficace in caso di
21
incidente. Si intende per incidente ogni evento imprevisto che comporti una
diffusione significativa e non intenzionale di MGM nel corso del loro
impiego confinato e che possa presentare un pericolo, immediato o differito,
per la salute dell’uomo o per l’ambiente. Inoltre, le persone che potrebbero
essere coinvolte in un incidente devono essere informate su tutti gli aspetti
relativi alla loro sicurezza. In caso di incidente, l’utilizzatore deve informare
immediatamente l’autorità competente e fornire tutte le informazioni
necessarie a valutare le conseguenze e ad adottare le misure appropriate; dal
canto suo, lo Stato membro interessato deve informare la Commissione e
qualsiasi altro Stato membro che possa essere coinvolto nell’incidente. La
Commissione europea mantiene un registro degli incidenti, che contiene
un’analisi delle cause di tali incidenti, informazioni circa l’esperienza
acquisita nonché le misure adottate per evitare simili incidenti in futuro.
5. L’emissione deliberata nell’ambiente di organismi geneticamente
modificati (OGM) e la direttiva 2001/18/CE.
Introduzione. In base alla direttiva 90/220, nei primi anni erano stati
autorizzati al rilascio deliberato nell’ambiente 17 organismi diversi, tra cui
14 piante (varietà di mais, colza e soia). Inoltre, un certo numero di prodotti
derivati da OGM ma non contenenti OGM (in altre parole, ricavati da piante
geneticamente modificate ma non contenenti i semi modificati) erano entrati
nel mercato europeo a seguito di una procedura di autorizzazione
semplificata basata sul principio di sostanziale equivalenza: venivano
autorizzati in via semplificata tutti quei prodotti che non presentavano
alcuna differenza dal punto di vista nutrizionale, organolettico e
tossicologico rispetto ai rispettivi prodotti “convenzionali”. Tra il 1990 e il
1997, tuttavia, il crescente movimento anti-OGM rese sempre più
impopolari all’opinione pubblica gli alimenti transgenici.
Nel 1997 alcuni Stati membri rifiutarono l’autorizzazione all’uso di
OGM nei propri confini nazionali appellandosi alla “clausola di
salvaguardia” dell’art. 16 della direttiva 90/220. Questa clausola affermava
che «Se uno Stato membro ha un motivo valido di ritenere che un prodotto
che è stato opportunamente notificato e ha ricevuto un consenso scritto ai
sensi della presente direttiva costituisce un rischio per la salute umana o per
l’ambiente, esso può limitarne o proibirne provvisoriamente l’uso e/o la
vendita sul proprio territorio». L’art. 16 della direttiva 90/220 non
menzionava alcuna condizione particolare, la qual cosa aveva consentito
agli Stati di vietare le immissioni precedentemente autorizzate pur in
mancanza di nuove prove scientifiche relative alla loro pericolosità. A
seguito delle dichiarazioni anti-OGM di 12 degli allora 15 Stati membri, la
Commissione inoltre provvide a bloccare la procedura di autorizzazione dei
22
nuovi OGM. La c.d. moratoria “di fatto” è durata dal 1998 al 2004, quando
infine la Commissione ha autorizzato la commercializzazione (e di
conseguenza l’importazione) nel mercato europeo del mais dolce Bt11,
fresco o in scatola, sulla base dell’attestazione che esso non fosse nocivo per
la salute umana e per l’ambiente.
Nel periodo di vigenza, la moratoria di fatto ha comportato la reazione
dei principali partners commerciali dell’UE (soprattutto di Stati Uniti,
Canada e Argentina, che nel 2003 hanno proposto un ricorso agli organi di
risoluzione delle controversie dell’Organizzazione mondiale del commercio)
e una notevole riduzione delle attività di ricerca biotecnologica in Europa (le
prove sperimentali sono diminuite da alcune centinaia l’anno a poche
decine). Per tutti questi motivi, le istituzioni UE hanno deciso di avviare una
nuova fase legislativa che ha portato alla sostituzione della direttiva 90/220
con la nuova direttiva attualmente in vigore. La direttiva 2001/18 contiene
la più importante disciplina in materia di OGM nell’Unione europea. Essa è
suddivisa in quattro parti concernenti le disposizioni di carattere generale; le
emissioni nell’ambiente; le immissioni nel mercato; e le disposizioni finali.
Scopo della direttiva (art. 1). La direttiva, nel rispetto del principio
precauzionale, mira al ravvicinamento delle disposizioni legislative,
regolamentari e amministrative degli Stati membri e alla tutela della salute
umana e dell’ambiente quando si emettono deliberatamente nell’ambiente
OGM a scopo diverso dall’immissione in commercio all’interno dell’UE
oppure quando si immettono in commercio all’interno dell’UE OGM come
tali o contenuti in prodotti.
Definizioni (art. 2). Si intende per organismo qualsiasi entità
biologica capace di riprodursi o di trasferire materiale genetico. Per
organismo geneticamente modificato (OGM), invece, un organismo, diverso
da un essere umano, il cui materiale genetico è stato modificato in modo
diverso da quanto avviene in natura con l’accoppiamento e/o la
ricombinazione genetica naturale. L’emissione deliberata è poi qualsiasi
introduzione intenzionale nell’ambiente di un OGM o una combinazione di
OGM per la quale non vengono usate misure specifiche di confinamento, al
fine di limitare il contatto con la popolazione e con l’ambiente e per
garantire un livello elevato di sicurezza per questi ultimi (es.
sperimentazioni sul terreno oppure coltivazione di piante OGM).
L’immissione in commercio riguarda infine la messa a disposizione di terzi,
dietro compenso o gratuitamente. A tal proposito, però, non rappresentano
immissione in commercio le attività di impiego confinato di MGM (in
quanto sottoposte alla direttiva 2009/41); la messa a disposizione di OGM
(diversi dai MGM) per attività in cui si attuano misure rigorose e specifiche
di confinamento atte a limitare il contatto con la popolazione e con
l’ambiente e a garantire un livello elevato di sicurezza per questi ultimi
23
(questi impieghi però si dovrebbero basare sulle regole di sicurezza della
direttiva 2009/41); e la messa a disposizione di OGM da utilizzarsi
esclusivamente per emissioni deliberate nell’ambiente.
Esclusioni dall’applicazione della direttiva (art. 3). In generale, le
regole della direttiva 2001/18 non si applicano agli organismi ottenuti
attraverso la mutagenesi e la fusione cellulare (inclusa la fusione di
protoplasti) di cellule vegetali di organismi che possono scambiare
materiale genetico anche con metodi di riproduzione tradizionali. Stesso
discorso per le attività di trasporto di OGM per ferrovia, su strada, per vie
navigabili interne, per mare o per via aerea.
Obblighi generali degli Stati membri (art. 4). Nel rispetto del
principio di precauzione, gli Stati membri UE devono adottate tutte le
misure atte ad evitare effetti negativi sulla salute umana e sull’ambiente che
potrebbero derivare dall’emissione deliberata o dall’immissione in
commercio di OGM. In particolare, anzitutto possono consentire gli
impieghi solo degli OGM precedentemente autorizzati in base alle diverse
procedure della direttiva 2001/18. In secondo luogo, devono valutare caso
per caso (così come la Commissione, qualora chiamata in causa) gli effetti
negativi, sia diretti che indiretti, sulla salute umana e sull’ambiente,
eventualmente provocati dal trasferimento di un gene dall’OGM ad un altro
organismo: si deve soprattutto tener conto dell’impatto ambientale in
funzione del tipo di organismo introdotto e dell’ambiente ospite. Ancora, gli
Stati devono adoperarsi per eliminare entro la fine del 2008 gli OGM
contenenti marcatori di resistenza agli antibiotici a causa della loro
particolare pericolosità per la salute umana. Grande importanza ha l’obbligo
di designare apposite autorità competenti che hanno le principali
responsabilità a livello nazionale (esaminano le notifiche degli impieghi di
OGM; compiono ispezioni; adottano altre misure di controllo per garantire
l’osservanza della direttiva). Infine, devono assicurarsi che siano adottate
tutte le misure necessarie per fronteggiare eventuali emissioni o immissioni
di OGM non autorizzate.
Tracciabilità ed etichettatura degli OGM. Prima della direttiva
2001/18, la normativa UE si era occupata della sola etichettatura dei
prodotti contenenti OGM. La direttiva 2001/18 introduce invece obblighi
generali di etichettatura e tracciabilità per tutte le immissioni in commercio
di organismi transgenici. Quanto all’etichettatura, i prodotti contenenti o
costituiti da OGM devono indicare con chiarezza sull’etichetta la presenza
di un OGM (in particolare, sull’etichetta o nel documento che accompagna
il prodotto o altri prodotti contenenti OGM deve apparire la dicitura “questo
prodotto contiene organismi geneticamente modificati”). Per quanto
riguarda invece la tracciabilità, l’art. 4, par. 6 affermava genericamente che
gli Stati membri dovessero adottare misure volte a garantire la tracciabilità
24
in tutte le fasi dell’immissione in commercio di OGM autorizzati. Nel
timore che gli Stati membri godessero di eccessiva discrezionalità, l’UE ha
emanato soprattutto il regolamento 1830/2003 che ha abrogato l’art. 4, par.
6 della direttiva 2001/18.
Segue: la disciplina del regolamento 1830/2003. Questo
regolamento intende garantire la tracciabilità degli OGM lungo tutta la
catena alimentare, anche per quanto riguarda i prodotti trasformati nei quali
il processo di fabbricazione ha distrutto o alterato il DNA geneticamente
modificato (ad es. gli olii). Tutti i prodotti disciplinati dal regolamento sono
soggetti all’obbligo di etichettatura e di tracciabilità: da questo punto di
vista, il regolamento 1830/2003 si applica a tutti i prodotti contenenti o
consistenti in OGM nonché ai prodotti alimentari e ai mangimi ottenuti da
OGM ma non contenenti o consistenti in OGM. Per quanto riguarda i
prodotti contenenti o consistenti in OGM, le disposizioni sulla tracciabilità
obbligano tutti gli operatori della filiera a trasmettersi l’un l’altro per iscritto
specifiche informazioni concernenti l’indicazione che i prodotti sono OGM
o ne contengono e l’identificatore unico (tipo codice a barre) assegnato a tali
OGM (le informazioni devono essere conservate per 5 anni); quanto
all’etichettatura dei prodotti preconfezionati, sull’etichetta deve figurare
l’indicazione “Questo prodotto contiene organismi geneticamente
modificati” o “Questo prodotto contiene (nome dell’organismo)”; infine,
l’etichettatura dei prodotti non confezionati comporta per l’operatore
l’obbligo di trasmettere le pertinenti informazioni unitamente al prodotto
(es. documenti di accompagnamento). La disciplina per i prodotti alimentari
e ai mangimi ottenuti da OGM ma non contenenti o consistenti in OGM
comporta invece che, in ogni passaggio della catena distributiva, gli
operatori commerciali si debbano trasmettere una serie di informazioni
(quali l’indicazione di ogni ingrediente alimentare prodotto utilizzando
OGM e l’indicazione di ogni materia prima o additivo per alimenti per
animali prodotti utilizzando OGM); se non vi è un elenco di ingredienti, sul
prodotto si deve indicare che è stato elaborato utilizzando OGM; anche tali
informazioni devono essere conservate per 5 anni. L’importante questione
della presenza accidentale di OGM viene risolta stabilendo che, per i
prodotti contenenti tracce di OGM non eccedenti lo 0,9%, non si applicano
gli obblighi di tracciabilità ed etichettatura, purché tuttavia la loro presenza
sia involontaria e tecnicamente inevitabile.
OGM e principio di precauzione. Come si è già detto, il principio di
precauzione consente di sospendere un trattamento o la diffusione di un
prodotto se vi è un rischio per l’ambiente anche in assenza di dati scientifici
certi sulla pericolosità. Ci si trova in presenza di un’inversione dell’onere
della prova: per poter prendere una misura basata su questo principio, è
necessaria e sufficiente l’assenza di prove scientifiche sulla nonpericolosità. Il principio opera dunque come una specie di clausola di
25
salvaguardia, qualora non vi siano elementi certi sulla non-pericolosità di un
trattamento o prodotto. La direttiva 2001/18 si basa sul principio di
precauzione: secondo l’art. 1, gli obiettivi della direttiva devono essere
raggiunti «Nel rispetto del principio precauzionale»; stesso discorso per le
misure dell’art. 4, par. 1, da adottare «nel rispetto del principio
precauzionale». Peraltro, come si è già detto, il principio di precauzione
viene ribadito a livello di diritto primario nell’art. 191, par. 2 TFUE secondo
cui «La politica dell’Unione in materia ambientale […] è fondata sui
principi della precauzione […]».
Inoltre, i giudici UE hanno ribadito da tempo che il principio di
precauzione è principio generale di diritto UE che estende la sua efficacia in
ogni ambito in cui è possibile che vi siano danni per l’ambiente, compresi
gli OGM. Ad esempio, nel caso Mucca pazza (1997), la Corte di giustizia ha
affermato che «Si deve ammettere che, quando sussistono incertezze
riguardo all’esistenza o alla portata di rischi per la salute delle persone, le
istituzioni possono adottare misure protettive senza dover attendere che
siano esaurientemente dimostrate la realtà e la gravità di tali rischi. Questa
considerazione è corroborata dall’art. [191, par. 1, TFUE], secondo il quale
la protezione della salute umana rientra tra gli obiettivi della politica della
Comunità in materia ambientale. Il n. 2 del medesimo articolo dispone che
questa politica, che mira ad un elevato livello di tutela, è fondato
segnatamente sui principi della precauzione e dell’azione preventiva […]».
La già ricordata Comunicazione della Commissione del 2000 sul
principio di precauzione ha messo in luce requisiti ed elementi sui quali
basarsi per una valutazione del rischio alla luce del principio stesso.
Peraltro, nel caso Alpharma (2002) il Tribunale ha ricordato che, poiché la
Comunicazione contiene regole di condotta stabilite dalla Commissione,
quest’ultima è tenuta ad applicarle. Secondo il giudice UE, infatti, la
Comunicazione del 2000 può essere considerata come una codificazione
dello stato del diritto UE sul principio di precauzione e la Commissione non
può prendere decisioni di divieto non basate su dati scientifici noti, esaustivi
ed affidabili, benché non assolutamente certi: in altri termini, l’assenza di
qualsivoglia dato scientifico non consente provvedimenti precauzionali. Due
aspetti della Comunicazione devono essere presi in considerazione in
rapporto alla direttiva 2001/18. Anzitutto, si è già detto che vi deve essere
proporzionalità tra danno da scongiurare e misura adottata. In questo, la
direttiva 2001/18 sembra conforme: secondo l’art. 4, par. 3 «Gli Stati
membri e, ove opportuno, la Commissione assicurano che i potenziali effetti
negativi, sia diretti che indiretti, sulla salute umana e sull’ambiente,
eventualmente provocati dal trasferimento di un gene dall’OGM ad un altro
organismo, siano attentamente valutati caso per caso. Tale valutazione è
effettuata a norma dell’allegato II, tenendo conto dell’impatto ambientale in
funzione del tipo di organismo introdotto e dell’ambiente ospite». Così
26
anche il Tribunale nel caso Land Oberösterreich (2005), secondo cui il
principio di precauzione non autorizza una interdizione generalizzata di una
specifica immissione in commercio di OGM, in quanto ogni restrizione
deve essere esaminata individualmente e in base alla finalità dell’impiego.
In secondo luogo, con riguardo alla revisione delle misure precauzionali alla
luce di nuovi dati scientifici, la Comunicazione afferma che gli effetti di tali
misure sono necessariamente limitati nel tempo e cessano alla luce dei
nuovi dati scientifici che confermano o smentiscono definitivamente il
provvedimento di divieto di emissione o immissione. Anche in questo caso
la direttiva 2001/18 pare conforme, in quanto prevede piani di
monitoraggio, autorizzazioni a termine per le immissioni di OGM in
commercio e aggiornamento degli allegati tecnici.
OGM e principio della valutazione del rischio ambientale. La
direttiva 90/220 stabiliva l’obbligo per gli Stati membri di adottare le misure
idonee a prevenire gli eventuali effetti dannosi di un impiego di OGM ma
non specificava i criteri per la valutazione del rischio. La direttiva 2001/18
ha invece colmato la lacuna. Ai sensi dell’art. 4, par. 3, appena ricordato,
«Gli Stati membri e, ove opportuno, la Commissione assicurano che i
potenziali effetti negativi, sia diretti che indiretti, sulla salute umana e
sull’ambiente, eventualmente provocati dal trasferimento di un gene
dall’OGM ad un altro organismo, siano attentamente valutati caso per caso.
Tale valutazione è effettuata a norma dell’allegato II, tenendo conto
dell’impatto ambientale in funzione del tipo di organismo introdotto e
dell’ambiente ospite».
L’Allegato II contiene i principi per la valutazione del rischio
ambientale. L’obiettivo di una valutazione del rischio ambientale è, caso per
caso, quello di individuare e valutare gli effetti potenzialmente negativi
dell’OMG, sia diretti sia indiretti, immediati o differiti, sulla salute umana e
sull’ambiente, provocati dall’emissione deliberata o dall’immissione sul
mercato di OGM. La valutazione del rischio ambientale deve essere
effettuata al fine di determinare se è necessario procedere ad una gestione
del rischio e, in caso affermativo, reperire i metodi più appropriati da
impiegare. L’Allegato II contiene solo un elenco esemplificativo dei tipi di
effetti ritenuti dannosi in relazione a) agli OGM diversi dalle piante e b) alle
piante superiori geneticamente modificate (PSGM). L’unico divieto assoluto
è invece contenuto, come detto, nell’art. 4, par. 2 relativamente agli OGM
contenenti marcatori di resistenza agli antibiotici.
La procedura di autorizzazione per l’emissione deliberata
nell’ambiente per qualsiasi fine diverso dal commercio. La direttiva
2001/18 prevede diverse procedure di autorizzazione a seconda che si tratti
di emissione deliberata nell’ambiente (Parte B) o di immissione in
commercio (Parte C) di un OGM. Con riferimento all’emissione deliberata
27
per fini non commerciali, la Parte B contempla una procedura normale, una
procedura differenziata e una procedura sul trattamento delle modifiche e
delle nuove informazioni. La procedura normale (art. 6) prevede che
chiunque voglia effettuare un’emissione deliberata di un OGM
nell’ambiente debba presentare una notifica all’autorità nazionale. Questa
notifica deve contenere, tra l’altro, la valutazione del rischio ambientale e un
piano di monitoraggio e di controllo dell’OGM che si intende introdurre
nell’ambiente (il piano di monitoraggio deve seguire le indicazioni
contenute nell’Allegato VII, che hanno l’obiettivo di effettuare una
valutazione dei potenziali effetti a lungo termine derivanti dall’interazione
dell’OGM con altri organismi o con l’ambiente). Ricevuta la notifica,
l’autorità nazionale ne dà comunicazione alla Commissione e agli altri Stati
membri, con possibilità di presentare osservazioni. Entro 90 giorni dalla
notifica, l’autorità nazionale si pronuncia in forma scritta accogliendo o
respingendo la notifica. Il notificante, di conseguenza, può procedere
all’emissione solamente dopo l’autorizzazione scritta e rispettando tutte le
condizioni in essa precisate.
La procedura differenziata (art. 7) può essere invece utilizzata se si
dispone di sufficiente esperienza riguardo alle emissioni di taluni OGM in
determinati ecosistemi e se questi OGM soddisfano i criteri enunciati
nell’Allegato V. Infine, la procedura sul trattamento delle modifiche e delle
nuove informazioni (art. 8) viene utilizzata: 1) quando, dopo
l’autorizzazione scritta dell’autorità nazionale, si verifica una modifica o
variazione non intenzionale dell’emissione deliberata con possibili
conseguenze sui rischi per la salute umana e per l’ambiente; e 2) qualora si
rendano disponibili nuove informazioni sui rischi mentre l’autorità
nazionale sta esaminando la notifica o ha già rilasciato l’autorizzazione
scritta. In questi casi il notificante deve adottare le misure necessarie per la
tutela della salute umana e dell’ambiente, informare immediatamente
l’autorità nazionale e riesaminare le misure già proposte nella notifica. In
presenza di modifiche o nuove informazioni, inoltre, l’autorità nazionale
può imporre al notificante di modificare le modalità dell’emissione, di
sospenderla o di interromperla definitivamente informandone il pubblico.
L’immissione in commercio di OGM o di prodotti contenenti
OGM. La procedura di autorizzazione della direttiva 2001/18.
Attualmente, la disciplina sull’autorizzazione per l’immissione in
commercio di OGM è ripartita tra la Parte C della direttiva 2001/18
(procedure per i prodotti commercializzati a fini di coltivazione, come le
sementi) e il regolamento 1829/2003 (che contiene le procedure per gli
OGM relativi ad alimenti umani e mangimi animali). Quanto alla procedura
della Parte C della direttiva 2001/18, essa si compone di una fase nazionale
preponderante rispetto a quella sovranazionale.
28
Partendo dalla fase nazionale, chiunque voglia effettuare
un’immissione di OGM in commercio deve presentare una notifica
all’autorità nazionale. Ricevuta la notifica, quest’autorità elabora una
valutazione del rischio per l’ambiente della proposta di immissione: se la
valutazione è negativa, la notifica viene respinta già in questa fase; se invece
è positiva, si apre la fase sovranazionale. In questo caso, l’autorità nazionale
trasmette alla Commissione e alle altre autorità competenti la sintesi del
fascicolo di notifica e la relazione di valutazione del rischio per l’ambiente.
La Commissione può chiedere ulteriori informazioni, mentre le altre autorità
possono formulare obiezioni e chiedere ulteriori informazioni. In mancanza
di obiezioni da parte delle altre autorità, l’autorità nazionale che ha ricevuto
la notifica concede l’autorizzazione all’immissione in commercio. In caso di
obiezioni, invece, la Commissione e le autorità nazionali cercano di trovare
un accordo sull’immissione. Se le obiezioni vengono ritirate, l’autorità
nazionale procede all’autorizzazione. Se esse al contrario vengono
mantenute, la Commissione chiede il parere scientifico dell’Autorità
europea per la sicurezza alimentare (EFSA, e in particolare dell’apposito
Gruppo OGM): si noti che in questa procedura l’EFSA si limita a
concentrare la propria analisi soprattutto sui punti scientifici divergenti.
Qualora le obiezioni vengano mantenute anche dopo il parere
dell’EFSA, si apre la fase della procedura “comunitarizzata” per le
obiezioni. La Commissione ha 4 mesi per adottare un progetto di decisione,
che viene sottoposto all’approvazione, in primo grado, del Comitato
permanente per la catena alimentare e la salute degli animali (SCFCAH),
composto dai rappresentanti di tutti gli Stati membri UE. In mancanza di
accordo, si procede in appello davanti a un apposito Comitato d’appello,
anch’esso composto da rappresentanti degli Stati membri ma a un livello più
elevato. In caso di mancato raggiungimento della maggioranza qualificata in
seno ai due Comitati, la decisione finale sull’autorizzazione all’immissione
in commercio spetta tuttavia alla Commissione.
6. Segue: la particolare procedura per alimenti e mangimi predisposta
dal regolamento 1829/2003.
Il regolamento 1829/2003 ha l’obiettivo di far sì che alimenti e
mangimi geneticamente modificati siano autorizzati ai fini dell’immissione
sul mercato soltanto dopo una valutazione scientifica del più alto livello
possibile (da effettuarsi sotto la responsabilità dell’EFSA) dei rischi che essi
eventualmente presentino per la salute umana e animale o per l’ambiente.
Esso si divide in due sezioni rispettivamente dedicate agli alimenti e ai
mangimi. In proposito, giova sottolineare che uno degli elementi
maggiormente innovativi rispetto alle regolamentazioni precedenti è proprio
29
relativa ai mangimi, che fino a quel momento non erano in alcun modo
disciplinati né nella direttiva 2001/18 né altrove. Il regolamento 1829/2003
si applica al posto della direttiva 2001/18 in presenza di 1) OGM destinati
all’alimentazione umana o animale oppure OGM che possono essere
utilizzati come alimento o come materiale di base per la produzione di
alimenti o mangimi; 2) alimenti e ai mangimi contenenti o costituenti OGM;
3) alimenti o mangimi prodotti a partire da o che contengono ingredienti
prodotti a partire da OGM ma che non consistono o contengono OGM.
A differenza della direttiva 2001/18, la procedura di autorizzazione
del regolamento 1829/2003 è sostanzialmente centralizzata a livello UE, in
quanto la valutazione del rischio è condotta dall’EFSA (e non dall’autorità
nazionale) e il provvedimento di autorizzazione è sovranazionale e non
nazionale. La fase nazionale, abbastanza marginale, prevede che il
richiedente presenti la sua domanda per qualsiasi prodotto alimentare o
mangime contenente OGM all’autorità nazionale competente. Da notare che
si può presentare un’unica domanda per gli utilizzi alimentari e per la
coltivazione: la domanda così presentata assorbe quella della direttiva
2001/18; tuttavia, nel caso di utilizzazione anche per coltivazione si devono
rispettare anche le disposizioni della direttiva 2001/18 (ciò significa che
l’OGM che ha ottenuto un’autorizzazione può essere utilizzato sia
nell’alimentazione sia per la coltivazione o l’emissione deliberata
nell’ambiente). Alla domanda di autorizzazione va allegato un dossier che
riporti tutte le informazioni scientifiche disponibili al fine di consentire la
valutazione della sicurezza per la salute umana, animale e dell’ambiente.
L’autorità nazionale informa l’EFSA e le trasmette la domanda con le
eventuali informazioni supplementari fornite dal richiedente.
A questo punto si apre la fase sovranazionale, di gran lunga più
importante. L’EFSA, ricevuto l’incartamento, informa la Commissione e le
altre autorità nazionali; rende accessibile al pubblico una sintesi del dossier;
predispone un parere scientifico sull’autorizzazione conducendo una
valutazione del rischio ambientale; può chiedere all’autorità nazionale di
predisporre la propria valutazione del rischio ambientale (in caso di OGM
notificati per coltivazione ai sensi anche della direttiva 2001/18, la
valutazione nazionale deve essere chiesta); e trasmette il suo parere alla
Commissione, alle altre autorità nazionali e al richiedente (allegando una
relazione in cui descrive la sua valutazione dell’alimento e comunica i
motivi del parere e le informazioni su cui esso si basa, compresi i pareri
delle autorità competenti consultate). La Commissione europea, sulla base
del parere dell’EFSA, propone di accogliere o rifiutare la domanda. Il già
ricordato Comitato permanente per la catena alimentare e la salute degli
animali decide se concedere o meno l’autorizzazione. Se non vi si raggiunge
il consenso, la decisione viene rimandata in seconda istanza al Comitato
30
d’appello. In mancanza di consenso, la decisione finale spetta alla
Commissione.
7. Libera circolazione degli OGM, sistema di salvaguardia e coesistenza
tra colture tradizionali e colture OGM.
Libera circolazione degli OGM autorizzati. Una volta ottenuta
l’autorizzazione all’immissione in commercio, all’OGM o al prodotto che
consiste o lo contiene deve essere garantito il più ampio accesso al territorio
UE. Vige infatti la regola della libera circolazione di cui all’art. 22 della
direttiva 2001/18, secondo il quale «gli Stati membri non possono vietare,
limitare o impedire l’immissione in commercio di OGM, come tali o
contenuti in prodotti, conformi ai requisiti della presente direttiva».
Tuttavia, vi sono delle eccezioni a tale regola, contenute nei sistemi di
salvaguardia della direttiva 2001/18 e del regolamento 1829/2003.
Il sistema di salvaguardia della direttiva 2001/18. Ai sensi dell’art.
23 della direttiva 2001/18: «1. Qualora uno Stato membro, sulla base di
nuove o ulteriori informazioni divenute disponibili dopo la data
dell’autorizzazione e che riguardino la valutazione di rischi ambientali o una
nuova valutazione delle informazioni esistenti basata su nuove o
supplementari conoscenze scientifiche, abbia fondati motivi di ritenere che
un OGM come tale o contenuto in un prodotto debitamente notificato e
autorizzato per iscritto in base alla presente direttiva rappresenti un rischio
per la salute umana o l’ambiente, può temporaneamente limitarne o vietarne
l’uso o la vendita sul proprio territorio. Lo Stato membro provvede affinché,
in caso di grave rischio, siano attuate misure di emergenza, quali la
sospensione o la cessazione dell’immissione in commercio, e
l’informazione del pubblico. Lo Stato membro informa immediatamente la
Commissione e gli altri Stati membri circa le azioni adottate a norma del
presente articolo e motiva la propria decisione, fornendo un nuovo giudizio
sulla valutazione di rischi ambientali, indicando se e come le condizioni
poste dall’autorizzazione debbano essere modificate o l’autorizzazione
debba essere revocata e, se necessario, le nuove o ulteriori informazioni su
cui è basata la decisione».
A differenza dell’art. 16 della precedente direttiva 90/220, dunque, la
nuova clausola di salvaguardia non può essere utilizzata in maniera
assolutamente discrezionale ma solo in presenza di «nuove o ulteriori
informazioni divenute disponibili dopo la data dell’autorizzazione e che
riguardino la valutazione di rischi ambientali o una nuova valutazione delle
informazioni esistenti basata su nuove o supplementari conoscenze
scientifiche». Lo Stato membro continua tuttavia a godere di una
31
significativa discrezionalità in quanto 1) può prendere una misura di
salvaguardia di propria iniziativa e direttamente, senza previa notifica e
autorizzazione della Commissione; b) può anche decidere di non prendere la
misura di salvaguardia pur in presenza di «fondati motivi di ritenere che un
OGM come tale o contenuto in un prodotto debitamente notificato e
autorizzato per iscritto in base alla presente direttiva rappresenti un rischio
per la salute umana o l’ambiente». Lo Stato membro ha solo l’obbligo di
informare immediatamente la Commissione e gli altri Stati membri delle
misure intraprese, e deve inoltre indicare se e come le condizioni poste
dall’autorizzazione debbano essere modificate oppure l’autorizzazione
essere revocata. La decisione definitiva sulla modifica o sulla revoca
dell’autorizzazione viene presa attraverso lo stesso procedimento previsto
per il rilascio dell’autorizzazione, passando dunque per il Comitato
permanente per la catena alimentare e la salute degli animali,
eventualmente per il Comitato d’appello, o infine anche da una decisione
della Commissione.
Il sistema di salvaguardia del regolamento 1829/2003. Nel sistema
del regolamento 1829/2003, invece, gli Stati membri conservano poteri di
vigilanza sulle condizioni e restrizioni imposte dall’autorizzazione UE e
possono richiedere la modifica, sospensione o revoca di un’autorizzazione.
Tuttavia, il potere di adottare misure di salvaguardia è molto ridotto rispetto
alle corrispondenti previsioni della direttiva 2001/18. Secondo l’art. 34 del
regolamento, infatti, «Quando sia manifesto che prodotti autorizzati dal
presente regolamento o conformemente allo stesso possono comportare un
grave rischio per la salute umana, per la salute degli animali o per
l’ambiente ovvero qualora, alla luce di un parere [dell’EFSA], sorga la
necessità di sospendere o modificare urgentemente un’autorizzazione, sono
adottate misure conformemente alle procedure previste agli articoli 53 e 54
del regolamento (CE) n. 178/2002». Il regolamento 178/2002 è quello sulla
sicurezza alimentare: ciò significa che, a differenza del sistema della
direttiva 2001/18, gli Stati membri in questo caso non hanno poteri
unilaterali di restrizione o limitazione delle autorizzazioni emesse dalla
Commissione. Solo la Commissione può adottare misure di salvaguardia,
mentre gli Stati membri devono informare ufficialmente la Commissione
della necessità di adottare misure di salvaguardia e possono intervenire
autonomamente solo in caso di inerzia della Commissione (però tali misure,
una volta adottate, devono essere notificate immediatamente alla
Commissione e agli altri Stati membri).
Nel caso Monsanto SAS (2011), la Corte di giustizia si è espressa in
una causa avente ad oggetto le misure di salvaguardia francesi dirette a
sospendere la cessione e l’utilizzo di sementi di mais MON 810 e poi a
vietare la coltivazione delle medesime sementi. La Corte ha affermato che
uno Stato membro non può utilizzare la clausola di salvaguardia prevista
32
dalla direttiva 2001/18 al fine di adottare misure che sospendano e, in un
secondo momento, vietino provvisoriamente l’utilizzo o l’immissione in
commercio di un OGM autorizzato in base al regolamento 1829/2003. Nella
richiesta di misure alla Commissione, gli Stati membri devono dimostrare
l’urgenza e l’esistenza di un rischio manifesto per la salute umana, la salute
degli animali o l’ambiente. Inoltre, nonostante il loro carattere provvisorio e
preventivo, tali misure possono essere adottate solamente se fondate su una
valutazione dei rischi quanto più possibile completa tenuto conto delle
circostanze specifiche del caso di specie, che dimostrino che tali misure
sono necessarie.
Segue: la proposta di modifica della direttiva 2001/18. Negli ultimi
anni, un numero crescente di Stati ha varato provvedimenti atti a limitare la
coltivazione di OGM nel proprio territorio, invocando sempre più
frequentemente la clausola di salvaguardia dell’art. 23 direttiva 2001/18 o le
misure di emergenza dell’art. 34 regolamento 1829/2003. Ciò ha messo in
luce le lacune dell’attuale normativa, che non attribuisce agli Stati membri
la necessaria flessibilità per decidere se approvare o meno la coltivazione di
OGM nel proprio territorio.
Per rimediare a tale carenza, la Commissione europea ha avviato l’iter
di modifica della direttiva 2001/18 mediante la proposta di regolamento
COM(2010)375, che dovrebbe permettere agli Stati di limitare o vietare la
coltivazione di OGM, autorizzati a livello di Unione, in tutto il proprio
territorio o in parte di esso. Secondo il progetto di modifica, tuttavia, tali
misure devono essere 1) giustificate da ragioni diverse da quelle previste
nella valutazione dei rischi ambientale e sanitari; 2) conformi al TUE e al
TFUE, soprattutto in riferimento al principio di non discriminazione tra
prodotti nazionali e non nazionali; 3) conformi agli obblighi internazionali
dell’Unione nel quadro dell’Organizzazione Mondiale del Commercio.
In particolare, la proposta di regolamento COM(2010)375, se
approvata, aggiungerà alla direttiva n. 2001/18 l’art. 26-ter, che lascerebbe
un margine di valutazione più ampio agli Stati in tema di coltivazione di
OGM in base alle rispettive specificità: da un lato, si ridurrebbe il ricorso
“strumentale” alle misure di salvaguardia, mentre dall’altro si
ridimensionerebbe il carico di lavoro della Commissione e dell’EFSA. Tra i
possibili motivi per vietare o limitare gli OGM si annoverano ragioni
socioeconomiche, di destinazione specifica dei suoli, di assetto territoriale,
obiettivi della politica agricola e questioni di ordine pubblico. Gli Stati
intenzionati ad adottare tali misure dovranno comunicarle (assieme alle
relative motivazioni) alla Commissione e agli altri Stati membri un mese
prima della loro adozione, non a fini autorizzativi bensì meramente
informativi.
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Il testo della proposta del 2010 è all’ordine del giorno dei lavori del
Consiglio. In occasione del Consiglio dei ministri del 12 giugno 2014, i
Ministri dell’Ambiente dei 28 Stati membri hanno raggiunto l’accordo
politico sul testo.
La coesistenza tra colture tradizionali e OGM. L’utilizzo di OGM,
com’è ampiamente noto, è suscettibile di porre problemi particolari nel
settore agroalimentare con riferimento alla scelta tra prodotti derivanti da
colture tradizionali/biologiche e colture OGM. La raccomandazione della
Commissione 2003/556/CE mette in evidenza il principio della coesistenza
tra le diverse colture. Essa ha fissato orientamenti generali (pur se non
vincolanti) per definire regolamentazioni e prassi nazionali idonee a
garantire la coesistenza: in sostanza, contempla misure idonee a garantire la
possibilità di utilizzo degli OGM autorizzati per tutti quegli operatori
economici che lo desiderino. Il termine coesistenza indica per l’appunto la
«possibilità di scelta degli agricoltori tra colture convenzionali, organiche e
geneticamente modificate nel rispetto delle obbligazioni legali riguardanti
gli standards di purezza e di etichettatura».
In proposito, la direttiva 2001/18 lascia ampia discrezionalità agli
Stati membri. Secondo l’art. 26-bis, «1. Gli Stati membri possono adottare
tutte le misure opportune per evitare la presenza involontaria di OGM in
altri prodotti. 2. La Commissione raccoglie e coordina le informazioni
basate su studi condotti a livello comunitario e nazionale, osserva gli
sviluppi quanto alla coesistenza negli Stati membri e, sulla base delle
informazioni e delle osservazioni, sviluppa orientamenti sulla coesistenza di
colture geneticamente modificate, convenzionali e organiche». Si assiste
pertanto a una riespansione della competenza degli Stati membri e delle
autorità pubbliche locali o regionali, con possibilità di stabilire misure
specifiche di coesistenza. In particolare, agli Stati membri (e alle loro
articolazioni interne) spetta in base al principio di sussidiarietà il compito di
stabilire misure di dettaglio che impongano il divieto di coltura di OGM in
determinate aree, giustificato da caratteristiche intrinseche, morfologiche e
naturali delle medesime; stabilire misure di regolamentazione di
sconfinamento delle aree interessate dalla produzione OGM; introdurre
sistemi di responsabilità civile da danni conseguenti allo sconfinamento di
prodotti OGM. Alla Commissione spetta invece un limitato compito di
raccolta e coordinamento delle informazioni sulle misure nazionali esistenti;
e di produzione di indirizzi di soft law quali raccomandazioni e linee guida.
Alcuni Stati membri hanno introdotto normative nazionali
particolarmente restrittive che in alcuni casi giungono a dichiarare intere
zone di territorio libere da coltivazioni OGM. In Italia il sistema deriva dalla
legge n. 5/2005. Le Regioni devono introdurre specifici piani di coesistenza
delle diverse colture. La violazione dei piani di coesistenza regionali
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comporta apposite sanzioni amministrative e penali, e inoltre fino
all’adozione dei piani di coesistenza la legge ha introdotto un bando per le
colture transgeniche. Attualmente, anche a seguito di una sentenza della
Corte costituzionale del 2006, il quadro in Italia è questo: a) nessuna
Regione può vietare in linea di principio la coltivazione di OGM (ciò
contravverrebbe alla normativa UE); b) tuttavia l’imposizione di norme di
coesistenza più o meno rigide rende di fatto difficile l’instaurarsi di colture
OGM sul territorio. Peraltro, anche se attualmente non ci sono colture OGM
in Italia (se non a livello sperimentale), la gran parte dei mangimi utilizzati
negli allevamenti italiani (esclusi gli allevamenti biologici) è prodotta a
partire da soia e mais geneticamente modificati importati da Stati Uniti,
Canada e America Latina.
Segue: il problema della contaminazione accidentale. La Corte di
giustizia, nel caso Bablok (2011), ha trattato la questione delle conseguenze
della contaminazione accidentale. Il sig. Bablok, apicoltore amatoriale,
aveva fatto causa al Land Baviera perché nel 2005 nei suoi prodotti apistici
(posti a una distanza di 500 metri da terreni pubblici coltivati a mais OGM)
era stata riscontrata la presenza di polline di mais il cui DNA era
riconducibile al mais MON 810 e ad altre proteine transgeniche. Tuttavia il
polline di mais OGM aveva perso capacità di fecondazione. La Corte, da un
lato, ha affermato che non rientra più nella nozione di OGM una sostanza
quale il polline derivante da una varietà di mais geneticamente modificato,
la quale abbia perso la sua capacità riproduttiva e che sia priva di ogni
capacità di trasferire il materiale genetico da essa contenuto. Dall’altro,
però, ha ricordato che prodotti come il miele contenenti siffatto polline
costituiscono alimenti che contengono ingredienti prodotti a partire da
OGM ai sensi del regolamento 1829/2003. In altri termini, il polline di mais
non è un corpo estraneo né una semplice impurità rispetto al miele, bensì un
suo normale componente, e dev’essere effettivamente qualificato come
“ingrediente”. Se ciò è vero, il polline rientra nell’ambito di applicazione del
regolamento e dev’essere assoggettato al regime di autorizzazione da questo
previsto per poter essere immesso in commercio. Di conseguenza, anche il
miele contenente polline di mais prodotto a partire da OGM deve essere
soggetto alla procedura di autorizzazione del regolamento 1829/2003
nonostante la contaminazione accidentale.
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