carmina-n6 - LEGA BLOGGER LETTERARI
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CARMINA N.6 Carmina n.6 1 CARMINA N. 6 © 2008 Edizioni Il Foglio Supplemento di Poesia delle Edizioni Il Foglio Cadenza annuale Direttore responsabile Fabrizio Manini Edizioni Il Foglio Via U.Boccioni, 28 57025 Piombino (LI) Partecipazione gratuita e per invito Per informazioni www.ilfoglioletterario.it - http://www.historicaweb.com * * * * * Quelle vie mi sparsero e mi ricomposero aride presenze rubarono i miei occhi li ripresi dal cappello di un mendicante tra monetine aride di pietà tra parole tacitate nel deserto dell'anima quel gioco di incroci diventò viale mappa di te mi strappai le unghie sanguinai di sudore imparai a piangere per amarti così tanto… oggi Patrizia Garofalo Le mura si polverizzarono il roseto avrebbe rifiorito dove avevamo camminato capelli lunghi dolorosamente crespi… anche oggi I poeti struprano se stessi urlano anche quando tacciono Saranno condannati per empietà o scelleratezza? Patrizia Garofalo Carmina n.6 2 SOMMARIO CRITICA LETTERARIA PAG. 4 RECENSIONI PAG. 74 ANTOLOGIA POETICA PAG.116 Carmina n.6 3 CRITICA LETTERARIA Corrispondenze di Baudelaire Di Alberto Accorsi L’accostamento inconsueto tra Baudelaire e il filosofo tedesco G.W.F. Hegel, e la ricerca di eventuali corrispondenze non è che una delle possibili strategie per tentare un avvicinamento al complesso mondo del poeta. Anna Brzyski, in Retracing the Modernist Origins, ha stabilito dei parallelismi fra il pensiero estetico di Hegel e quello di Baudelaire che, verosimilmente, avrebbe potuto ispirarsi a quello del grande filosofo tedesco. Certamente alcuni tratti fondamentali come l’indipendenza dell’arte dal resto delle attività umane, il ruolo dell’intelligenza nella creazione dell’opera, impegno che va ben al di là dell’intuizione del genio postulata dai romantici, la concezione dialettica della bellezza e dell’arte, appaiono essere comuni. Baudelaire accenna alla sua visione dialettica in Il pittore della vita moderna del 1863. Per Baudelaire la natura duale dell’arte è l’inevitabile conseguenza della dualità della natura umana costituita da un’anima eterna e da un corpo mortale. A dire il vero il poeta stesso scrive di non voler dar peso a codesti “giochi di pensiero astratto” e nel saggio svolge una ricognizione dell’argomento, in termini “positivi”; la articola attraverso la descrizione di un artista ideale, il Signor G. L’Artista come “convalescente” e “fanciullo”, l’ispirazione come “congestione” sono metafore usate da Baudelaire per descrivere questo ideale signor G; pagine dense, ricche di stimoli e di esperienze vissute. D’altro canto ne Il mio cuore messo a nudo leggiamo “Ogni uomo, in ogni momento, ha in sè due postulazioni simultanee: una verso Dio, l’altra verso Satana” dove sembra che i giochi di pensiero astratto si siano in un certo senso incarnati in convinzioni profonde e sincere. Per Hegel, secondo Maria Pia Rosati, i contrari inespressi dividono Carmina n.6 4 la coscienza in due e provocano tormento e infelicità. La coscienza ha una sola possibilità: ridurre i contrari a contradditori. È necessario che si riesca ad approfondire l’esperienza di quelle che si vivono come opposizioni reali, oggettive, assumerle al proprio interno come opposizioni logiche. Se si riescono a vedere i contrari come termini di una contraddizione essi non restano più tali e si mostrano connessi (coincidentia oppositorum). Si ha pacificazione, cioè riconciliazione perfetta e guarigione, solo se si è passati attraverso gli stati della più completa lacerazione e del dolore infinito. Ed è, in fondo, proprio questa maturità mostrata da Baudelaire nel concepire la morte come possibilità concreta che invita l’esistenza a una sintesi più ricca di senso, che rende non del tutto bizzarro il tentativo di interpretazione che mi accingo a proporre. Esso si articola in due parti: 1) la rilettura di alcune poesie di Baudelaire alla luce del noto schema dialettico della triade; in esso Baudelaire figura come “vittima” dello schematismo hegeliano, esempio in carne e ossa del travaglio di una coscienza infelice, lacerata e comunque sempre aspirante a una sintesi pacificatrice; 2) l’interpetazione della sua lirica più famosa, Corrispondenze, sia alla luce di questo schema, sia servendoci di un accostamento, credo, inconsueto, agli interessi culturali di Baudelaire per gli oggetti e la cultura orientale. PARTE I Per sommi capi si tratterà di una: TESI, incentrata sul perseguimento, da parte del poeta, di un ideale aristocratico, focalizzata sulla costruzione di un modello, il Dandy, in cui trasparirà la credenza in una possibile perfezione disincarnata, un’aspirazione, in termini filosofici a divenire “essenza”, qualcosa di permanente. Ma la minaccia costituita da tutto ciò che il poeta considera natura si rivelerà soverchiante: nell’ANTITESI la natura, il corpo, la donna saranno vissuti come nemici, il poeta si renderà conto della propria “inessenzialità”, vittima di continue cadute nella sensualità, come espressione della caducità della natura. Ed infine si avrà una SINTESI in cui proprio nel lavoro artistico, il Carmina n.6 5 poeta saprà trovare la propria salvezza, una pacificazione possibile che trova nell’opera terrena della poesia frammenti dell’ideale di bellezza e di perfezione. Dunque LA TESI: Da “Il pittore della vita moderna”: ecco Il Dandy: l’uomo ricco, ozioso, un pò scettico, che non ha altra occupazione fuor che quella di correr dietro alla fortuna, l’uomo cresciuto nel lusso… che non ha altra professione fuor che l’eleganza… È una specie di culto di se stesso. Questi dandy… sono dei rappresentanti di ciò che vi ha di meglio nell’orgoglio umano. Da “Razzi”: ebbrezza religiosa delle grandi città. Panteismo. Io sono tutti; tutti sono me. Autoidolatria. Armonia poetica del carattere. Euritmia del carattere e delle facoltà. Aumentare tutte le facoltà. Conservare tutte le facoltà. Un culto (magia, stregoneria evocatrice). Da “Il mio cuore messo a nudo”: il dandy deve aspirare a essere sublime, tregua. Deve vivere e dormire davanti a uno specchio. Nella poesia Benedizione: «Sii benedetto, mio Dio, che concedi la sofferenza come un rimedio divino alle nostre vergogne e come l’essenza più pura ed efficace per preparare i forti a sante voluttà. So che tu tieni un posto al Poeta nelle file beate delle tue Legioni, e che tu l’inviti all’eterna festa di Troni, Virtù e Dominazioni. L’ANTITESI, ovvero i conti con la natura in cui la donna ha un ruolo centrale. Da il mio cuore messo a nudo: la donna è l’opposto del dandy. Dunque deve fare orrore. La donna è naturale, cioè abominevole. “Il gusto del piacere ci lega al presente. Il pensiero della nostra salvezza ci sospende all’avvenire. Colui che s’attacca al piacere, cioè al presente, mi dà l’idea d’un uomo che rotoli per una china, e che, tentando di aggrapparsi agli arbusti, li strappi e li trascini seco nella sua caduta”. La parte del piacere in atto: Profumo esotico. Quando, a occhi chiusi, una calda sera d’autunno, respiro il profumo del tuo seno ardente, vedo scorrere rive felici che abbagliano i fuochi di Carmina n.6 6 un sole monotono; una pigra isola in cui la natura esprime alberi bizzarri e frutti saporosi, uomini dal corpo snello e vigoroso e donne che meravigliano per la franchezza degli occhi. Guidato dal tuo profumo verso climi che incantano, vedo un porto pieno d’alberi e di vele ancora affaticati dall’onda marina, mentre il profumo dei verdi tamarindi che circola nell’aria e mi gonfia le narici, si mescola nella mia anima al canto dei marinai. Nella seconda parte di Corrispondenze: I profumi e i colori e i suoni si rispondono come echi lunghi che di lontano si confondono in unità profonda e tenebrosa, vasta come la notte ed il chiarore. Esistono profumi freschi come carni di bimbo, dolci come gli oboi, e verdi come praterie; e degli altri corrotti, ricchi e trionfanti, che hanno l’espansione propria alle infinite cose, come l’incenso, l’ambra, il muschio, il benzoino, e cantano dei sensi e dell’anima i lunghi rapimenti. Dove il profumo è sentito fin nelle più intime fibre come se, in effetti, possedesse le proprietà più inebrianti. Dopo il piacere lo scoramento. Spleen 78. Quando il cielo basso e greve pesa come un coperchio sullo spirito che geme in preda a lunghi affanni, e versa, abbracciando l’intero giro dell’orizzonte, una luce diurna più triste della notte; quando la terra è trasformata in umida prigione dove, come un pipistrello, la Speranza sbatte contro i muri con la sua timida ala picchiando la testa sui soffitti marcescenti; quando la pioggia, distendendo le sue immense strisce, imita le sbarre d’un grande carcere, e un popolo muto d’infami ragni tende le sue reti in fondo ai nostri cervelli, improvvisamente delle campane sbattono con furia e lanciano verso il cielo un urlo orrendo, simili a spiriti vaganti, senza patria, che si mettono a gemere, ostinati. E lunghi trasporti funebri, senza tamburi né bande, sfilano Carmina n.6 7 lentamente nella mia anima, vinta; la Speranza, piange; e l’atroce Angoscia, dispotica, pianta sul mio cranio chinato, il suo nero vessillo. In questa opera non c’è speranza, scrive Erich Auerbach. Il poeta ha dato “un’alta espressione stilistica all’angoscia paralizzante, al panico per l’inevitabile tragicità della nostra esistenza, al totale annichilimento cui questa terribile situazione conduce: impresa di una sincerità estrema, ma anche ostile alla vita. Baudelaire pretese e riuscì a dare forma poetica alla sua triste miseria; proprio il paralizzante e l’ignobile genera l’attività poetica”. È stato scritto da Thomas Stearn Eliot che la tematica principale di Baudelaire si trova tutta nel problema del peccato originale. In modo più articolato Erich Auerbach ha messo in rilievo le differenze importanti tra Baudelaire e la visione cristiana della vita. “La rappresentazione degradante della sensualità risponde a una tradizione cristiana sempre esistita. Era inevitabile che Baudelaire finisse in questo contesto, tanto più che egli era fieramente avverso all’illuminismo… Che figure e idee cristiano-medievali abbiano influito su di lui come già sui romantici è senza dubbio esatto ed è anche vero che Baudelaire ebbe la struttura interiore di un mistico che nei fenomeni andò in cerca del soprannaturale e trovò una seconda, soprannaturale sensualità, nemica della natura, artificiale, demoniaca. Nei confronti della tradizione cristiana però l’atteggiamento interiore de I Fiori del Male è inconciliabile: né grazia, né redenzione si affacciano nelle prospettive del poeta. Per quanto concerne il problema del rapporto con la natura si può dire che mentre la morale sessuale cristiana presenta l’oggetto della tentazione sessuale come caduco, non così è per Baudelaire; per lui è molto spesso oggetto di condanna solo la realtà corrotta. D’altra parte in Razzi vibrano accenti di sincera religiosità: “Fare il proprio dovere ogni giorno, e affidarsi per l’indomani a Dio”. Nella tradizione cristiana Il Cantico delle creature di San Francesco d’Assisi è certamente un testo esemplare. Al suo centro c’è il rapporto fra Dio, l’uomo e la natura che Francesco risolve insistendo sulla bonitas della natura, che dio ha creato per l’uomo: Altissimu, onnipotente bon Signore, Tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione. Carmina n.6 8 Ad Te solo, Altissimo, se konfano, et nullu homo ène dignu te mentovare. Laudato sie, mi’ Signore cum tucte le Tue creature, spetialmente messor lo frate Sole, lo qual è iorno, et allumini noi per lui. Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore: de Te, Altissimo, porta significatione. Laudato si’, mi Siignore, per sora Luna e le stelle: il celu l’ài formate clarite et pretiose et belle… Qui suggerisce Nicolò Pasero c’è una netta presa di posizione ideologica contro l’eresia catara che considerava la natura governata dal demonio. I catari rifiutano il battesimo con l’acqua in quanto elemento impuro perchè come tutti gli altri di crazione demoniaca. Francesco non si creerà una sua propria natura umanizzata, si accetterà creatura tra le creature. Per Francesco la Natura non è un polo negativo, non è nemica. Partecipa tutta intera alle lodi del Creatore. Ma nella stessa tradizione cristiana si possono trovare posizioni assai diverse, molto più tormentate e dialettiche: Dovrò abbracciare il corpo come un amico . (di Gregorio di Nazianzo) “Non conosco il modo con il quale io sia stato congiunto al corpo né come, allo stesso tempo, possa essere immagine di Dio e impastato di fango. Infatti, anche quando il corpo gode di una buona salute, tuttavia mi incalza e mi preme violentemente, provocandomi dolore. Io lo amo come un amico, ma lo odio come un nemico e un avversario... Come nemico il corpo è blando, come amico è insidioso. Com’è straordinaria questa unione e contraddizione!… Che mistero è mai questo?”… Infine LA SINTESI: la dialettica hegeliana, fondata sul principio di contraddizione, e non su quello di identità, consiste in tre momenti: 1) affermazione di un concetto “astratto e limitato” (tesi: Dandy); 2) negazione di questo e passaggio a un concetto opposto (antitesi-natura); 3) unificazione dei precedenti momenti in una sintesi comprensiva di entrambi. “L’Haufheben”: il superamento di un momento avviene in quanto esso è un momento e non è l’intero, e consiste nel vedere che Carmina n.6 9 questo momento ha la sua limitatezza e chiama l’altro da sé; così Baudelaire dopo la dura lotta contro “il momento” della natura nemica, nella poesia La morte degli artisti, arriva a descrivere il lavoro estenuante del poeta, e sarà proprio ciò a rappresentare la sua tanto agognata ancora di salvezza. Un altro esempio di tentativo di espressione di “superamento” si trova nella lirica Corrispondenze; dunque rileggiamone la prima parte: la Natura ove viventi pilastri a volte confuse parole mandano fuori; la attraversa l’uomo tra foreste di simboli dagli occhi familiari. I profumi e i colori e i suoni si rispondono come echi lunghi. che di lontano si confondono in unità profonda e tenebrosa, vasta come la notte ed il chiarore Ma anche nel Viaggio che chiude I Fiori del male possiamo intravedere la tematica della salvezza perseguita attraverso l’opera dell’uomo: ogni isolotto avvistato dall’uomo di guardia appare un Eldorado promesso dal Destino; l’immaginazione che architetta la sua orgia scopre un piatto (recif, scoglio) frangente alla luce del mattino… ma riuscirà l’operazione di ricreare (superare) la natura? “Le più ricche città, i paesaggi più grandiosi per noi non contenevano gli arcani sortilegi di quelli che compone con le nuvole il caso”. Sforzo immane e inutile dunque? In ogni caso si è creata poesia! È un vero e proprio inno al lavoro quello che Baudelaire insistentemente ci propone. Da Razzi: …più si lavora meglio si lavora e più si vuol lavorare. Più si produce, più si diventa fecondi. A ogni minuto, siamo schiacciati dall’idea e dalla sensazione del tempo. E non ci sono che due mezzi per sfuggire a questo incubo, per dimenticarlo: il piacere e il lavoro. Il piacere ci logora. Il lavoro ci fortifica. Scegliamo… Per guarire di tutto, della miseria, della malaria e della malinconia, non manca assolutamente che l’amore del lavoro. Carmina n.6 10 D’altra parte il lavoro richiama alla mente l’altra notissima figura hegeliana della Fenomenologia dello Spirito, quella della signoria e della servitù. È attraverso il lavoro che il servo si emancipa dalla sua condizione. Nel lavoro il servo dà forma alle cose, sottraendole allo stato in cui si trovano per natura; e tenendo a freno l’appetito viene educandosi a liberarsi dall’immediatezza degli impulsi. Questa educazione dell’uomo alla spiritualità, attraverso la repressione delle tendenze naturali, ha una tappa ulteriore nella figura della coscienza infelice. Si ha uno sdoppiamento della coscienza pensata come esseziale (il Dio trascendente) e un’altra, quella del credente che si considera inessenziale. PARTE II Il significato profondo di Corrispondenze. Corrispondenze non è solo l’ennesima, più o meno celebrale, esposizione della dottrina medievale dell’analogia universale; è piuttosto la testimonianza del travaglio complessivo del Poeta, dell’esperienza allucinatoria e della sua faticosa fuoriuscita attraverso il lavoro, nella fattispecie il lavoro poetico. La salvezza è tuttavia sempre in questione e può sembrare che sia ancora l’esperienza allucinatoria a conferire senso ai primi inquietanti versi. Riprendiamo in esame la prima parte di Corrispondenze dove Baudelaire accenna alla dottrina dell’analogia universale che del resto è stata da lui riproposta in varie occasioni. La dottrina dell’analogia universale Il Romanticismo ha sorgenti occulte che si spingono fino al neoplatonismo di Meister Eckhart nel XIII secolo, si avvalgono di Paracelso, di Jacob Boehme fino a Emanuele Swedenborg (1688-1772). Egli ha avuto rivelato da Dio stesso, apparsogli nel 1745, il segreto dell’uomo; per Swedenborg non solo Dio è nello spirito dell’uomo, ma l’universo intero, visibile e invisibile, si ritrova riprodotto nell’uomo: il Cielo non è che un grandissimo e divino uomo. Stabilito ciò, diventa facile spiegare, attraverso le scritture sotto la dettatura di Dio, i simboli, le corrispondenze fra il divino e l’umano. Con Corrispondenze abbiamo la prima, più possente e lucida apparizione della poesia simbolista; sui “misteri dell’analogia” scrive Baudelaire nel suo Carmina n.6 11 articolo su Victor Hugo; Swedenborg… ci aveva insegnato che il cielo è un uomo più grande; che tutto, forma, movimento, numero, colore, profumo, nello spirituale come nel naturale ha un significato, è reciproco, convergente, corrispondente. E il poeta non è altro che un traduttore, un decifratore. È stato scritto che dietro ad ogni dottrina c’è una esperienza. Così Jean Wahl a proposito del sistema di Hegel. Non sarà il caso, anche per Baudelaire di riprendere in considerazione questa convinzione? Cesare Brandi ne “Il sorriso di Buddha” ha scritto pagine memorabili sulla cultura e sulla sensibilità giapponese: “tutto il modo di concepire il giardino giapponese è un meraviglioso sotterfugio di sensibilità, di attenzione portata sulle cose a cui nessuno fa caso, di calcolo minuzioso come un rischio calcolato… Consiste nel forzare la natura a prendere certi aspetti come se li assumesse di sua spontanea volontà… Nel giardino giapponese non c’è un solo ramo che sia cresciuto come sarebbe piaciuto a lui, ma l’arte è così nascosta, quasi subdola, che può sembrare… Niente nei giardini giapponesi è causuale, la naturalezza con cui piante, pietre rocce sono disposte è il frutto di uno studio sofisticato e nasconde numerosi richiami simbolici. Ciascuna roccia è messa in qualche modo in relazione con le altre e il tipo di relazione è espresso dalla struttura della pietra, dalla sua forma e dal modo in cui è orientata. All’epoca di Baudelaire, Parigi fu al centro di una diffusa “Giappone-mania”. Uno dei luoghi di tendenza al tempo era il negozio di Madame Desoye operante dal 1862 al 1888; Edmond de Goncourt annotò a riguardo nel suo “Journal”: figura storica di questi tempi, questa donna; il suo negozio è stato il luogo, la scuola per così dire, dove si è elaborato il grande movimento giapponese che oggi si estende dalla pittura alla moda. All’inizio sono stati alcuni originali, come mio fratello e io, poi Baudelaire, poi Villot, poi Burty. Così può essere non del tutto scorretto far notare alcune corrispondenze tra l’atmosfera creata da taluni aspetti della spiritualità giapponese e quella che aleggia in alcuni versi di Baudelaire: Carmina n.6 12 Ne La morte degli artisti Quante mai volte dovrò scuotere i miei sonagli e baciare la tua fronte bassa, cupa caricatura? Per colpire il bersaglio mistico, quante frecce dovrò sprecare, o mia faretra? Consumeremo la nostra anima in sottili raggiri e demoliremo più d’una greve armatura prima di poter completare la grande Creatura della quale un infernale desiderio ci riempie di singhiozzi! V’è chi non ha mai conosciuto il suo Idolo… E agli scultori condannati, e segnati da un affronto, che si danno di martello sul petto e sulla fronte, non resta che una speranza, strano e oscuro Campidoglio: che la Morte, sospesa come un nuovo sole, faccia sbocciare i fiori del loro cervello. E nel Viaggio: La nostra anima è un tre-alberi che cerca la sua terra, l’Icaria; «Apri l’occhio» echeggia sul ponte… Dalla coffa una voce ardente e dissennata «Amore, gloria, felicità» va gridando. Dannazione, uno scoglio. Ogni isolotto avvistato dall’uomo di guardia è un Eldorado offerto dal Destino: ma l’Immaginazione, che subito s’abbandona ai suoi eccessi, non incontra che uno scoglio alla luce del mattino. O misero innamorato di paesi di fiaba! Bisognerà incatenarti e buttarti a mare, marinaio ubriaco, inventore di Americhe, il cui miraggio fa più amari gli abissi? Così il vagabondo, pesticciando nel fango, sogna, naso in aria, paradisi luminosi; e l’occhio ammaliato scopre una Capua dovunque una candela illumini un tugurio. Ed infine in Corrispondenze: È un tempio la Natura ove viventi pilastri a volte confuse parole mandano fuori; la attraversa l’uomo tra foreste di simboli dagli occhi familiari. I profumi e i colori e i suoni si rispondono come echi lunghi. che di lontano si confondono in unità profonda e tenebrosa. Anche la seconda parte di Corrispondenze andrà letta tenendo conto Carmina n.6 13 della vita del poeta e delle sue intense esperienze: Esistono profumi freschi come carni di bimbo, dolci come gli oboi, e verdi come praterie; e degli altri corrotti, ricchi e trionfanti, che hanno l’espansione propria alle infinite cose, come l’incenso, l’ambra, il muschio, il benzoino, e cantano dei sensi e dell’anima i lunghi rapimenti In questa seconda parte, dopo un accenno abbastanza sbrigativo alle corrispondenze, “echi lunghi” tra profumi, colori, suoni, la lirica si articola in versi che inneggiano alle magiche proprietà dei profumi. È in effetti il senso che più direttamente collega l’esterno al mondo interno quello che più lo attrae. Siamo nell’area olfattiva più grande del mondo ha scritto Patrick Suskind ne Il Profumo, a proposito di Parigi. Di nuovo leggiamo in Tutta intera … e un’armonia troppo squisitamente concertata governa il suo bel corpo perchè l’analisi impotente ne annoti i molteplici accordi. O metamorfosi mistica di tutti i miei sensi in uno! Il suo respiro crea la musica come la voce il profumo! Tutti noi sappiamo quanto possono essere evocativi i profumi: il ricordo di un avvenimento, di un’atmosfera, di un luogo o di una persona resta spesso legato a un particolare odore. L’olfatto è quindi il senso della memoria. Seguendo una scia odorosa si può viaggiare nel tempo, rievocando emozioni, sensazioni ed esperienze vissute in momenti e in luoghi lontani. E la memoria è, per Baudelaire, fondamentale per la creazione dell’opera d’arte, in quanto essa, come il poeta stesso ha scritto, ha anche un potere di trasformazione e libera l’artista dalla prigionia dei dettagli. Carmina n.6 14 In Corrispondenze, in definitiva, avremmo, nella prima parte, un’allusione all’opera poetica come natura rigenerata dal lavoro umano; nel secondo gruppo di versi ci verrebbe mostrata una delle sorgenti principali di una certa disposizione poetica, quello che tra i sensi è il più direttamente evocativo: l’olfatto. In sostanza, non potremmo considerare questa celeberrima poesia, come un epitome dell’intero processo creativo? Carmina n.6 15 FEDERICO GARCIA LORCA La guerra civile nella lirica dei paesaggi andalusi Di Fabrizio Manini Nella sua prima raccolta di versi Libro di poesie (1921) Lorca intende raccontare la propria gioventù e l’adolescenza utilizzando la tecnica delle favolette moralistiche che alternano bizzarria e eccentricità scanzonata, il tutto sotto le influenze del modernismo e di continui richiami all’opera del simbolista nicaraguense Rubén Darío. Tuttavia sono presenti anche la tematica andalusa e la musicalità tipiche di tutta la sua produzione, che si ritrovano in particolare in Canzoni (1927) e nel Poema del canto profondo (1931) che nell’idioma della sua terra sta a indicare il flamenco: nelle Canzoni, l’andalusismo del poeta si manifesta nel legame fra il mito della terra madre e il sentimento fortissimo della morte, nel Poema risalta la ritmicità di un canto intriso di cenni a un passato misterioso, strettamente connesso a tematiche e cadenze della cultura popolare, dalle filastrocche per bambini alla produzione gitana. Infatti è soprattutto in questo poema che si intravede il “gitanismo” di Lorca, che apparirà poi in tutta la sua potenza nel Primo romancero gitano. In una lirica dal titolo Canti nuovi (1920) Lorca scrive testualmente: ho sete di risate e di aromi; sete di canti rifulgenti e sereni, colmi di sogni e di pensieri. È questo un modo di scrivere che va diritto al cuore delle cose e si placa solo nella letizia dell’eterno. Queste poche righe stanno a significare che la poesia è comunque presente in tutte le cose, siano esse belle o brutte; ciò che fa la differenza è la capacità dell’osservatore di cogliere le emozioni, interpretandole diversamente a seconda della sensibilità della mente e del cuore. Per il poeta è importantissimo riuscire a scuotere dal torpore tutte le zone nascoste dell’anima, la quale deve saper vedere il bagliore dei sentimenti nelle forme che la circondano. Come si può ben capire l’ispirazione iniziale di Lorca era di natura prettamente romantica, ma in essa si compenetra un profondo bisogno di paesaggio e di natura che evochi gli episodi energici e le immagini vitali della calda terra di Spagna, dando loro una sfumatura quasi onirica e tendente al surrealismo. L’educazione iniziale che ha ricevuto il poeta nell’ambito familiare e scolastico prima, nei Carmina n.6 16 circoli culturali di Granada poi, si allarga necessariamente e rapidamente, dopo il suo trasferimento a Madrid, verso dimensioni più estese, fino a paragonarsi con i luoghi fondamentali dell’identità spagnola: Avila, Burgos, Santiago de Compostela e il monastero di Silos. Quando leggeva i propri testi Lorca era commovente e straordinario; notevoli capacità vocali e spiccata comunicatività, uniti ad una certa simpatia, obbligavano quasi ad arrendersi al suo fascino interpretativo; la creatività di cui era dotato appariva sempre naturale e spontanea, mai artificiosa o manierata. La sua poesia mette quasi di fronte ad un’essenza di assolutismo: è il suo duende (suggeritore notturno) che gli rivelava ciò che egli era capace di trasporre in un’immediatezza talvolta crudele (come nel celeberrimo Lamento per Ignazio Sánchez Mejías), ma pur sempre vicina alle radici dell’esistenza umana e dell’universo, in una prospettiva che illuminava se stesso e il mondo circostante. Lorca fece parte, con un ruolo quasi di leader, di quel gruppo di scrittori che in Spagna tennero banco fino al 1936, anno della rivoluzione franchista; i più noti furono Pedro Salinas, Jorge Guillén, Dámaso Alonso, Vicente Aleixandre, Rafael Alberti, Luis Cernuda, Léon Felipe, Miguel Hérnandez. Tutti questi autori, dispersi dalla politica franchista, si contrapposero sempre e decisamente al regime con i loro messaggi di libertà. Lorca, forse un po’ più degli altri, fu capace di descrivere in maniera quasi perfetta gli aspetti dell’andalusismo popolare, rappresentato dalla personale esperienza granadina, creando fin dall’inizio uno stretto legame con le radici della terra natia e contemporaneamente seguendo l’esperienza popolare del suo “vagabondare” per la Spagna. L’ispirazione di Lorca, da lirica e romantica, si volge verso il concreto dei fatti storici per poi spingersi alla ricerca di una visionarietà riconducibile a correnti artistiche come l’Espressionismo, il Surrealismo e il Dadaismo. Il profilo culturale e onirico-sognatore della realtà popolare è intriso di aspetti storici e sociali; probabilmente è per questo che le sue romanze erano lette davanti a tutti nei raduni repubblicani e nei circoli. Denunciato come omosessuale e come agente al servizio dei sovietici da un clericale di destra, Lorca è catturato il 16 agosto 1936 in casa del poeta Luis Rosales. La sua tragica morte, avvenuta per fucilazione ad opera della guardia civile, ha rappresentato e rappresenta tutt’oggi, anche fuori Carmina n.6 17 dalla Spagna, la condanna di un autore che con i suoi scritti si era schierato a fianco del popolo contro il clero e la destra fascista. Lorca nella sua breve vita scrisse anche opere teatrali: La casa di Bernarda Alba (che ha come sottotitolo Dramma di donne in terra di Spagna) e Donna Rosita nubile vengono considerate capolavori nel teatro spagnolo del Novecento; il tema di fondo è quello della femminilità frustrata che vive il conflitto fra la passione amorosa e sessuale (con ansia di maternità) e le convenzioni dell’onore nel senso della rispettabilità sociale. Le vicende hanno per sfondo paesaggi malinconici sprofondati in un’atmosfera indefinita che sembra attendere una catastrofe incombente e forse inevitabile. Questo mondo di passioni violente e talvolta incontrollabili vengono comunque riscattate da una poesia umana e civile che conferisce grandissima dignità all’esistenza delle protagoniste. Le poesie che vi propongo, nella traduzione di Lorenzo Blini, sono Il silenzio e Paesaggio, tratte entrambe dal Poema del canto profondo; sono due liriche poco note e soprattutto brevi che rispecchiano perfettamente i temi di fondo della raccolta: nella prima, in sei versi sciolti e liberi anche nell’originale versione in lingua spagnola, colpisce l’immediatezza estrema e la violenta brutalità dei due versi finali che esprimono senza mezzi termini (e senza uguali in poesia) il dolore eccessivo di un passato destinato a ripetersi; la seconda sintetizza l’essenza della terra andalusa e accenna velati riferimenti a trascorsi indefiniti che però ancora riguardano un presente incerto, tipico della cultura popolare gitana. Riferimenti: Federico Garcia Lorca, Poesie, Fabbri Editori. IL SILENZIO Ascolta, figlio mio, il silenzio. È un silenzio ondulato, un silenzio, dove scivolano valli ed echi e che inclina le fronti al suolo. Carmina n.6 18 PAESAGGIO Il campo di olivi si apre e si chiude come un ventaglio. Sull’oliveto un cielo sommerso e una oscura pioggia di stelle fredde. Trema giunco e penombra sulla riva del fiume. Si arriccia il vento grigio. Gli olivi sono carichi di grida. Carmina n.6 19 “And all their eyes are ice” Un incontro a un secolo di distanza Di Chiara Micheli Wilfred Owen, poeta inglese della corrente dei cosiddetti “georgiani”, rientra nella categoria dei poeti minori: non certo per il contenuto delle sue strofe ma per l’avvento di correnti letterarie più rilevanti al cambio di un’epoca, siccome storicamente situato tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900. Nacque nel marzo del 1893 in Inghilterra e nel 1915 si arruolò negli Artist Rifles, un corpo speciale dell’esercito Britannico. Considerato da molti come il poeta principale della Prima Guerra Mondiale, è conosciuto per la sua War Poetry sugli orrori della trincea. Owen morì in seguito ad un’azione militare il 4 novembre del 1918 durante l’attraversamento del canale di Sambre-Oise, una settima prima dell’armistizio. Non vide mai le sue opere pubblicate. La prima edizione, curata da S. Sassoon, è del 1922. Una sera di due anni fa Chiara Micheli l’ha “incontrato”, grazie ad una sua amica americana che le ha mostrato una lettera di Owen, scritta alla famiglia durante la guerra. E’ diventata così la prima italiana ad aver tradotto tutte le poesie dell’autore anche se, per una parte dei suoi scritti, esisteva già una versione italiana. «Ricordo che Owen è partito per la guerra nel ‘17 ed è morto l’anno dopo. In questo periodo ha scritto molto alla famiglia. Non ho letto le lettere come pubblicate ma direttamente gli autografi, oggi accessibili. C’è stato davvero un incontro, nonostante il divario temporale: è come se avessi conosciuto, o forse riconosciuto, una persona. Anche se nella realtà odierna non esiste più». In un primo momento Chiara aveva deciso di tradurre proprio le lettere, convinta che esistessero già versioni italiane complete delle opere di Owen. Ma dopo accurate ricerche si è resa conto che non ce n’erano «Owen viene ricordato solo per le sue poesie di guerra, che sono una quarantina, le uniche tradotte. Però lui ne ha scritte circa 130. Quando mi sono resa conto che nessuno aveva lavorato ad una traduzione della sua opera, ho deciso di incamminarmi in questa direzione, lasciando, per il momento perdere le lettere». Owen è un poeta di guerra decisamente pacifista. Ovviamente la guerra è il tema di molti suoi scritti perché vissuta in prima persona per un Carmina n.6 20 periodo fondamentale della sua vita, ma lo sguardo è di poca illusione. Pensiamo al suo difficile coraggio: se oggi è socialmente accettato essere pacifisti, allora voleva dire essere traditori della nazione e del tuo stesso popolo». Owen è un cantore fine e davvero particolare, innovativo e allo stesso tempo geniale, poiché artisticamente si avvale della pararima: una forma singolare di rima, ove combacia il suono della parola. Il lavoro del traduttore qui diventa arduo, riportare in italiano la stessa melodia dei suoni inglesi è praticamente impossibile: «In italiano non funziona la pararima e quindi la traduzione si è dimostrata subito difficoltosa. Owen appartiene ad un’epoca in cui la forma estetica della poesia ha un posto di rilievo e la sua particolare forma, purtroppo, non può essere riportata con assoluta fedeltà nella nostra lingua. Devo dire che ciò che più mi ha colpito è stato il contenuto dei suoi versi, allo stesso tempo teneri e terribili, colmi di pietas».. Un lavoro durato sei mesi per tradurre la prima parte ed altri cinque per la seconda. Ma Chiara ha continuato e se oggi possiamo leggere le opere di Owen lo dobbiamo a lei. Il risultato non è un classico libro ma un cd multimediale pieno di immagini. In seguito verrà pubblicata e presentata anche la versione cartacea. E questo perché Chiara non è solo una scrittrice ma anche un’artista. Fin da bambina si è occupata di grafica, è stata anche assistente dell’architetto americano Craig Ellwood riuscendo ad apprendere molte nozioni fondamentali delle principali tecniche artistiche: «La prima edizione è digitale, un PDF illustrato. Ho unito letteratura e arte figurativa ed è venuto fuori un prodotto nuovo, nella forma e nel contenuto. Owen scrisse in una delle sue lettere che avrebbe amato per le proprie poesie un’edizione elegante. Ovviamente per me il miglior mezzo, il più attuale per esprimere l’eleganza ricercata da Owen non poteva che essere il digitale. Qualsiasi forma editoriale diversa mi rimanda al passato e lui non desiderava questo; se non altro per l’estrema attualità delle sue poesie». Chiara si occupa anche di progettare e attuare laboratori di diffusione della scrittura sul territorio. Ad esempio, in collaborazione con la Biblioteca e il Comune di Pergine Valdarno, Chiara ha seguito e sviluppato “Scrivere è un Carmina n.6 21 viaggio…” che si è concluso con la raccolta in un libro di racconti brevi e poesie, “La dinamica dell’imperfezione”. «Questo laboratorio è durato due mesi, ed è stato seguito da una varietà notevole di persone. All’inizio c’erano molti dubbi sul risultato, ma quando si cerca di trasmettere la cultura, la conoscenza, penso basti trovare il mezzo gusto perché questa venga recepita nel migliore dei modi da chi ne ha veramente voglia, ne sente il bisogno. Quando metti in comune esperienza, capacità di esprimerti e volontà, si possono ottenere risultati incredibili. Più siamo misti e più il gruppo si amalgama, ai laboratori partecipano persone di tutte le età ed estrazioni sociali. Chi si credeva incapace di scrivere anche solo una riga scopre un lato del proprio essere che non conosceva». «Dare qualcosa alle persone, trasmettere conoscenza e nello stesso tempo allargare gli ambiti di possibilità di qualcuno è la più grande soddisfazione. All’inizio i laboratori rappresentavano per me una sorta di impegno marginale, adesso occupano metà del mio tempo. Le persone hanno bisogno di essere fruitrici “attive” del sapere e la nostra società non è molto propensa a permetterlo, accampando scuse assurde, non ultime quelle che siamo ormai tutti succubi della televisione. Ricordo durante una prima lezione di aver letto una poesia complessa, Devotion, di Arthur Rimbaud. Credevo che al laboratorio non sarebbe tornato nessuno, invece sono tornati tutti. Mi conforta che la bellezza e la verità arrivino comunque. E che non esistano i gradi della possibilità di conoscere. Non fa differenza se hai una laurea o sei quasi analfabeta, siamo ugualmente estremamente ricettivi. Adesso sto affrontando i Canti Orfici di Dino Campana: definitivamente uno dei più grandi poeti senza paura di questa nostra terra». Chiara ha anche un sito, www.diuominimortiesognatori.splinder.com, dove si occupa di letteratura legata al mondo della comunicazione e dei media, soprattutto cinema. Ecco alcune delle poesie tradotte di Wilfred Owen: All’aperto I nostri cervelli dolgono, nei venti orientali senza pietà che ci Carmina n.6 22 accoltellano… Esausti restiamo svegli perché la notte è silenziosa… Lampi bassi e curvi confondono la nostra memoria del saliente.. Preoccupate dal silenzio le sentinelle bisbigliano, curiose, nervose, E non accade niente. Guardinghi, sentiamo le raffiche folli strappare i fili spinati, Come agonie convulse di uomini tra i suoi rovi. Da nord, incessante, i tremolii dell’artiglieria brontolano, Lontano, come un rumore smorto di qualche altra guerra. Che ci facciamo qui? La miseria acuta dell’alba comincia ad aumentare… Sappiamo solo che la guerra dura, la pioggia bagna, e le nuvole si abbassano tempestose. L’alba che ammassa ad est il suo melanconico esercito Attacca ancora una volta in ranghi le schiere tremanti di grigio, E non accade niente. Stormi consecutivi di proiettili striano improvvisi il silenzio. Meno mortali dell’aria che rabbrividisce nera di neve, Con un fluire sghembo quello stormo cade a fiocchi, che si fermano, riprendono; Li guardiamo pellegrinare su e giù nel vento indifferente, E non accade niente. Fiocchi pallidi furtivi arrivano a palpare le nostre facce Ci accucciamo nei buchi, torniamo ai sogni dimenticati e fissiamo intenti, storditi dalla neve, Trincee più erbose. Così sonnecchiamo, assopiti dal sole, Sparpagliati coi fiori che stillano dove i merli si affannano. - Forse stiamo morendo? Carmina n.6 23 Lentamente i nostri fantasmi si trascinano a casa: intravedono i fuochi calare, Coperti di gioielli rosso cupo incrostati; i grilli cantilenano; Per ore i topi innocenti si rallegrano; la casa è loro; Porte e finestre, tutte chiuse: per noi le porte sono chiuse, Ritorniamo al nostro morire. Poiché crediamo che il fuoco non possa bruciare altrimenti; Neppure più il sole sorridere schietto a ragazzi, o campi, o frutti. Poiché per la primavera invincibile di Dio il nostro amore è impaurito; Dunque, pronti, giacciamo qui fuori; per questo siamo nati, Perché l’amore di Dio sembra morire. Stanotte, questo gelo legherà noi a questo fango, Avvizzendo molte mani, raggrinzendo molte fronti fresche. La squadra dei seppellitori, picconi e badili nelle loro strette tramanti, Si ferma su facce un poco conosciute. Tutti i loro occhi sono ghiaccio, E non accade niente. Exposure - March 1918 Antifona per la gioventù condannata Quali campane a lutto per questi che muoiono come bestiame? Solo la rabbia mostruosa dei cannoni. Solo il rapido crepitare di fucili balbettanti Può sgranare le loro affrettate orazioni. Non più scherzi per loro, né preghiere né campane, Nessuna voce di cordoglio eccetto i cori I cori striduli e dementi dei proiettili lamentosi; E trombe che li chiamano da tristi territori. Carmina n.6 24 Che candele tenere per spingerli tutti? Non nelle mani dei ragazzi, ma nei loro occhi Splenderanno i sacri barlumi degli addii. Il pallore di fronti di ragazze sarà il loro sudario; La tenerezza di menti pazienti i loro fiori, E ogni lento crepuscolo un chiudersi di tende. Anthem for Doomed Youth - September 1917 La parabola del vecchio e del giovane E Abramo si alzò, e raccolse la legna, e andò, E prese il fuoco con sé, e il coltello. E mentre soggiornavano insieme, Isacco il primo nato parlò e disse: Padre Mio, Va bene i preparativi, il fuoco e il ferro, Ma dov'è l'agnello per questo sacrificio? Allora Abramo legò il giovane con cinghie e cinture, E lì costruì parapetti e trincee, E brandì il coltello per sgozzare il figlio. Quand’ecco! un angelo apparve in cielo, e disse, Non stendere la mano sopra il ragazzo, Non fare alcun male a tuo figlio. Guarda, preso per le corna nel cespuglio c’è un capro; Offri invece il Capro dell’Orgoglio. Ma il vecchio non volle saperne, e sgozzò il figlio, E metà del seme d’Europa, uno per uno. The Parable of the Old Man and the Young - 1918 Carmina n.6 25 Insensibilità I Felici quelli che prima ancora d’esser uccisi Sanno far scorrere la freddezza nelle loro vene. Che nessuna compassione schernisce e fa i loro piedi Dolenti sui viali lastricati dai compagni. La linea del fronte avvizzisce. Ma sono truppe che svaniscono, non fiori, Per le sciocchezze lacrimose dei poeti: Uomini, vuoti da riempire: Perdite, che avrebbero potuto combattere Ancora; ma nessuno se ne cura. II E certi cessano persino di sentire Sé stessi o per sé stessi. L'ottusità risolve meglio I fastidi e i dubbi dei bombardamenti, E la strana aritmetica del Caso E’ più semplice del contare gli scellini. Non si tiene conto della decimazione negli eserciti. III Felici quelli che perdono l'immaginazione: Hanno abbastanza da portare con le munizioni. Il loro spirito non trascina zaini. Le vecchie ferite, al freddo, non fanno più male. Avendo visto tutto il rosso delle cose, I loro occhi sono salvi per sempre Dal dolore del colore del sangue. E finita la prima costrizione del terrore, I loro cuori restano rimpiccioliti. I loro sensi con qualche cocente cauterio di battaglia Carmina n.6 26 Ormai cicatrizzati, Possono ridere tra i morti, indifferenti. IV Felice la casa del soldato, senza nozione alcuna Di come da qualche parte, ogni alba, degli uomini attacchino E molti sospiri esalino. Felice il ragazzo che la sua mente non è stata mai educata: I suoi giorni meritano che li si dimentichi. Lui canta forte la marcia Che noi marciamo taciturni, a causa del crepuscolo, Il nostro lungo, disperato, implacabile andare Da giorni più grandi a notti più enormi. V Saggi noi, che con un pensiero imbrattiamo Il sangue sopra tutte le nostre anime, Come dovremmo vedere il nostro compito Se non attraverso i suoi occhi bruschi e senza ciglia? Vivo, non è molto vitale; Morente, non molto mortale; Né triste, né fiero, Per niente curioso. Non sa distinguere la sua placidità Da quella di un vecchio. VI Ma maledetti siano gli stupidi che nessun cannone scalfisce, Potrebbero essere delle pietre. Miserabili sono, e malvagi Con una pochezza che non fu mai semplicità. Hanno scelto di farsi immuni Alla pietà e a tutto ciò che nell’uomo geme Davanti all’ultimo mare e alle sventurate stelle; Carmina n.6 27 A tutto ciò che piange quando molti lasciano queste spiagge; A tutto ciò che condivide L’eterna reciprocità del pianto. Insensibility - March 1918 Addormentato Sotto l’elmetto, appoggiato allo zaino, Dopo così tanti giorni di lavoro e veglia, Il sonno l’ha preso per le ciglia e l’ha disteso. Là, nel felice senza tempo del suo sonno, La Morte l’ha preso per il cuore. Là levò un tremolio alla vita abortita Dentro lui che fece un balzo… E poi braccia e torace assonnati caddero di nuovo. E presto il sangue lento e sperso arrivò strisciando Su dal piombo intruso, come formiche in fila. Se il suo sonno più profondo giace all’ombra del battito Di grandi ali, e dei pensieri che tengono le stelle, Adagiato sui cuscini fatti da Dio calmi Sopra queste nuvole, queste piogge, questi nevischi di pallottole, E questi venti a scimitarre; O se ancora la sua testa piccola e bagnata Si confonde sempre più con la terra bassa, I sui capelli tutt'uno con l’erba grigia Su campi finiti e fili di ferro arrugginiti.. Chi sa? Chi spera? Chi se ne preoccupa? Che passi! Lui dorme. Lui dorme meno tremulo e meno freddo Di noi che ci svegliamo e svegliandoci diciamo ahimè. Asleep - October 1917 Carmina n.6 28 Strano incontro Sembrò che uscissi indenne dalla battaglia Giù attraverso un tunnel profondo e fosco, d’epoca immemorabile Tra graniti che guerre titaniche avevano scavato. E là, in tutta la lunghezza, ingombro di dormienti che gemevano, Troppo presi dai pensieri o dalla morte per spostarsi. Poi, mentre li osservavo attentamente, uno saltò su E mi guardò, gli occhi fissi in pietoso riconoscimento, Alzando le mani angosciate, come per benedire. E dal suo sorriso, conobbi quell’antro tetro. Dal suo sorriso seppi che eravamo all’inferno. Il volto di quella visione era granito di mille dolori; Eppure il sangue non filtrava dal terreno sovrastante, E nessun colpo di cannone, né lamenti attraverso le condotte. “Strano amico” io dissi, “qui non c’è alcun motivo di dolersi”. “Nessuno” disse l’altro, “a parte gli anni sprecati. La disperazione. Qualunque sia la tua speranza, Era anche la mia vita. Andavo a caccia all’impazzata Dietro le bellezze selvagge del mondo, Che non hanno la calma dentro gli occhi, né trecce nei capelli; Ma si prendono gioco del trascorrere costante del tempo. E se si addolorano, più ricco di qui è il dolore. Perché per la mia gioia molti uomini avrebbero potuto ridere, E del mio pianto qualcosa è rimasto, Che deve morire ora. Intendo la verità non detta, La pietà della guerra, la pietà che la guerra ha distillato. Adesso gli uomini se ne andranno contenti Con ciò che abbiamo saccheggiato, O scontenti, il sangue ribollente, e lo spargeranno. Saranno veloci come la tigre, nessuno romperà i ranghi, Anche se le nazioni viaggeranno lente dal progresso. Carmina n.6 29 Il coraggio era mio, ed avevo il mistero, La saggezza era mia, ed avevo la maestria: Perdere la marcia di questo mondo in ritirata Verso le cittadelle vane che non hanno mura. Allora, quando ancora sangue avesse ostruito le ruote del loro carro Io sarei salito a lavarli con l’acqua dolce di pozzo, Con le verità che sono troppo profonde per guastarsi. Avrei versato il mio spirito senza limite, Ma non con le ferite, non con la tassa immane della guerra. Fronti d’uomini hanno sanguinato dove non c’erano ferite. - Sono il nemico che tu hai ucciso, amico mio. Ti ho riconosciuto in questa oscurità: perché così ti sei accigliato Ieri, mentre mi infilzavi e mi uccidevi. Io ti ho schivato; ma le mie mani erano fredde e intorpidite. Dormiamo adesso…” Strange Meeting - March 1918 Lo show Siamo caduti nei sogni che l’eterno Alita sugli specchi offuscati del mondo E poi lucida con mani d’avorio e sospiri. W.B.Yeats La mia anima guardò giù da una vaga altezza, con la Morte, Non ricordavo come c’ero arrivato e perché, E vide una terra triste, fiaccata dalle fatiche della carestia, Grigia, di crateri come la luna, scavati di dolore, E butterata di grandi pustole e croste di piaghe. Carmina n.6 30 Nella sua barba, quell’orrore di fil di ferro aspro, Si muovevano bruchi sottili, srotolati lentamente. Sembrava si sforzassero d’essere come tappi Di fosse, dove si contorcevano e attorcigliavano, uccisi. Sentieri melmosi avevano raspato e calpestato Intorno a miriadi di verruche come piccole colline. Dagli ultimi rimasugli del buio queste creature estenuate Strisciarono, e svanirono dall’alba a nascondersi nei buchi. (E un odore saliva da quelle aperture immonde, Come da bocche o da ferite gravi che s’aggravano.) Esitando, piedi si radunarono, ancora e ancora, File brune, contro strisce di grigio, con spine dritte, Tutti migratori da terre verdi, assorti sulla melma. Quelli che erano grigi, di progenie più abbondante, Si gettarono sugli altri e li mangiarono e furono mangiati. Vidi le loro schiene morse curvarsi, avvolgersi, raddrizzarsi. Guardai quelle agonie arrotolarsi, alzarsi e ridistendersi. Qualunque cosa la visione potesse significare, nel terrore Io barcollai tremando, come una piuma, cadendo verso terra. E la Morte cadde con me, come un gemito incupito. Là Lei, raccogliendo uno dei vermi, che nascondeva Metà delle ferite sotto terra e non strisciava più, Mi mostrò i suoi piedi, i piedi di molti uomini, E la sua testa appena tranciata, la mia. The Show - March 18 Carmina n.6 31 BRUNO TOLENTINO Di Gian Paolo Grattarola Il 27 giugno si è spenta la voce di Bruno Tolentino, il più illustre e prolifico poeta brasiliano contemporaneo, per diversi anni direttore della prestigiosa rivista Bravo, attorno alla quale era riuscito a raccogliere i più significativi fermenti del mondo intellettuale di quella immensa e feconda nazione. Amico personale di Giuseppe Ungaretti, presso il quale soggiornò durante un breve periodo durante gli anni di esilio in Europa seguiti al colpo di stato del 1964 in Brasile, nel corso delle sue lunghe peregrinazioni ebbe il privilegio di frequentare i più illustri intellettuali e poeti del secolo scorso tra cui spiccano i nomi di Sartre, Serao, Montale, Bishop, Auden, Pasolini, Levi e Quasimodo. Bruno Tolentino deve la sua fama al conseguimento nel 1995 e nel 2006 del premio Jabuti, il più importante riconoscimento letterario del suo paese, a vent’anni di onorato insegnamento a Oxford, ma anche a due anni di soggiorno in carcere sotto le pesanti accuse di spaccio e contrabbando. Ma in Italia, ove tornava periodicamente essendovi strettamente legato dalle antiche radici famigliari e da un sentimento di profondo affetto, negli ultimi anni era noto soprattutto per lo stretto sodalizio con Don Giussani e l’ambiente culturale cattolico a seguito della sua radicale conversione religiosa. Tra le sue opere più prestigiose ricordiamo “O mundo como Idéia”, in cui il poeta manifesta il bisogno di varcare le anguste sembianze della prefigurazione concettuale, che privano l’uomo della necessità di infinitarsi nel ampio respiro della totalità dell’essere. L’arte ebbe a dire una volta è una menzogna che dice la verità ma il varco di montaliana memoria attraverso cui raggiungerla e che lo ha condotto dapprima nei bassifondi di Varsavia, quindi sul teatro di guerra libanese e infine nelle segrete delle carceri si è materializzato infine nell’incanto dolente di una notte stellata sotto le sembianze inattese di una conversione alla fede cattolica. E pur consegnando alla storia la parabola esistenziale di un poeta che ha lambito tutte le correnti culturali del Novecento, pur resistendo stoicamente al richiamo del senso di appartenenza, si congeda da questo mondo nella Carmina n.6 32 convinzione che il poeta sia un uomo inutile e che il problema non stia nella ricerca di una rettitudine morale ma nella possibilità di una piena realizzazione dell’essere attraverso il calvario di un’estenuante ricerca anche tra gli anfratti più oscuri. O MUNDO COMO IDÉIA O mundo como idéia (ou pensamento). Entre a gnose e o real (talvez) o acordo. Mas no ramo (imperene) cantão tordo (provisório) e invisível vem o vento e leva o canto e deixa um desalento, a queixa dos sentido… Não recordo se sonhei tudo isso ou não: um tordo e a noite em meus ouvidos um momento, outro rapto no vento… Mas supor que o triunfo moral do cognitivo restitua-me o ser menos a dor, é resignar-me a um perfume tão rápido que não existe quase, insubstantivo como a Idéia… Não: o mundo como rapto! IL MONDO COME IDEA Il mondo come idea (o pensiero) Tra la gnosi e la realtà (forse) l’accordo. Ma nel ramoscello (imminente) canta il tordo (inatteso) e invisibile sopraggiunge il vento portandosi via il canto e lasciando una malinconia, a lagnarsi dei sensi… Non ricordo se ho sognato tutto questo oppure no: un tordo e la notte nei miei orecchi un istante, un’altro raptus nel vento… Ma supporre che il trionfo morale della consapevolezza possa ridarmi meno dolore, è abbandonarmi rapito ad un profumo Carmina n.6 33 che quasi non esiste, infondato come l’idea… Non: il mondo come raptus. Traduz. di Suerda Maria Alves Carmina n.6 34 In morte di un poeta Cubano in Esilio Osvaldo Navarro Di Gordiano Lupi Il romanziere e poeta cubano Osvaldo Navarro è morto nel suo esilio messicano, il 7 febbraio 2008, vittima di un infarto. I suoi resti sono stati cremati e le ceneri portate dalla moglie, la poetessa Elena Tamargo, a Miami - dove risiedono i figli Osvaldo e Nazin - per essere sepolte in terra statunitense. Navarro nasce a Santo Domingo, in provincia di Villa Clara, nel 1946, membro delle forze armate e del ministero degli interni per dieci anni, studia filologia alla Università dell’Avana e consigliere culturale nella ambasciata cubana di Mosca fino al 1987. Vince molti premi nazionali di poesia e ottiene importanti riconoscimenti per la sua opera letteraria. Osvaldo Navarro è un convinto difensore del realismo socialista nella creazione artistica, ma a un certo punto della sua vita perde fiducia nel processo rivoluzionario e nel 1993 ripara in Messico. Vive da esiliato volontario, per qualche periodo soggiorna a Miami, torna in Messico, fonda la rivista Nao e lavora come promotore culturale. Tra le sue opere di poesia citiamo De regreso a la tierra (1974), Los días y los hombres (1975), Espejo de conciencia (1989), Las manos en el fuego (1981), Nosotros dos (1984), Combustión interna (antologia, 1985), Clarividencia (1989), Xabaneras (1996) e Catarsis (1999). Tra i romanzi ricordiamo El caballo de la Mayaguara (1984) - premio nazionale della critica cubana - e Hijos de Saturno (2002). Figli di Saturno sarebbe un libro importante da far conoscere in Italia, perché è un omaggio a tutte le persone che hanno creduto nella rivoluzione cubana e ne sono state divorate. L’istituto Politecnico Nazionale del Messico pubblicherà un’antologia della sua opera poetica e un suo saggio su José Martí. Osvaldo Navarro è stato uno dei migliori poeti cubani contemporanei, in un primo periodo della sua vita convinto rivoluzionario, appena si rende conto della grande truffa castrista lotta contro il regime fino a riparare in esilio. In ogni caso Osvaldo Navarro non mette la poesia al servizio di un’ideologia e questa è la sua grande forza letteraria. Non ha mai scritto un libro celebrativo del regime e non si è piegato al ruolo di poeta cortigiano, neppure quando era Carmina n.6 35 convinto assertore della bontà rivoluzionaria. Nella Cuba di Fidel Castro nessuno scriverà una riga sulla sua morte, visto che in passato è stato definito dal regime come opportunista. Osvaldo Navarro resta nel gruppo dei poeti da dimenticare, tra i letterati che non vanno studiati, depennato dalla lista degli scrittori in lingua spagnola dei quali è lecito occuparsi. Meno male che istruzione e cultura (insieme alla sanità) sono le cose migliori che citano sempre i fiancheggiatori del regime. Ho avuto la triste notizia della morte di Navarro dallo scrittore cubano Felix Luis Viera, pure lui esule in Messico e destinato a vivere lontano dalla sua terra per colpa di un regime duro e intollerante. Per ricordare un grande scrittore pubblico una piccola antologia poetica in lingua originale, accompagnata dalla mia traduzione letterale che fa perdere liricità ai testi ma è utile per comprendere il significato. Osvaldo Navarro parla di solitudine, dialoga con se stesso, sente di essere rimasto senza parole e senza musica, di non avere più la forza di scrivere poesia, vuol essere vegetariano in un mondo di antropofagi, comprende che tanti amici si sono lasciati condurre su una strada sbagliata e che adesso si bruciano le ali per aver volato troppo vicino al fuoco. Parla di politica in modo velato, con sottili allusioni e raffinata scelta lessicale, usa la poesia fantastica per realizzare un importante discorso sociale. Le idee modificate da uomini che non sono all’altezza dei loro sogni producono mostri, come il sonno della ragione, come un antropofago che cucina carne umana e si lascia tentare dal sapore proibito. Osvaldo Navarro critica Stai Uniti e Cuba, non risparmia nessuno, in un atto di accusa che unisce globalizzazione a base di hamburger alla rivoluzione cubana che predilige carne di cannone e lingue di poeti stufate. Uno scrittore che sono orgoglioso di presentare per primo in Italia e che dovrebbe essere tradotto e pubblicato anche nel nostro paese. ANTOLOGIA POETICA HOT EDAD La soledad que asumo es tan divina Que de tanto ignorarla somos dos: Carmina n.6 36 Uno en el comedor traga su arroz Y el otro lava el plato en la cocina. Navarro es un buen hombre que se inclina Y conjuga los verbos siempre en nos. Osvaldo es quien se yergue frente a Dios, Y es una débil sombra que ilumina. A veces somos más, y somos tantos Que no alcanza la tierra para cuantos Habitan esta estricta soledad. Hablo conmigo, que es decir nosotros, Pero no entablan diálogo los otros: Los demás son yo mismo en su hot edad. ATONAL Hijos, indíquenme el tono, Que me he quedado sin música. Sordo de mí mismo, escucho sólo lamentos y súplicas, el ruido de las almas y ciertas notas estúpidas que repiten y repiten en un vacío de acústica. Ya no escucho los acordes de aquellas mañanas fúlgidas, con su vértigo de pájaros y estruendo de alas alúminas. De las primaveras no recuerdo su risa última, ni el compás de las estrellas en aquellas noches únicas, y tú, mujer, que vibrabas como una cítara púdica. No oigo sonar las campanas el re de mi abeja lúdica, ni a mi madre que tañía Carmina n.6 37 ésta mi lira tan rústica. Hijos, indíquenme el tono, que me he quedado sin música. ANTROPOFAGIA Adobada con zumo de limón y asada a la parrilla en forma de arrachera o de churrasco –a la argentina–, la carne humana es un manjar de lujo en las mesas de las clases altas, restoranes gourmet, hoteles cinco estrellas. También se la prepara encebollada y con curry –estilo indio– para las fiestas patrias y los banquetes a los que asisten dignatarios, obispos, grandes inversionistas. Los Estados Unidos –importadores de rebaños en pie–, tienen mataderos muy desarrollados donde el descuartizamiento se realiza en forma automática. Utilizan hasta la recortería, a la que agregan soya y otros ingredientes –fórmula secreta–, y forman una masa con la que moldean hamburguesas y nuggets, cuyas franquicias venden a las cadenas internacionales de fast food. Es una industria eficiente y productiva que se inspira en la escuela clásica alemana: fabrican telas con el pelo, botones con los huesos y jabón con la grasa. La publicidad sobre la carne humana en la televisión es sensacional. Presentan fisiculturistas, bailarinas, artistas de cine reconstruidas por los bisturís estéticos. El mensaje subliminal es que la carne no sólo sirve para fornicar, sino que contiene altos poderes nutricionales. En los mercados populares del mundo, se expende salada, en forma de cecina –a la mexicana– para freír, o seca, para cocer entomatada como tasajo de caballo –a la uruguaya. En los ganchos de las carnicerías cuelgan las piernas, los brazos y los costillares, entre las moscas y el olor de las especias. También se venden los ojos, las tetas, las vísceras, los testículos cocidos de las formas más diversas y servidos como antojitos, salpicados con cilantro, cebolla cruda bien rebanada y algo de picante, Carmina n.6 38 envueltos en pan árabe o en tortillas de maíz. En Cuba –país tan especial– la matazón se realiza por fusilamiento, por prurito militar y por apego a la tradición de las guerras de independencia. La carne es sometida a un proceso parecido al de Estados Unidos, pero con influencia de los indios caribes (caníbales), que adobaban sus presas con ajo de montaña, ají cachucha y culantro. El contenido se aumenta con soya y con harina de trigo, y se fabrica un engrudo insípido y fofo (sin envoltura) llamado masa cárnica. (Como la distribución está racionada, los hambrientos han saqueado las criptas de los cementerios). El pelo se desperdicia por falta de tecnología, pero la grasa –si la hubiera– se aprovecha en las salsas (“Échale salsita”, dice el son), y los huesos, en suculentas caldosas y en la brujería industrial, gran productora de divisas. Los dirigentes y los jefes prefieren la carne de cañón y la lengua estofada de poetas. Los españoles son fanáticos de la sangre y de las vísceras, para hacer butifarra, y ahuman un jamón de pierna serrano que nada tiene que envidiarle al de cerdo. Francia es algo aparte. Allá hornean unos racionales pasteles de seso, extraídos de los artistas naif de Haití y los inmigrantes árabes, cuyo olor cartesiano se percibe hasta en lo alto de la torre Eiffel, y cenan frugalmente con buen vino de mesa. En África, donde existen costumbres muy extrañas, dejan pudrir la carne, y se la comen, con las manos, mezclada con mandioca, también en estado de putrefacción. Los japoneses –de paladar tan exquisito– prefieren las manos y los pies de mujer, porque, según los exigentes consumidores, tienen un sabor más refinado que las aletas de tiburón. Los chinos han desarrollado una novedosa industria, que consiste en aplicar la tortura china en forma productiva: Carmina n.6 39 cortan pedazos a los disidentes, sin matarlos, y han invadido el mundo con esas rebanadas, como si fueran tilapia congelada; así, han aumentado en dos en por ciento el producto interno bruto. Yo, que soy un tanto melindroso y tengo escrúpulos, me he vuelto vegetariano, y me voy con las vacas y los caballos a ramonear la magra hierba que aún verdea en los campos. EN EL FUEGO Yo he visto y sé de cosas que no he dicho ni digo, cosas tristes y a veces amargas y onerosas golpes que los amigos nos dan como si rosas, cosas que más parecen labor del enemigo. Yo he visto y sé de amigos que resultaron cosas y de cosas que hicieron la función del amigo vi cómo el hermano se pasó al enemigo y vi como trepaban al árbol las babosas. Vi a los hombres errar igual que mariposas y quemarse las alas ligeras y amorosas en el fuego de todos sin que hubiera un testigo. Vi mucho más, vi las heces correr hacia las fosas de un tiempo que apestaba como un viejo mendigo y callar los testigos verdades peligrosas. CALDA ETÀ La solitudine che assumo è tanto divina che a ignorarla così tanto siamo in due: uno nella sala da pranzo mangia il suo riso e l’altro lava il piatto nella cucina. Carmina n.6 40 Navarro è un buon uomo che si china e coniuga i verbi sempre in noi. Osvaldo è colui che fronteggia Dio, ed è una debole ombra che illumina. A volte siamo di più, e siamo tanti che non basta la terra per tutti coloro che abitano questa severa solitudine. Parlo con me, che è come dire noi, però gli altri non intavolano un dialogo: gli altri sono io stesso nella sua calda età. ATONALE Figli, indicatemi il tono, che sono rimasto senza musica. Sordo di me stesso, ascolto solo lamenti e suppliche, il rumore delle anime e certe note stupide che ripetono e ripetono in un vuoto di acustica. Ora non ascolto gli accordi di quelle mattine fulgide, con la sua vertigine di passeri e strepito di ali ossidate. Delle primavere non ricordo le ultime risate né il compasso delle stelle in quelle notti uniche, e tu, donna, che vibravi come una chitarra pudica. Non sento suonare le campane il re della mia ape ludica, né a mia madre che suonava questa mia lira così rustica. Carmina n.6 41 Figli, indicatemi il tono, che sono rimasto senza musica. ANTROPOFAGIA Guarnita con succo di limone e arrostita alla griglia come arrachera o churrasco - alla argentina -, la carne umana è un manicaretto di lusso sulle tavole delle classi alte, ristoranti esclusivi, alberghi a cinque stelle. Si prepara anche con cipolla e curry - stile indio per le feste della patria e per i banchetti che frequentano dignitari, arcivescovi, grandi investitori. Gli Stati Uniti - importatori di animali vivi possiedono mattatoi molto sviluppati dove lo squartamento si realizza in modo automatico. Utilizzano persino le frattaglie, alle quali aggiungono soia e altri ingredienti - formula segreta -, e formano una pasta con la quale modellano hamburger e nuggets, che le aziende vendono alle catene internazionali del fast food. È un’industria efficiente e produttiva che si ispira alla scuola classica tedesca: fabbricano tele con i capelli, bottoni con le ossa e sapone con il grasso. La pubblicità sulla carne umana in televisione è sensazionale. Presentano culturisti, ballerine, attori di cinema ricostruiti da bisturi estetici. Il messaggio subliminale è che la carne non serve solo per fornicare, ma contiene anche un alto potere nutrizionale. Nei mercati popolari del mondo, si vende salata, come prosciutto - alla messicana - per friggere, o secca, per cuocere con il pomodoro come carne salata di cavallo - alla uruguagia. Nei ganci delle macellerie attaccano le gambe, Carmina n.6 42 i bracci e le costole, tra le mosche e l’odore delle specie animali. Si vendono anche gli occhi, le mammelle, le viscere, i testicoli cucinati nelle forme più diverse e serviti come antipasti, saltati con cilantro, cipolla cruda ben tagliata e qualcosa di piccante, avvolti in pane arabo o in frittate di mais. A Cuba - paese molto speciale - l’uccisione si realizza per fucilazione, per prurito militare e per attaccamento alla tradizione delle guerre di indipendenza. La carne è sottomessa a un processo simile a quello degli Stati Uniti, però con l’influenza degli indios caraibici (cannibali), che guarnivano le prede con aglio di montagna, peperoni piccanti e culantro. Il contenuto si aumenta con soia e farina di grano, e si produce un impasto insipido e molle (senza involucro) chiamato pasta di carne. (Siccome la distribuzione è razionata, gli affamati hanno saccheggiato le cripte dei cimiteri). I capelli si disperdono per mancanza di tecnologia, però il grasso – se ci fosse – si utilizza nelle salse (Echale salsita, dice il son), e le ossa, in succulenti minestroni e nella stregoneria industriale, grande produttrice di dollari. I dirigenti e i capi preferiscono la carne di cannone e la lingua stufata dei poeti. Gli spagnoli sono fanatici di sangue e viscere, per fare salsicce, e affumicano un prosciutto di gamba montanara che non ha niente da invidiare a quello di maiale. La Francia è una cosa a parte. Là cuociono al forno alcuni pasticcini di cervello, estratti dagli artisti naif di Haiti e dagli immigranti arabi, il cui odore cartesiano si percepisce fino in cima alla Torre Eiffel, e cenano frugalmente con buon vino da tavola. In Africa, dove ci sono usanze molto strane, Carmina n.6 43 fanno imputridire la carne, e se la mangiano, con le mani, mescolata con manioca, anch’essa in stato di putrefazione. I giapponesi - di palato tanto raffinato preferiscono le mani e i piedi di donna, perché, secondo gli esigenti consumatori, hanno un sapore più raffinato delle pinne di pescecane. I cinesi hanno sviluppato un’industria innovativa, che consiste nell’applicare la tortura cinese in modo produttivo: tagliano pezzi ai dissidenti, senza ammazzarli, e hanno invaso il mondo con queste fette di carne, come se fossero pesci congelati: così hanno aumentato del due per cento il prodotto interno lordo. Io, che sono un poco schizzinoso e mi faccio scrupoli, sono diventato vegetariano, e me ne vado con le vacche e i cavalli a ruminare la poca erba che ancora verdeggia nei campi. Nota: Alcune espressioni sono intraducibili e non hanno un corrispettivo italiano. Si tratta di termini culinari, spezie e modi di dire cubani. Ho scelto di lasciarli nella forma originale indicandoli con un corsivo. NEL FUOCO Ho visto e so cose che non ho detto né dico, cose tristi, a volte amare e onerose botte che gli amici danno come fossero rose, cose che sembrano più un lavoro del nemico. Ho visto e so di amici che si convertirono in cose e di cose che presero il posto dell’amico, vidi come il fratello passò al nemico e vidi come si arrampicavano all’albero le lumache. Carmina n.6 44 Vidi gli uomini errare come farfalle e bruciarsi le ali leggere e amorose nel fuoco di tutti senza che ci fosse un testimone. Vidi molto di più, vidi gli escrementi correre verso le fosse di un tempo che puzzava come un vecchio mendicante e verità pericolose zittire i testimoni. Opere originali di Osvaldo Navarro (1946 – 2008) Traduzioni di Gordiano Lupi Carmina n.6 45 Per una lettura di «salterio bianco» di Cesare Ruffato Di Roberto Nassi «Se leggo un libro ed esso mi dà un tale senso di gelo in tutto il corpo che nessun fuoco può riscaldarlo, allora so che quella è poesia. Se ho l’impressione fisica che mi si scoperchi il cranio, allora so che quella è poesia»1. Mi sono venute in mente queste parole della biancovestita poetessa di Amherst, Emily Dickinson, leggendo, in un lentissimo Maelström di risucchio, le pagine di Salterio bianco2. Per via di quel senso di gelo che si irradiava nel mio corpo, per quel ribollimento dentro il cranio. Forza della poesia. Solo che non era proprio uno scoperchiamento quello che avvertivo nella testa, trascorrendo di componimento in componimento, di parola in parola, di silenzio in silenzio, piuttosto una progressiva intensificazione del voltaggio, una fibrillante tensione sinaptica, una pressione bruciante sempre più insostenibile e sempre invece, incredibilmente, sostenuta e sfiatata qua e là in sbuffi di vapore-pensiero. Abiti della poesia. Cesare Ruffato è ipersensibile come Emily Dickinson. Come Emily ha vestito di bianco la propria esistenza. Una bianca eco si distilla dai versi di questo salterio cantato in corpo e in anima, Magnificat dell’amore nel tempo dell’assenza, salmodia intima e tesa sopravvissuta o risorta dopo che il Dolore «fecit potentiam in brachio suo». Colloquia con le ombre l’uomo Ruffato, nella stupefazione della propria sopravvivenza oltre il limite assegnato dalla sorte ai suoi affetti più cari, oltre la soglia della solitudine. Colloquia con la poesia che ha «tentato l’impossibile» e non ha goduto «dell’insicura via / e del trionfo innato della morte / non della fama e talora / di frammenti di gioia altra». E tocchiamo già un termine chiave, uno di quelli più frequentemente e intensamente ricorrenti in queste pagine: ‘altro/a’: «gioia altra», «emozioni altre», «lagrime e sogni altri», «altra dimora», 1 Puntello la mia memoria sulla citazione di C. IZZO, La letteratura nord-americana, Milano, Accademia, 1988, p. 449. Questo pensiero della Dickinson è riportato in una lettera di A. T. W. Higginson alla moglie scritta subito dopo la sua prima visita ad Amherst. Cfr. EMILY DICKINSON, Letters of Emily Dickinson, a cura di M. L. Todd, New York, The World Publishing Company, 1951, p. 265. 2 C. RUFFATO, Salterio Bianco, Milano, Mimesis, 2006. A cui si riferiscono i numeri di pagina riportati in seguito. Carmina n.6 46 «mondo altro», «geometrie altre», «prati altri», «fascinazione altra», «tempo altro» ecc., sfilacci e pezze di essenza come foglie illuminate dal sole del ricordo e, lì appresso, entro lo stesso circuito semantico, ‘oltre’ (nel suo senso incipitario, proiettivo, e anche, al contempo, di explicit dell’al di qua, dunque ‘limite’): «oltre i fumi della mia cinetosi / oltre il settimo cielo / oltre l’oltre eretto dell’universo / e del tempo ove mi attenderai sulla riva / dei fiumi onomatopeici Lete e Eunoè»; termine vettoriale puntato al luogo non-luogo dell’indecifrabile e del ricongiungimento, regno del bianco cui l’io – la sua parola – tende già da ‘questa’ vita «per un solo moto verticale». Il ‘bianco’, con l’ampio corteggio dei suoi nivei allotropi sinonimici, balugina squarcia soffonde innerva ogni poesia. Non sono solo rimandi o ritorni carichi di pregnanza simbolica bensì il polso vivo di un trobare che, per quanto sapientemente intonato da un fine orecchio musicale e orchestrato nelle volute dei versi, tende a rallentare in squarci di concertato, a brividire in sillabazioni dodecafoniche in prossimità degli eccessi di senso, dei biancori ineffabili. Non deve trarre in inganno la copia di terminologia scientifica (dal linguaggio medico in primis); non siamo di fronte a un compiaciuto poeta doctus beantesi della propria cultura specialistica e sprezzante del volgo: la poesia di Ruffato – e qui sta il segreto, il bianco della sua genuinità, della sua onestà, della sua grandezza – è sempre innervata di tensione conoscitiva, anzi, è tutt’uno con essa. Ma a ben vedere i contorni netti del lessico scientifico – esemplarmente in Salterio bianco – sottendono il rischio di un più sottile autoinganno del lettore. L’essenziale precisione della lingua della scienza di cui la mente, fedele compagna del cuore, si arma nel suo tentativo euristico di attraversamento del limite e di decodifica dei geroglifici dell’esistenza è solo, per così dire, il primo piano di questa poesia. Dietro di esso c’è l’abisso sfocato luminescente a cui cuore e mente tendono. Un po’ come il melo e il pero di Pascoli, netti e precisi, si stagliano sull’«alba di perla». Dietro di essi c’è il bianco dell’ineffabile, del perturbante, «ciò che si sottrae / nell’atto di definire l’inesprimibile» (p. 82). Lo specillo del linguaggio scientifico taglia il velo del discorso per attingere scintille «di trasfigurata altra verbalità» (p. 80), è il primo termine di un contrappunto necessario, «Come silenzio e parola Carmina n.6 47 muoiono / nell’estasi d’estenuati rimandi». Rimanda a un’apice, «il più lontano / da ogni possibile rappresentazione» (p. 24), «l’altitudo del sacro e del mistero» (p. 68). Né è solo il linguaggio tecnico e scientifico a fare clus il trobar del trovatore-salmista Ruffato. La forte compattezza tematica e stilistica del Salterio bianco è un concentrato incandescente di stilemi e modi ruffatiani: la commistione e il livellamento linguistici, per cui accanto e dentro l’italiano – nelle sue escursioni verticali (linguaggio dell’intimità, gergo tecnico scientifico, ricorrenze auliche...) e orizzontali (arcaismi e poetismi: «desio», «enfiati», il consueto «ove»…) – trovano spazio il latino (lingua sapientiae, che sta dietro ma anche a lato dell’italiana in un rapporto osmotico che investe anche la grafia e la pronuncia) il francese, lo spagnolo, l’inglese, l’antico provenzale perfino a non dire del greco, compenetrato in neologismi e tecnicismi, matrice linguistica inesauribile («scazonto», «alfale»); la forzatura (quasi una fusione dovuta a quell’alto voltaggio di cui si diceva) delle diatesi verbali («frecciato», «così ti riposo», «mi svettavi», «ti aderisce alla favola», «ci strapiomba», «residua la mia decrepita vita», «l’inverno [...] mi circola», «per scintillarmi»), neoformazioni e denominali («albema», «per brividirti / d’intimità», «si slamella», «carismo», «mi discoro», «mi chimeri», «l’atmosfera smogata») e dantismi («intuarmi», «t’incielava»), sollecitazioni etimologiche di stampo ermetico o più propriamente luziano («divagare», «si procintano»), composizioni dotte («eotemporalità», «astroviro», «somasema»)… Ma se risulta clus questo trobare è per intima e oggettiva necessità. Lo stile grande, arduo, nobilmente teso del poeta scrutatore del divenire edace e contemplatore smaniante dell’essere, ci viene detto fin dalla prima poesia – sulla soglia, dunque, di un universo ‘altro’, della (a)spazialità poetica, del regime verbale – «è riconducibile in realtà all’impegno / peculiare della mente» (p. 7). Pur distinguendosene sostanzialmente nei suoi costituenti e interne motivazioni ricorda per la nobiltà della pronuncia e l’abnegazione di un umano titanismo i grandi ‘oscuri’ del Novecento, Eliot e Pound, il miglior fabbro. Ricorda, per lo slancio conoscitivo, il pionierismo linguistico, l’innesto degli astratti filosofico-scientifici, la corposità fonica e il taglio scultoreo del verso il più grande poeta-filosofo dell’antichità, Lucrezio (ma non è il pacificato «suavi mari magno» lo stato del poeta d’oggi che «sulla Carmina n.6 48 battigia in ascolto e sguardo / della marea» interroga «sinopia/ e schiuma di seni e geroglifici / strani d’altra dimora», p. 45). Naturalmente c’è Dante sempre in vista. Non potrebbe essere altrimenti in questo viaggio della mente dalla «piana deserta» (p. 94, e si noti, appena sopra, quel «nostro unanime euristico percorso», come il «cammin di nostra vita» [corsivi miei]) a «l’altra riva» (p. 44, quella evangelica del lago di Tiberiade – o mare di Galilea – da cui Gesù sale sul monte solo a pregare, quella del fiume dell’oblio Letè, limite dell’‘oltre’, soglia di beatidutine), nel quale una puellula languidula, novella Beatrice alonata di bianco lunare, si pone al termine dell’attenzione e della parola del poeta viator in mente sua e lo sollecita e sprona coi suoi silenzi. Viaggio3 e commedia, anzi comedìa, sono i costituenti di questa poesia: Ti narrerò il viaggio notturno tra vortici nevosi nel cielo stellato e la comedia con imboscate intralci e adescamenti della spuria umana felicità. (p. 52) Ma il plurilinguismo di Ruffato, pur nutrito alla fonte primaria del poema sacro, se ne differenzia in questo. Il plurilinguismo di Dante copre uno spettro di escursioni verticali – lessicali e di registro – praticamente illimitato adeguandosi alla propria materia, che all’inizio, parafrasando l’epistola a Cangrande, è paurosa e fetida, ma alla fine è buona, desiderabile e gradita, perché tratta del Paradiso. Nel Salterio bianco di Ruffato i tre regni sono concentrati nel divenire umano, tracce di essere paradisiaco («non luogo ossessivo dell’indecifrabile / del rammemorare essenziale», p. 16) baluginano nell’al di qua ove si trova la mente poetante, il regno del dolore – della dignità del dolore – e squarci mnestici purgatoriali sono la quotidiana realtà di chi resta. Il plurilinguismo stilistico ruffatiano, di conseguenza, occupa ed è 3 Come Rimbaud, il poeta veggente, dell’identificazione con l’altro, del superamento dell’oltre, Ruffato viaggia, vele al vento, su un «bateau d'abîme» (p. 38). E, «Nel fondo del godimento avaro» (p. 74), bordeggia anche il Luzi che parla a Giuseppina ritornata per «così cupo viaggio»: «Ti cerco hic et nunc al modo mio che sai» (p. 10) come «Mi trovo qui a questa età che sai» (Notizie a Giuseppina dopo tanti anni, v. 6, in M. Luzi, Tutte le poesie, Milano, Garzanti, 1999, p. 19; e va notato anche lo scambio di ruolo degli attanti: in Luzi è Giuseppina defunta a ritornare dall’amico, in Ruffato è l’io il soggetto della quête). Carmina n.6 49 compresso nella parte centrale e superiore dello spettro tonale (escludendo il livello scatologico e carnevalesco, nel senso bachtiniano4) perché tende ad affabulare un unico oggetto, fisso e sfuggente: l’Ineffabile, il Sublime. Inseguo il sogno filtro dell’anima impronta del mio sonno che mi accosta ad una conoscenza sublime fonte di aderenza con l'inconscio dell’universo e della mia integra essenza. (p. 91) La compresenza dei tre regni nel reale trova la sua cifra retorica principale nell’ossimoro che fonde ombra e luce pressoché in ogni pagina («in tenebre bianche risplende» p. 20, «luce nera» pp. 34, 38, 58, 80, «benché da te la notte / prenda ancora lume» p. 46, «sogno d’ombra luce e speranza» p. 47, «un nero / seppia soffoca le forme bianche», «bianco splendore di luce nera» p. 88, «luce oscura» p. 94) e si riflette iconicamente nelle immagini chiave della nebbia, del crepuscolo e, soprattutto, dell’eclissi. Che l’aggettivazione sia meno coloristica e impressionistica che densa di sovrasensi allusivi lo dimostrano bene sintagmi come «male bianco», «intimo dialogo bianco», «quiete bianca», «silenzio eburneo», «cereo profumo», «disperata sublimità bianca», «dolore silente virtualmente bianco», «albo oblio», «morte bianca»5. Persino il referto cronachistico della «nivea liseuse» «dal collo a lupetto» è virato a significati ‘altri’ e si impregna della luce d’alba degli edenici fiumi e della «albissima» collina …mi attenderai sulla riva dei fiumi onomatopeici Lete e Eunoè per abluzioni in acqua lampra e pura ad inalbarmi il volto patibolare sosia del tuo attuale che sbuca 4 Ma non la lingua ipocorostica degli affetti: «fantola» (una sorta di ossimoro tonale, sia parola paradiasiaca – già in Dante – che del sermo familiaris; del resto non è il regno dei cieli per i piccoli e i puri di cuore?) «gonfi bagonghi»; «cucuciae»; « lallare» (che è termine medico della lingua italiana e insieme parola domestica e del petèl latino). 5 Non sono diversi i vari « cerva bianca », «sinottica frangia bianca» ecc. e lo stesso vale per i nomi includenti il sema della luce: «fotonia del niente assoluto», «lume di dolore» ecc. Carmina n.6 50 dal collo a lupetto della nivea liseuse per contemplare l’albissima collina divina dell’eden plene sguardo ed ascolto. (p. 52) Così il viola, paramentale colore del lutto e della perdita, delle «sparute viole / colte nel ritiro e per ricordo / compresse tra i fogli», è anche la sinestesia labile della consolazione ma nelle mani ritrovo aria viola che mi sorpassa e consola perché qui tutto è disposto con sapienza (p. 48) La vocazione ‘compitante’ e ‘sillabante’ di questa poesia (i brividi dodecafonici cui si accennava all’inizio) è confermata dalla raffinata tessitura sonora. Il senso che essa ci lascia di una estrema compattezza e quasi di reductio ad unum perfino delle vertiginose istanze del plurilinguismo deve molto alle disseminazioni allitteranti e alla costante riduzione fonica che conferiscono alle parole un’aura di consustanzialità, di ‘urorigine’ comune. L’osmosi fonica allaccia, ‘sincizia’ le parole in coppia (nel pieno dell’onda ritmica come nella tensione dell’inarcatura), si estende nel verso (specie in successione trimembre) e dilaga in dense campiture di gravitazione sonora un nero di seppia soffoca le forme (p. 51) la mia senescenza lievita lievi (p. 74) lenta di lagrime quasi siepe del pianto. (p. 49) io ancora qui alla finestra finale di vita mi chiedo (p. 61) e gemiti geroglifici inseguiti (p. 57) sfida diafana blesa (p. 50) sillabe di sabbia portentose Carmina n.6 51 qualche resto di nostri protoavi fra funghi di fango fascinosi in silenzi sconcertanti metafisici (p. 42) armonizza gli innesti di lingue altre (peraltro mai corsivati e quindi anche visivamente omogenei e integrati nello sfondo dell’italiano) al vento d’un bateau d’abime […] je me sombre in intimo dialogo (p. 38) attentato ed attente (p. 65) tensegrity scolma, ci sporgiamo (p. 39) si impunta in paronomasie e bisticci verbali di sostanza presenza e pregnanza (p. 23) si spera diverso e non perverso (p. 43) oblivione amnesie amnistie anamnesi (p. 59) lente del mio albo oblio. (p. 94) si fa squillante nei rintocchi della rima, non rara in repentina successione di gioia e dolore se non per certe varianti di colore e di fervore (p. 59) il tuo sguardo e il bigio della pelle ribelle… (p. 50) forse nemmeno voi, io e dubito poi (p. 76) Gemme spinose nei sentieri urenti poche gocce d'erba eutrofiche Carmina n.6 52 soavità crepuscolare seducente negli avvolgimenti del seno. (p. 84) ma anche circolarmente collocata, a inizio e fine del verso o della poesia intera in sinopsie in singolari lipotimie (p. 82) Prenderò posto alla chiarità […] in stille nella vostra eternità. (p. 83) (a ricordarci la rilevanza della retorica del circolo e dello specchio Al ritorno negli stupiti ideogrammi dei tuoi occhi s’immerge l’intorno simbolico e il finire mi è sublime. (p. 37) e soprattutto baciata Il cuore divaga nel fantasma inonda i desideri del plasma (p. 71) gli eventi della mia esistenza a radicarli quasi in resistenza (p. 76) presta a suggellare i componimenti (con un impressione di ‘facilità’ che mitiga la sintassi tesa e la sfida del lessico) E pure il lume di dolore ha del distacco il colore. (p. 86) dell’estrema unzione nell’orizzonte naturale d'ogni attrazione. (p. 75) Ed ecco tutto questo contemporaneamente in atto nel testo Mi indichi un particolare lontano Carmina n.6 53 di fonte pura mentre allento il polso della fleboclisi unico lagrimoso nutrimento. Mi trascino privo mentre il sole sale e ci inombra a protezione d'altri sensi di passione. (p. 39) Intorno a me Loro isole eteree proteggono quanto residua dell’ombra del velo e del fuoco pallido che scatta ancora qualche verbo scintilla ascendente stella alle loro mancate primavere. (p. 97) Non sarà troppo da stupirsi se questi tratti, riduzione fonica, alliterazione spinta, facilità della rima, ci ricordano, ancora una volta, Pascoli (passato al filtro dell’atonalismo montaliano). Pascoli – sotto la crosta bucolica e ritornellante – dà voce ai tremori della perdita, all’inquietudine del quotidiano, al colloquio con le ombre e come il Nostro tende alla riunificazione impossibile del perduto nido degli affetti familiari. Per non parlare della precisione scientifica del lessico Pascoliano (botanico e ornitologico) pendant non peregrino al linguaggio medico e psicologico di Ruffato. E insomma non è proprio il poeta di San Mauro il primo tra i moderni e il grande decadente della poesia italiana? Così i fatti di forma rimandano e anzi coincidono – come accade alla grande poesia – a sostanzialità di contenuto. Parola e forma sono l’unico oro del poeta volto sempre a raccogliere la «manna del nome» (p. 85) anche quando nelle parole trova «polvere / confusa dissoluzione / come un tradimento / del mondo sulla pista di lancio / per l’universo» (ibidem). Anche quando la sua è un’impotente titanica aspirazione Se le parole mutassero in palafitte con solida simbiosi metamorfica ed allitterando in saliscendi colle influenze lunari di marea un qualche soffio di speranza di nuova umanità per il domani Carmina n.6 54 ondando in adagi e fughe d’una vera sinfonia universale. (p. 69) Di più. Lo spirito del soggetto non si distingue da quello che fa vibrare la sua voce, sicché l’io – come una parola – può dire di sé: «All’ultimo angolo mi compita la meraviglia / del vivere sull’alone della morte» (p. 94). E qui davvero stiamo sfiorando il cuore e l’anima di questo Salterio bianco. L’osmosi fonica e musicale (una musicalità solo parcamente melodica e qua e là persino stridente) così come il livellamento della coercizione plurilinguistica essendo specchio e figura di un’osmosi d’anime che fonde l’io del poeta col «voi che intendo vivere» (p. 64) e lo slarga nel noi della comunione d’amore nella «psicorealtà immaginativa» un rapporto sconcertante con l’ombra del nulla. Forse solo così può svolgersi l’osmosi sapiente tra noi e la soffusa aerea divinità la biotelepatia che ci lega e sopravvive in psicorealtà immaginativa che vi esalta e impone in assetata umile attesa in stratificato remaniement evolutivo di corpi e spiriti sino all'essenza pura. Mi rispecchio multiapparente proiettato in voi solo intelletto quasi sonda di fiamma annegata d’emozione. (p. 65) È per l’umano e amoroso miracolo di questa fusione o unione sinciziale che la morte stessa – non più puro e oscuro ‘oltre’ ma ‘limite’ esperibile e appercepito – si trasfigura tingendosi di bianco. Ricordo una dichiarazione di gusto di P.V. Mengaldo – allora mio professore di storia della lingua italiana all’università di Padova. Rimproverava Mengaldo a Stefano Protonotaro di scrivere troppo ‘con la testa’. Ora, Cesare Ruffato non può essere se non incautamente bollato come un poeta eccessivamente intellettuale, o meglio, mentale. Carmina n.6 55 L’abbrivio di questa poesia è addirittura elegiaco. Non solo. Lo stile di Ruffato è lirico per surplus e implosione della vis raziocinante che, sottoposta ad altissime temperature in ardui percorsi gnoseologici, temprata dal sentimento inesausto, va incontro a un cambiamento qualitativo. Il passo meditativo e ragionante diventa lirico, il gradiente speculativo sublime (un sublime zavorrato di realtà). Ce lo aveva del resto insegnato già Dante, il Dante stilnovista. «Donne ch’avete intelletto d’amore» gli pronunciarono le labbra mosse come per se stesse; ‘intelletto’ non cuore. A tutta prima sembra un ossimoro che costringe gli eterni sfidanti cuore e mente. Ma al livello più alto la contraddizione non si pone. Secondo la distinzione aristotelica l’anima è triplice: vegetativa, sensitiva e ‘razionale’. Vi corrispondono tre forme d’amore di cui l’ultima è la più nobile e grande. Cesare Ruffato lo sa, non per tardiva imitazione ma in quanto poeta speculativo dal forte sentire: Il nostro muto colloquio conferisce all’intelletto d’amore luminosità nuova e profumo di fiori ignoti. Per questa strada, la più ardua ed esigente (e forse l’unica possibile), che richiede una mente ardita e un cuore puro, il ‘poeta pallido’6 Ruffato varca il confine dell’ineffabile e attinge, attraverso l’ombra del pensiero, la percezione di una luminosità altra. I versi qui sopra riportati continuano così: L’oltre di noi puro che trascini è già centro di un mondo altro di vita che si sottrae al pensiero umbratile d’ogni conoscenza e divenire. (p. 40) Perciò, sfidando i tempi pulp e splatter in cui sopravviviamo e l’understatement e la parola stanca, lasciatemelo dire, qui, ora: «onorate l’altissimo poeta». 6 Cfr. C. Ruffato, Il poeta pallido, Venezia, Marsilio, 2005. Carmina n.6 56 Ville(s) di Rimbaud Di Alberto Accorsi Vorrei proporre qualche riflessione su alcuni scritti di Arthur Rimbaud. La sua bruciante esperienza continua a parlarci anche a distanza di tanto tempo: ci si scotta ancora. E la ferita domanda sempre cura, comprensione. “Voglio essere poeta, e lavoro a rendermi veggente… bisogna esser forti, esser nati poeti, ed io mi sono riconosciuto poeta” così nella lettera al professore di retorica Izambard del 13 Maggio 1871. In modo più articolato nella lettera del 15 Maggio 1871 all’amico Paul Demeny, scrive: “Io è un altro. Se l’ottone si sveglia tromba non è mica per colpa sua. Questo mi sembra evidente: io assisto allo schiudersi del mio pensiero: io lo guardo l’ascolto: dò un colpo d’archetto: la sinfonia fa le sue evoluzioni… tanti egoisti si proclamano autori. Io dico che bisogna farsi veggente. Il poeta si fa veggente attraverso un ragionato sregolamento di tutti i sensi (in qualche modo spersonalizzandosi deliberatamente) perchè egli giunge all’ignoto!” Arthur Rimbaud dunque spende tutto se stesso nel tentativo di costruirsi poeta, un poeta che guarda al futuro, creatore di opere che anticipino il mondo a venire. Vuole essere un veggente, attraverso la poesia potrà arrivare alla conoscenza. Si tratterà di un sapere esoterico? In Parade, una delle Illuminazioni, Rimbaud sembrerà suffragare questa ipotesi: “Solo io ho la chiave di questa parata selvaggia”. Ma nella lettera già citata a Demeny, del Maggio 1871, aveva testimoniato la marginalità del poeta nell’insieme del processo creativo. “Io è un altro”, appunto e la canzone è in un certo senso indipendente dal pensiero cantato e compreso dal cantore. Così ha senso ogni tentativo di interpretazione che si attua sulla “canzone” non sul “cantore”. E generazioni di interpreti si avvicenderanno per trarre dai testi rimbaudiani insegnamenti, visioni, pensieri. Delle tre Illuminations intitolate città, due sono al plurale (Villes) e una al singolare (Ville): perchè? Di fronte a un Rimbaud “mistico e selvaggio” (secondo Paul Carmina n.6 57 Claudel) la natura, la vita, la storia e tutto ciò che lo circonda, Londra o Parigi appaiono come un turbinio di immagini senza senso e occorre un modo per ordinare e conoscere la propria realtà. I miti rivelano l’ordine profondo che regola la vita e la morte, i successi e le sconfitte, l’estate e l’inverno, tutto ciò che è accaduto e che accadrà. Assistiamo dunque alla elaborazione di un mito? I miti, come le parabole, e le fiabe hanno il compito di far arrivare l’ascoltatore al mondo dei principi attraverso la parola e il coinvolgimento emotivo. Spetterà poi alla razionalità il chiarimento delle presunte contraddizioni e la disposizione degli avvenimenti nella giusta luce. Le due illuminazioni intitolate Villes sembrano solo tentativi di cristallizzare le caratteristiche delle metropoli moderne, falliti per eccesso, (Villes I ) o per difetto di potenza immaginativa (Villes II). Leggiamo in Villes I: Sono città! È per un popolo che sono sorti questi Alleghani e questi Libani di sogno!… Sulle piattaforme in mezzo agli abissi gli Orlandi suonano il loro coraggio… Oltre il livellodelle più alte creste un mare turbato dall’eterna nascita di Venere, carico di flotte canore… Cortei di Mab in abiti rossicci, opalini, salgono dalle forre. Lassù, con le zampe nella cascata e nei rovi, i cervi poppano Diana. Le Baccanti delle periferie singhiozzano e la luna arde e urla. Venere entra nelle caverne dei fabbri e degli eremiti… “In questa ribalta tutto si recita”, ha commentato Gabriele Aldo Bertozzi. Le immagini delle diverse mitologie (Orlandi, Venere, Baccanti, Mab, Diana) si susseguono con un ritmo mozzafiato. Il loro nesso logico ci sfugge. Quasi nessun elemento ci collega alla realtà. Invece in Villes II : L’acropoli ufficiale supera le concezioni più colossali della barbarie modernal… Assisto a esposizioni di pittura in locali venti volte più vasti di Hampton Court. E che pittura! Un Nabucodonosor norvegese ha fatto costruire le scale dei ministeri… I parchi rappresentano la natura primitiva modellata da un’arte superba. Il quartiere alto ha parti inesplicabili… Un corto ponte conduce a una postierla proprio sotto la cupola della Santa Cappella. Questa cupola è Carmina n.6 58 un’artistica armatura d’acciaio di circa quindicimila piedi di diametro… Il quartiere commerciale è un anfiteatro di uno stesso stile… qualche nababbo raro come chi va a spasso di domenica mattina a Londra, si dirige verso una diligenza di diamanti… Il sobborgo, elegante quanto una bella via di Parigi ha la fortuna di avere un aspetto luminoso… Qui al contrario un’autorevole interprete, Enid Starkie, ha creduto di leggere la descrizione sistematica e precisa di Londra (West End, Piccadilly). Quasi che Rimbaud sia stato spinto da un’esigenza dialettica, dopo la selvaggia cavalcata fantastica di Villes I a fissare sulla carta immagini assai concrete, quasi quotidiane. Per “L’acropole officielle” si è pensato al Crystal Palace dell’Esposizione Universale di Londra del 1851; per quanto riguarda l’allusione al re di Babilonia si può ricordare che l’urbanista J.Martin aveva progettato e costruito in Londra edifici in stile babilonese. La sintesi sembra realizzarsi proprio in Ville; è quì che il poeta sembra esprimere la quintessenza delle sue esperienze: è in Ville che sembra aversi la manifestazione di quel “luogo unico” di cui ha scritto, in pagine assai acute, Cesare Pavese. Per Pavese, il carattere della fiaba mitica è la consacrazione dei luoghi unici… A un luogo tra tutti si dà un significato assoluto isolandolo dal mondo. Il paragone con l’infanzia chiarisce come il luogo mitico non sia tanto singolo, il santuario, quanto quello di nome comune, universale, il prato, la selva… che nella sua indeterminatezza evoca tutti i prati, le selve… Nel nostro caso La Città, santuario della modernità che fatta in sostanza di meccanicità, di banalità, evoca tutte le città future. Seguiamo Rimbaud: “Sono un effimero e non troppo scontento abitante di una metropoli ritenuta moderna perchè ogni gusto conosciuto è stato eluso nell’arredamento e nell’esterno delle case come nella pianta della città. Qui non potreste segnalare tracce di alcun monumento di superstizione. Morale e lingua sono ridotte alla loro più semplice espressione, finalmente! Questi milioni di persone che non hanno bisogno di Carmina n.6 59 conoscersi conducono nello stesso modo educazione, mestiere e vecchiaia, tanto che il corso della vita deve essere parecchie volte meno lungo di quel che una statistica folle non riscontri per i popoli del continente. E perciò come, dalla mia finestra, vedo spettri nuovi che rotolano attraverso lo spesso ed eterno fumo di carbone, nostra ombra dei boschi, nostra notte d’estate, nuove Erinni, davanti al mio cottage che è la mia patria e tutto il mio cuore poichè tutto qui assomiglia a questo, la Morte senza pianti, nostra attiva figlia e serva, e un Amore disperato, e un piacevole Crimine che geme nel fango della strada. Con Ville siamo davanti all’aspetto fondamentale della metropoli in quanto Rimbaud pone al centro del testo proprio il modo in cui è vissuto il tempo dai milioni di abitanti della grande città: “Morale e lingua sono ridotte alla loro più semplice espressione, finalmente! Questi milioni di persone che non hanno bisogno di conoscersi conducono nello stesso modo educazione, mestiere e vecchiaia, tanto che il corso della vita deve essere parecchie volte meno lungo di quel che una statistica folle non riscontri per i popoli del continente”. L’inquietudine e la perplessità di fronte alla vita, nelle prime grandi città industrializzate, non poteva naturalmente essere del solo Rimbaud. Una testimonianza molto significativa ci è stata offerta da Friedrich Engels nel suo libro del 1845 La situazione della classe operaia in Inghilterra. Scrivendo di Manchester egli rileva: “queste persone di tutti i ceti e di tutte le classi… non devono forse tutti quanti ricercare la felicità per le stesse vie e con gli stessi mezzi? Eppure si passano davanti in fretta, come se non avessero nulla in comune… In questa “illuminazione” pare che Rimbaud sia proprio riuscito a intuire l’essenza della città moderna: una macchina gigantesca dove ogni ingranaggio si trova ripetere le stesse azioni, e dove predomina l’indifferenza. La giornata scorre tra ore che non passano mai e, paradossalmente, orari da rispettare in modo ferreo. È forse per quest’ultimo motivo che il linguaggio e la morale sono ridotti ai minimi termini? “Morale e lingua sono ridotte alla loro più semplice espressione, finalmente!” Scrive Rimbaud. Pochi anni prima, in tutt’altro contesto, nei “Parerga e Paralipomena” Arthur Schopenhauer polemizzava aspramente contro chi contribuiva a Carmina n.6 60 impoverire sempre di più il linguaggio e con esso il pensiero stesso: “La genuina concisione dell’espressione consiste nel saper dire in ogni caso soltanto ciò che è degno di essere detto. Invece non bisogna sacrificare la chiarezza e tantomeno la grammatica alla concisione. È una deplorevole dissennatezza indebolire l’espressione di un pensiero… per riuscire ad adoperare qualche parola in meno. Ma proprio questa è la tendenza alla falsa concisione che oggidì è talmente di moda… E ai nostri tempi, non v’è chi non sia in grado di rilevare come, nelle grandi città, si stia assistendo al crescere dell’indifferenza, al crescere di quella che è stata considerata la specifica povertà dei paesi ricchi, la solitudine; e, su un piano nettamente diverso, alimentato dalle nuove tecnologie, a un ulteriore impoverimento del linguaggio. Ma la “profezia” di Rimbaud assume una valenza addirittura strutturale. Scriveva Engels nel 1845 che la società borghese, nella grande città, dissimulava ciò di cui viveva, i quartieri operai dimore di chi costituisce il motore della produzione industriale erano nascosti; può capitare di non incontrare operai in città; operai che nelle industrie che stavano diffondendosi, venivano a svolgere funzioni complementari per la sempre più accentuata divisione del lavoro; ciò costituirà, tra l’altro, la base materiale per il formarsi e per lo sviluppo della solidarietà e della cosiddetta “coscienza di classe”. Oggi, per effetto della rivoluzione informatica, l’organizzazione del lavoro nei moderni centri di produzione è tale da chiudere i lavoratori in una monade che è la produttività individuale isolandoli, tramite la competizione, dagli altri lavoratori. Così oggi l’essenza della nostra società, perlomeno di quella cosiddetta dei “due terzi”, non è più nascosta. Essa si presenta in modo evidente nella vita quotidiana della città, soprattutto in quelli che sono stati definiti “non luoghi”. “Questi milioni di persone che non hanno bisogno di conoscersi conducono nello stesso modo educazione, mestiere e vecchiaia, tanto che il corso della vita deve essere parecchie volte meno lungo di quel…” in termini hegeliani potremmo dire che essenza ed esistenza trovano, finalmente, la loro conciliazione. Carmina n.6 61 Di fronte a questa prospettiva per Rimbaud non c’è che la fuga… da Una stagione all’inferno: “L’astuzia è lasciare questo continente, dove la follia va in giro per fornire ostaggi a quei miserabili. Si accendano le città nella sera, abbandono l’Europa… viaggeremo, andremo a caccia nei deserti, dormiremo sui selciati delle città sconosciute, senza pensieri, senza pene. Eccomi sulla spiaggia armoricana. Le città si accendono nella sera. La mia giornata è fatta; io lascio l’Europa. L’aria marina mi brucerà i polmoni; i climi perduti mi abbronzeranno. Nuotare, pestare l’erba, cacciare, fumare soprattutto; bere liquori forti come metallo bollente, come facevano quei cari antenati intorno ai fuochi. Quando andremo, oltre le spiagge e i monti, a salutare la nascita del nuovo lavoro, la nuova saggezza, la fuga dei tiranni e dei demoni, la fine della superstizione, ad adorare - i primi! - Natale sulla terra!” Ma la delusione non mancherà: dal Rapporto sull’Ogaden, 10 Dicembre 1883: “L’occupazione giornaliera è quella di andare ad accovacciarsi a gruppi sotto gli alberi… e, armi alla mano, deliberare indefinitamente sui loro vari interessi di pastori. A parte le sedute, il pattugliamento a cavallo durante l’abbeveraggio e le razzie presso i loro vicini, sono completamente inattivi. Ai bambini e alle donne è lasciato il compito del bestiame, della preparazione degli utensili domestici, della costruzione delle capanne, dell’allestimento delle carovane”. E l’alternativa stessa era destinata a svanire. Ancora da Una stagione all’inferno: “Conosco ancora la natura? Mi conosco? - Niente più parole. Seppellisco i morti nel mio ventre. Grida, tamburo, danza, danza, danza, danza! Io non vedo neppure l’ora in cui, sbarcati i bianchi, io cadrò nel nulla. Fame, sete, grida, danza, danza, danza, danza!” E poi… “I bianchi sbarcano. Il cannone! Bisogna sottomettersi al battesimo, abbigliarsi, lavorare. Ho ricevuto al cuore il colpo di grazia. Ah! io non l’avevo previsto!” Carmina n.6 62 L’uomo “dalle suole di vento” in realtà l’aveva previsto forse dal giorno stesso in cui si era messo in cammino e aveva deciso di provare a vivere mille vite spese tutte nel tentativo di dare all’esistenza un senso inaudito. Carmina n.6 63 EDGAR ALLAN POE Il diavolo dentro Di Fabrizio Manini Edgar Poe (Boston 1809 – Baltimora 1849) è figlio di attori girovaghi, in un’America in perenne fermento, scossa dalle guerre e in cerca di una propria identità istituzionale e sociale. Impara da subito cosa siano realtà e illusione, inscindibilmente unite fra loro a un’infanzia fatta di disagi, ristrettezze, ribellione mai sopita e istinto da gran vagabondo. Perde il padre dopo pochi mesi, la madre a due anni; alcuni giorni dopo il teatro di Richmond dove recitava la compagnia viene distrutto dalle fiamme. La troupe affida il piccolo Edgar alla famiglia Allan, da cui prenderà il secondo cognome in segno di ringraziamento per i genitori adottivi. Il padre non è mai stato gentile con Edgar, al contrario la madre, che non può avere figli, è assolutamente troppo presente, troppo soffocante, troppo permissiva, troppo arrendevole, troppo indulgente, troppo tollerante e pronta a perdonare tutto. Gli Allan sono una famiglia di ricchi commercianti e nel 1815, all’indomani della sconfitta di Napoleone, si trasferiscono in Inghilterra per rilanciare la loro attività seriamente compromessa dalla seconda guerra d’indipendenza americana e dal blocco navale inglese. Qui Edgar viene sballottato fra parenti, scuole, collegi, tutti di ispirazione profondamente religiosa intrisa da un’opprimente mentalità puritana. Tuttavia il giovane rimane favorevolmente colpito dal villaggio di Stoke Newington dove “si levava una folla di alberi giganteschi e nodosi e dove tutte le case apparivano eccessivamente vecchie”. Gli antichi borghi misteriosi, le abitazioni decrepite, le cantine umide, i corridoi oscuri, le foreste impenetrabili, la percezione di presenze non umane sono lo spunto esperienziale che eccita la fantasia di un bambino pauroso. Il gusto del macabro e l’interiorizzazione di questi luoghi costituiscono il punto di partenza a cui bisogna guardare per capire appieno le componenti della sua opera e le ambientazioni gotiche e orrorifiche dei suoi racconti. Nel 1920 la famiglia Allan torna in America perché gli affari non vanno secondo le loro previsioni. Edgar frequenta la English Classical School ed è l’inizio di una lunghissima serie di infatuazioni ed Carmina n.6 64 esaltazioni erotiche che si susseguiranno e si accavalleranno caoticamente e tragicamente per tutta la vita. John Allan iscrive il figlio all’università della Virginia, ma qui Edgar si dà al gioco d’azzardo, all’alcool, all’oppio, al laudano, alle donne e ai duelli. Vuole primeggiare, vuole stupire, vuole dimostrare, cerca ammirazione, prende senza pagare, contrae numerosi debiti, non salda i creditori. Nel 1827 un violentissimo scontro verbale con il padre lo porta ad abbandonare sdegnosamente la casa degli Allan e l’arricchimento del deprecabile mondo borghese. La madre riesce a fargli avere un po’ di denaro, ma per qualche anno la vita di Edgar sarà il baratro. In questo periodo pubblica il quaderno Tamerlano e altre poesie scritte da un bostoniano e inizia la stesura del poema Al Aaraaf. Nel 1829 muore la madre adottiva e questo segna un riavvicinamento fra lui e il padre John Allan che gli darà del denaro e alcune lettere di raccomandazione per entrare nell’accademia militare di West Point. Durante l’attesa necessaria per il disbrigo delle pratiche ministeriali va a vivere a Baltimora presso la zia Maria Clemm; qui ritrova il fratello Henry William, perso da piccolo, e conosce la cuginetta Virginia. È uno dei pochi momenti tranquilli della sua breve vita; la sorte gli sorride anche in campo letterario in quanto Al Aaraaf viene favorevolmente recensito dal critico John Neale e pubblicato sulla Gazzetta Letteraria di Boston. La vita dentro l’accademia non è affatto ciò che Edgar credeva e sperava: la mancanza cronica di denaro e la vita dispendiosa che deve condurre per rimanere alla pari dei compagni più ricchi lo costringono a contrarre nuovi debiti che il signor Allan si rifiuta di pagare. Oltretutto quest’ultimo si è risposato ed è finalmente in attesa di un erede legittimo. Non potendo più contare sull’eredità di Allan i rapporti fra i due si interrompono definitivamente. Nel 1831 una serie di intemperanze lo portano a essere espulso con disonore da West Point, ma il giovane Edgar non se ne cura più di tanto e torna a Baltimora dalla zia Clemm dalla quale non si separerà più. La zia è stata probabilmente la figura più importante di tutta la sua vita: riuscirà infatti a dare all’irruento scrittore quell’affetto materno di cui il giovane sente inconsciamente il bisogno e lo aiuterà ad affrontare, e talvolta a superare, le sempre più numerose crisi materiali e spirituali. Nel 1833 Edgar vince il concorso del Saturday Visiter di Baltimora col racconto Manoscritto trovato in una bottiglia. Il critico Kennedy, membro della giuria, lo prende in simpatia e lo stesso anno lo fa Carmina n.6 65 assumere presso il Literary Messenger di Richmond dove il direttore Thomas White lo impiega come redattore. Poe è apparentemente soddisfatto e si dedica al lavoro con impegno, ma dopo pochi mesi in una lettera al Kennedy scrive che “sono in uno stato veramente pietoso, soffro di una depressione mentale come non ne ho mai provate, ho lottato invano contro la malinconia, sono in uno stato miserevole e non so perché”. Poe inizia a bere disinteressandosi del lavoro e per questo White lo licenzia. Dietro intercessione di Kennedy viene assunto di nuovo e questa volta lavorando duro riesce ad incrementare la tiratura del giornale e anche a essere promosso redattore capo. Nel 1836 sposa la cuginetta Virginia, ma l’inizio della costruzione di una famiglia non è la cura per il suo male oscuro. La malinconia e la sensazione di inadeguatezza unite all’abuso di alcool e di stupefacenti lo portano a perdere definitivamente il lavoro di redattore. Vive un po’ a New York, dove pubblica il romanzo Le avventure di Arthur Gordon Pym, e un po’ a Filafelfia, dove collabora al Gentleman’s Magazine che gli pubblica La rovina della casa degli Usher, William Wilson e Morella. Poe, però, continua a sentirsi dilaniato dal dentro, si vede come un incompreso, si percepisce come un perseguitato; non riesce a mantenere un lavoro, i tentativi di risollevarsi falliscono miseramente, la moglie Virginia si ammala di tisi. Poe torna a New York e inaspettata arriva la svolta: l’Evening Mirror il 29 gennaio 1845 pubblica la poesia Il corvo. È il trionfo. Il pubblico rimane sconvolto da quella poesia nera così insolita, così angosciosa, così morbosa. Il successo letterario e quello mondano sono immediati e immensi. Poe relega la moglie Virginia a Fordham in campagna e inizia a viaggiare in lungo e in largo per tutti gli Stati Uniti; non c’è un salotto in cui non sia presente, ma la tragedia incombe. Usa tutti i risparmi per comprare il Broadway Journal di New York, ma è impossibilitato a proseguire le pubblicazioni per cui perde sia la testata sia il denaro investito. Nel 1846 torna a Fordham dalla zia Clemm e dalla moglie Virginia, ma quest’ultima muore l’anno successivo. In memoria della moglie Poe scrive la dolente Ulalume. Lascia nuovamente Fordham e vive altre avventure con altre donne, ma è tutto senza importanza; il ricorso ossessivo all’alcool gli causa una crisi di delirium tremens che lo porta a tentare due volte il suicidio. Pochi mesi prima di morire, nel luglio del 1849, ritrova una sua vecchia fiamma, Elmira Royster vedova Shelton, e insieme decidono di convolare a nozze il 17 ottobre dello stesso anno. Poe vuole che al Carmina n.6 66 matrimonio sia presente anche la zia Clemm, per cui il 27 settembre parte alla volta di Fordham per prenderla, ma non ci arriverà mai. Il 3 ottobre viene ritrovato moribondo in Hight Street presso Baltimora; ricoverato in fin di vita al Washington Hospital muore il 7 ottobre e viene sepolto nel piccolo cimitero presbiteriano della città. Poe è senza dubbio il padre della narrativa di genere, del racconto nero, tenebroso, caratterizzato da tinte fosche e tematiche fra il misterioso, il lugubre, l’irrazionale e il soprannaturale. L’opera di Poe comprende settanta racconti, il romanzo Le avventure di Arthur Gordon Pym, circa cinquanta poesie (una su tutte Il corvo), almeno ottocento pagine di articoli critici, un libro di filosofia intitolato Eureka, gli scritti Marginalia e Suggestions che sono pensieri e annotazioni di vario argomento, un abbozzo di dramma intitolato Politian, un manuale di conchigliologia quasi del tutto plagiato. Poesia, narrativa e critica sono i tre interessi principali che Poe ha coltivato durante la sua tragica vita; sono i tre aspetti della sua arte che si mescolano in un reciproco scambio di temi che rendono la sua opera apparentemente frammentaria e discontinua. Ma è alla narrativa che intendiamo rivolgere maggiormente la nostra attenzione. Con il titolo generico di Racconti straordinari si indicano tutti i racconti che Poe scrisse fra il 1832 e il 1849. Le uniche raccolte curate dall’autore sono i Racconti del grottesco e dell’arabesco del 1840 e i Racconti del 1845, entrambe tradotte in francese da Baudelaire. Nell’edizione postuma, nota col nome di Buckner Library Edition i racconti vengono suddivisi in tre sezioni: Racconti fantastici, Racconti vari, Racconti umoristici. RACCONTI FANTASTICI. “La morte trionfava nella sua voce” ha scritto Mallarmé di Edgar Allan Poe; e nei racconti fantastici è proprio la morte con il suo funebre corteo (seppellimenti prematuri, sopravvivenza, vampirismo femminile, passaggio della vita da un essere all’altro) a costituire il tema di fondo. • Curiosità e paura sono gli strumenti di cui l’autore si serve per variare e perfezionare quel tema che nel racconto La maschera della morte rossa (1842) assurge addirittura a simbolo. Per sfuggire alla peste rossa il principe Prospero si è rinchiuso con i suoi amici in un’abbazia fortificata. L’allegra brigata passa il tempo tra feste e balli mascherati, ma durante l’orgia più fastosa un ospite sconosciuto circola Carmina n.6 67 nelle sale in abbigliamento di pessimo gusto. La sua maschera rappresenta il volto di un morto e l’ampio sudario che gli fa da mantello è macchiato di sangue. Prospero dà ordine di arrestarlo, ma poiché nessuno osa obbedirgli si lancia egli stesso all’inseguimento dell’intruso brandendo un pugnale. Ma quando sta per essere colpito lo sconosciuto si volta a guardarlo fisso e il principe Prospero cade a terra fulminato. A quel punto gli ospiti si gettano furiosamente sull’intruso e gli strappano maschera e sudario. Fra il terrore generale si accorgono che sotto non c’è niente. È la Morte Rossa. • Nella serie di racconti che portano per titolo nomi di donna il problema della morte appare sotto vari aspetti: ad esempio il passaggio della vita da una persona all’altra in Morella (1835), in cui una sposa mal amata dal marito rivive nella figlia che dà alla luce morendo, e in Ligea (1838); la bella Ligea dai capelli corvini muore dopo un’estenuante lotta contro la morte. Alcuni anni dopo il marito sposa la bionda Lady Rowena di Tremaine, ma il ricordo di Ligea è sempre in fondo al suo cuore ed egli non riesce ad amare la bionda consorte. Ben presto anche Rowena si ammala. Una sera, nei sogni che gli procura l’oppio, l’uomo vede una mano nascere dal nulla e versare nel bicchiere di Rowena un misterioso liquido. La donna ne beve e muore immediatamente, ma nel cuore della notte avviene un evento straordinario: la morta si alza e cammina; sembra molto più alta e in effetti lo è; quando si toglie dalla testa il sudario non sono i biondi capelli di Rowena che appaiono all’uomo, ma quelli neri di Ligea. Sotterramento prematuro e feticismo costituiscono invece il tema di Berenice (1835). Egeo è ossessionato dai denti della cugina Berenice, sua promessa sposa. Quando quest’ultima muore per un attacco di epilessia viene sepolta nei sotterranei del castello. Egeo, in preda al sonnambulismo, va a dissotterrarla e le strappa “i trentadue minuscoli e bellissimi oggetti bianchi”. Solo più tardi si scoprirà che Berenice non era morta, ma era caduta in catalessi. • Lo stesso tema si ritrova ne La rovina della casa degli Usher (1839). Roderick e sua sorella Madeline, ultimi discendenti della famiglia degli Usher, vivono nella villa in rovina ereditata dagli antenati, in una campagna da incubo isolata e nebbiosa, ai bordi di uno stagno nero e sempre immobile. Roderick è nevrotico e paranoico, sente con chiarezza lancinante anche i più piccoli rumori; Madeline soffre spesso di catalessi. Alla sua presunta morte la fanciulla viene Carmina n.6 68 sepolta nei sotterranei della villa. Una notte, durante una tempesta indicibile, un amico di Roderick, chiamato da quest’ultimo a fargli compagnia, sta leggendo un libro ad alta voce. All’improvviso dal sotterraneo sale un rumore spaventoso accompagnato da grida agghiaccianti. Si spalanca la porta della stanza e appare Madeline “avvolta nel sudario; i suoi candidi panni apparivano insanguinati e su tutta la sua persona si scorgevano le tracce manifeste di una terribile lotta”. La fanciulla avanza vacillando e si abbatte sul fratello; i due cadono a terra morti. L’ospite fugge in preda al terrore appena in tempo perché la casa, strettamente legata da misteriosi vincoli alla dinastia degli Usher e alla vita dei suoi occupanti, crolla e viene inghiottita dalle nere acque dello stagno. • Il racconto William Wilson (1840) è eminentemente autobiografico. Un giovane malvagio viene perseguitato per tutta la vita da un sosia buono che non è altri che la sua coscienza. Esasperato da questa persecuzione William Wilson cattivo uccide in duello William Wilson buono. Il morente, poco prima di soccombere, mormore queste parole: “Tu hai vinto e io muoio, ma d’ora in poi anche tu sei morto… nella mia morte vedi, per mezzo di questa immagine che è la tua propria, come hai completamente assassinato te stesso”. • Il gatto nero (1843) è il racconto che più colpì la fervida fantasia di Baudelaire e dei letterati francesi. Per inciso il locale di cabaret che sarà aperto da Rodolphe Salis a Montmartre nel 1881 si chiamerà infatti “Le chat noir”. La narrazione inizia con un uomo perseguitato da un gatto nero; l’uomo amava follemente quel gatto, ma durante una sbronza lo ha accecato. Non riuscendo più a sopportare l’odio dell’animale l’uomo lo impicca. Ma poi si pente del suo gesto e, incontrato per strada un altro gatto nero come il primo e come lui senza un occhio, lo prende con sé e lo porta a casa. Ma anche questo gatto prova per lui un odio istintivo. Un giorno l’uomo scende in cantina con il gatto e con la moglie, ma il gatto lo fa cadere. L’uomo, preso da furia omicida, tenta di colpirlo con una scure, ma è la moglie, intervenuta per difendere la bestiola, a ricevere il fendente. L’uomo mura il cadavere della donna in cantina e corre a cercare il gatto per ucciderlo., ma non lo trova da nessuna parte. Passano alcuni giorni e la polizia si presenta a casa dell’uomo in cerca della donna scomparsa. L’uomo è tanto sicuro di sé da schernire gli agenti chiedendo loro perché non abbattono quel solidissimo muro della cantina e picchia con i pugni sulla parete appena Carmina n.6 69 eretta. Immediatamente si leva un orribile gemito. Gli agenti demoliscono il muro e scoprono il cadavere; sulla sua testa c’è il terribile gatto. • Uno dei racconti più noti di Poe è Il pozzo e il pendolo (1842) dove si narra le terribili torture fisiche e morali di un detenuto dell’Inquisizione spagnola salvato in extremis dall’arrivo delle truppe francesi. Seguono poi Lo scarabeo d’oro (1843) che racconta della scoperta di un tesoro grazie alla decifrazione di una complicata mappa trovata sulla spiaggia. Il Manoscritto trovato in una bottiglia (1833) è la storia di un naufragio, il racconto che fece vincere a Poe i cinquanta dollari del premio del Saturday Visiter. Metzengerstein (1832) presenta il caso di reincarnazione di un antico cavaliere nel suo cavallo dipinto su una tappezzeria della casa del discendente del suo uccisore; il diabolico cavallo trascinerà nelle fiamme del castello il vizioso Metzengerstein. • Completano i Racconti Fantastici: Eleonora (1841), Il demone della perversità (1845), Il barile di Amontillado (1846), Rivelazione mesmerica (1844), La verità sul caso Valdemar (1845), Una discesa nel Maelström (1841), L’appuntamento (1834 e 1845), Il cuore rivelatore (1843), Una storia delle Ragged Mountains (1844), La cassa oblunga (1844), L’uomo della folla (1840), Re Peste (1835) e Il ritratto ovale (1842). RACCONTI VARI. In questa categoria hanno grande importanza storica quelli a carattere poliziesco che successivamente sfoceranno, a opera di altri autori come Doyle (Sherlock Holmes), Wright (Philo Vance), Chesterton (Padre Brown), Agatha Christie (Hercule Poirot), Biggers (Charlie Chan), Chandler (Philip Marlowe), Gardner (Perry Mason), Stout (Nero Wolfe), Simenon (Jules Maigret), nel romanzo investigativo. Da parte sua Poe è il precursore di tutti questi scrittori, essendo stato il primo ad aver inventato la figura del detective, nel suo caso il cavaliere Auguste Dupin. • Nel racconto Gli assassinii della Rue Morgue (1841), il brillante investigatore-pensatore Dupin, risolve il caso di due donne trovate barbaramente massacrate in una stanza chiusa dall’interno. Le indagini della polizia segnano il passo, ma per fortuna interviene Dupin che rileva un fatto apparentemente insignificante, e cioè che il delitto è troppo feroce per poter essere stato commesso da un essere umano. A Carmina n.6 70 questo si accompagnano altri indizi insoliti, come la forza straordinaria dell’assassino, i peli ritrovati nella mano di una delle vittime, i versi incomprensibili che i vicini hanno sentito durante l’aggressione. Per chiarire il caso Dupin fa pubblicare su un giornale un annuncio: “Trovato al Bois de Boulogne un orangutang fulvo, il proprietario può riaverlo rivolgendosi a Dupin”. Qui scatta la trappola. Il proprietario della bestia è un marinaio maltese che si presenta all’indirizzo indicato; il finto arresto di un innocente è lo stratagemma del cavaliere per forzare la mano al colpevole. Il marinaio non può che confessare, di fronte alle incalzanti contestazioni dell’investigatore, che l’orribile delitto è stato commesso proprio dal suo orangutang. • Il mistero di Marie Roget (1842) è la trasposizione a Parigi di un caso realmente avvenuto a New York: l’assassinio di una giovane donna di nome Mary Rogers che la polizia non riusci mai a chiarire. Dupin, riflettendo sulle testimonianze riportate dai giornali, trova la soluzione. Il racconto è una sorta di lungo saggio che rappresenta un noioso quanto abile esercizio di ragionamento. • La lettera rubata (1845) è il miglior racconto poliziesco di Poe. Una lettera compromettente è stata rubata a una dama della famiglia reale da un ministro intrigante. La casa del ministro è stata perquisita più che accuratamente, ma della lettera nessuna traccia. Il prefetto, disperato, ricorre all’aiuto di Dupin. L’investigatore si reca in visita dal ministro e, approfittando della mmomentanea disattenzione dell’ospite attirato alla finestra da uno sparo che è rimbombato in strada (trucco precedentemente organizzato dallo stesso Dupin), impadronisce della lettera che era ben in vista in un portalettere appeso sopra il caminetto. • Anche Sei stato tu (1844) può essere in parte considerato un racconto polizesco, anzi, il capostipite del giallo umoristico; il “vecchio Carletto”, simpatico e gioviale amicone di tutti, ha ucciso il signor Shuttleworthy per sottrargli un’ingente somma di denaro. Per sviare le indagini, ha costruito una sfilza di prove contro il nipote dell’ucciso, che viene arrestato e condannato a morte. Ma davanti al cadavere della sua vittima che gli viene recapitato in una cassa di vino durante un festoso pranzo, Carletto confessa la sua colpa e muore di terrore. • Seguono poi: Quattro bestie in una (1836), Il seppellimento troppo affrettato (1844), La sfinge (1846), Il dominio di Arnheim (1847), Carmina n.6 71 La villa di Landor e Hop Frog (1849), Il giocatore di scacchi di Mælzel (1836), nel quale Poe dà una spiegazione razionale del celebre automa che gioca a scacchi. RACCONTI UMORISTICI. II New York Sun del 13 aprile 1844 pubblicò in prima pagina la sbalorditiva notizia che Monck Mason aveva attraversato in tre giorni l’Atlantico sul dirigibile Victoria. La gente fece a pugni per riuscire a conquistare una copia del giornale, poi assediò a lungo la redazione per avere ulteriori notizie. Ma era tutto falso, una clamorosa montatura giornalistica passata alla storia sotto il nome di La frottola del pallone. L’autore del brillante scherzo era Edgar Allan Poe, che segnava in modo tanto originale il suo ritorno a New York. • Uno dei più noti Racconti umoristici è senza dubbio L’impareggiabile avventura di un certo Hans Pfaall (1835). Il personaggio del titolo, un ex accomodatore di soffietti, è misteriosamente scomparso da Rotterdam. Ricompare dopo alcuni anni, piovendo letteralmente dal cielo a bordo di un pallone di sua costruzione, getta ai piedi del borgomastro della citta una lettera in cui fa un resoconto accurato della sua “impareggiabile avventura” (il viaggio sulla luna) e poi risale nuovamente in cielo. In cambio di quella relazione di grande valore scientifico chiede il condono dei delitti che ha commesso prima di lasciare Rotterdam nelle persone dei suoi feroci e implacabili creditori. Ma non ritornerà mai a prendere la risposta. • Non scommettete la testa col diavolo (1841) ha ispirato a Fellini il suo episodio del film ‘Tre passi nel delirio’. Dammit è uno scommettitore inveterato. Non passa giorno senza che provochi gli amici con i suoi “scommetto”. “Scommetto la testa col diavolo” urla un giorno all’amico che mette in dubbio la sua capacità di saltare un cancetto girevole che impedisce l’ingresso a un ponte. Uno strano vecchietto zoppo, rintanato nell’oscurità di un angolo, si affretta ad accettare la scommessa. Dammit spicca uno splendido balzo, si libra in aria ben oltre l’ostacolo, ma ricade violentemente all’indietro. Il vecchietto si china su di lui, raccoglie frettolosamente qualcosa e fugge via. Quando l’amico-narratore arriva vicino a Dammit, si accorge che lo scommettitore è senza testa: gliela ha tranciata di netto un’invisibile sbarra di ferro, affilata dal tempo, infissa a mezza altezza; e il vecchietto-diavolo se ne è andato con la sua posta. Carmina n.6 72 • Negli altri racconti c’è maggior spazio per l’umorismo (sempre piuttosto macabro) di Poe: ad esempio Il diavolo nel campanile (1839), e soprattutto Il sistema del dottor Catrame e del dottor Piuma (1845) che descrive un manicomio in cui le parti sono invertite: sono i matti a fare da medici e i medici a far da pazienti. • Altri racconti sono: Il duca de l’Omelette, Storiella Gerosolimitana, Bon Bon e Perdita di fiato (1832); Celebrità (1837), Come scrivere un articolo alla Blackwood (1838) e Un caso imbarazzante (1838), L’uomo finito (1839), Perche il francesino porta il braccio al collo (1840) e L’uomo d'affari (1840), Tre domeniche in una settimana (1841), La truffa considerata come una delle scienze esatte (1843), L’angelo del bizzarro (1844) e Gli occhiali ovvero l’amore a prima vista (1844), Quattro chiacchiere con una mummia (1845), Il 1002° racconto di Sheherazade (1845), Vita letteraria di Thingum Bob (1845), Von Kempelen e la sua scoperta (1849), X-atura d’un articolo (1849), Mellonta Tauta (1849), Mistificazione (1837). Riferimenti: AA.VV., I Giganti n° 22, Edgar A. Poe, Mondadori. Carmina n.6 73 RECENSIONI Herbarium mysticum – Clausole medievali Di Gianfranco Franchi Non stupisca la pubblicazione, nel 2007, di queste “clausole medievali”: rivisitazione sensibile e accorta d’un passaggio, quello dal medioevo all’umanesimo, fondante per la cultura mediterranea e per la letteratura italiana. Non stupisca perché quello era un tempo in cui le letterature circolavano (male, ma liberamente) al di là dei confini dei regni e degli imperi, per suggestioni romanze e quindi, diremmo oggi, europee occidentali; tornando all’etimo, ricordiamo: romanze e cioè neolatine, Romane. Tanto che i chierici del nostro nuovo medioevo contemporaneo, avventurandosi nella c.d. “Storia della Letteratura Italiana”, scopriranno non poche difformità e stravaganze nella storia della nostra letteratura dell’undicesimo e dodicesimo secolo, a partire dalla compresenza di diverse lingue. Confusioni che soltanto lo Stato Moderno e il suo imponente apparato propagandista, menzogna moloch, ha saputo risolvere forzando la mano e riscrivendo il passato, assicurando che era italiano chi non sapeva d’esserlo, perché “italia” altro non era che una nostalgia Romana dei letterati, un ormai splendido “non luogo”. Ma questa è un’altra storia, ne riparleremo. Non stupisca la scelta, dicevo, di pubblicare “clausole medievali” perché l’autrice si trova a vivere in una delle più antiche aree romanze, perdute oggi e destinate a combattere eroicamente per tenere viva la coscienza di sé, della propria storia e delle proprie radici, a dispetto della giovane, viva, plurietnica e forte ondata slava del sud. Vlada Acquavita è istriana: mi spingo, per ragioni di sangue, a leggere il significato della parola “istriana”. Per me significa né italiana né croata, significa cittadina d’una terra d’area in generale latina, quindi romanza, caratterizzata da una popolazione costiera un tempo a maggioranza assoluta italiana, e da una popolazione rurale un tempo a maggioranza assoluta slovena o croata: tutte governate, tendenzialmente e storicamente, da Venezia e dall’Austria, negli ultimi sette secoli. Con Carmina n.6 74 tolleranza e intelligenza. Sino a circa cento anni fa, quando è sopraggiunta la menzogna dello Stato Moderno, il delirio delle macronazioni, la confusione del centralismo, la massificazione, l’ideologia assassina alfa e quella beta. Per me “istriana” significa cittadina delle patrie lettere italiane, perché non ho dimenticato la storia. E non m’illudono e non m’accecano i favolosi glagolitici che periodicamente spacciano un passato inesistente per storia. Non stupisca la scelta, ribadisco, perché tra i circa 30mila rimasti, dall’esodo dei 300mila istriani, fiumani e dalmati, è ancora viva la coscienza della storia, del sangue, della terra, del passato. È vivo nuovamente quel non-luogo chiamato Italia, fantasma di Petrarca e Dante. Loro hanno avuto il privilegio di ritornare prima di noi nel medioevo, e dal futuro comunicano. Comunicano concetti chiari. Si chiamano nostalgia, malinconia, amarezza, rimpianto; si chiamano desiderio di ricordare – come viandanti d’un libro di Bradbury – e di tenere vive certe lezioni. Perché magari tra trecento, quattrocento anni gli europei avranno imparato la lezione, e si potrà rinascere. Medioevo, futuro. Da lì Vlada Acquavita nomina, interpola e interiorizza Valery, Dino Campana, Francesco d’Assisi, Cielo d’Alcamo, il Cantico dei Cantici, Arnaut Daniel, Bernardo di Chiaravalle, avanzando sulle tracce del sacro nei paesaggi istriani, per misteriose rovine e selvatica natura. Castelli, chiese e case del passato sono spettri, “immagini infrante”, nessun restauro e nessun rinnovo. La nuova architettura è una negazione di Roma, Venezia, Austria. È altro, è storia nuova. Vlada cerca quel luogo ineffabile (attenzione) dove la parola “affoga nel silenzio”, in cerca delle tracce del sacro logorato dalla quotidianità. L’allegoria mi sembra chiara, la risposta degli Stati altrettanto. Vlada è tornata nel medioevo e sa che almeno le piante – come certi libri – non si sradicano mai del tutto. Ecco l’erbario mistico d’una poetessa di lingua italiana – ahi lingua solo letteraria, patrimonio vero di noi pochi e di nessun altro – nuovo Deus e(s)t Amor, nuova discendenza petrarchesca e trobadorica, nuova testimonianza di vitalità di un popolo che qualcuno preferisce credere perduto. Non cercate in questi versi modernità o contemporaneità: troverete soltanto passato Carmina n.6 75 remoto e futuro anteriore, come in ogni visione mistica. C’è una rosa avvizzita nella vigna, dimentica delle radici; e c’è chi maledice il suo esilio. C’è un bestiario che s’addentra in casa come demone meridiano, disarmato con la nuda voce e la protezione della Madonna. C’è quell’antica luce preziosa e casta, e un passaggio improvviso per traduzione d’Abelardo e Eloisa, dell’amore riunito in Cristo e per Cristo. Ci sono canti soavi che giungono da oltremare, e da lontano veleggia un sogno d’amore: rosa bianca sprofonda nel sogno. Ci sono le prime attestazioni del volgare nel territorio di Umago, ci sono leggende apocrife e rivisitazioni. Commentario e note per chi vuole approfondire. Capire è un po’ più complesso, mi rammarica ammettere che soltanto chi ha sangue giuliano, istriano, fiumano potrà capire. In Italia – in questa stupenda cartina geografica disegnata, in centoquarant’anni, da mani europee, russe e americane, con poca fantasia e qualche errore di troppo – c’è qualche confusione che dubito possa essere risolta dai partiti, dai media o dalla letteratura. La prima confusione si chiama “italiani”. Io testimonio comprensione, condivisione, riflessione e interiorizzazione. Per quanto mi riguarda questo è canto soave e lirico che giunge da oltremare. Intanto, confido ai rimasti quel che ripeto agli esuli e ai miei strani concittadini italiani; è tornato il tempo di contarci e di sopravvivere, salvando i libri e discutendo dei libri per come possiamo e quanto possiamo: siamo chierici, siamo tornati chierici e bisogna prenderne coscienza. L’Italia non vuole letterati e non vuole letteratura. Perché è una menzogna di nazione, non ha storia perché la riscrive e la cancella in fretta: ha solo letteratura. A quella m’appello, m’uncino, m’aggrappo, speranza di comprensione e comunicazione. Tutto il resto è espressione. “Che, in Istria, interi capitoli di storia sono stati inghiottiti dalla nebbia, è noto. Altrettanto noto è che antichi castelli e palazzi sono in attesa di restauro” (p. 127). Cara Vlada, potrà l’Europa se saprà essere asburgica. Né Italia, né Croazia: tertium non datur? (tertium è letteratura, io dico) Carmina n.6 76 EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE Vlada Acquavita (Capodistria, 19xx), scrittrice, saggista e poetessa italiana e croata. Vive e lavora a Buie d’Istria. Laureata in Lingua e Letteratura Francese a Zagabria, ha esordito pubblicando “La rosa selvaggia e altri canti eleusini” per l’Accademia Casentinese nel 1997. Carmina n.6 77 Recensione di Dare voce al silenzio di Patrizia Garofalo Di Gianfranco Franchi “A casa del poeta non si piange” – incipit, e allora “metto il collirio / e / sorrido”: primi versi a testimoniare caratteristiche distintive d’un’opera in versi che sa essere frammentaria e incisiva, singhiozzante e disperatamente viva. Lo stile e lo spirito di Patrizia Garofalo sono in questo frammento: si va per versi asimmetrici e immediati, per espressione di contrasti e di simboli – il simbolo non tradisce, già dall’etimo – e per scrosci di lirismo puro. Tanto puro che corrode chi sa sentire, e chi conosce quella tradizione che da Petrarca s’è evoluta e mutata e spiegata in Ungaretti, Caproni, Erba. Il sentimento che t’ammazza. È una poesia di nostalgia e desideri perduti, di cicatrici indelebili d’abbandoni e d’irrisolte interazioni umane; tuttavia ritornanti, come ossessioni dai colori che muta spietato il tempo. L’armonia appare quando “tra i tuoi capelli / respira / oggi / il vento”: la pioggia e l’acqua vanno invece a sbiadire e dissolvere la memoria, la carta si piega e s’abbandona. La letteratura come vizio, come sorriso inghiottito: come espressione del passato, e quindi come fantasma: Caproni parla di diario, l’autrice di “nuovi calendari dell’anima” – l’impatto è prepotente e dolce, sensuale e luminoso. D’un tratto si sprigiona il sublime: “Impigliate stelle alle nostre finestre dal cielo dirottate traiettorie Riposiamo tra foglie rosse ad un autunno insperato” E s’avanza per tempeste di coscienza di sé, origine d’acqua e sogno di terra: per amori tratteggiati nell’attesa e cristallizzati nella genesi del desiderio, femminili e incerti: accade quando “anche la luna / si appende / alle mie caviglie”, e il presente rovescia il cielo e la terra è dominio dell’artista. Più di chiunque altro capisco il secondo componimento, per via della Carmina n.6 78 sua genesi – ma questa è storia personale, mi limito a salutare e ricordare l’antica febbre. Felice di vedere su carta l’impatto d’una lettura d’un’opera rimasta incompiuta. Vive nei versi di Patrizia Garofalo, adesso. La sua nuova raccolta di poesia è stata pubblicata dalle Edizioni Il Foglio: aggiungo queste note a quanto avevo scritto, a proposito dell’opera omnia, qui. Stavolta ho viaggiato e interiorizzato pensando al taccuino di chi scrive strappando a dio il dolore e la menzogna. E ci libera dal male. Saluto l’avvento di poesia nuova con il sorriso riconoscente del lettore antico. EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE Patrizia Garofalo (Camerino, 1949), poetessa italiana. Insegna Lettere a Ferrara. Patrizia Garofalo, “Dare voce al silenzio”, Il Foglio, Piombino, 2007. Prefazione di Attilio Mauro Caproni. Bibliografia: Patrizia Garofalo, “Ipotesi di donna”, Gabriele Corbo, Roma 1986. Prefazione di Giorgio Caproni. Patrizia Garofalo, “Le bambole non si pettinano”, Gabriele Corbo, Roma 1992. Prefazione di Franco Patruno. Patrizia Garofalo, “Terra di nomadi”, Libroitaliano, Ragusa, 1996. Patrizia Garofalo, “Mare d’anime”, Schifanoia Editore, Ferrara, 2003. Prefazione di Paolo Ruffilli. In copertina, riproduzione dell’acquerello di Oliviero Accossano. Approfondimento nel web: Franchi sull’opera omnia di Patrizia Garofalo: “Polvere e Luna”. Carmina n.6 79 Recensione a Silloge di Cristina Bove di Luciano Recchiuti Più che una Silloge si tratta di un autentico spaccato di vita, una lunga sequela di odi poetiche apprezzabili stilisticamente e contenutisticamente, che parla a favore della forza interiore e delle capacità espressive di Cristina Bove. La prima lettura invita subito a una segnalazione, un consiglio, più che altro: un libro che racchiuda il meglio della raccolta, che veda la luce al più presto per non disperdere nel tempo la voglia di fare. Perché Cristina è poeta vero, che sa coniugare stile e interiorità, malesseri e gioie dell’anima con il gusto di raccontare in rime sciolte libere e liberate da pastoie metriche: gli scritti sono il dettato del cuore. Anche se redatte evidentemente in epoche diverse (magari non lontanissime), cambia poco lo stile sempre a Lei riconducibile che si evolve nel tempo, che matura insieme alla sempre accurata scelta delle parole, delle figure retoriche, delle metafore efficaci con le quali cela il vero ed esalta il sogno (e viceversa). Il tutto si accompagna, quale precisa scelta dell’autrice, all’assoluta mancanza di punteggiatura, lasciando alla naturale musicalità del verso il centro del raccontare. Questo fa sì che in talune poesie i “pons”, i giochi di parole, riescano a esprimere con leggerezza sentimenti ed emozioni (vedi “Ad una ad una”), padroneggiati saldamente e parte di un lessico di valenza costante ed evoluta. Così come “Al raduno”, surreale visione che colpisce per originalità e tematica (una “vecchiaia vista alla rovescia”, se mi si consente l’espressione), nella quale si affaccia improvvisa la persa gioventù da quelle stesse vesti prima occupate da corpi cadenti, nell’esaltazione dei doni fantastici della “vita” e del “nuovo”. Poesie libere e liberate, dicevo, depurate dagli orpelli del fatuo e dell’inutile e pregne invece di significati sottili e di un “segno” leggero che tutta la contraddistingue. La disposizione stessa delle parole sul foglio assicura ritmo alle intime scelte del poeta e significato spesso mutevole, in un esercizio non facile sospeso sul baratro della banalità (senza “scivolate” significative). Carmina n.6 80 In “Brulicava di luci” “leggera filigrana ondeggia sopra gli archi lunari e ne accarezza di rami flessi le colonne attorte”. E ancora “s’azzardano le mani a carezzare un ricordo di sogno fatto d’acqua”. La leggerezza si fa parola, la parola asseconda il moto consolatorio dell’anima. Mi piace citare ancora “E condurrò” per le visioni evocate, vive e allucinate, contorte e avviluppate l’una all’altra dell’Equatore, del Sole, di Lune “corrusche”, di un Fiume dalle tracce d’oro, del Tempo che consuma, dell’Ombra incisa nella notte. Fiori di un giardino sconfinato, verde a dismisura come una valle piena di coloratissime farfalle stralunate. Piacevoli le liriche in cui trionfa l’amore, in cui il gioco delle parole trascende l’oggetto del desiderio fino a sublimarlo, angelicandone la figura, ripulita dallo sporco delle ali al contatto con il terreno. Lo stile è sorretto da una scrittura mai scarna, pur se tendente all’essenziale, densa di significati e silenzi mai domi che si trasformano in immagini vissute. Amore, etica e spiritualità vanno a braccetto, nel figurare l’Eterno che occhieggia come in un gioco di ombre cinesi, soprattutto nei versi dettati dalla solitudine e dalle grida talvolta disperate dell’Autrice. Delicata e pudica nel raccontare momenti intimi, come in “Figli”: “attraverso me ci siete – ora siamo tutti insieme”. Poesia moderna che si nutre d’antico, epopee del Mito che hanno radici all’insù, nel presente, mentre più rade le immagini ispirate al futuro, che si apre improvviso nella lirica “I ragazzi”, “corpi fatti di musica e richiami”, “futuri genitori dei nuovi figli liberi dal tempo”. Particolarmente efficaci le liriche brevi, nelle quali è un singolo pensiero a volare, sintesi e compendio dell’essere, sempre rifuggenti dall’apparire. “Sono viva perché nella mia notte qualcuno accese un sogno di poesia” (in “Ho visto la città”: è la poetica della Bove, l’alfa e l’omega, il suo rapporto con la realtà e le tante domande che spesso scaturiscono dal rapporto (talora irrazionale) con essa. Come giudicare altrimenti, infatti, la spietata disamina di “Homunculus”, che coniuga l’ “orribile visu” descritto con la presenza di “esseri lievi e tenui come veli assorti nei ricordi d’altri Cieli”? Lo stile asseconda i concetti, si fa Poesia Visiva in “Incantesimo”, dove crea delle dissolvenze di forma e contenuto, in quel “niente” che Carmina n.6 81 piano si scioglie e si asciuga come una lacrima al sole, simbolo di un destino terribile ma non disperato. Non c’è mai autentica perdizione nella poesia di Cristina: più spesso accettazione e la tendenza a fare delle parole insegnamento e saggia morale, impalpabile e diafana, sul limitare estremo delle liriche. Come in scritti d’altri tempi, o romanzi d’appendice. La forza del “sé” prorompe dall’interno come un geiger con la maturità del vissuto, come un dono che consoli e sveleni i sentimenti meno nobili: “sentire nel cuore la dolcezza della musica amando chi la suona” (“La Saggezza”). Stringendo le file di questa lunga disamina (tante erano le poesie e articolate), è possibile riconoscere l’elemento vincente della Silloge nella concretezza del Sogno, che si esprime con particolare forza commentando la stanchezza del ballerino con una semplice constatazione “Quanto gli può costare un paio d’ali?” Sì, Cristina, è lì il segreto della vita, saltare gli ostacoli a piè pari con le giuste soluzioni. Bella “prova d’autore”, in cui il poeta è nudo di fronte ai temi che tratta, affetti, amore, famiglia, tempo, visioni cosmiche e naturalistiche, stati d’animo, ricordi e sogni. Le ultime liriche gettate sulla carta quasi con rabbia e sentimenti contrastanti: “Sulla sabbia”, “Nuovi faraoni”, Siamo noi”, “Sogno”, “Volo”. Nulla manca in questa Silloge, neanche i brividi che ci destano “le tredici Lune”, “la scienza assoluta e beffarda”, e la morte che ci penetra dentro nella poesia “Volo”, ove “quel che resta nella carlinga è notte… (mentre)… fuori è l’alba”. Al lettore (e al critico) il dispiacere che le righe scritte siano finite, e trionfi il bianco del foglio che ottunde gli occhi, nel ricordo della condivisa e partecipata lettura. Carmina n.6 82 Recensione a “Premiata Forneria Marconi 1971-2006: 35 anni di rock immaginifico” di Donato Zoppo di Enrico Pietrangeli Il libro di Zoppo, per sancire l’essenza emanata dalla PFM, non resiste alla tentazione di aprire il “Tutto” avvalendosi di un esergo di Rumi. C’è una “rosa” che “narra” e, con un disinvolto approccio giornalistico, sviluppa un armonioso trattato sul gruppo ripercorrendone l’intera carriera. Capitoli imperniati sulla discografia e linguaggio articolato, dove seguendo criteri perlopiù comparativi trapelano ampi scorci sulle condizioni sociali e le panoramiche musicali che hanno contraddistinto i tempi. Largo uso d’inserti e aneddoti, comunque ben disposti, euritmici; c’è qualche ridondanza, ma riguarda solo le introduzioni. Si parte dal primo raduno beat del ’66, quello organizzato da Miki Del Prete a Milano e che, accanto a Giganti, Ribelli ed i più singolari New Dada, annovera anche la cover band di Quelli. Siamo lontani da altri esordi, quelli psichedelico-melodici de Le Orme di Ad Gloriam o quelli più sperimentali e colti de Le Stelle di Mario Schifano, ma la strada dei rimaneggiamenti traccerà veri e propri gioielli addentrandosi nell’era progressiva: 21st Century Schizoid Man è un meno noto tassello della bravura e coesione strumentale di cui è capace la PFM (sigla tenuta a battesimo da Lake e Sinfield). Impressioni di Settembre sarà l’indelebile motivo di traino per tutto il progressive italiano, caratterizzata dal ritornello del moog e già pronta a sbirciare oltre i naturali confini per poi reincarnarsi in The world became the world. Sì, perché la PFM, prima di tutto, è italianità approdata altrove, in un mercato che, soprattutto negli anni Settanta, era invaso da produzioni anglo-americane. Sarà proprio quando Le Orme tenteranno la strada del mercato inglese con Peter Hammill che i testi della PFM incontreranno Sinfield. Mentre Pagani farà da collante alle realtà di movimento e relativi festival (Parco Lambro etc.), il gruppo si barcamenerà tra Mamone, tentazioni americane e l’imperversante contestazione. Logiche di mercato, da quanto si evince, mietono la prima vittima: Piazza viene rimpiazzato da Djivas al basso, più adatto al ruolo per un pubblico d’oltreoceano. La stagione dei Carmina n.6 83 concerti americani avrà il suo apice con la stampa di Cook, un live per il mercato internazionale nella già consolidata egida della Manticore. Chocolate’s Kings, l’album successivo che introduce Lanzetti, è, probabilmente, l’optimum, frutto di omogeneità e grande maturazione. Risente, tuttavia, del vento che soffia, a partire dai testi, sì impegnati da riportare consensi verso l’imminente ’77 ma, forse, non del tutto digeribili altrove. Uscirà negli States illustrato con una barra di cioccolato avvolta nella bandiera a stelle e strisce. Sinfield, nonostante una certa propensione a “sinistra”, stenta a comprendere. Ma “la goccia che fa traboccare il vaso” col mercato statunitense giunge nel ’76, quando la PFM prenderà parte ad un concerto organizzato a Roma per conto dell’OLP. Con Jet Lag si apre al jazz rock, poi la formazione chiude il decennio consegnandosi agli anni Ottanta nell’inevitabile decadenza dovuta all’impatto con tutt’altra epoca e nuove tendenze. Tuttavia, prima di segnare il passo coi nuovi tempi, la PFM realizzerà un altro memorabile live, lo farà girando la sola peninsula con Fabrizio De André. Personalmente rinnegherò il gruppo fin dai tempi di Suonare Suonare, ma Zoppo tira dritto, tra ritratti e sincretismi, fino all’epilogo di Miss Baker: praticamente estraneo alle origini. Gli anni Novanta e una rinnovata voglia di spaziare, portata avanti anche attraverso l’uso del digitale, desteranno ulteriori attenzioni verso il filone progressivo. Ulisse cercherà, a partire dal tema del viaggio, di ripercorrere strade perdute. Lo farà attraverso la collaborazione dei testi di Incenzo, autore anche di Dracula. Quest’ultimo è il coronamento di un sogno, quello di realizzare un’opera rock, decisamente pretenzioso e dove compare anche Ricky Tognazzi, mentre Serendipity, più proteso verso le sonorità del nuovo millennio, vedrà, tra gli altri, un’intraprendente Fernanda Pivano inserita nel progetto. Carmina n.6 84 Recensione a “Beckett e Keaton: il comico e l’angoscia d’esistere” di Sandro Montalto Di Enrico Pietrangeli Lo scorso novembre, a Milano, durante le manifestazioni per il centenario della nascita di Samuel Beckett, sono stati presentati diversi saggi italiani, tra cui quello di Montalto e il più circoscritto Beckett e l’Italia a cura di Giancarlo Alfano e Andrea Cortellessa. Un Beckett che, nella memoria collettiva, ci riporta ad Aspettando Godot, la pièce con Vladimir ed Estragon, i due protagonisti che porteranno alla ribalta il tema dell’attesa, della solitudine dell’uomo in lotta contro il destino del proprio annientamento, fin tanto da temere insita nella stessa morte una qualche forma di residua (r)esistenza, aggiungerei alla luce della lettura del saggio di Montalto. Film, il tema trattato nel libro, è un corto realizzato in bianco e nero nel ’64. Montalto non solo ha voluto testimoniarlo attraverso un’attenta e mai pedante interpretazione, ma è andato oltre, spingendosi dove la critica all’autore definito tra i più “chiosati” non era ancora arrivata. Lo fa in una serrata e avvincente analisi comparata, sino ad addentrarsi nell’impianto del secolo, in un parallelo ed omogeneo ripercorrere il contesto storico e filosofico. Un film che, attraverso le sue pagine, diviene compendio del percorso di tutta la produzione beckettiana. Il testo analizza subito circostanze e dettagli della pellicola, a partire dallo script e dalle tecniche utilizzate: una “camera a mano” che, indubbiamente, vivifica corrispondenze e azioni tra Og, un ormai anziano e malandato Keaton, ed Oc, ovvero l’occhio che lo riprende, in un cortometraggio anacronisticamente muto, dove incombe “un silenzio drammatico quanto parodistico”. Tutta la tensione iniziale dell’esterno girato in strada ed il relativo inseguimento si sposta poi nella “stanza-utero della madre”, colei che “costringe ad esistere” e dove, infine, si consuma l’agonia di Og. Finale che si gioca sull’eliminazione delle possibilità di “essere percepito”, nella negazione della propria esistenza, attraverso la soppressione delle “scorie della memoria”, ovvero le fotografie di un’intera vita. I titoli di coda compaiono con “un primissimo piano dell’occhio di Keaton” definito “torbido, dalla palpebra squamosa”. La morte diviene quindi un atto pietoso e l’altrui percezione, oltre ad essere una violenta Carmina n.6 85 invasione nella nostra esistenza, ne diviene anche conferma. Keaton, tanto come personaggio a sé quanto in relazione a Beckett, è altrettanto scrupolosamente analizzato. Un protagonista definito cinematografico rispetto all’essenza “smaccatamente teatrale” di un Chaplin precedentemente contattato per svolgere lo stesso ruolo. Forti i richiami, a partire dall’ambientazione, al cinema d’autore surrealista, in particolare ad Etoile de mer di Ray per talune tecniche di ripresa e, più in generale, nell’onnipresente occhio, sebbene l’espressionismo, nell’ “esigenza di controllo assoluto di tutti gli elementi della messa in scena”, sembrerebbe prevalere. Tra la lunga sfilza d’intellettuali analizzati per paragrafi, risalta Bergson, per via di quella “anestesia momentanea del cuore” che suscita il riso. “Il comico e l’angoscia d’esistere”, infatti, è sottotitolo e tema, perno tra Beckett e Keaton. Non si tralascia nulla, neppure le attestazioni negative che la pellicola ha suscitato e i remake, inclusi quelli ipotizzati, dove compare persino il nome di Gassman. Con Film, tutto il peso del Novecento, proteso alla fuga ma imbrigliato in gabbie accademiche, diviene chiave di svolta per approdare all’assopimento creativo della soggettività sovrapposta in un’alternanza di percepito e percepente. Non citato nel testo, Ezra Pound, a tal proposito, mi sovviene per la "distanza trascorsa fra il mondo del Novecento e quello della serenità". E’ comunque il tema della vecchiaia ad incalzare nei retaggi proustiani di un tempo che “consegna al fallimento le aspirazioni umane costringendo l’uomo ad un aborto del desiderio”. Tutto diviene vacuità, drammatica e dagli inevitabili, nonché cinici, risvolti comici. Anche l’esistenzialismo, quell’ultimo blasonato baluardo dell’epistemologia eretto ad estrema difesa dell’uomo, viene scavalcato. Un uomo che, con Beckett, non ha più vie d’uscita. Il tempo, i ricordi, la propria immagine riflessa allo specchio, unitamente alla profonda consapevolezza di una lunga ricerca intercorsa nei secoli precedenti, altro non sono che pietra che si sgretola lentamente, lasciandoci impotenti, abbandonati nel moto perpetuo del dondolo, tanto caro alla simbologia dell’autore e che, non a caso, anche qui ricorre. L’angoscia della vita, forse, si concretizza tutta lì, celata in quel breve intervallo intercorso nell’oscillazione. Carmina n.6 86 Recensione a “Basso impero” di Claudio Comandini Di Enrico Pietrangeli Questo romanzo d’esordio di Claudio Comandini è ambientato nell’hinterland di un’ex provincia ormai logora di troppi eventi o, altrimenti, svanita tra ricordi di dolce vita. Nel cuore di quello che un tempo fu, nonostante tutto, anche impero, si anima, accanita e puntuale, una penna (o tastiera che si voglia) pronta a scandagliare ricercando ogni possibile riferimento ormai inesistente nel suo essere licenziosa e irriverente. Una scrittura canalizzata in un fondo, quello di un Basso Impero che, attraverso secoli ricolmi d’intrighi e cortigiane, si avvicenda ancora, longevo e implacabile, espletandosi in tutto il suo più infimo degrado. Siamo agli sgoccioli del Novecento, corre l’anno 1994 e l’Italia conosce il suo primo governo Berlusconi. Comandini, per l’occasione, trova due date intense ed evocative per meglio rimarcare la sua narrazione, quella del 25 aprile e quella dell’8 settembre: dalla liberazione all’armistizio. Con questa stessa sequenza, traccia principio ed epilogo di tutti gli accadimenti che si susseguono nel suo libro. Sono eventi racchiusi in un diacronico accavallarsi di sequenze che imperversano, ma non a caso, rappresentando una stagione rissosa, persino dolorosa e nondimeno provocatoriamente spassosa. Sono mutamenti che toccano anche luoghi disconnessi nella memoria, davanti una televisione spenta che parla e un calendario senza giorni penzolante sul muro. C’è un bar che anima il tutto insieme alla piccola comunità che vi bivacca intorno. Dentro ci scorrono i personaggi del luogo, con le loro singolari vicissitudini, che si alternano in un comune vivere divenuto inconsulto. Ci sono Ludovico, Porkospin, Cecco lo sciamano, il grande amico Eugenio e le “femmine” che, sebbene qui vengano meno come tematica portante, prendono qua e là il sopravvento, fino ad occupare letteralmente un’intera pagina attraverso i loro attributi più intimi. Attributi dove lasciarsi andare in elucubrazioni mitologico-filosofiche con voluttuosità canzonatorie; cavalcare ardite fantasie per stordirsi nell’esperienza e galoppare, dopotutto, sul “fondo”. Bukowski che fa capolino, ma qui abbondano anche androgeni transessuali. L’amore c’è, mai scritto maiuscolo Carmina n.6 87 eppure totale e incondizionato: è quello sentito per Serena. Ishtar è la loro gatta invalida, trovata in fin di vita, dentro un cassonetto dei rifiuti, sarà lei la loro complice e più diretta testimone. In questo “basso impero dove solo i servi hanno potere” compare, in primis, Jim Morrison, ci parla in greco e scivola sulle labbra “aspirapolvere” delle ragazze “crickcrock”. Mito e mercato post mortem non potevano tralasciare Kubain coinvolgendo persino Hegel ne “l’effettualità come criterio decisivo del farsi della realtà”. Un Basso Impero “maionese globale” dove The end è “l’unica canzone dei Doors da non sembrare datata”, “uovo del mondo alla fase terminale” con qualche turbato sorriso acceso sulle note di On the Sunday of Life dei Porcupine Three o Sunday morning dei Velvet. Stile fluido e intenso, fortemente intellettualistico nel suo essere triviale, ma che non rinuncia a calarsi nel gergo del mondo di cui, in fin dei conti, è parte: “a uno scudo dal collasso”. Tanta foga, rabbia, denuncia, tanto passato prossimo ancora da archiviare, che pulsa di armonioso disordine, materia viva e ancora tutta da plasmare, così scorrono i tanti aneddoti descritti da Comandini. Storia, oltre storielle e inferni personali che si aprono tra chiassosi echi delle risa di amici; fantasmi che, puntualmente, ritornano. La strage di Bologna, in questo libro, potrebbe rappresentare un comune nodo per tutto, tanto nel personale del protagonista quanto nelle più pubbliche faccende di questo paese. La memoria intanto corre, ritorna in Grecia, ai viaggi con Serena e i ricordi di scuola. Tragedia e piacere s’incontrano. Un’amara casualità è quella della notizia dell’attentato sopraggiunta sul primo acerbo piacere di un’eiaculazione, nella più aspra, pungente e vitale poesia adolescenziale. Carmina n.6 88 Recensione a “Disorder” di Gianfranco Franchi Di Enrico Pietrangeli Prima di affrontare la lettura di questo libro, mi sono predisposto nel giusto ordine d’idee: Disorder. Unkonwn pleasures sono scivolati sul mio giradischi. Joy Division, ala dura e pura, esoterico primordiale, possibile rituale pagano del punk più rivoluzionario, quello fulminante ed immolato. Sono gli ultimi eroi della terra consumati in angosciosa fretta, quelli del nulla. Frammentazione, cupa polverizzazione di un mondo. Danza Shiva, il rockettaro pure, Iside implode e si rivela alla luce: suicidio. Gli anni Settanta stavano per terminare, tre papi si succedevano sul trono di Pietro e Gianfranco, finalmente assemblato, veniva alla luce. Protagonista è Guido Orsini, alter ego dell’autore in una serie di racconti brevi con trama e stile volutamente debordante; tra reale, onirico e cosciente delirio. Guido è figlio di un borghesia colta, mitteleuropea, giunta all’apice della sua decadenza. Perduto nei meandri del frenetico niente del suo tempo, si ritrova, nauseato, a scavare dentro il suo nulla; lì cerca radici, elementi primigeni, selvaggi ed istintivi per rigenerare vita nel tempo. Non stenterà, il buon Guido, a sperimentare molestie sul suo gatto o contendere spazio al pacifico geco, ma mai ad armi impari. Il libro inizia con apparente quiete e linearità descrittiva per poi osare valicando le strutture narrative. Continua nell’ibridazione del testo, associandosi spesso a suoni e parole delle canzoni, finanche ad erompere dalle strutture sintattiche. È l’universo femminile che innesca questa iperbole creativa e distruttiva al tempo stesso e che, non a caso, prende forma già dal terzo episodio intitolato Complemento oggetto. Prende quota, contemporaneamente, una buona dose di poesia visionaria, percettività che Gianfranco, al pari del suo personaggio Guido, sembrerebbe comunque non perdere mai di vista. E allora ecco “un prato di Marlboro rosse accendersi” e “un esercito di fiammiferi tinti d’inchiostro scrivere sulle nuvole”, ecco comparire Mascheri che, oltre a scrivere la prefazione del libro, si sdoppia in quanto narrato dell’autore sino a prendere forme polivalenti. Cecì n’est pas le paradis: “niente ninfette ninfomani e imbecilli che fondano gruppi rock”. Volontà d’amicizia, quella vera e più Carmina n.6 89 classicheggiante, e tanta tragedia amorosa di stampo cavalleresco. Tristano e Isotta, tra i suoi possibili modelli. Al mare Orsini resta con “un vecchio televisore ed una vecchia radio” , al rock e a Radio Rock non saprà rinunciare. E con l’eccezione di David Bowie, quello di Rock’n roll suicide, la colonna sonora è perlopiù nineteen: Radiohead, Massive attack, Blur, Verve, Nevermind e Kurt fanno qua e là capolino, consistenti alla stregua di un sottotitolo. I Cocteau Twins sono la magia che non poteva mancare nel suo ricorrente rifugio, ritrovo e ricordo del Gianicolo. Un protagonista che non elude le tematiche sociali e politiche, che si fa portavoce di un’originale forma di antiberlusconismo, quella più etimologica e ai più poco evidente. Quella che Claudio Lolli, proprio mentre Gianfranco nasceva, non esitava a cantare in queste tinte: “la socialdemocrazia è un mostro senza testa”. Di fatto questo paese resta senza liberismo, senza comunismo e senza lavoro. Questo è lo scotto della generazione di Guido Orsini ed oltre, arrangiati e denigrati nella precarietà di una concreta indipendenza che vede i patriarchi ostinati nel continuare ad arraffare qualcosa che ha già toccato il suo fondo: “tutto è acqua corretta con qualche medicina”. “Mi chiamo Guido Orsini e non ho senso; sono un ruolo che non c’è in un mondo che mi sta disintegrando”. “Sono la compassione della povertà e l’empatia della fragilità, sono la zavorra borghese e la decadenza delle arti”. Libro, anche questo, dotato di “un biglietto di ritorno” nella postilla, dove il narratore diviene personaggio insieme a Guido scorrazzando in auto, con “abbastanza benzina per arrivare fin dove volevi tu”. Un piccolo, grande libro. Carmina n.6 90 Recensione a “Estate di Yul” di Emanuele Bevilacqua Di Enrico Pietrangeli Siamo nel cuore degli anni Settanta, un’epoca indelebile che l’autore, già affermato manager nel campo editoriale, riesce ancora a trasmetterci attraverso la sua estate, o meglio quella di Yul, approdando alla narrativa con un fresco romanzo d’esordio. Un tema che non può non vedermi coinvolto, a partire da una parallela formazione ed alcune analogie strutturali che, parafrasando il mio testo, definirei da “biglietto di ritorno”. Premettendo che, nel campo editoriale, tanto la mia carriera quanto la mia esperienza è pressoché modesta, vorrei subito mettere in risalto che ho gradito questo libro. Ne ho gustato la storia, la vivida fotografia di una fantastica stagione che sfugge e rifugge un provincialismo italiano per sognare in technicolor, su grandi schermi, tra sconfinati spazi americani. L’Italia, tuttavia, non è mai persa d’occhio da Emanuele, riaffiora qua e là in un gelido e scarno scandire di eventi e di date. Ritorna improvvisa, erompente, assecondata dal peyote, pensando ad Henry Miller. Si dischiude in una somiglianza col nonno trasportandoci nella città lasciata. Torna “l’odore dei copertoni bruciati”, fumogeni, poliziotti che sparano e giovani manifestanti impauriti, “ventre a terra, come gli indiani nella prateria”. E’ da allora che diviene “chiaro il coraggio di Yul”, la scelta di “aspettare che quel casino finisca”, “aspettare fuori dall’Europa”. Siamo nel ’75, esce Rimmel di De Gregori, AIDS e Khomeini tarderanno ancora qualche anno a galvanizzare i nuovi moralisti di turno e l’America, tutto sommato, è un paese con liberi e disinvolti rapporti sessuali, tanta erba e dell’ottimo acid rock. Un romanzo on the road, vissuto in corsa con una vecchia Ford Mustang ed altri possibili espedienti. Non c’è pausa che non sia un bizzarro e folgorante amplesso, un sesso che, prima di tutto, è ritmo. Si susseguono perlopiù momenti esilaranti lasciando comunque spazio a brevi innesti di considerazioni e qualche fugace flash poetico. L’intera vicenda si articola in California con paio di sortite in Messico e l’epilogo finale coast to coast verso New York, con meno di quattro giorni a disposizione per restituire un’automobile a noleggio e pochi soldi a disposizione. Un finale scandito in viva diretta, Carmina n.6 91 con brevissimi paragrafi di percorso e l’onnipresente radio, soundtrack sull’orizzonte americano. I percorsi di Leo, Sal e Walter si divideranno e ritroveranno in California, riportando e condividendo gioie e dolori in un’indomita voglia di farcela che culmina con Born to run, a Paterson: “ poco più di un’ora dalla meta”. Leo tornerà piuttosto malridotto e provato dal suo più profondo viaggio in Messico, dove si respira ancora il profumo di droga e miseria amalgamato da Kerouac. Un’inaspettata e violenta resa dei conti lo attende con un tassista di frontiera. Sal, innamorato poco ricambiato da Cristine, si ritroverà l’auto sabotata, lei in ospedale ed il relativo padre pronto a fargli causa. Walter sarà molto più sottilmente vittima di Charlotte, la sorellina di Gloria, rischia anche lui qualche brutta denuncia, è amareggiato ma non salterà l’ultimo grande evento: il concerto al Golden Gate Park di San Francisco. Leo, tra succulente scopate (ciliegina sulla torta Lourdes, la cilena), è sempre alla ricerca di Mr. Miller; lo troverai poi, a meno di cinquecento metri, degente in un centro clinico. La musica è cornice ovunque in un’America dove ancora tutto è possibile, quella di Crosby, Stills, Nash e Young, John Cipollina, Jerry Garcia, Grace Slick… Resta il retrogusto del miele spalmato sopra Agnese, Clara ed il sogno del cinema, il tempo che scorre e mai vanifica, semmai impreziosisce rendendo i ricordi più fluidi, più permeabili alla fantasia: quanto ingenera futuro. Allora una sera Yul, il più veloce, viene a sfiorare una spalla accompagnando il lettore insieme all’autore in un antico file del computer. Una sera in cui riscoprirci più umani e più vivi, disincantati e partecipi a quanto ci lega a quella stessa estate, quella di Yul. Carmina n.6 92 Recensione a “Il racconto ulteriore” a cura di Flavio Ermini Di Enrico Pietrangeli Il Racconto ulteriore, “antecedente all’intelligibilità” nella contrapposizione di un tempo mitico alla desolante contemporaneità di una terra già esplorata da Eliot, è un progetto che vede Flavio Ermini coordinare dei pensatori nel “gesto narrativo”. L’inquietudine dell’imprevedibile ci ha condotto verso false certezze allontanandoci dal vero senso della tradizione, dall’origine. Dal chaos, nello stesso gesto della creazione sussiste ancora, inalterata, l’energia per una prospettiva ulteriore, devoluta a un sapere autentico, non più reso asettico, e considerato nel suo originario contesto organico. Bonnefoy lo fa attraverso una possibile variante per la cacciata dal giardino. Un punto in cui il tempo non ha avuto ancora inizio, dove l’immediato e il mediato, opportunamente affrontati da Vitiello nell’episodio finale, sono ancora “erranza nell’eterno” e prendono forma col giorno, nell’esperienza, tra l’eco di un flauto, mediando dolore e speranza. Prima o dopo divengono l’intangibilità del tempo dove l’archetipo, riflesso nella forma, si tramanda nel mito, restando impresso tra luci e ombre. Nel tema della leggenda primordiale resta ancorato anche Félix Duque, è quella indigena della foresta e del suo lago, mentre, a poca distanza, si consuma “l’imminente fine di questo mondo”, tra disastri ecologici e notiziari flash sul terrorismo. Quella di Labarthe è un’Allusione all’inizio migratoria, iniziatica ed incentrata sulla comunicativa, in un viaggio che ci vede dubitare e disperderci, ricominciare: possibile metafora della stessa vita. L’arcangelo, con Antonio Prete, dalla sua sostanza di luce, viene a contatto col tempo e la disgregazione della materia. Vive con rammarico i suoi fallimenti, la distrazione di una colpa ancestrale. È questa la prima delle Tre storie sul tempo e l’apparenza, quale “impossibile somma d’infiniti vuoti” nell’epilogo della sera: lo scorgere finalmente il sorriso di una bimba ricongiunta al suo gatto. Articolato e dettagliato è il ritratto ginevrino di Roberta De Monticelli che, traversando memorie e riflessioni, approda su più acquietanti sogni in una “fragorosa e sporca” piazza toscana. Spinoza, l’ottico, tanto ebreo quanto eretico, con Tagliapietra lo Carmina n.6 93 ritroviamo che si diletta coi ragni e sarà specchio di una risata che è dio, vittima e carnefice nelle vesti di un Benjamin portato al martirio, ancora immerso nella lettura di Ethica. Uno Spinoza che ricorre anche con Vitiello, ricordandoci “che ogni definizione è negativa” e che, con Jean Luc Nancy, ci riporta a quel “sentiamo e sperimentiamo il nostro essere eterni”. Interessante il contesto in cui si sviluppa Diario, “fluttuante in un’incerta intemporalità” che va dal 4 al 10 novembre 2002. Realizzato per conto della rivista Parallax, vede qui la sua versione italiana dopo essere stato tradotto in inglese. Il marionettista di Givone, unitamente al racconto di Tagliapietra, è, a mio parere, tra gli episodi più centrati, almeno in relazione all’intento narrativo preposto. Tutto il fascino e la magia dello spettacolo dei burattini viene rilevato allontanando lo spettro di un demiurgo dietro le quinte, restituendoci personaggi con un’anima sottesa a un filo tramite cui comunicare, finanche a recepire “dal basso” “le sollecitazioni sceniche”. Ironico ed incisivo giunge Carlo Simi che, attraverso l’antica e collaudata formula del dialogo, ci trasporta nel mondo delle fiabe che preannunciano ciclicità atemporali. Con Donà ci si addentra in tematiche che includono risvolti psicologici, mentre con Gargani si abbandona il filone narrativo soltanto per meglio sviscerarlo con esiti che, personalmente, trovo convincenti, soprattutto per quell’indissolubile legame tra “etica e scrittura” ricordato anche attraverso il monito di Wittgenstein: “non possiamo scrivere qualcosa di vero se non siamo veri”. Riportare la figura dell’intellettuale ad un suo più connaturato baricentro rendendogli la giusta attenzione, a partire dall’operato scientifico e politico, potrebbe essere un varco aperto da questo libro, poiché in queste condizioni, come Gargani stesso afferma, “non c’è da sorprendersi che fenomeni mafiosi si estendano all’ambito dell’organizzazione della cultura e del mondo accademico”. Carmina n.6 94 Recensione a “L’eretico e il cattolico” Intervista a Elio Bartolini a cura di Mauro Daltin Di Enrico Pietrangeli La Kappa Vu, con Mauro Daltin, si è caratterizzata come una coraggiosa casa editrice di frontiera, dedita soprattutto a tematiche politiche e storiche che si sviluppano verso la Slovenia e i Balcani, nella natura di una regione con cultura e tradizioni di confine dove, di regola, la preservazione di un patrimonio multilinguistico è un’esigenza fondamentale. Elio Bartolini, friulano quasi doc, tanto che “tutti quanti dimenticano che c’è stata prima Conegliano”, a Codroipo, in Friuli, arriverà bambino e, a parte brevi parentesi tra Roma e Milano, è in questo territorio che trascorrerà la vita intera. Un’esistenza che, purtroppo, si è spenta lo scorso anno, a ottantaquattro anni, nella provincia di Udine, dove risiedeva da lungo tempo. L’intervista di Mauro Daltin non è che un progetto interrotto da questo lutto. Un’ambizione ben più vasta, come chiarisce nella prefazione a sua firma, era insita in questo programma scandito dal sabato pomeriggio. Di fatto, in questo libro, ritroviamo la giovinezza di Bartolini, le sue esperienze formative, la guerra e il primo dopoguerra che lo condurrà a una riflessione più ampia e articolata, sintesi di “ex” (o exit) e militanza tra ideologia cattolica e comunista filtrate dalla sua eresia intellettuale. Sceneggiatore in alcuni film di Antonioni ed anche in collaborazione con Pasolini ne Il carro armato dell'8 settembre di Gianni Puccini, ci lascia, tra l’altro, una personale e contraddittoria testimonianza di Pier Paolo (anche lui friulano) nella sua intervista. Ma è soprattutto come narratore che Bartolini ha segnato la sua carriera, con romanzi come La bellezza d'Ippolita, Chi abita la villa, Icaro e Petronio, Pontificale in San Marco e il Ghebo, oltre che come saggista e anche poeta. L’eretico e il cattolico, “chiave di tutto il mio pensiero”, sono lettura nella memoria, sigillo posto a tergo degli incontri del sabato. Ancora fanciullo, entrò entusiasta in seminario, un posto affollato e dove “bisognava pagare”. Tempi in cui il fascismo, venendo a patti, si contendeva/divideva la gioventù con l’Azione Cattolica. Poi la guerra di Spagna, i primi dubbi, le prime letture e riflessioni importanti, di quelle che cambiano la vita. Madame Bovary, Lirici nuovi, l’uscita dal Carmina n.6 95 seminario, l’ex che compare e con cui si deve “ricominciare da zero”. Pochi soldi in tasca ed ingrati lavori. Durante la guerra ed il periodo universitario si avvale di un approccio con riviste come Primato, Frontespizio e Prospettive, “prima apertura di finestra su un mondo che non finiva con Croce”. E sarà attraverso le riviste che, successivamente, conoscerà le sue prime fortune letterarie con la narrativa breve. Quindi la chiamata alle armi, le crisi isteriche, il ricovero ed infine l’8 settembre con l’epilogo partigiano. L’esperienza del carcere e il ricordo della X Mas: “ragazzi dalmati e istriani, antisloveni e antislavi”. Risalta, tra aneddoti e osservazioni storiche, un Mussolini “molto meschino”, al contrario di Hitler, imbrigliato nella retorica della “non belligeranza”, “neologismo per non dire neutralità”. In questi colloquiali spunti, resta ferrea l’ottica di una guerra di liberazione antifascista, poco incline alle tentazioni fuorvianti del revisionismo. Resta anche pietà e spazio per il sentimento popolare, come nel caso del “cuginetto”, arruolato a Salò e morto ammazzato, mentre era in approvvigionamento, dai gruppi partigiani. Nel primo dopoguerra vive la scomunica di Tito e la conseguente fuoriuscita dal partito, l’ex che ritorna, ciclico, nell’eresia intellettuale. Il cattolicesimo sedimenta come archetipo di tutte le rivoluzioni perché “si sfalda, entra in crisi” e, inevitabilmente, “si trasforma in eresia”. “Il marxismo non è fallito, è difficilissimo da mettere in pratica”, questo, dopotutto, conclude Bartolini. L’intervistatore, da parte sua, tira in ballo nel finale la figura di un intellettuale che, nel nostro paese, è relegato ai margini; Bartolini aggiunge che è addirittura sbeffeggiato. “Dipende dalla società” che (come dargli torto) si mostra più sensibile al pensiero, come “quella slava”. Da noi, annota tra le cause, pesano troppi secoli in cui “l’intellettuale è stato cortigiano”. Carmina n.6 96 Recensione a “L’urlo e il sorriso” di Enrico Campofreda e Marina Monego Di Enrico Pietrangeli Quello di Enrico Campofreda e Marina Monego è un esordio narrativo a quattro mani dove vengono ripercorsi, con estrema lucidità e dovizia di particolari, i sentieri dell’infanzia. Meglio, forse, non avrebbero fatto in quella terza età caratterizzata dalla repentina esplosione di così tanti dettagli legati ai primordi. Racconti brevi, strutturati con semplicità ed efficacia, non del tutto estranei a talune ricercatezze e che comunque scorrono, fluidi e disarmanti, nella consunta poetica di spontanee ingenuità perdute, sempreverdi memorie radicate. Fuoriesce, inevitabilmente, quel bel paese ancora arrangiato e che già subiva il travaglio di profonde trasformazioni in corso. Ritratti in bianco e nero, istantanee neorealiste carpite da uno schermo, quello della memoria, dov’è ancora palpabile quello sfondo sociale vincolato ad interagire coi destini dei protagonisti. L’automobile, la TV, il frigorifero, i nuovi quartieri che sopravanzano: sono gli anni del boom economico, cementano Celentano e la via Gluck. Lo scenario di campagna e di città si alterna facendo da cappello ai titoli dei singoli episodi che si susseguono. Inconsulte e altrettanto innocenti riemergono passioni per le lucertole, corse alla marrana, un fragrante schiamazzo di borgata, strade sterrate, biciclette e lambrette. Venezia e l’entroterra, insieme alla periferia romana, sono i luoghi d’azione nonché di origine degli stessi autori. In una corsa nei campi, dove svetta alto il mais in un’antropomorfica visione di bambine, si svela un sapore antico, quello del Veneto contadino, che ancora sussiste attraverso i suoi riti propiziando nuove stagioni in un immenso falò. Dietro lo sguardo di un bambino silenzioso, c’è lo scorcio di una laguna colto con nostalgia, un castello di sabbia “ancora intatto”. Del resto, la nota di quarta di copertina relativa a Marina Monego, conclude precisando che “a Venezia è rimasta affezionata e vi ritorna sempre volentieri”. Aneddoti di scuola ci lasciano in una coda di suoni, sono quelli della Gigliola Cinquetti che canta “Non ho l’età”. Forse sarà stato anche per via di quel festival simbolo nazionale, dove spopolò nel ’64, che si confondono “cinguettii” con “cinquettii”. La televisione imperversa e Carmina n.6 97 diviene “simbolo di quegli anni” operando una “omologazione culturale”, come precisa Arace nella sua prefazione. Tra bighellonate, giochi e altre esperienze, si finisce nel gelo del fossato o si osa, infrangendo il tabù materno dell’imbarcadero. Meloni rubati a ferragosto, approfittando della festa in corso, in una campagna che vede il contadino erigersi a piccolo proprietario, retaggio di un’ancora non troppo lontana riforma agraria. Spesso si fa ricorso al dialetto nei dialoghi, soprattutto il gergo romano di periferia, ma non mancano neppure più melodici accenni di filastrocche venete. Ghiaccio bollente è un episodio che riporta ancora in pieno a quel clima più prossimo al dopoguerra piuttosto che di sviluppo, è il ritmo di una campagna che serenamente stenta nel mettersi al passo coi tempi. In Areniade la periferia si misura “dalla strada al mondo”, Valle Giulia e gli studenti in rivolta iniziano a fomentare dubbi, ma il cuore pulsa altrove, è tutto rivolto verso le olimpiadi di Città del Messico che i ragazzi, di lì a poco, si appresteranno a emulare. Sesso e religione, insieme ad una motoretta, perno di una rocambolesca gita al mare, costituiscono una possibile trilogia assemblante il finale. Sudate iniziazioni dispensano, come premio, la riluttante visione di cosce smagliate e cadenti, mentre il chierichetto ci ricorda quanto sia teatrale la messa e, tutto sommato, tanto vale parteciparci da protagonista. Un’edizione ben curata, una piacevole lettura assicurata. Nodi narrativi a tratti stereotipati, ma mai noioso. Questo è senz’altro un esordio che segna il passo, osa poco, ma si presenta come un prodotto compiuto, capace di aprire a future e più consistenti produzioni sempre che, i rispettivi autori, siano anche in grado un po’ più di esporsi. Carmina n.6 98 Recensione a “Nerone oltre la leggenda” di Guglielmo Natalini Di Enrico Pietrangeli La Ugo Magnanti Editore è una piccola casa editrice presente sul territorio pontino e dedita a stampe rigorosamente limitate e molto curate. Anzio, città natale del più discusso imperatore romano, è anche lembo costiero che si approssima all’editore della contigua Nettuno attraverso una complessa e tuttora avvincente ricerca che viene condotta sull’argomento. Yves Perrin, segretario della Sociètè Internazionale D’Etudes Nèroniennes, nella prefazione chiarisce subito che “esistono due Neroni, quello degli studiosi e quello dei non specialisti”. L’immagine convenzionale è quella di un “folle dedito alle orge, spietato matricida e uxoricida”. In queste pagine emerge una figura contrastata, denigrata ed esaltata, amata e odiata, fintanto da rendere la stessa storia più umana; frutto di ricerca ed imparziale dedizione vissuta con autentico pathos. Dopo la morte dell’ultimo dei Giulio-Claudi, Tacito osserva che “era stato reso pubblico un segreto di Stato: potersi creare un imperatore fuori di Roma”. Per molti anni furono in tanti a crederlo ancora vivo e pronto a tornare, diversi furono coloro che presero il suo nome in prestito o a pretesto. Di fronte all’evidenza della sua morte, c’è chi non rinunciò a credere che un giorno sarebbe persino resuscitato rendendo a tutti giustizia. Di giustizia a lungo si occupò in vita Nerone, determinato nel consolidare un potere assoluto, di svolta per quel che sarà la successiva iconografia del tardo impero, sempre più minacciato tanto nelle sue faccende interne quanto nelle pressioni esterne esercitate sui confini. Tra i vari filoni etimologici sulle leggende divampate, ci si addentra in due tradizione pagane, l’una favorevole e l’altra contraria a Nerone. Postuma è quella avversa dei cristiani, sviluppatasi nel corso del III° secolo, che lo presenta come un persecutore in una fosca visione apocalittica. Inoltre sussiste un’ulteriore tradizione ostile di stampo giudaico, che si origina intorno alla distruzione del tempio di Gerusalemme. Con l’umanesimo e la proiezione interpretativa della verosimiglianza storica, l’argomento s’inizia a discernere più attentamente. Taluni studiosi contemporanei giungeranno alla conclusione che i primi cinque anni del regno furono un modello di Carmina n.6 99 saggezza, umanità e lungimiranza. Politica estera di mantenimento, garantismo ante-litteram, riforme fiscali ed economia programmatica caratterizzarono questo periodo nonostante i prevedibili crescenti conflitti tra il monarca e l’apparato aristocratico senatoriale. Gerolamo Cardano, autore de L’Elogio di Nerone, resta un opportuno esempio tra quanti, su questo fronte, si sono spinti anche oltre. Tra le probabili cause dell’incendio di Roma, risaltano le condizioni di sovraffollamento urbano, l’impegno di Nerone a condurre i soccorsi in prima persona, il fanatismo di taluni cristiani che vedevano nella libertina Roma dei tempi la bestia dell’apocalisse da estirpare nei flagelli della carestia, della morte e del fuoco. Di fatto Nerone, al contrario di certi successori, non mise mai in atto una politica anticristiana limitandosi a processare le frange ritenute colpevoli del solo incendio. Paolo di Tarso, già presente a Roma e noto alle autorità, non venne neppure inquisito. Un imperatore amato dalla plebe romana ma anche nell’antica Lione, ovvero Lugdunum, per la ricostruzione avvenuta dopo l’incendio. A proposito di ricostruzioni, la Domus Aurea resta d’esempio, nelle descrizioni tramandate, non solo per gli sfrenati e dispendiosi lussi, ma anche per la modernità e le soluzioni integrative. L’artista Nerone esordisce in pubblico a Napoli, coronando poi le sue ambizioni durante il lungo e dispendioso soggiorno in Grecia, dove finirà col distogliersi completamente dalla realtà politica. Lungo spazio è lasciato alle congiure che si susseguiranno, fallendo anche ingenuamente, nel volgere al termine del regno, a cominciare da quella di Pisone fino all’ascesa di Galba, avvenuta imprevedibilmente nell’ormai critica ed irreversibile situazione di dispendio e declino psicofisico di Nerone. L’ultimo capitolo è un excursus sulle messe in scena nel corso dei secoli, ma qui, probabilmente, occorreva scrivere un secondo tomo. Un imperatore la cui sensibilità artistica non ha giovato molto e a cui la creazione artistica, indubbiamente, sembrerebbe essersi pressoché ininterrottamente ispirata. In sostanza, se già il persistere troppo nell’arte non conduce mai, bene che vada, a proficui frutti, dovendo gestire un potere, non può che condurre a enormi sciagure. Carmina n.6 100 Recensione a “Rosso” di Cinzia Tani Di Enrico Pietrangeli Il saluto di fine luglio organizzato dalla Giulio Perrone Editore è stato un piacevole happening prossimo alla spiaggia, con tanto di piscina e comunque vittima della fagocitante calura estiva. Un evento che ribadiva un target giovanile (nella media trent’anni) e un’apparente voglia di esserci e coinvolgersi in tanti in nome della lettura. In questa occasione ho avuto modo di avvicinarmi tanto al libro quanto all’autrice. Cinzia Tani, scrittrice, già conduttrice televisiva e collaboratrice d’importanti testate giornalistiche femminili nonché docente, incontra quest’editore attraverso Racconti d’autore, una ben curata collana tascabile contenuta nel prezzo e nelle pagine. Rosso, il titolo della raccolta comprendente sette racconti, vuole essere un filo conduttore, attraverso il dettaglio, nel ritrovare corrispondenze e percorsi nello scorrere delle narrazioni. Di rosso è tinto tutto un cammino seguito, e con rilevanza, dall’autrice. Esordendo come scrittrice con Sognando California, un romanzo di formazione, hai poi avviato con la Mondadori una serie di pubblicazioni dedicandosi al noir femminile. Sarà Assassine a inaugurare un fortunato ciclo rivolto alla cronaca nera e che la porterà anche a tenere corsi di Storia del Delitto presso l’Università di Roma. Indagare nelle menti permettendo al lettore di accedervi gradualmente, attraverso quei dettagli che ne rendono tangibile l’esistenza stessa, è una componente strutturale che permane nella sua narrativa breve. Sono brandelli di vita che si dischiudono nei pensieri dei protagonisti, sofferenze celate e speranze di rinnovamento che, a parte qualche innocuo e malandato maniaco del virtuale o un omicidio con tanto di ricatto erotico spiato, sembrerebbero piuttosto raffigurazioni esistenziali. Personaggi che si profilano nella loro quotidianità incorrendo nel particolare, possibile variante ma anche nesso di un’intera esistenza. Rosso è il colore di una maglietta che si accavalla al tradimento e poi fuoriesce in un improvviso sguardo ghermito da un balcone: “capacità del vero amore è quella di rendere intenso ogni momento come fosse l’ultimo”. I segreti delle donne, un suo più recente libro che rivela un intimo meno patologico ed Carmina n.6 101 inquietante, quello di una condizione femminile comunque soggetta a una rigidità morale, dove anticonformismo ed eccentricità trovano antico rifugio nelle segrete stanze della mente, è, probabilmente, molto più facilmente accostabile agli argomenti di quante vicende si rasentano in Rosso. Rosso è lo sfondo, quello di “tende rosso vivo” e del golf di lui, “rosso sui jeans azzurri”. Forte è il retaggio giornalistico e professionale, soprattutto nel racconto introduttivo e di chiusura. Bambine, l’episodio più intimistico e ricco di trasversali memorie, ci trasporta, con la sua bicicletta rossa, nel rifugio di una Fregene pregna di riflessioni e solitario lavoro, ma anche di tanti incontri: grandi amori e quelli occasionali. Un ciondolo rinvenuto dopo tanti anni sarà l’occasione per fare una pedalata in un’altra Fregene, quella dell’infanzia, in una sovrapposizione tra la figura materna e filiale. Medio Oriente, Costa Azzurra, New York, sono altre tappe dove rincorrere un amore perduto o ritrovarlo quasi casualmente, nella conclamata insoddisfazione di un diverso percorso tracciato dalla vita. Al caso è connesso anche lui, che appare dal nulla e nel nulla scompare senza mai tradire una pavida illusione di aspettative. A lei non resta che chiedergli: “Non credi più nella sorpresa, nel caso, nell’inatteso?” Carmina n.6 102 Recensione a “Sopra e sotto” di Roberto Casalena Di Enrico Pietrangeli Sopra e sotto. Sottosopra sono le regole, le virtù, l’autenticità di dubbi burattinai del mondo. Sopra e sotto è antico gioco di parti, potere esercitato, primordiale posizione: quella degli amanti. A chi sta sotto, tuttavia, è sempre concesso di guardare il cielo e “meno le punte dei piedi”. Gli eletti, poi, quelli più eccentrici e fanciulli, che non hanno mai smesso di aver fede (quella nel cielo, piuttosto che delle varie chiese), potrebbero incappare in qualche sorta di paradiso terrestre finalmente riscattato. Allora le vergini non saranno più conseguenti ad un martirio, solcheranno i nostri cieli dentro astronavi portando, con la loro brama di amore, giustizia e pace per tutti. Del resto, in questo nostro bel paese martoriato, dagli immutati costumi di comodo, fatti di scontri all’ultimo sangue e trasversali accomodamenti, non ci resta che invocare un terzo polo di extraterrestri. Se poi sono anche tutte femmine, e di quelle con “F maiuscola”, potrebbero essere ancora in grado di rispolverare qualche italico ideale tra le genti della nostra antica, gloriosa stirpe. Quella che ci propone Roberto Casalena, giornalista economico, è anzitutto una storia, quella di Alessandro, con cui condivide la stessa professione. Il protagonista, che scopre la sua origine divina e immortale durante un acquazzone, viaggiando nel caotico traffico romano, vive la notte del black out nazionale trastullandosi con Francesca. È preso, e molto, da un ambizioso progetto: quello di avviare un nuovo giornale che sia realmente libero, indipendente. Qui incontra Stella, una donna tenera e travolgente, in grado di ricondurlo ad una grazia perduta. Con lei inizia anche un gioco delle parti: sopra e sotto. Gelosie insite, scuse e banali bugie faranno entrare in ballo subito Giada, da poco approdata nella redazione. Qua e là squarci di noiosa e nondimeno avvincente vita mondana con qualche denuncia sociale spiattellata dentro: “Si dice, almeno stando ai soliti dati Istat, che in Italia la disoccupazione risulti in calo, la verità, però, è un’altra, e cioè, che chi è raccomandato trova un posto, mentre gli altri, tutti in fila ad aspettare. La meritocrazia non è un principio, ma un optional”. Le figure femminili si sovrappongono, incessanti, come un Carmina n.6 103 ossessione, in un inevitabile ed ideale senso di liberazione. Giada sembrerebbe una compagna leale e affidabile, ma presto dovrà far fronte ad altre rivali. Contro queste ultime, aliene ed assetate di maschi per la loro riproduzione, non resta che un unico compromesso: assecondare. Un oscuro virus ha sterminato tutti i maschi del loro pianeta, da tempo vagano nello spazio e, nella terra, sembrerebbe esserci ancora abbastanza posto per tutti. Mediazioni dei servizi segreti, dopo un primo attacco, riescono a farle stabilire in Cecenia, con tanto di benestare da parte dei russi. Un racconto che esordisce verosimile, a tratti intimistico e biografico, per poi virare, improvviso, tra gli UFO; intimi anche quelli, dopotutto. Apparizioni, contatti ravvicinati ed uno sventato scontro più diretto, svelano un’umanità più solidale, finalmente unita e redenta. Tutto, forse troppo, parrebbe una fiaba a lieto fine: un vero e proprio intreccio tra fantasy, grottesco e fantascienza. Le pagine di Casalena, tuttavia, scorrono davvero liete. Lasciano, ingenue ed incalzanti, soprattutto nei loop su certe considerazioni, autenticità alle loro sensazioni, quali che esse siano, tralasciando orpelli letterari e altri tipi di fronzoli narrativi. Questo lo rende un libro possibile, intelligentemente spudorato, da leggere in meno di un’ora, tutto di un fiato. In un finale dove il protagonista, sempre grazie alle aliene, troverà soldi e finanziamenti per un grande quotidiano da un mecenate dell’industria, con tanto di figliola, la bella Daniela, come segretaria in allegato. A proposito di Alessandro… naturalmente finirà con lo stabilirsi in Cecenia e, oltre a Daniela, vivrà a lungo e gioioso anche in compagnia di Giada e l’incantevole marziana Emmer. Carmina n.6 104 Recensione a “Teatro totale” di Alfio Petrini Di Enrico Pietrangeli Titivillus, diavoletto dello spettacolo, si manifesta rendendo fruibili idee integre dalla censura di “monaci medioevali” e accoglie questo saggio di Petrini nella sua collana Altre visioni, dove prendono forma ulteriori spunti per la didattica del settore. Teatro totale è sintesi e strumento di ricerca, momento d’intersezione delle arti e, al contempo, uno scorcio rinascimentale, prospettiva verso il più antico e connaturato varco predisposto a sincretismi e sinestesie, una pluralità del linguaggio che non può rinnegare le origini, per ricalcare più direttamente il pensiero dell’autore. Quella del teatro totale è, in ogni caso, un’esperienza che vede coinvolto Petrini in un lungo percorso, di cui compare a tergo del libro quella relativa al primo convegno internazionale svoltosi a Roma nello scorso 2001. Attore, regista, drammaturgo, critico e redattore della rivista INscena, l’autore, in questo libro, si avvale dell’introduzione di Giancarlo Sammartano, empatica e gradevolmente romantica nel rivendicare attraverso la scena “un volontario destino”; forse un po’ più riduttiva nel rilevare le vesti di un “apprendista proletario che si fa maestro aristocratico”, un interessante spunto di dibattito s’intravede comunque nella chiusa: “salutare con-fusione di Teatro e Vita”. Petrini guarda alla ricerca senza mai perdere di vista la tradizione, fintanto da ravvisare “una necessità sociale” nella “pluralità del teatro”. “L’unità nella diversità” è il dogma che ne scaturisce. Nel complesso, risulta essere un ottimo compendio generale, sviluppato con pathos e tesi originali che tendono a personalizzarne la fattura. Ripercorrendo le varie strutturazioni del teatro, si approda in maniera più incisiva verso le avanguardie ed il teatro futurista, profondamente rivalutato attraverso la figura di Marinetti, sul quale il silenzio imposto viene additato come preconcetto ideologico sul giudizio artistico. Il paragrafo iniziale dedicato al teatro totale evidenzia subito una prima grande figura, quella di Wagner, il teorizzatore, ma anche quella di Artaud ed il suo “doppio” prende subito consistenza come un inevitabile punto di riferimento per l’intero argomento trattato. Naturalmente sia Stanislavskij che Grotowski sono Carmina n.6 105 imprescindibili come eredità del teatro più moderno. Grande rilevanza è riservata alla poesia o meglio a quel “valore aggiunto” inteso a sottolineare che teatro e parole sono strettamente vincolate alla corporeità dell’azione, “parola del non detto”. Se “l’opera d’arte esiste nel suo divenire”, il regista non può far altro che tradirla per amore ed è un “fare poetico” che racchiude il “favoloso possibile” a ricondurlo al nulla, ovvero allo “spazio della creazione”. Beckett e Shakespeare sono quei “cattivi pensieri” indispensabili per scavare oltre e specchiarci nelle nostre eresie barbariche, tasselli pressoché fondamentali nell’espressione della totalità. Un attento sguardo è rivolto alla panoramica delle tecnologie digitali, alla multimedialità ma anche all’intermedialità passando per la pop art, la performance, l’happening e quant’altro ancora fino a reinventare “le regole della visione e della percezione”. Da Fluxus, John Cage e gli anni Sessanta alla più prossima generazione degli anni Novanta, così variegata e composita, sino a quel nuovo teatro che ha tentato di forzare verso un “ritmo cinematografico o da videoclip” giungendo, infine, alle forme cosiddette estreme o eXtreme, quelle dove la crudeltà è esplicita nelle ferite come nel dolore teatralizzati nella live art. Il paragrafo de L’attore me stesso conclude il tutto in un personale riepilogo della diretta esperienza dell’autore che poi è divenuto anche “maestro”. Teatro totale, ovvero la vita e tutte le sue sfumature che, abbattendo la barriera della scena, nel Novecento finiscono col coinvolgere il pubblico in prima persona. Che il teatro si possa confondere nella vita e viceversa, del resto, è cosa ben più remota. Il punto è determinare un’etica che, indubbiamente, è più facilmente accertabile nella rappresentazione, piuttosto che nella confusione. Magari anche in questo caso, perché no, nasce l’esigenza di una “fusione” con quanto l’autore vuole addurre alla luce come indispensabile aspettativa della vita. Carmina n.6 106 Recensione di “Versi tra le sbarre” a cura di William Navarrete Di Enrico Pietrangeli Che Cuba riporti a ben altre immagini che i consumati simboli di rivoluzione da taluni ancora cavalcati, i tipi de Il Foglio non se lo sono lasciato sfuggire realizzando e curando un’intera collana sull’argomento. Tutto questo, nondimeno, gli è costato qualche palese censura praticata persino in un paese libero come il nostro. L’etica della centralità della dignità dell’uomo, espressa con fermezza e priva di rancori, nell’oggettività di un’umana richiesta, è quanto colpisce in quest’antologica, non tanto nella forma dei versi, spesso eterogenei, quanto nella loro stessa consistenza. È un sommesso anelito che non viene mai meno, quello di una Cuba libera, dove nessuno debba mai più vergognarsi di appartenere alla propria terra. La copertina di Elena Migliorini ne esprime appieno l’idea. Le traduzioni di Elisa Montanelli sono puntuali e letteralmente pure, forse troppo, talvolta, da tralasciare la poesia. Navarrete, il curatore del testo, è un esule cubano che risiede e coordina a Parigi attività di dissidenza. Nella prefazione la primavera del 2003 aleggia ancora come “spietata repressione di un regime totalitario” che imprigiona giornalisti, poeti ed altri attivisti per i diritti umani. Vazquez Portal, già affermato poeta prima dell’incarcerazione, viene ricordato “libero in questa nostra gigantesca prigione: Cuba” dove si conclude desiderando “speranza per un intero popolo prigioniero”. Sì, questa è Cuba, sebbene una certa sinistra, apologeta del mito, pur di fare antiamericanismo, sarebbe disposta a vendere l’anima al primo talebano esploso alla stessa stregua di una certa destra. Molti degli autori presenti hanno collaborato con Radio Martì, a Miami, dove risiedono gran parte di coloro che sono riusciti ad abbandonare l’isola. Gonzales Alfonso è uno di loro, giornalista indipendente che mette in versi un Otello carceriere: “il suo odio/lo riservava ai condannati”. Iglesias Ramirez, scrittore e militante del Movimento Cristiano di Liberazione, auspica una resurrezione intrisa di compassione, incluso verso i nemici, perché “Dio li ama. E anch’io”. Mayo Hernàndez è tra quanti hanno più patito a causa di precarie condizioni di salute e dell’ostinata insensibilità di un regime che arriva Carmina n.6 107 persino a negargli l’assistenza medica. Resta in lui, nondimeno radicata, una consistenza del femminile “penetrata nella pelle” e che gli “ha infuocato le ossa”. Forse più di altri è ancora legato alla tradizione modernista e alle sue schegge romantiche; emblematica, in questo senso, la sua musa, un calembour di “solubile indugio” e sinestesie al “suono di naftalina”, dove tuttora si percepisce la “nutritiva vernice” di questo genere di poesia. Olivera Castillo è tra quanti in passato collaborarono col regime e, con coraggio e coerenza (“la bile è riuscita a divorare il mio nome”), ne mostra le “orecchie della perversità”: “Cuba affonda!”. Il poeta Raúl Rivero Castañeda, dopo aver subito l’umiliazione del carcere, vive esiliato a Madrid. Con Alta fedeltà si cimenta in originali metafore a trentatre giri: “Si libereranno dal dolore del giradischi/torturato dallo strofinio e dalle punte”. A merito di Pier Ferdinando Casini va l’aver riportato adeguata attenzione al suo caso durante il seminario Cuba e democrazia svoltosi nel 2004 e citato nella nota biografica redatta sull’autore. Omar Moisés Ruiz Hernàndez, membro del Partito Liberale Democratico Cubano, ci descrive molto bene, attraverso uno stile prossimo al prosastico, come “puniscono con spietatezza l’ansia/umana di vivere in libertà”. “Vengo, patria, ad abbracciarti/per risorgere insieme a te” sono i versi con cui Manuel Vazquez Portal conclude questa antologica. Nell’augurio che questo avvenga quanto prima possibile, che tanto il vecchio quanto il nuovo castrismo di Chavez sia, per sempre, sradicato dalla regione, non possiamo esitare un solo istante nel prendere inequivocabilmente posizione verso chi collabora attivamente con l’Iran atomico, teocratico e negazionista. Infine, se qualcuno dovesse nutrire ancora dei dubbi sulla Isla feliz, una più adeguata delucidazione la potrà ottenere attraverso l’appello di Amnesty International riportato a tergo del libro. Carmina n.6 108 Recensione a “Cosa Cerchi? Poesie (1990 -2006)” di Francesco Carraro Di Renzo Montagnoli Prima ancora di aprire questo volume, caratterizzato dalla copertina bianca, candore interrotto solo dal titolo, dal nome dell’autore e da tre cerchi di diverso diametro e dalla circonferenza blu, mi sono chiesto quale è stata la molla che ha indotto un poeta ancora giovane a sostenere i costi della stampa in proprio, ben sapendo l’impossibilità poi di una normale distribuzione. Le risposte sono state tante e nemmeno una soddisfacente, ma quella che reputo convincente è emersa solo in corso di lettura, come si evincerà dalle righe seguenti. Cosa Cerchi? è una silloge costituita da raccolte di poesie che Francesco Carraro ha scritto dal 1990 al 2006. Considerato il periodo è indubbio che finisca con il rappresentare l’opera omnia dell’autore, una sorta di diario esistenziale che ha inteso raccogliere in un’unica struttura come memoria, prima per sé che per gli altri. Ali di Carta costituisce la prima raccolta ed è relativa agli anni dal 1990 al 1994. Carraro all’epoca frequentava ancora l’università e pur nella sua giovinezza accompagna i versi con una nota malinconica, lieve, ma sempre presente, come in Sera (Sera / mi riporti l’eco / spenta / delle strida / di uccelli selvatici…/…Anche / nel mio intimo / rifugio / è sera). Mi si potrà dire che è il frutto di turbamenti dell’età, di quel connubio di entusiasmi e di insicurezze che tutti abbiamo sperimentato, ma lui li ha ritenuti determinanti tali da fissarli sulla carta, come in Giovinezza (…/ Momenti urlati nel vuoto / e riflesse a ondate negli occhi / le voglie roventi /del sole di maggio. / Momenti vissuti / con incauto trasporto / incoscienti / dell’immensa voluttà / dell’esistere). Adesso anche a me, come a voi, tornerà in mente questo periodo di inconsapevole felicità, in cui tutto ci sembrava o troppo solare, o troppo scuro, in cui si viveva come in una sorta di limbo. Stazione di posta è la seconda raccolta ed è relativa agli anni dal 1995 al 1997; in essa mi sembra più evidente uno sconforto esistenziale, quasi come se dalla vita ci si potessero attendere solo Carmina n.6 109 consapevoli illusioni, come, per esempio, in Ascensioni, (…/ Per non ridurre il vivere / a una landa brulla, / a un tessuto brucato / dalle voraci, / infaticabili larve / del nulla…). Qui troviamo anche quella giudico una delle migliori poesie di questo volume e mi riferisco a In memoria di Fabio Casartelli, versi per nulla scontati e che conferiscono al ricordo la dignità di un grande sentimento espresso con serena struggente pacatezza. Più avanti, e già sono gli anni 1998 e 1999, c’è la strana raccolta intitolata Quaderni di quando ho capito. Di colpo l’autore sembra aver trovato le risposte a tanti perché (…Le ho detto: / sei la verità / e ti conosco…), (…E null’altro / che conti / tranne / che esistere. / Sapendolo.). Tuttavia, le possibilità interpretative aumentano, nel senso che si avvia una certa tendenza a un linguaggio introverso, quasi come se si temesse di aprire agli altri soluzioni considerate proprie e forse per questo fallaci. Nel 2000 scrive Sincronie Tantriche (coincidenze d’amore). Appare evidente che c’è qualche cosa di nuovo, con la nascita e l’incontro di un sentimento, e la mano del poeta sa cogliere momenti e stati particolari, con una grazia misurata e pudica e con risultati più facilmente comprensibili (Rivelarmi / è stato semplice. / Molto / più difficile / scoprirmi / disvelato. / Sapermi amato / amando / mi pungeva / quanto un infinito dolore / mai espresso. / Solo / che era / grazia). È stato un momento di certezze corrisposte, una sorta di osmosi che ha beatificato il poeta, testimone attore che ci rende partecipi di questo pathos. L’ultima raccolta, del 2006, si intitola Ritratti in carboncino, denominazione indovinatissima, perché si tratta di veri e propri schizzi letterari. Questi ritratti sono di figure reali, persone che sono entrate, ognuna con il suo peso, nella vita dell’autore e la capacità di descriverne il carattere, la personalità è veramente di tutto rilievo. Troviamo così il Padre (Quello / che non ti dissi / non sarà detto / quello / che non ti scrissi / non sarà scritto.), una poesia lunga in cui si esprime con sobrietà la riconoscenza per chi ha allevato un figlio, oppure la Madre (Hai un sorriso / in bilico / cui m’aggrappo…), una serie di versi di affettuosa e lieve tenerezza. L’ultimo ritratto, a conclusione del volume, è dedicato alla Moglie, forse meno originale di altri, più conformista e incline a riecheggiare, ma fortemente sentito, perché questa figura è il presente e sarà anche il futuro. Carmina n.6 110 Considerato il lungo periodo abbracciato da questa silloge e le molteplici tematiche è naturale che si finisca con il valutare più l’autore che l’opera e in questo senso ritengo che il ricorso al verso libero di Carraro, fatto di poche parole, di frequente addirittura di una sola, costituisca nell’insieme tuttavia una composizione equilibrata e dotata anche di una propria armonia su cadenze sempre piuttosto lente, come se la carta venisse accarezzata dalla penna. L’impressione che ho ritratto è di un poetare frutto di una preventiva costruzione interiore, e quindi mai istintivo, anzi assai riflessivo, ma ciò non toglie che il sapiente ricorso a metafore, a unioni concettuali e anche a sospensioni finisce con il consentire una fluidità propria, come se il tutto fosse esclusivamente frutto della spontaneità, e ciò rende assai piacevole la lettura. Francesco Carraro è nato nel 1970 a Padova, dove vive. Si è laureato in giurisprudenza ed è avvocato. Carmina n.6 111 Recensione a “L’azzurro del mare” di Roberto Morpurgo Prefazione di Sandro Montalto Di Renzo Montagnoli Chiudo il libro e mi dispiace, perché il fluire dei versi di questa silloge ha la stessa carezza lieve di una brezza di primavera; già la luce fuori si fa fioca e il giorno è passato assaporando le armonie di una penna felice, un susseguirsi di immagini e di emozioni, mai forti, ma sommesse e quasi pudiche, in un lento adagio che avvolge e coinvolge trasmettendo, senza che me ne accorga, una grande serenità. Questa è la poesia di Roberto Morpurgo, un verbo sussurrato con soavità. La silloge in verità è costituita da quattro raccolte tematiche (Il dolore e paesaggi, L’azzurro del mare, Viaggiare l’Italia, Pianura e anima), quattro riflessioni di ampio respiro che s’intrecciano a formare un’unica opera composita, come i tempi di una sinfonia. L’azzurro del mare è anche il titolo di una poesia… C’è a Itaca un trono sepolto nelle acque chiare dello Ionio. Il richiamo al mitico eroe omerico, al lungo pellegrinaggio per il ritorno alla terra natia cela il percorso del poeta alla continua ricerca di una verità che sembra quasi di toccar con mano, ma che poi si disperde come nebbia al sole. Il ricorso alla metafora è precipuo in questa raccolta, ma è fatto con misura e con grazia; così nella raccolta Il dolore e i paesaggi appare sfumato (Cammino perché scricchi / la ghiaia), oppure, come ne L’azzurro del mare, l’aspetto figurativo è simbolo di un’espressione non didascalica, ma incisiva (…/ È come un istmo il mare. / …). Non manca anche l’aspetto figurativo che introduce al sogno (Autunno / ti illude Roma / alla sua luce / aurora / che azzurra ulcera / i cieli / come nevi…) e nemmeno l’impatto tagliente, quasi brutale, per quanto soffuso (Tango / ballato da enormi tacchi / sul fango / di un lucido / Carmina n.6 112 acquazzone…). Mi sembra indubbio che Roberto Morpurgo riesca a far sentire la sua voce senza gridare, senza sovrastare quella d’altri, e ciò in forza di un forte personalità poetica che permea tutta la sua produzione in cui l’apparente semplicità della costruzione è frutto invece di un’attenta, e probabilmente anche minuziosa, continua ricerca dell’armonia. Il suo è un verso libero, ma procede in un flusso ininterrotto, senza asprezze e acuti, bensì con una levità sonora tale da sembrare soggetta a regole metriche, per quanto diverse dalle classiche. E in questo scorrere di parole viene a crearsi una composizione di esemplare equilibrio formale e fonetico che arricchisce ulteriormente la lettura, con il risultato che al termine l’appagamento è tale che dispiace che non vi siano altre pagine e altre poesie. Roberto Morpurgo (Milano, 1959) è laureato in filosofia e scrive poesie, aforismi, racconti, saggi, oltre a coltivare interessi per la psicologia psicoanalitica, il cinema e anche il teatro. In campo cinematografico ha collaborato fra gli altri con la Provincia di Milano, l’Arci Cinema e l’Obraz Cinestudio. In campo teatrale ha lavorato fra gli altri con il Teatro Universitario di Richard Gordon e collabora come autore drammatico con la RSI (Radio Svizzera Italiana). In campo musicale ha scritto canzoni (musiche e testi) e lavorato per la Ricordi. In campo editoriale ha collaborato fra l’altro con editori ed enciclopedie. Svolge la professione di consulente aziendale. Carmina n.6 113 Recensione a “Testamento breve (Poesie)” di Pasquale Mesolella Prefazione di Armando Saveriano Pentalinea Editore – Pagg. 106 – € 10,00 Di Renzo Montagnoli Testamento Breve è una silloge di due raccolte: Il dolore di sempre (1968-2000) e Ed è subito giorno (2001-2007). Di conseguenza il periodo di tempo in cui sono state create queste poesie è piuttosto ampio (quasi otto lustri) e, se da un lato consente di verificare un progressivo e costante affinamento dello stile, dall’altro comporta che le opere più lontane restino un po’ sotto tono rispetto alle più recenti. La mia non vuol essere un’osservazione negativa, anzi tende a chiarire i motivi per cui si possono rilevare difformità evidenti, per esempio, fra la pur valida Le mie amiche sconosciute e la più compiuta Autunno. Al di là di questa breve, ma necessaria premessa, tesa a giustificare un’assenza di uniformità fra le opere esposte, l’esame della silloge si presta a molte considerazioni. Mi sembra evidente una semplicità stilistica che, anche per i temi trattati, non costituisce un limite, ma anzi finisce con il diventare un elemento caratteristico che accompagna sempre, con piacevolezza, la lettura. Molto spazio è dedicato alla memoria, a quel tratto di vita vissuta che è sempre elemento caro ai poeti che in questo modo possono avvalersi di esperienze smussate, quasi sfumate dal tempo. Così le emozioni, anche dolorose, giungono ovattate e si prestano a essere meglio veicolate sulla carta, dove si riflettono in toni più blandi, propri di una sofferenza ormai metabolizzata, come ne Il dolore di sempre, oppure nella tenera Se dovessi morire stanotte. Il linguaggio appare nella prima raccolta più dimesso e l’impressione è che la spontaneità dell’estro creativo abbia costituito la caratteristica privilegiata. La seconda, invece, assai più recente, ha anche maggiori pretese, tanto che prende il titolo da una delle poesie (Ed è subito giorno), parafrasando, in parte, quello della più conosciuta Ed è subito sera, di Carmina n.6 114 Salvatore Quasimodo. Del resto il ricorso a spunti da opere di autori noti non manca, come nel caso di A mia figlia, che richiama po’ Alla mia bambina di Umberto Saba; nulla che possa lasciar supporre un influsso determinante, ma certo è che le ultime poesie risentono maggiormente delle letture fatte dall’autore. Peraltro, la costruzione più articolata del verso non è a discapito di quella parvenza di spontaneità che offre alla poesia quella freschezza tale da renderla senza età, e questo è un merito non da poco, perché in un autore in cui la ricercatezza formale non è determinante, resta proprio quella semplicità a imprimere una caratteristica dominante che ne connota, positivamente, tutta la produzione. Quindi i sentimenti e le emozioni sono esposte con il rigore della semplicità, un risultato di tutto rispetto, come anche testimoniato dalla assai riuscita Testamento Breve, che dà il titolo all’intera silloge. Testamento breve (a mio figlio) (Di me/ ti lascio nulla / che ti possa / liberamente vendere / all’effimero mercato / delle vanità. / Nulla ti lascio / che ti faccia inorgoglire / di essere unico / grande / diverso. / Solo / ti lascio / un barlume / di speranza / che t’illumini / la mente, / una segreta traccia / di sofferenza / che ti faccia ricordare / ogni tanto / di essere uomo). Pasquale Mesolella è nato a Teano il 18 gennaio 1949. Dopo aver frequentato le scuole medie e superiori in alcuni istituti religiosi della Campania, ha seguito i corsi di diritto presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università degli Studi di Napoli. Ha lavorato per alcuni anni a Milano e poi a Prato in un Ente pubblico dove esercita l’attività di funzionario. Vive, con la moglie e i due figli, a Prato, in Toscana. Con le raccolte di poesie inedite “Parole al vento”, “Canti d’amore”, “Frammenti”, “Electa”, ha partecipato a diversi concorsi, segnalandosi per il suo vivo e intenso sentimento poetico. Il suo primo esordio editoriale è del 2004 con un carme dal titolo “Carme alla mia terra”, a ricordo della sua città natale, Teano, in provincia di Caserta. Con la casa Editrice Bastogi, ha pubblicato nel 2005 la raccolta di poesie dal titolo “Tornerò a riprendermi il sole”, e nel 2006 un’interessante raccolta di detti e racconti popolari dal titolo “Cose della mia terra”. Carmina n.6 115 ANTOLOGIA POETICA M’incanto nei magistrali colori del tramonto quando superbi troneggiano stormi di nuvole rapaci addolciti soltanto un po’ negli intenti dal mio cuore di bambino. Alessio Bernabò Ebbri di follia animale su cumuli di macerie danzeremo ubriachi di luna e non finiranno mai nuove libertà da scoprire inventare unire a quelle vecchie. Alessio Bernabò * * * INSEGUENDO ACHILLE (dedicata a Giorgio) Ci sono passi che ancora non riesco a fare ed è inutile per me affrontare ma so che dietro alla porta con le rughe coperte dai bianchi capelli ho una spinta che mi riesce a mandare oltre non è necessario, padre che tu cammini dinnanzi al mio mondo Carmina n.6 116 perché io ti vedo lo stesso e so perfettamente dove ti posso cercare Lo so mi hanno infinite volte trafitto il tallone e moltissime altre l’ho trafitto io stesso ho fatto della conquista della mia personalissima Troia un cavallo di battaglia, senza che fosse di legno e molte volte ci hanno abbattuto entrambi Ci sono idee, padre che ancora non riesco ad avere e me ne vergogno un po’, proprio ora che con lo scudo universitario mi faccio difesa e vanto trovo delle fondamenta leggere e mal costruite ed ancora ricorro alle tue cure ed alle tue carezze che non ho mai avuto e che mai ho cercato Sono tutt’ora l’incauto inquilino di una delle tue dimore difensore dell’ultima ombra vista e passata potrò mai padre, vedere le mie ossa riposare in pace senza dover necessariamente ansimare e rifugiarmi tra le tue braccia…? Ancor, io non so… Alessandro Borsetto SCRIVERE Scrivere è la follia notturna la pioggia mattutina sul tetto che ti sveglia l’istinto, la rabbia… la paura scrivere è guardarsi allo specchio, sapendo di non poter mentire ascoltare dal muro voci straniere guardare il sole senza bisogno di occhiali scrivere è esorcizzare la morte costruire un labirinto di mattoni attorno a sé Carmina n.6 117 circuire la paura corteggiare una donna volutamente velata amare una musa, senza poter congiungersi materialmente a lei scrivere è il brivido di una farfalla in bocca ad una lucertola nebbia alcolica in notti buie stanze polverose adornate di carta ed inchiostro scrivere è fuggire, scappare da un recinto imposto o semplicemente donato ascoltare la canzone triste della vita e vedere lungo la strada facce, corpi… scrivere è non avere nessun piano nessun fuori nessun angelo e nessun Dio, nessun pettirosso che doni gioia lungo la terrazza scrivere è sapere che quando hai una conquista la fortuna può andarsene e tu non hai più sangue in te per danzare per parlare per vivere e per morire. Alessandro Borsetto * * * SOTTO LA QUERCIA Dorme il brusio secolare delle fronde, Assente è il turbine E la brezza audace. Un solingo intrigo Di luce opaca Schiude, Cullando nelle grinfie Carmina n.6 118 questo silenzio pittorico. Pare beltà, appare tedio, Sentenza veritiera di vita sublime. Nulla si disloca Ed io rinvigorisco connesso a tutte le energie del globo. Davide Capriati RITRATTO DI UNA SCONOSCIUTA Occhi da morgana e d’eccellenza pleonastica, salsedine corvina di un cristallo oceanico; pallida sorgi, fra i fiumi rudagiosi di nere chiome e affondi il viso lunare sui limiti della crosta terrestre. S’illumina di te il sole e s’accende di speme l’illusionato amore Ti invidia Artemide e rimpiange chi ti osserva innanzi, lo sconosciuto nome per un solo saluto. Davide Capriati * * * Carmina n.6 119 FRA NOI Le false verità che mi apparecchi si fermano fra noi, acqua stagnante. Sento il suo lezzo traversarmi la gola, tocco l’opacità con la mia pelle. Serra le labbra, e più non mi parlare e va lontano e più non mi ferire. Milvia Comastri In tasche di vestiti troppo stretti si annidano le parole delle donne: quelle non dette o appena sussurrate, quelle riposte per non fare male, e quelle tralasciate per paura. Un no mai pronunciato, un sì non rivelato stanno schiacciati nel frustrante spazio di un microcosmo senza più illusioni, fra biglietti di treni non timbrati e briciole di giorni smozzicati. In tasche di vestiti troppo stretti gli alfabeti negati delle donne a poco a poco muoiono in silenzio. Milvia Comastri L’ho vista la parola uscire a taglio dai tuoi denti serrati. L’ho vista la parola mentre precipitava Carmina n.6 120 pesante fra i nostri corpi aridi e duri come statue di sale. Ho allungato una mano ad afferrarla Ma è caduta per terra, e lì è rimasta, in una pozza di sangue scolorito. Ed era l’ultima delle tue parole, e, anche se d’odio, io volevo amarla. Milvia Comastri * * * PENSIERO D’AMORE Si muove piano, si insinua delicato come un pensiero d’amore, come un bacio rubato dammi un sogno che io possa seguire, un volto che io possa riconoscere una mano che voglia stringere, un respiro che io possa fare mio. Enzo Cristofori * * * REQUIEM Danzano ancora le ombre senza più riconoscersi. La tua, Carmina n.6 121 nel suo vestito di nero ornato; la mia, seguendo il tuo passo lieve disperdersi. Danzano insieme senza più appartenersi, senza più toccarsi. Sia dannato Dio perchè non potremo vivere ancora. Amen. Giovanni Di Benedetto SPLEEN Alla mia morte, il riflesso del mio viso sull’acqua rispecchierà soltanto l’immensa desolazione di questo cielo. Che suoni pure un’ultima volta la lira discorde. Giovanni Di Benedetto XENIA (a Carmen) Il ricordo del suono della pioggia svanisce nell’aria come le lacrime versate sulla sua pelle. Lei, la sposa del vento. Più non sentirò la sua voce. Carmina n.6 122 Vorrei non essere ancora nato e ricordare soltanto il respiro di mia madre. Giovanni Di Benedetto * * * NELLA NEBBIA Trovo che ormai è superfluo chiedere e passare per pazzo e rubare regali, non basta scrivere, bene, emozionare Trovo che ormai la domanda è da veri ignoranti inventarsi una vita impossibile, non basta scrivere, bene, emozionare la sorte non decide sola. Vita di stenti, di pasti nelle mense morire alla terza settimana con il gas dimenticarsi che da due anni non lo pago cos’è questa vita dove assaporo l’inchiostro che uso per scrivere parlare di una farfalla e vederla volare. Armando Garbarini QUALCUNO DA AMARE Ho scritto una poesia per te e’ l’emozione di sentirmi viva, Carmina n.6 123 le mie mani che disegnano vortici irregolari sul foglio bianco che a poco a poco si colora di parole con le ali. Scrivo per te questa canzone che canto con la mia voce e mi faccio bella, credendo che gli incontri più belli siano il primo e l’ultimo,quando occhi ti guardano e assaporano gusti i più inebrianti,ed io e te come due amanti insieme per divenire una cosa sola, in un abbraccio,in cento, mille abbracci in un bacio,in cento, mille baci nell’amore che disfa lenzuola fredde di solitudine. Questa è la mia vita, una poesia per te con lo sguardo fisso sulla luna non ho paura di morire, non ho paura di vivere. Armando Garbarini * * * Avaro di sorrisi Il cielo restituisce alla terra Frammenti di luce Superbo nella sua vastità Ruba sogni e desideri Affondo le mani nella terra Penetro fino alla radice di una pianta Nella notte sono coperta di luce Desiderosa di realtà mi ribello al sogno Attendo l’alba per una luce più sincera Patrizia Garofalo Carmina n.6 124 Sfiorerai ciglia d’antilope di velluto al tatto …sempre occhi liquorosi di tramonti senza orizzonti colorati cristalli di sabbia iridescenti lacrime cospargono deserti feriscono lo sguardo accompagnano l’andare errante liberi dalle reti del tempo avrà il sapore del mare anche la melma del fosso andrai nel mondo con i miei occhi perle senza vivaio da custodire in acqua Patrizia Garofalo * * * HO SCAVATO INTORNO Ho scavato intorno due metri per uno ho mangiato la terra intorno al tuo corpo ora ti sento sui denti e ti posso onorare ti ho ingoiato a morsi Carmina n.6 125 per anni. Serena Granatelli * * * IL GLICINE Quasi contorto nel freddo s’aggrappa ancora alla vita tronco rugoso orbo di foglie avvinghiato all’umida ringhiera sfida il vento d’inverno sperando in un’altra primavera. Renzo Montagnoli (da Il cerchio infinito) * * * LE VERITA’ ASSOLUTE Ma quando allora il mondo avrà esaurito le parole degli uomini, sarà costretto a utilizzare quelle dei poeti! Alessandro Oliviero Carmina n.6 126 PIOMBO NEL CIELO E nel frattempo il vento raccoglie il tappeto rosso di foglie fuggite dall’albero in cerca di libertà e di di vento, del vento che ne facesse tappeto vermiglio stipato agli angoli delle aiuole dure di freddo. Alessandro Oliviero * * * SCARNE EMOZIONI Fugace da scarne emozioni rido di un luglio ormai lontano che a volte ancora calpesta questo mio presente distratto e vago. Sagace di scarne emozioni Carmina n.6 127 violento i miei sogni sbattuti contro un muro come tramonti attesi da infinite ore. Piero Picca * * * CONOSCENTE, AMANTE FORSE Io, come il tempo, uggioso, forse come dicevi di sentirti quando resti sola in casa. Malinconico, svogliato e scisso. Mi forzo al lavoro per distrarmi. Mi chiedo se è il fare sesso o meno che potrà aiutarmi. Cerco, di fondo, comunicazione, permango nel terrore che altri possano guardarmi dentro: nudo, impaurito, bambino. Sono un sassolino sul selciato, scalciato, altrove abbandonato. Io, nella pioggia, ignaro del mio e dell’altrui destino: rette che s’intersecano nel buio silenzio del cosmo. Enrico Pietrangeli (da Ad Istanbul, tra pubbliche intimità, Ed. Il Foglio 2007) Carmina n.6 128 GIORNO PER GIORNO Ci sono giorni e giorni e taluni non ti sopporto, altri mi venderei l’anima per sentirti madre, come la terra, e respirare sul tuo ventre, promontorio dove tutto sembrerebbe meno vacuo colmando il sepolcro delle carezze che la pala, sapientemente, dosa… Giorni che fuggiamo, atterriti, per poi volgere, sempre più accorti, strateghi artefici di altre morti: sono giorni di sesso viscerale, trivellati in profonde falde. Primigenio e terricolo anelare un diritto alla vita. Enrico Pietrangeli (da Ad Istanbul, tra pubbliche intimità, Ed. Il Foglio 2007) * * * FIGLIO È nei suoi occhi il tuo cielo luce sul tuo tramonto scopri ancora quel velo sospeso sul suo sorriso in catene d’oro ricami la tua felicità. Simona Ratto Carmina n.6 129 * * * MEDUSA DI CRISTALLO Sbadiglio del sole Insaccato all’ orizzonte alito d’alghe e di marosi sipario di tramati zeffiri e tramontane che forzano vele cantando fra le sartie Alcioni in schiuma di risacca muovono in faticoso ritroso. La tela è umida di mare Guida il sottile racconto Medusa di cristallo Sotto il pelo dell’acqua sobbalzando fra le onde Nicoletta Santini OPERA D’ARTE Dipingo il vento di prima che se ne andava sotto uno scroscio di pioggia e il rumoreggiare lontano del tuono camaleontico nei sussulti deliri che tutto cambia al suo passare. Visioni surreali Immagini evocanti memorie nell’inerte spazio che vaga …e creo la forma. Un vaso con desto Giglio borioso Carmina n.6 130 Compagno di appariscente Calla Sfiorita Dal rigido stelo Agonizzante Col reclinato Ciclamino Custode di ultimi ombrati sentieri Dipingo una mano con una brocca piena d’acqua Che li disseta Nicoletta Santini * * * MANI Capriola al soliloquio, al violato vento il movimento, supplichevole di un disegno che sfila l’ombra con lo sgambetto, e in una commedia, senza parole la presenza guarda in suadenti, umili, carezzevoli canti tra le travi mute dell’orgoglio; sono mani prementi che vedono oltre il vedere, l’uguale spogliarsi per amore, con la scure di un fuoco che taglia la testa alla memoria, e si veste di millenni, senza il segreto mai svelare. Mani cupide, innamorate, s’aprono alla ghiaccia della brutta verità nel drappo di un indeciso sole, nel silenzio dei fiori allo strappo della notte, insopportabile Babele al passo velato dell’anima Carmina n.6 131 lume della ragione, orma splendente di un vasto cielo, rima d’un palpito lontano, ma sempre caldo nella sua voce, di vastità colma. Sull’ultima sabbia di luce, chiama lei, mano, la sua impronta, s’accovaccia sul mantello della terra, per celarsi nell’eterna tenerezza di una foglia. Patrizia Trimboli * * * SOMALIA Quando la penna inferocita schizzante nelle lenzuola di cartapesta dove, si affoga tra rime affamate e assiderate e,quando l’amore smunto amaro di silloge pagane avrà detestato campi aridi e risollevato per attimi consapevolezze prive di potenza io rimango qui tra carcasse sabbia rossa e milioni di lacrime morte. Annalisa E. Vivino Carmina n.6 132 Carmina n.6 133