Un mosaico di esperienze

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Un mosaico di esperienze
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Un mosaico di esperienze
Le narrazioni come testimonianza e formazione
Pubblicato dall’Associazione Italiana Persone Down (AIPD), Sezione di Pisa-Livorno ONLUS
nell’ambito del Partenariato europeo di apprendimento Socrates-Gruntvig 2 “La Pedagogia dei
Genitori”.
“Quando i miei figli erano molto piccoli facevo un gioco con loro…
davo loro in mano un bastoncino, uno ciascuno, poi chiedevo di spezzarlo.
Non era certo impresa difficile,
poi chiedevo di legarli in un mazzetto
e di cercare di romperlo,
ma non ci riuscivano,
allora dicevo: Vedi quel mazzetto?
Quella è la famiglia…”
Tratto dai dialoghi del film Una storia vera di D. Lynch (USA 1999)
Questa pubblicazione è intesa come strumento di promozione dell’informazione, senza fini di
lucro. Il volume è stato stampato grazie ad un finanziamento ottenuto dalla Sezione AIPD di
Pisa-Livorno nell’ambito del programma Socrates/Grundtvig 2 (educazione continuativa
degli adulti), Partenariato europeo di apprendimento “La Pedagogia dei Genitori. La dignità
dell’azione pedagogica dei genitori come esperti” (2003 / 03-ITA01-S2G01-00196-3).
Il Progetto “La Pedagogia dei Genitori” è stato finanziato dall’Agenzia Nazionale Socrates nel
corso del triennio 2001-2004. Al Progetto hanno collaborato il "Comitato per l'integrazione
scolastica degli handicappati" di Torino, la Sezione di Brindisi dell'AIPD, l'Associazione
"Integrazione" di Villaverla (VI), l'organizzazione "Children in Scotland" di Edinburgo (UK) e la
Sezione Midi-Pyrenées del GIPH di Tolosa (F). Scopo del Progetto è sottolineare la dignità
dell’azione pedagogica dei genitori come esperti educativi dei propri figli. La narrazione delle
proprie esperienze personali è una risorsa che può contribuire alla formazione degli esperti e dei
professionisti che operano attraverso rapporti umani (insegnanti, medici, educatori, giudici,
assistenti sociali).
I disegni sono stati eseguiti dai bambini della classe IV elementare (a.s. 2003-2004) della Scuola
Moretti (Istituto Comprensivo Gamerra) di Putignano, Pisa.
Data di stampa: luglio 2004
Grafica e stampa: Stampa83 – Cascine di Buti (PISA)
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Ringraziamenti
Vogliamo ringraziare tutti coloro che, con grande coinvolgimento emotivo e senza essere degli
scrittori di formazione, sono riusciti a raccontare le proprie esperienze personali ed a condividere la
propria intimità con gli altri.
Ringraziamo anche tutti coloro che dedicheranno un po’ del loro tempo a leggere queste narrazioni
con l’auspicio che ne possano trarre un insegnamento umano e professionale.
Le narrazioni vengono pubblicare con il permesso degli autori.
Le seguenti narrazioni sono state precedentemente pubblicate come dettagliato di seguito:
Enrico Barone, Quando i medici usano il fischietto, Handicap & Scuola Anno XIX – gennaiofebbraio 2004 No 113, pp. 32-33
(pubblicata con il titolo “Momenti difficili, medici attenti” sulla rivista Un Pediatra Per Amico,
Anno 3 No. 4 settembre-ottobre 2003, pp.12-15)
Daniela Pari Carletti, Un mosaico di grande valore, Handicap & Scuola, Anno XIX – marzo-aprile
2004 No 114, pp. 7-8
Edi Cecchini, La scuola? Un punto di domanda, Handicap & Scuola, Anno XIX – settembreottobre 2003 No 111, pp. 14-15
Edi Cecchini, L’Arcobaleno, Handicap & Scuola, Anno XIX - marzo-aprile 2004 No 114, p. 8
Caterina Vaglini, Mi sembrava impossibile uscire dal “tunnel” Handicap & Scuola, Anno XVII –
settembre-ottobre 2001 No 99, p. 6
Caterina Vaglini, Racconto a mandorla, Handicap & Scuola, Anno XVII – maggio-giugno 2002 No
103, pp. 25-26
Aurora Pantani ed Ilio Musi, Una "speciale normalità", Handicap & Scuola, Anno XVII – maggiogiugno 2002 No 103, pp. 32-33
Daniele Tornar, Soli contro tutti, ma non bisogna arrendersi, “Diversi da chi?” di Maria Antonietta
Schiavina, Mondatori Editore, 1995
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INDICE
Che cos’è la Pedagogia dei Genitori
Augusta Moletto, Le competenze educative dei genitori
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Daniela Pari Carletti, Un mosaico di grande valore
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Flavia Luchino, Percorsi integrati. La parola alle famiglie
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Le narrazioni
Laura Bellina, Annalisa
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Aurora Pantani ed Ilio Musi, Una “speciale normalità”
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Mirella Pasqual ed Aurora Pantani, Mamma e basta?
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Giuseppe Saraniti, “federicovieniquà”
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Raccontiamo di David:
Daniele Tornar, Soli contro tutti, ma non bisogna arrendersi
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Daniele Tornar, Testimonianza di un rapporto difficile, ma a volte possibile
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Raccontiamo di Giacomo:
Caterina Vaglini, Mi sembrava impossibile uscire dal “tunnel”
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Caterina Vaglini, Racconto a mandorla
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Raccontiamo di Andrea:
Enrico Barone, Quando i medici usano il fischietto
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Edi Cecchini, La scuola? Un punto di domanda
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Edi Cecchini, L’Arcobaleno. Qualche tassello per un mosaico di grande valore
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Il maestro, Lettera ad una madre coraggiosa
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Edi Cecchini, Spicchio di sole
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E per finire…
Chiamatemi per nome
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Che cos’è la Pedagogia dei Genitori
Le competenze educative dei genitori
Impariamo che il viaggio inizia nelle nostre vite, nelle nostre case.
Impariamo a metter in discussione le credenze con le quali siamo nati.
Impariamo ad esser gli alleati dei nostri figli.
Siamo dalla parte dei diritti umani.
Non accettiamo modelli medici ed assistenziali sulla disabilità.
che presentano i nostri figli come imperfetti.
Vi sono modelli per i quali i genitori dovrebbero accettare i loro figli disabili.
Vorrebbe dire vedere i nostri figli con lo stesso modo negativo
col quale la società ora li considera.
Minerebbe alle radici il rapporto coi nostri figli.
Minerebbe alle radici i rapporti all’interno della nostra famiglia.
I nostri figli sono gli unici ad indicarci la strada.
Ci danno l’opportunità di imparare e capire.
Ci danno fiducia e consapevolezza.
Ci danno speranza e coraggio.
Ci mostrano come fare.
I nostri figli ci insegnano come essere loro alleati.
Parents with Attitude1, Let Our Children Be
Protagonismo dei genitori
Dai racconti che presentano l’itinerario della vita scolastica e sociale dei diversabili emergono come
protagonisti persone la cui presenza conferisce spessore e sostanza a tutte le attività necessarie ad
una corretta integrazione. Se nessun uomo è un’isola, la vita di un diversabile fa emergere con forza
l’interconnessione delle nostre vite. Nessuno è autosufficiente, attorno a noi si intrecciano rapporti
che determinano non solo la nostra esistenza materiale, ma soprattutto quella spirituale ed umana.
Le persone cosiddette normali possono mascherare od occultare la rete sociale che li sostiene;
l’esistenza del diversabile mette a nudo questa situazione e sottolinea la necessità per tutti della
cooperazione.
Tra le persone che determinano lo sviluppo umano delle persone in situazione di handicap
emergono agenti sociali che più degli altri rendono possibile il complesso processo
dell’integrazione. Occorre riconoscerne l’azione, valorizzarla, analizzarne la specificità del
contributo, conoscerne le caratteristiche migliori sulle quali poter far affidamento. Ci lamentiamo
della mancanza di risorse, riferendoci spesso a quelle materiali. Senza sottovalutarne l’importanza,
questa richiesta dipende da un atteggiamento consumistico che ci induce a non tener conto della
risorsa uomo. Si considera risorsa solo quella validata ufficialmente, garantita da un titolo ufficiale,
da uno studio spesso basato solo sui libri. Non ci rendiamo conto che studio non è solo quello
teorico ed astratto, è anche l’esperienza umana codificata nella pratica quotidiana. Questa risorsa è
importante, perché si radica nella continuità dei rapporti e nella specificità delle conoscenze,
ponendoci in grado di fare analisi concrete di situazioni concrete.
Il riconoscimento di queste capacità nelle scienze umane valorizza le competenze relazionali dirette.
Studi generici ed astratti rischiano di ingessare le persone, di classificarle con diagnosi che spesso si
rivelano autoavverantesi. Creare unità di misura per l’uomo ha portato all’aberrazione del
Quoziente di Intelligenza che in Italia fortunatamente non ha avuto larga diffusione, comparazioni
prive di senso conducono a comode ma disperanti diagnosi di età mentale, che tolgono speranza a
chi desidera impegnarsi nella direzione di una sempre maggior promozione umana.
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Genitori competenti, Lasciate vivere i nostri bimbi, Associazione inglese di genitori con figli diversabili.
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La ricerca scientifica ha preso atto che dietro le risorse umane definite aspecifiche, grezze, esistono
chiarezze e competenze che devono ottenere validazione da parte di tutta la comunità scientifica ed
esser accettate con lo stesso rispetto che si ha per quelle dei ‘tecnici’. I genitori sono esperti a pieno
titolo per i loro figli e per le scelte che li riguardano. Nella pedagogia scientifica della Montessori,
accanto al riconoscimento educativo della validità della soggettività dell’alunno, espressa nella
formula “il bimbo è il maestro dell’adulto”, si pongono le basi per il necessario rispetto per le scelte
dei genitori.
Validazione della pedagogia dei genitori
Vi è la necessità di presentare e fissare le basi scientifiche delle competenze dei genitori, perché
venga riproposta la fiducia nella loro attività educativa. Gli esperti devono rendersi conto che
occorre collaborare ed anche imparare dalle famiglie2.
Una studiosa americana mette a fuoco l’approccio degli esperti con le famiglie: “Tradizionalmente
il prevalente approccio alle famiglie, in particolare quelle con figli disabili è derivato dagli ambiti
della medicina, della psicologia, dell’educazione e dell’assistenza. Collegandosi ai metodi delle
scienze sociali gli esperti hanno esaminato la famiglia allo stesso modo col quale un medico
esamina un ammalato. Il risultato è che la maggior parte degli esperti sostengono che le famiglie
sono impegnate in una continua lotta per affrontare i devastanti problemi che riguardano ad esempio
la presenza di una persona handicappata. I genitori e gli altri membri del nucleo familiare vengono
giudicati dalla maggior parte degli esperti in base alla loro debolezza e mancanza piuttosto che per
la loro forza e le loro risorse3”.
Fortunatamente questo paradigma sta cambiando: ”Sono messi in discussione i modelli ‘deficitari’
che accompagnavano la pratica degli esperti, sostituiti da teorie che sostengono la competenza delle
famiglie…Chi desidera capire (e rispettare) l’esperienza dei genitori sempre di più si rivolge ai
genitori stessi per ottenere la loro interpretazione della situazione che stanno vivendo. Invece di
assumere una visione dall’esterno questi ricercatori dipendono dai genitori per definire il significato
delle loro scelte e del mondo che li circonda4”.
Dignità dei genitori
Occorre generalizzare questo atteggiamento, invitando educatori, personale sanitario, docenti a
porsi all’ascolto dei genitori, per imparare da loro. Ridare significato di apprendimento reciproco e
paritario a questa parola che, per la medicalizzazione e la patologizzazione dei rapporti, ha acquisito
un’accezione terapeutica. L’ascolto è diventato quello dello psicologo che si pone su di un piano
diverso, mai paritario, terapeutico. Ascoltare significa interpretare (nella situazione peggiore),
oppure auscultare, porgere l’orecchio a chi ha problemi, cercare sintomi, indizi per individuare
patologie. Persone non problemi è il titolo di un libro di Don Ciotti, persone con competenze ed
esperienze in grado di arricchire chi li interpella.
Le narrazioni dei genitori non sono testimonianze, sono analisi in cui non è racchiuso solo un sapere
oggettivo, ma vi sono decisioni ed un progetto. Sono indicazioni per l’azione che un giudice, un
operatore sanitario, un docente deve accettare, perché l’esperto di quel ragazzo è il genitore, è lui
che ne ha la responsabilità oggettiva per il futuro, è lui che ha elaborato un progetto di crescita.
Le decisioni degli operatori vanno prese paritariamente, coi genitori, titolari di un sapere educativo
e formativo. Attualmente a qualsiasi livello viene tolta loro dignità e conseguente autorità.
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Lo studio del sociologo Frank Furedi, Paranoid parenting, sottolinea la perniciosa influenza della pletora di esperti,
psicologi o altro, che si accalcano al capezzale di una famiglia presunta malata, per dispensare in modo interessato
diagnosi e consigli. Questo ha l’effetto di confondere le idee ai genitori e soprattutto far perdere fiducia nelle loro
competenze con effetto di delega o di ‘dimissioni’.
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P.Wickam-Searl, Mothers with a Mission, in P.M. Ferguson, D.L. Ferguson, S.J. Taylor, Interpreting Disability,
Teachers College Press, Columbia University, New York 1992, pagg. 251-52.
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Mothers with a Mission, pag. 252.
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La pedagogia dei genitori
Imparare dai genitori
Ascoltare i genitori per imparare un tipo specifico di pedagogia:
• Imparare da loro la specificità dei figli. I genitori hanno il segreto della loro crescita,
l’hanno condivisa. Hanno fatto progetti per e con loro. Hanno vissuto nello stesso
ambiente. Conoscono le tradizioni e la situazione sociale nella quale i figli vivono.
• Imparare da loro lo specifico dell’educazione genitoriale. Esser genitori significa
possedere un sapere generalizzabile che deriva dall’esercizio di quella funzione.
Da secoli la pedagogia dei genitori è stata accettata e mai messa in discussione. La società l’ha
sempre riconosciuta anche se non l’ha codificata. Non ve n’era bisogno. Esisteva ed era
valorizzata. Oggi si manifesta la necessità di individuarne la specificità in quanto è venuto meno il
collegamento tra pedagogia della famiglia e pedagogia ufficiale. La pedagogia ufficiale era
soprattutto di carattere scolastico e si giustapponeva senza sovrapporsi a quella familiare. Le
scienze della psiche hanno voluto uno statuto di tipo diagnostico e patologizzante che sostituisce
ed esautora la Pedagogia dei Genitori.
Pedagogia della responsabilità
Caratteristica fondamentale dell’azione della famiglia. E’ alla base e all’origine della catena
educativa del cucciolo d’uomo e come tale ha uno stile ed un approccio specifico. Il bimbo le
appartiene e non vi è nessuno che se ne può occupare con la stessa intensità. Si sviluppa un legame
strettissimo ed una forma di educazione che si modella su questa impostazione. La famiglia porta il
peso dell’educazione e ne risponde al mondo. Il successo e la felicità del figlio è il suo successo e la
sua felicità. Non si può sottrarre, non può dare le dimissioni come possono fare altre agenzie: la
scuola o l’ospedale. Non può colpevolizzare altri. Questa responsabilità, assunta positivamente, le
attribuisce una forza ed una capacità che nessuna altra agenzia educativa ha. Deve riuscire. Deve
trovare le soluzioni. Di qui le capacità di organizzazione e ricerca che possiede. La pedagogia della
responsabilità fa in modo che non possa cercare scappatoie o alibi: il figlio deve riuscire, e bene.
La comunità educante di villaggio che permette a tutti di intervenire sul bambino e la famiglia
allargata in cui le funzioni parentali vengono assunte in modo collettivo, sono scomparse. Ora
l’educazione dei figli spetta alla coppia o, come capita sempre più spesso, a un singolo genitore.
Il senso di responsabilità continua e consapevole è funzionale ai compiti della scuola: il docente
avverte che, se non si impegna, nessuno lo può sostituire. Serve al medico che non può intervenire
solo in un momento specifico, su una funzione e poi dimissionare, senza verificare quali sono stati i
risultati della sua azione nel lungo periodo.
Pedagogia dell’identità
Ogni scarrafone è bello a mamma soia
Diventare una persona significa acquisire un’identità e soprattutto riconoscerla ed accettarla. Questo
non passa attraverso un’attività singola, legata all’individuo, quanto mediante un’azione sociale. Io
mi riconosco negli altri tramite gli altri. E gli altri, nel momento più difficile e delicato della
crescita, sono i genitori. Sono loro che impostano all’inizio il rapporto dell’uomo con se stesso. Per
la mamma e il papà il figlio è il più bello ed intelligente del mondo, è unico, ed è giusto che sia così,
altrimenti non si opererebbe quell’enorme investimento di energie umane che è la crescita dei figli.
Il figlio ha la necessità di sentirsi unico al mondo: una condizione fondamentale per accettarsi. Da
questo riconoscimento si sviluppano qualità che formano la persona, più saranno fondate
sull’accettazione dei genitori, maggiore sarà la sicurezza dell’individuo.
Pedagogia della speranza
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Profondamente insita nella pedagogia dei genitori è la spinta verso il futuro, verso uno sviluppo
positivo. Speranza significa crescita e superamento delle difficoltà, investimento e tensione verso
un’evoluzione che non può non avvenire con esiti felici. “Fortis imaginatio generat casum” (Una
forte immaginazione produce un risultato), sottolinea Montaigne. La speranza dei genitori è l’anima
del progetto di vita, del pensami adulto. Una dimensione che a torto è stata definita irrazionale.
Andare al di là di ogni ragionevole aspettativa significa proporre una continua tensione verso la
soluzione dei problemi.
La speranza dei genitori si misura sul figlio, sulle sue capacità, sulla necessità di andare oltre, di
superare le difficoltà. In questa dimensione possono esserci stati eccessi, dovuti all’abbandono
sociale dei genitori, lasciati soli di fronte alla sfida educativa. La speranza è alimento per una
continua ricerca di soluzioni in ogni campo delle scienze umane e diventa qualità necessaria per lo
sviluppo umano.
Pedagogia della fiducia
Mentre la pedagogia della speranza è caratterizzata da una dimensione ‘lunga’ cioé si sviluppa nel
corso dell’esistenza in un progetto che ambisce a diventare linea di vita, la pedagogia della fiducia
ha una dimensione quotidiana, più vestita sulle singole capacità del piccolo d’uomo. E’ legata alle
scelte ed alle forze che il bambino mette in campo. Egli percepisce che le sue energie non vengono
avvertite come ostili o estranee, ma accettate ed inserite in un progetto di cui i genitori sono
consapevoli e responsabili. Le capacità vengono nutrite e rafforzate da un rapporto diretto, la
fiducia del genitore non solo sostiene le potenzialità del figlio, ma le fa nascere. E’ necessaria anche
quando egli diventa consapevole delle proprie capacità ed inizia a fare delle scelte. I genitori lo
conoscono meglio di qualsiasi altra persona ed il loro sostegno e la loro approvazione hanno un
peso incomparabile. Sono strumenti di crescita attraverso i quali la famiglia attribuisce autonomia al
figlio e lo distacca da sé, pur mantenendo uno strettissimo legame che si rafforza nell’esercizio della
fiducia.
Genitori come formatori
Gli esperti che si occupano direttamente dell’uomo devono riconoscere i genitori come persone
competenti in grado di fornire utili indicazioni, con i quali avere rapporti paritari. Lo sottolinea ad
esempio la Legge Quadro sull’handicap 104/92, quando per l’integrazione scolastica prevede nei
gruppi di lavoro la presenza dei genitori accanto ad insegnanti e curanti.
La specificità del sapere dei genitori deve essere presentata in situazioni di formazione, dove essi
propongono ai tecnici il loro percorso specifico e le indicazioni della pedagogia dei genitori. Sono
per vocazione e pratica formatori ed esprimono le loro competenze educative attraverso la
narrazione dell’itinerario di crescita dei figli. La narrazione è uno strumento non invasivo, legato
alla realtà concreta che ha il pregio dell’immediatezza, della ricostruzione affettiva ed emotiva di un
percorso pedagogico basato sull’empatia. Sono qualità che le scienze dell’uomo hanno rischiato di
perdere per la spersonalizzazione determinata dall’influenza del positivismo. La possono recuperare
oggi se nella teoria e nella pratica si dimostrano attente alla pedagogia dei genitori.
Augusta Moletto
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Un mosaico di grande valore
Se mi chiedessero di definire in una parola sola il convegno di Torino direi: emozionante. E’ stato
davvero un insieme di emozioni forti, intense, che sono cominciate già da prima, da quando si è
innescata la macchina organizzativa, da quando ci siamo trovati tutti insieme noi del gruppo
torinese a parlare degli alberghi, delle pause, di ciò che ci si aspettava da ciascuno di noi, al tema
dell’incontro che era “Con i tuoi occhi”, gli occhi dei genitori, dei fratelli e delle sorelle dei
diversabili. Fra noi mamme ci sono state tante telefonate, la trepidazione e l’ansia erano palpabili, e
anche la paura che qualcosa andasse storto. La mattina del 5 dicembre appuntamento sotto casa mia,
io Mirella e Antonella che venivano a prendermi e poi via, pronte per l’avventura. Chissà, forse
sono un po’ di parte perché per la prima volta giocavamo in casa e dopo Edimburgo e Pisa, ci
trovavamo nella mia città Torino, per il mio terzo incontro internazionale. Nel palazzo del
Municipio finalmente il tanto atteso ritrovo con gli altri partecipanti, che gioia, ci sono delle facce
nuove, ma ci sono anche Irene e Fiona dalla Scozia, poi la delegazione francese, e gli altri Italiani,
altre facce conosciute, Marinora, Enrico, Cecilia, Maria Chiara e tanti altri. Sono contenta,
finalmente si comincia.
Sono stati tre giorni intensi, tante volte la stanchezza ha avuto il sopravvento. Non è facile ascoltare
tante testimonianze, la sofferenza ti pesa dentro il cuore, i racconti delle madri e dei padri a volte
sono laceranti e ti trovi a rivivere quasi in prima persona fatti della tua vita tante sono le analogie.
Nina, dalla Scozia, racconta la storia di sua figlia e scopro che anche a lei un medico ha detto la
stessa cosa che venne detta a me, lei è una madre isterica, dopo anni che sento testimonianze penso
che ci sia in questo mondo così globalizzato un’omologazione anche delle sentenze che riguardano i
bambini, tutte negative, pessimistiche, ti viene prospettato un futuro grigio, tetro, faticoso, ti viene
predetto come vivrà tuo figlio e ai genitori viene quasi negata la speranza. Le testimonianze che più
mi hanno impressionato personalmente sono quelle francesi, proprio per la loro durezza, per il
sistema scolastico che vige in Francia qualsiasi direttore può dirti “No, suo figlio in questa scuola
non lo voglio” e tu non puoi fare niente, assolutamente niente, e si apre il baratro della scuola
speciale.
Ho pensato tanto, in questi giorni, al cammino che ho fatto a livello personale, all’incontro che ho
avuto con il Comitato per l’integrazione che ha dato uno sfogo quasi naturale alla mia voglia di
aprirmi, di parlare della vita della mia famiglia con mia figlia Valeria, all’amicizia che ormai mi
lega alle altre mamme. Tutta questa ricerca, questo parlare, questo confronto continuo hanno dato
una grande valenza sia alla mia storia personale che a quella di altre famiglie, non mi sento più
tanto piena di rabbia nei confronti del mondo intero, posso parlare con dei miei simili e darmi da
fare perché certe situazioni non capitino più, posso credere che è possibile davvero vivere con
l’handicap, lottare perché vengano fatte le leggi per tutelare i diversabili o perché vengano rispettate
quelle che già ci sono. Posso essere orgogliosa e appagata di mia figlia e di tutto ciò che è riuscita a
conquistare nonostante l’handicap e nonostante la diagnosi infausta che le venne fatta; la
caratteristica che più si evince dalle testimonianze dei genitori è che nessuno di noi si è mai
accontentato o rassegnato, ma ha lottato perché credeva fermamente nelle potenzialità di suo figlio
perché lo conosce meglio di chiunque altro.
La Pedagogia dei Genitori per fortuna oggi è una realtà ed a me piace immaginarla come un grande
mosaico, di quelli belli che si incorniciano e si mettono nei saloni. Ci sono degli edifici ancora in
costruzione, alti, svettano verso il cielo, e promettono di essere i più belli che si siano mai visti.
Questi edifici sono ancora da rifinire, le finestre non hanno il telaio e mancano le porte, ma già si
capisce che saranno delle case di qualità. Sono i nostri figli che stanno crescendo e stanno facendo
del loro meglio per raggiungere i loro traguardi. Questi edifici hanno delle fondamenta solidissime,
il cemento usato per la gittata delle basi ha un costo altissimo e promette di reggere a tutte le
intemperie, e siamo noi, i genitori, che tanto combattiamo per il loro presente ed il loro futuro. Il
cielo è terso, azzurro e si intravede il sole, ma ci sono dei nuvoloni che si intravedono all’orizzonte
ed ogni tanto si scatena un bel temporale, e queste sono le diagnosi che i dottori hanno fatto e fanno,
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ma che di fronte a certi risultati valgono ben poco. Queste case sorgono in un parco colmo di piante
e di fiori colorati, e ad ogni fiore corrisponde un significato: ci sono degli iris, che rappresentano la
speranza in un domani migliore dove non ci siano i normali e i diversi, ma solo delle persone; ci
sono delle margherite, che significano le possibilità di un lavoro per questi ragazzi; ci sono le rose,
che sono tutto l’amore che i nostri figli ci hanno trasmesso e di cui senza loro non saremmo mai
stati capaci; ci sono i girasoli, che rappresentano la loro voglia di vivere, di ridere e di divertirsi.
La Pedagogia dei Genitori è questo mosaico fatto di tanti piccoli pezzi difficili da trovare e da
incastrare gli uni con gli altri e noi genitori stiamo facendo molta fatica a comporre quest’opera
immane ed a non disperdere nessun tassello. Quando però il mosaico sarà terminato potremo
appenderlo ai muri della nostra società e togliere quelle brutte litografie, ormai superate, del
giudizio e della diversità, e forse il mondo sarà davvero migliore.
Daniela Pari Carletti
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Percorsi integrati. La parola alle famiglie
Sono una pediatra di famiglia che ha avuto il privilegio di essere invitata ad una riunione
transnazionale di progetto del partenariato europeo di apprendimento "La Pedagogia dei Genitori",
organizzata, nell'ambito del programma Socrates/Grundtvig 2, dalla Sezione di Pisa-Livorno
dell'AIPD.
Argomento: valorizzazione dell'esperienza e delle competenze educative dei genitori di bambini in
situazione di handicap e/o difficoltà.
Confesso di aver accolto l'invito dopo ben due anni di solleciti affettuosi del coordinatore, dott.
Enrico Barone, e fughe nel pregiudizio da parte mia (genitori che si trasformano in tecnici o
formatori...! il ruolo dei genitori è affettivo, altrimenti si causano danni emotivi e relazionali
disastrosi...ecc. Sono stata implacabile).
Questa volta un barlume di autonomia intellettuale mi ha spinta a verificare di persona: sto
studiando la famiglia. E non da ieri. Vado.
Ho ascoltato le testimonianze di molti genitori e di una sorella (in rappresentanza di molti genitori e
di molte sorelle e fratelli, provenienti da diversi Paesi europei), i racconti pacati e semplici dei loro
percorsi di vita.
Inglese, francese ed italiano, diverse condizioni sociali, professioni e religioni, molte diverse
malattie rare: le famiglie si alternavano nell'esprimere un unico grande sentimento di dignità e di
speranza.
Non ho colto mai un solo raggio di aggressività o polemica. Mai. Solo collaborazione, coraggio,
competenza, sofferenza, impegno, amore, comprensione.
Ora sono confusa. Più del solito, sì. Ma non è una sensazione sgradevole. E' quasi una liberazione.
Sto rileggendo a piccole dosi le testimonianze, identificandomi via via con le figure professionali
incontrate dalle famiglie: siamo solo apparizioni fugaci, nel tempo cambiamo, e l'unica vera
continuità è la famiglia, che si fa carico anche dei danni provocati da noi, dalla nostra
incompetenza, improvvisazione, presunzione, disorganizzazione, deresponsabilizzazione, e ne
sopravvive.
In compenso mi illumino leggendo la descrizione di alcuni rapporti felici, quindi possibili, che
hanno veramente cambiato le cose, secondo le famiglie, e sono sempre rapporti in cui il tecnico
prima di tutto ASCOLTA, con l'anima, senza pregiudizi. Anche se poi non ha grandi mezzi per
FARE.
Ma perché è così difficile? Perché questo metodo così efficace e così poco dispendioso deve essere
così inapplicato, sconosciuto, negato?
In questi mesi di riflessione, ristudiando i documenti dell'AAP (American Academy of Pediatrics)
sull'assistenza integrata, i documenti costruttivi dell’ACP (Associazione Culturale Pediatri), la
nostra legislazione, le raccomandazioni per i percorsi assistenziali, i principi della “Narrative based
Medicine” e dell’“Evidence Based Medicine”, ripensando l'esperienza personale di quasi 30 anni di
lavoro con le famiglie sento che questo ruolo dei genitori è ovunque riconosciuto, ma... solo
concesso, non implorato, come dovrebbe. Non esplorato, come dovrebbe.
Le famiglie sono considerate espressione di bisogni, prima che fonte di risorse e di sostegno. Sono
ancora oggetto di pianificazione, più che soggetti attivi in primo piano.
Ho contribuito di recente alla realizzazione di un sito internet pediatrico, nato allo scopo di favorire
la collaborazione fra medici e famiglie. Durante il primo anno di attività, l'area narrativa del sito ha
accolto alcune testimonianze (tra cui diverse di sorelle e fratelli) che fanno emergere l'importanza
per noi pediatri di ascoltare, rispettare, seguire, accompagnare.
Ed è per questo che sono confusa, ora: "ascoltare, rispettare, seguire, accompagnare". Mi sentivo
molto avanzata per questo. "Io nel mio ruolo concedo spazio, apro porte e finestre. Sono un medico
illuminato".
No. Sono ottusa e presuntuosa.
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Io non devo solo "ascoltare, rispettare, seguire, accompagnare". Devo prima sedermi lì, nel banco,
tabula rasa, ed "apprendere". Ribaltare i ruoli, per un po', per pareggiare i conti, e poi proseguire
alla pari.
Sperando che poi anche i genitori mi concedano di essere ascoltata, rispettata, seguita,
accompagnata, per il contributo che posso offrire, in funzione dei bisogni del loro bambino e della
loro famiglia.
E con queste premesse faccio una proposta: la parola alle famiglie.
Invoco l'apertura di una Libera Università dei Genitori, a cui iscrivermi come pediatra discente.
Invitiamo le famiglie a raccontare i loro percorsi, le loro storie, le loro esperienze di vita, anche in
relazione alla rete di sostegno sociale, medico e scolastico in cui sono inserite. Accogliamo le
testimonianze sul sito www.conosciamocimeglio.it, se lo riterranno utile.
Chiederemo aiuto per analizzare quelle testimonianze, per individuare le linee guida comuni, le
specificità che non possono essere codificate, i bisogni che devono essere rispettati.
Chiederemo aiuto alle famiglie, che hanno già strutturato un sistema di parole chiave da valutare, e
poi anche ad altri tecnici, ma in modo paritario. L’ascolto. Un arte dimenticata, necessaria come il
latte materno. Come raccontare fiabe.
Questa volta sento di essere io la persona che deve farsi accettare, rispettando delle regole. Ora mi
siedo e ascolto.
Flavia Luchino
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Le narrazioni
Annalisa
Benché non abbia eccessive difficoltà a scrivere, devo ammettere che quando si tratta di parlare di
cose che mi riguardano in prima persona qualche problema comincio ad averlo. In varie occasioni si
è presentata l’opportunità di buttar giù una mia testimonianza, ma ho sempre evitato perché la cosa
mi creava se non ansia, almeno fastidio. Poi ho sentito parlare del progetto “Pedagogia dei
Genitori”, ho letto le testimonianze di altri e mi sono decisa a provarci anch’io.
Credo che qualsiasi esperienza, anche la più semplice e normale, abbia qualcosa di significativo che
la rende diversa da ogni altra. Anche le piccolezze possono far riflettere ed aiutare qualcuno ed in
questo momento credo che possa essere utile soprattutto a me stessa parlare della mia esperienza e
soffermarmi, come di solito non amo fare perché mi crea disagio, su alcuni momenti e riflessioni
che in questi anni mi hanno tenuto compagnia.
Mia figlia Annalisa ha 12 anni, è una bambina bionda e simpatica ed….. è Down. Quest’ultimo
aspetto, benché sia quello per cui sono qui a scrivere, non mi piace che si pensi che è il più
importante di Annalisa. Anche perché in realtà noi tutti ce ne “dimentichiamo” spesso, convinti che
Annalisa sia Annalisa, punto e basta. Abituarsi a non pensare che sia “un problema” aiuta a vivere
più serenamente sia noi che lei.
È per questo che ci siamo dati un compito: farle vivere le stesse esperienze degli altri, convinti che
questo sia l’atteggiamento più giusto da avere nei suoi confronti. Non per questo abbiamo paura di
mostrare i suoi limiti: tutti noi ne abbiamo, ognuno di noi è un po’ “anormale”, dipende da cosa si
intende per “normalità” (non ricordo esattamente dove e da chi ho sentito questa affermazione, ma
so per certo che l’ho considerata vera ben prima che Annalisa arrivasse tra noi).
Quando si sentono dire certe cose tipo “non potrà mai…..” in realtà un genitore non ci crede, spera,
è sicuro che non sia così. Ho sempre pensato che con la buona volontà saremmo stati in grado di
seguirla, di aiutarla anche nelle difficoltà.
Mi sono chiesta più volte come mai non sono capace di raccontare i primi momenti della nostra
“avventura”. Credo di aver capito che tutta la fase che si riferisce al periodo in cui non riuscivo a
rendermi conto di come Annalisa sarebbe stata, che cosa avrebbe potuto fare, come l’avremmo
aiutata, come si sarebbe vissuta, l’ho forse rimosso o tentato di rimuovere. A quel tempo ogni tanto
mi soffermavo a pensare “ma chissà come sarebbe stata se…..”; ora non ci riesco più, Annalisa è
questa e non potrebbe essere diversa.
Se la prima fase si è conclusa nel momento in cui è venuta a casa con noi dopo un mese di degenza
in neonatologia, la seconda, ben più positiva ma ancora molto “tesa” a causa di problemi di ordine
pratico (non mangiava), si è conclusa quando, all’età di cinque mesi, ho cominciato a lasciarla al
mattino con la nonna perché ho ripreso il lavoro. Quella di tornare al lavoro, tutto sommato così
presto, è stata senz’altro una scelta giusta perché in quel momento rischiavo davvero che la “tanta
voglia di fare” non fosse poi così positiva né per me né per Annalisa.
I progressi sono stati costanti, anche se in alcuni momenti l’acquisizione di qualche “competenza”
si è fatta un po’ attendere: a quasi due anni ancora non camminava, all’ingresso nella scuola
materna la produzione linguistica era ancora molto limitata. Quest’ultimo aspetto, devo però dire,
che in fondo non ci preoccupava poi così tanto, perché Annalisa capiva tutto e noi non avevamo
fretta; lei comunque partecipava alla nostra vita in maniera davvero attiva. Già a 17 mesi, quando
aspettavamo il fratellino Francesco, sembrava capire cosa stesse succedendo e con sguardi e poche
paroline rispondeva alla nostra voglia di comunicare.
A scuola, compresi asilo nido e scuola materna, i rapporti sono stati sempre sereni con i bambini e
buoni con gli adulti. Credo che uno dei momenti più emozionanti sia stato l’ingresso in prima
elementare. Ricordo che la maestra presto disse “avrà qualche difficoltà in matematica”. Come mai?
Noi capimmo subito che ciò potesse dipendere dal fatto che non le avevamo “insegnato la cantilena
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del contare”, come molti fanno per autogratificarsi personalmente più che per far acquisire una
competenza. In pochissimo tempo Annalisa è riuscita a fare quello che era nelle sue possibilità.
Persiste tuttora qualche difficoltà quando si tratta di scostarsi dal concreto, ma questo è ovvio, visto
il livello cognitivo.
In quel primo anno della scuola elementare ho creduto che avrebbe imparato a leggere: non mi ero
sbagliata, anche lei al termine della prima leggeva. La tecnica è stata più semplice, è vero, ma già in
seconda era presente la comprensione di semplici testi. Adesso ha uno sfrenato interesse per i libri e
la lettura, e anche per lo studio delle materie orali, per le quali i contenuti le vengono ovviamente
semplificati ma mai sostituiti. Dalla prima elementare durante le lezioni è stata in classe con i
compagni. Solo dalla terza sono stati creati per lei momenti individuali per approfondire e
consolidare.
La scelta in tal senso delle sue insegnanti non può che avermi fatto piacere; ho sempre pensato
infatti che la presenza in classe di un alunno con “problemi” possa essere per l’intera classe una
vera e propria risorsa, anche nei casi dei gravi (come posso confermare per esperienza, avendo fatto
l’insegnante di sostegno per sei anni). Mi ha sempre fatto innervosire l’opinione di molti genitori
che hanno timore che rallentare “il lavoro di classe” possa essere un “perdere il treno”. Quello che
si “perde” in conoscenza si acquista senza dubbio in rapporti umani.
Adesso comincio a vederla “grande”; è spigliata nei rapporti interpersonali, il suo sorriso
“affascina” tutti, tutti la conoscono e la trovano simpatica. Di questo noi di casa, lo dobbiamo
ammettere, siamo un po’ gelosi perché nessuno di noi riscuote tutto questo successo.
Mi sento di poter dire che le soddisfazioni maggiori si sono ottenute nei rapporti con persone che
credono realmente nelle capacità di un bambino o di un ragazzo con problemi e con tutti coloro che,
pur non avendo “istruzione e competenze specifiche” in campo di handicap, hanno una buona dose
di buon senso e sono sincere.
Credo che Francesco abbia fatto in questi anni la parte migliore: l’ha stimolata dall’inizio ad
imparare; benché più piccolo, presto l’ha preceduta e ciò per lei è stato uno stimolo ad andare avanti
per imitazione. Non sono mancati ovviamente, come fra tutti i fratelli, momenti di “tensione” ed
episodi di intolleranza ma….. ”è amor che cresce”!!!
A dieci anni, dopo il percorso di preparazione, ha ricevuto con il gruppo dei coetanei la Prima
Comunione e direi che questo momento è stato ricco di significati: avevamo molti timori, ci
chiedevamo “che cosa capirà?”. Poi quando abbiamo avuto contatti con altri bambini abbiamo
realizzato che un contenuto così profondo a quell'età si capisce poco comunque. L’importante in
questo caso è stato il gruppo che ha aggregato una catechista direi “unica in umanità e disponibilità”
e se è vero come siamo convinti che Qualcuno di lassù ci vede, pensiamo che farà Lui la parte che
manca.
Attualmente Annalisa frequenta con successo la scuola media, di cui spero di potervi parlare più
estesamente la prossima volta. Qualcosa di sicuro è stato diverso, ma continuiamo a ritenere
fondamentale la cura dell’autonomia personale e crediamo di doverla e poterla seguire
nell’accettazione dei propri limiti, che lei sembra riconoscere ed è già molto positivo.
Laura Bellina
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Una "speciale normalità"
E' una piccola "Streghina", come affettuosamente la chiama Fabrizia, la sua insegnante Feldenkrais,
con tanta voglia di vivere, di comunicare e soprattutto di voler esserci a tutti i costi; che grinta
ragazzi!
La piccola "Streghina" non è altri che nostra figlia Elita, trisomica e spastica dalla nascita per una
sofferenza durante il parto.
Tutto ha avuto inizio nove anni fa. Noi, i suoi genitori, giovanissimi di 26 anni alla prima
esperienza di un figlio, eravamo super eccitati all'idea di avere un bambino desiderato talmente
tanto che non abbiamo avuto nessun dubbio sul fatto di come sarebbe stato. Bello, brutto, sano,
malato sarebbe comunque stato nostro figlio e quindi abbiamo fatto solo esami di routine, senza
pensare a cose particolari, perché, come abbiamo già detto, per noi non avrebbe cambiato la nostra
decisione il fatto di come poteva essere.
Al momento della nascita, un parto bruttissimo, a dir poco sconvolgente, è nata una bella bambina
che dalle misure e dal peso rientrava nella normalità, tranne che per alcuni segni particolari, a causa
dei quali non poteva più, a detta dei medici, rientrare nella normalità. Perché, con quei segni
"particolari", era una bambina "diversa", una bambina con la sindrome di Down.
Per noi l'impatto è stato piuttosto duro. Averla desiderata tanto e poi ritrovarsi una bambina così
non era il massimo, penserete voi!
Bhé, non è stato proprio così, ci siamo disperati, abbiamo pianto, ci siamo consolati, abbiamo dato
sfogo ad un istinto che tutti possediamo: la "paura". Non la paura di avere una bambina "diversa",
ma la paura di non farcela, di non essere per lei dei bravi genitori; la paura di negarle la possibilità
di vivere una vita normale.
Questi sono stati i nostri timori e non il non volerla accettare perché aveva gli occhietti a mandorla
o perché non avrebbe mai camminato o non avrebbe mai parlato.
Quello che forse non riusciremo mai ad accettare è vederla star male, ammalandosi spesso con
complicazioni continue, perché, purtroppo, i bambini come Elita sono soggetti ad ammalarsi molto
di più rispetto agli altri. Questo suo stato di salute molto debole, che la fa spesso soffrire molto, è
l'unico segno particolare che non riusciremo ad accettare mai. Forse impareremo a conviverci, ma
non ad accettarlo.
Penso che per un genitore non ci sia sofferenza più grande del veder soffrire un figlio, spesso
avendo le mani legate per non poterlo aiutare.
Quando l'abbiamo tenuta in braccio per la prima volta qualcosa è scattato in noi. Tenere in braccio
quel piccolo esserino che aveva tanto bisogno di noi, bisogno di tanto amore, ha esaudito il nostro
più grande desiderio: avere un bambino.
Così siamo arrivati ad oggi con un bagaglio sulle nostre spalle non indifferente.
Un bagaglio che, obbiettivamente, ci ha cambiato il modo di pensare e di agire!
Aver vinto al Superenalotto ci avrebbe certo cambiato la vita, ci avrebbe permesso di vivere senza
problemi, senza preoccupazioni; avremmo avuto una vita piena di agiatezza, di lussi. Qualsiasi cosa
desiderata l'avremmo ottenuta senza il minimo sforzo, era lì e nessuno poteva negarcela.
Avere un bambino con la sindrome di Down non è certo, nemmeno lontanamente, paragonabile ad
una vincita al Superenalotto. E' forse molto, ma molto di più: è essere ricchi, ma veramente ricchi
dentro.
Dovremo affrontare e risolvere tanti problemi, ci saranno tante preoccupazioni nei nostri cuori, non
vivremo nel lusso, ma la ricchezza che ci ha portato Elita è una ricchezza più grande, è un
insegnamento di vita ed un arricchirsi così profondo che nessuna lotteria potrà mai regalarci e che
niente al mondo potrà mai toglierci.
Ci ha cambiato il modo di pensare e di comportarci e ci fa gustare quei momenti così importanti
della vita che spesso vengono dati per scontati e che, invece, danno un senso profondo alla nostra
esistenza.
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I primi 5 anni sono stati i più duri, soprattutto i primi 3 anni; sempre di corsa in ospedale, con la
paura dentro che non ce l'avrebbe fatta.
A soli 4 mesi di vita ha subito un serio intervento chirurgico a cuore aperto per una malformazione
tipica della sindrome di Down: "canale atrio ventricolare completo con ricostruzione parziale delle
valvole e dotto di Botallo pervio".
Questa è stata la prima volta che abbiamo avuto paura di perderla veramente. Aveva solo il 15% di
possibilità che il suo cuoricino riprendesse a battere di nuovo dopo l'intervento; ce l'ha fatta ed ha
così segnato il suo primo punto a favore nella tabella della vita.
A 9 mesi c'è stata una brutta bronchiolite che ormai se la portava via, ma lei ha lottato così tanto che
ha segnato ancora un altro punto a suo favore.
Oggi è molto più forte, è cresciuta, le sue difese sono maggiori e se dovesse segnare ancora dei
punti sarà certamente meno dura.
Elita ha una sorella più piccola di un anno, Alice, grazie alla quale ha ricevuto degli stimoli così
grandi da permetterle di raggiungere dei traguardi che forse le sarebbero stati negati.
Avere un bambino in situazione di handicap non deve fare paura, perché può essere considerato
diverso. E' un bambino che ha il diritto di vivere come lo hanno quegli altri, cosiddetti "normali". Il
dono della vita è un dono sacro e dal momento che un essere umano nasce deve essere amato,
rispettato, accettato e, soprattutto, non gli deve essere negata la possibilità di vivere la propria vita
nella più banale normalità.
Non deve vivere in una società chiusa mentalmente e piena di pregiudizi.
Elita è nostra figlia come lo è Alice.
Alice ha delle potenzialità che le permetteranno di raggiungere determinati obbiettivi nella vita.
Elita ne ha altre, che, sfruttate al massimo, permetteranno anche a lei di raggiungere determinati
obbiettivi e di vivere una vita adeguata alle proprie abilità.
All'età di 3 anni e mezzo, Elita ha iniziato a frequentare la scuola materna dove si è inserita
benissimo ed ha instaurato un rapporto bellissimo con tutti, insegnanti e bambini.
E' stata confermata per altri 2 anni (totale 5 anni) alla scuola materna, proprio per crearle un gruppo
di compagni affiatato e costruttivo, che le permettesse una buona integrazione nella scuola
elementare (che quest'anno frequenta serenamente), grazie alla scorta di esperienze fatte.
Il periodo trascorso alla scuola materna ha avuto i suoi alti e bassi; certe volte abbiamo avuto delle
divergenze con le insegnanti ed il preside. Alcune volte abbiamo pensato che forse sarebbe stata una
lotta continua, senza poter arrivare a niente.
Invece tutti gli sforzi fatti, sia da parte nostra, che da parte dei docenti, hanno portato i loro frutti.
Oggi possiamo dialogare tra noi e la "lotta", se così si può definire, è terminata.
Forse gli sforzi fatti durante questi 5 anni hanno insegnato a tutti a capirci meglio, ad essere
consapevoli di quali siano gli obbiettivi concreti e più giusti per Elita, a lavorare e collaborare
insieme, proprio per lei, per permetterle di crescere bene, sia didatticamente, che come persona.
La strada da fare è ancora molta, ma se tutti insieme ce la metteremo tutta, ce la faremo e ce la
faremo alla grande.
Quello che più ci angoscia della nostra società è il fatto che spesso ci si trovi soli.
Se è vero che, a livello legislativo, siamo il Paese più all'avanguardia in Europa, i nostri bambini
sono inseriti ormai da oltre 25 anni nelle scuole comuni, la legge n. 104 a livello generale ci tutela
sotto ogni punto di vista, è altrettanto vero che siamo spesso soli ed isolati dalla società!
Dobbiamo lottare per "tutto" e quello che più ci rammarica è il dover lottare per ciò che ci spetta di
diritto, per cose e situazioni che dovrebbero essere scontate; invece non è mai così.
Nonostante tutto, però, noi non ci arrendiamo, noi continuiamo ad andare avanti per la nostra strada.
Se troveremo degli ostacoli li affronteremo al momento, non vogliamo certamente arrenderci al
pensiero di quello che potrà essere il nostro futuro. Anche perché noi abbiamo un arma in più, che
forse altri non hanno, abbiamo una forza interiore che ci permetterà di affrontare qualsiasi cosa.
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E' una forza che, inconsapevolmente, tutti abbiamo, ma che spesso teniamo dentro senza riuscire ad
esternarla. Una forza che molto spesso pensiamo di non avere e che invece, se messi alla "prova",
riusciamo a tirare fuori.
E' la forza che è in noi che ci permette di essere quello che siamo oggi e non quello che vorremmo
essere.
Elita ha raggiunto tanti obbiettivi perché ha una forza dentro ed una voglia di esserci a tutti i costi
che le permette di essere quello che è oggi!
Noi genitori l'aiutiamo con l'amore, cerchiamo di capire ciò di cui ha bisogno (ad esempio delle
terapie riabilitative più adatte alle sue capacità), di farle vivere la sua vita, la sua quotidianità oggi
come bambina, in seguito come adolescente ed in un futuro come adulta; offrendole sempre tutte le
opportunità che una persona deve avere.
Insieme, unendo le nostre forze, potremmo farcela e siamo convinti che ce la faremo.
E' solo grazie ad Elita se oggi siamo due persone con tanta forza dentro e se siamo riusciti a fare
molto è solo grazie a lei. Perché è attraverso la sua forza e la sua determinazione che siamo riusciti
a darle ciò che con le parole forse non saremmo mai riusciti ad offrirle.
Noi genitori ci rivolgiamo a tutte quelle persone che magari si trovano come noi, spesso sole, che si
sentono isolate dal mondo, che spesso, travolte dalla paura di non sapere, negano
inconsapevolmente ai loro figli la possibilità di vivere una vita normale (se così si può definire).
Cercate di catturare nei vostri figli quella forza che sarà poi la vostra forza. Proprio attraverso quella
forza capirete chi sono i vostri figli e che cosa si aspettano da voi. Tutto avverrà nel modo più
naturale di questo mondo, nella naturalezza e nella semplicità dell'amore tra genitori e figli, nella
normalità più assoluta.
Forse saremo polemici e pignoli, come ci ha definito qualcuno, ma quando arriveremo alla fine
della nostra vita qualcosa di buono lo avremo combinato. Se non altro avremo dato una dignità ed
una vita serena alle nostre figlie e, forse quello che più conta, avremo contribuito ad abbattere
alcune barriere mentali che ancora oggi, nel 2000, esistono e che non permettono certo a bambini
come Elita di vivere felicemente ed essere rispettati per quello che sono, negando loro quella dignità
di cui devono andare fieri.
Non vogliamo certo annoiarvi ulteriormente, ma ci teniamo a dire che è solo grazie alle nostre figlie
ed alla forza che ci hanno trasmesso se siamo riusciti a scrivere queste righe ed a rendervi partecipi
di questa nostra esperienza di vita, che ci ha permesso di crescere come persone e come coppia,
rafforzando ancora di più "il legame della famiglia e l'amore che in essa è contenuto".
Aurora Pantani ed Ilio Musi
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Mamma e basta?
Vorrei tanto trovare un nome adatto alle condizioni psicologiche che vive una madre dopo aver
avuto un figlio diverso.
Qualunque donna partorendo un bambino, o adottando un bambino, diventa mamma e fa tutto ciò
che è necessario per la crescita e l’educazione del proprio figlio, cercando di superare tutte le
difficoltà che si presentano ogni giorno, certo noi un po’ di più perché oltre alle difficoltà della vita
normale (che non sono poche), abbiamo quelle straordinarie, ma a tutto ci si abitua. Molte volte mi
sento dire “non so come fai, io non ce la farei” in realtà siamo tutti in grado di farcela ma fino a
quando la vita non ti mette alla prova non lo puoi sapere.
Eppure per quanto io cerchi di sentirmi una mamma normale c’è un tipo di società che ti vuole
assolutamente perdente, tu non puoi permetterti di cambiare o curare il tuo aspetto, o seguire la
moda oppure semplicemente sorridere e divertirti, devi avere sempre un aspetto pulito, sobrio,
possibilmente malaticcio, di quelli che quando uno ti vede, si possa chiedere quanto soffri.
Così, io ero nei primi anni di vita di mia figlia, e quando le mamme passavano (anche solo a scuola)
invece del saluto aperto quotidiano, mi sfregavano il braccio come si fa con una spugnetta e
masticavano un ciao con l’occhio rivolto alla mia bambina.
Un pomeriggio guardandomi allo specchio cercavo di vedere qualcosa nel mio viso cercavo un
immagine, non c’era niente.
I miei occhi erano tristi, i miei capelli raccolti non avevo espressione solo il viso di una persona che
piangeva troppo.
In quell’istante comparve mia figlia sulla porta e mi guardava, mi sono chiesta come mi vedeva, e
mi sono osservata attraverso i suoi occhi, non mi sono piaciuta e sono sicura di non essere piaciuta
nemmeno a lei. Mi sono proiettata nel futuro, non volevo che mi vedesse come una persona senza
midollo, io ero la sua mamma e non potevo avere un aspetto così triste ho creduto di farla sentire in
colpa, in fondo i miei occhi tristi erano una conseguenza di quello che era successo.
Ho prenotato immediatamente il parrucchiere, mi sono dedicata due ore e mia figlia si è subito
accorta del mio cambiamento ed era felice e anch’io. Ho rifatto come si dice in termini vip il mio
look.
Non vi dico i commenti delle mamme fuori dalla scuola, ovviamente alle mie spalle: ”ma con tutto
quello che ha? E’ impazzita? Io non so se con tutti quei problemi riuscirei ad uscire, figuriamoci
truccarmi e vestirmi”. Allora, prima non ero nessuno, valevo poco e nessuno mi guardava, poi mi si
vedeva e allora valevo ancora meno. Qual è la via di mezzo? Cancellarmi? Certo così non crei
scompensi psicologici alla gente e si sentono tutti bene.
Però mi guardo ogni giorno con gli occhi di mia figlia e vedo una mamma serena, che lotta con
coraggio e che non si arrenderà mai, non sono una mamma perdente, non sono una mamma
vincente, sono solo una mamma che nonostante l’infausto futuro presentato alla nascita non si sente
sconfitta dall’handicap, anzi mi sento più forte, trovo il tempo e la voglia di lottare ma sempre con il
sorriso e con la dignità, non dimentichiamoci mai di essere persone, donne. E che i nostri figli se ci
vedono curate possono solo essere più felici.
Queste riflessioni mi sono state suggerite da Aurora Pantani, mamma di Elita, raccontando un
aneddoto capitato a lei, inerente a questo. Ciao Aurora! Ora continua tu…
Alla metà di marzo 2004 abbiamo fatto una consulenza informatica presso il centro ausili della ASL
di Livorno, così siamo andate io Elita ed Elena, l’insegnante di sostegno.
Noi non conoscevamo le logopediste e l’ingegnere che ci avrebbero accolto e loro non conoscevano
noi, ci eravamo sentiti solo telefonicamente.
Entrando nella saletta dove ci attendevano queste persone io portavo le borse ed Elena spingeva la
sedia a rotelle , dove Elita era seduta.
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Appena entrate: -Buongiorno, finalmente Elita ci conosciamo, ecc. ecc.- i saluti ed i complimenti
che di solito vengono fatti ai bambini, poi una delle logopediste rivolgendosi a me dice: Buongiorno, tu sei l’insegnante e Lei signora (rivolgendosi ad Elena) è la mamma?-.
-No- dissi io: -Io sono la mamma e lei è l’insegnante-.
Rivolgendosi ancora a me dice: -Mi scusi (passando dal tu al lei) ma con quelle mèches credevo
fosse l’insegnante-.
Come se la mamma di un’handicappata grave non potesse farsi le mèches.
In quel periodo le avevo rosse, a maggio l’altra mia figlia Alice, ha preso il Sacramento della
Comunione, così ho cambiato look le ho fatte di quattro tonalità diverse, proprio per non passare
inosservata.
Ora mi chiedo, come possiamo noi mamme farci ascoltare e tanto più condividere con gli altri tutto
ciò che affrontiamo quotidianamente, quando per gli altri siamo delle perdenti delle nullità, come
hai già sottolineato tu, Mirella, delle mamme di serie B, che oltre a non potere non devono neanche
osare di pensare.
Il 12 e 13 giugno a Castagneto Carducci, il Comune dove io abito, ci sono state le Elezioni
Amministrative ed io mi sono candidata per la carica di Consigliere Comunale da indipendente.
Qualcuno si è permesso di dire che dovevo vergognarmi, perché con tutto quello che ho in
casa……..!
SCANDALO, oltre ad avere le mèches si candida pure!!
L’unica cosa che mi ha dato dispiacere non è stato il fatto di non aver raggiunto il numero
necessario per poter rientrare tra gli 11 che comporranno il Consiglio Comunale, ma l’opportunità
come donna.
Questa esperienza mi ha veramente resa consapevole di quanto, come donne, dobbiamo ancora fare
per poter ottenere le pari opportunità, non solo nei confronti dell’altro sesso, ma in tutto ciò che gira
intorno a noi.
Credo, anche, che il primo passo dobbiamo farlo proprio noi, come donne ed imparare innanzitutto
a stimarci ed a credere molto di più nelle potenzialità che abbiamo.
Noi mamme di bambini diversamente abili, che lottiamo giorno dopo giorno per i nostri figli,
lottiamo prima di tutto per noi stesse, rivendicando il diritto di essere donne e quindi di poter vivere
con dignità ed onestà la nostra vita.
È forse negando il fatto di essere donne, come dicevi tu Mirella, che aiutiamo la società a cambiare?
Ad essere delle brave mamme, delle brave mogli, delle belle persone, non esteriormente, ma dentro.
Come potremmo aiutare i nostri figli ad essere forti ad avere stima di sé, se vedono solo lacrime?
Hai detto una cosa grande Mirella, quando ci guardiamo allo specchio dobbiamo vederci con gli
occhi dei nostri figli ed è solo così che riusciremo a comprendere ciò che siamo e non quello che
vorremmo essere ed essere semplicemente per loro delle mamme e basta.
Elita ed Alice mi hanno dato l’opportunità di conoscere la grande forza che avevo dentro ed ora che
ho l’opportunità di usarla non voglio certo reprimerla a causa di quel tipo di società, che come hai
detto tu, ti vuole assolutamente perdente.
Sono certa che noi donne e mamme abbiamo una marcia in più, quindi usiamola.
Vorrei veramente dal profondo del cuore, che chiunque leggerà queste nostre righe ne faccia tesoro,
soprattutto le mamme di bambini diversamente abili che si negano a loro stesse solo per la paura di
essere giudicate.
Dobbiamo solo essere fiere di essere donne e con grande umiltà saremo delle mamme eccezionali.
W le donne, non quelle con le p….., ma quelle che con grande dignità ed onestà non si negano al
mondo, ma soprattutto non si negano a loro stesse.
Quando mi sono candidata ho dovuto pubblicamente presentarmi più volte e con grande dignità ho
sempre detto: -Mi chiamo Pantani Aurora, sono una donna ed una mamma…- e di questo ne sarò
sempre fiera.
Mirella Pasqual ed Aurora Pantani
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“Federicovieniquà”
Per molti anni “fediricovieniquà” è stata la mia parola più gettonata. L’avrò pronunciata milioni di
volte in tutti i modi: da arrabbiato, dolcemente, cantando, furiosamente. Federico scappava sempre
e comunque, in direzioni apparentemente casuali e senza meta.
Per tantissimi anni siamo stati un corpo unico: lui il proseguimento del mio braccio ed io del suo.
Questo suo modo di essere però, non ci ha certo impedito di vivere. Ne abbiamo fatte di cose, anche
se io, sua madre e suo fratello con tanta fatica fisica e psicologica, abbiamo dovuto integrare i suoi
comportamenti diversi dai nostri. Nel tempo trascorso insieme ci siamo accorti piano piano, che gli
piacevano tutte le cose che piacevano ai bimbi e poi ai ragazzi della sua età: filastrocche, cartoni
animati, canzoncine, e poi concerti (Bruce Springsteen, Zucchero, Paolo Conte, il blues, il rock
sono alcuni dei suoi preferiti), i film, lo sci, il calcio, i pattini, la bicicletta, e ultimamente perché no,
andare a scuola.
Crescendo dimostrava di avere tutti gli interessi che una qualsiasi persona ha in modo naturale.
Accorgendoci di ciò abbiamo cercato di soddisfare sempre più questi suoi piaceri. Questa è stata
anche la salvezza del nostro nucleo familiare perché abbiamo ricominciato ad andare al cinema tutti
insieme, ai concerti, a fare sport e soprattutto quello che ci piace di più: cicloturismo. Quest’estate
abbiamo battuto il nostro record: mezza Corsica, mezza Sardegna e un po’ di Austria per quasi 800
km in sella ad un tandem con tutto l’occorrente per sopravvivere.
Non ci precludiamo più nessun obiettivo da quando abbiamo capito che Federico ci chiede
disperatamente di aver fiducia in lui, mandandoci messaggi che dapprima non riuscivamo a
decifrare.
Ci abbiamo impiegato parecchio tempo, ma l’aggancio col nostro mondo è avvenuto e si rafforza
sempre di più perché adesso cerca in tutti i modi di mettersi in relazione con tutti quelli che si
degnano di considerarlo una persona.
Sì adesso posso dire che siamo due persone che non solo si sono staccate fisicamente, ma che si
stanno staccando mentalmente. Federico, riappropriandosi piano piano del proprio Io, sta cercando
riferimenti umani che non siano solo i suoi familiari.
E qui casca l’asino!!!
Questi riferimenti umani sono molto pochi anche se quei pochi sono eccezionali. Mi sto accorgendo
che mio figlio è un diversabile e che quelli che non si relazionano con lui, che fanno finta di non
vedere la sua esistenza, che non lo cercano, che non ci giocano, che non lo invitano, sono essi i
portatori di handicap. Mi sto accorgendo che il vero problema non è più mio figlio ma tutti quelli
che lo evitano. In futuro dovremo sempre più dedicarci a tutte queste persone per cercare di
avvicinarle al nostro mondo fatto di difficoltà ma pieno di amore e dolcezza che fa crollare in basso
la soglia di accettazione degli altri chiunque essi siano.
Sono sempre stato innamorato di Federico fin da quando l’ho visto uscire dal ventre di sua madre.
In quel momento l’ho visto bellissimo e ho avuto la certezza che sarebbe stato un bimbo speciale
ma non immaginavo di certo quanto speciale sarebbe stato.
P.S.: “federicovieniqua” si sta trasformando in FEDERICO.
Giuseppe Straniti
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Raccontiamo di David
Soli contro tutti, ma non bisogna arrendersi
David ha quattordici anni: baffetti, più che altro peluria, ornano un viso ancora infantile. Mi
commuove osservare come sta cambiando il suo aspetto fisico, mentre il suo cuore bambino non
vuole lasciare il posto a quello adolescente.
Proprio ieri mi ha preso per mano e mi ha detto: -Vieni babbo, ti devo parlare da uomo a uomo!-.
Mi ha portato in camera sua e dopo aver chiuso la porta alle nostre spalle ha esclamato: -Babbo, il
bimbo è morto! Adesso sono un uomo!-.
Eppure la sera stessa il nostro Peter Pan ha preteso di venire a dormire con me, cosa che ora succede
spesso, estromettendo dal letto la mamma con la scusa che altrimenti mi sarei sentito solo!
Lo osservavo dormire e ho ricominciato a pensare a ciò che sua madre e io abbiamo fatto, a ciò che
avremmo potuto fare e a quello che dovremo fare, ma che ancora non ci è chiaro nella mente. E di
nuovo la solitudine e l'incertezza si sono impadronite di me costringendomi a ricordare.
Solo lo sono stato dal momento in cui i colleghi mi hanno messo fra le braccia un bambino, tanto
atteso e desiderato, offrendomi soltanto compassione e l'augurio che il mio problema si risolvesse
per cause naturali, cioè che mio figlio morisse presto.
Solo lo sono, perché nessuno mi ha mai insegnato niente di un mondo dalle mille sfaccettature, del
quale conoscevo, fino a un attimo prima che nascesse mio figlio, soltanto le espressioni rassegnate
dei genitori e gli sguardi di commiserazione che gli altri, e io stesso, lanciavamo al passaggio di
questi bambini.
All'improvviso, quando scopri di essere uno di quei genitori, ti assale il terrore, bada bene non la
paura, ma il terrore, un qualcosa che ti afferra e ti fa desiderare cose di cui ti pentirai per sempre,
che ti fa sentire lontano da Dio e dagli uomini, che ti fa gridare: “Perché a me?”.
E allora devi reagire, ma devi farlo nel modo giusto, lasciando che prima si esaurisca l’ondata di
autocommiserazione e di terrore del futuro che ti ha travolto.
Oggi David è amore, è tenerezza infinita, è orgoglio per quanto riesce a fare, è dolore per i suoi
fallimenti mascherati da successi. Se guardo ai quattordici anni della mia vita trascorsi con lui,
credo che sia stata fondamentale la scelta compiuta insieme a mia moglie: di non arrendersi di
fronte a chi voleva che subissimo gli eventi passivamente, ma neppure di fronte a coloro che
cercavano di renderci degli integralisti della riabilitazione. Abbiamo capito l'importanza delle
piccole cose, siamo cresciuti giorno dopo giorno con David, stupiti della determinazione e della
serenità che sentivamo crescere in noi, grazie a David, ai suoi sorrisi e alla sua voglia di vivere.
Fondamentale si è rivelata la decisione di avere un altro figlio, e Giorgia è arrivata come una
benedizione per tutti, per me, per mia moglie e per David che l'ha considerata subito sua e l’ha
amata sin dal momento in cui l'ha presa in braccio per la prima volta.
Abbiamo avuto la costanza di cercare, e la fortuna di incontrare, un ambiente scolastico adatto a
David, con insegnanti e bambini che tanto gli hanno donato e tanto hanno ricevuto in cambio, in un
rapporto di comprensione e stima reciproca che dura tutt’oggi. La scolarizzazione è una fase
difficile, almeno per chi crede che debba rappresentare un momento importante di crescita, e
dovrebbe essere sempre preceduta da un intenso lavoro di riabilitazione, premessa indispensabile
perché la scuola non diventi un semplice parcheggio. Non si possono demandare infatti ad
un'istituzione educativa competenze riabilitative che spettano ad altri. E il recupero deve avvenire
nel periodo che va dalla nascita ai sei anni, quando si hanno le maggiori possibilità di successo.
Nella scelta del tipo di riabilitazione i genitori sono spesso colti da incertezze e timore di sbagliare.
È allora che rischi di trovarti veramente solo contro tutti, o per lo meno contro chi, non soltanto non
ti offre niente, ma cerca anche di toglierti la forza per continuare a lottare.
Sei costretto per forza a intraprendere una strada, fidandoti unicamente del tuo istinto, ed a
percorrerla fino in fondo, stando bene attento a non cedere alle lusinghe di quanti promettono facili
miracoli in cambio di tanto denaro, sfruttando la fragilità di noi genitori. Non esiste la terapia
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ideale, panacea di tutti i mali. Ogni famiglia è un insieme unico di caratteristiche sociali, morali ed
economiche e ogni bambino presenta dei problemi che solo apparentemente lo rendono simile ad
altri. Da qui la necessità di valutare, caso per caso, il tipo di indirizzo terapeutico.
Continuo a credere che l'ambiente familiare, quando le condizioni lo permettano, sia il luogo
migliore per svolgere la terapia, il cerebroleso, infatti, trovandosi nel suo ambiente, si rilassa ed è
più disponibile a collaborare.
Il coinvolgimento della famiglia, al centro dell'universo riabilitativo e non alla periferia come
avviene spesso, è possibile e vantaggioso per tutti. Una volta insegnate, certe tecniche riabilitative
possono essere facilmente applicate dai genitori, coadiuvati da un volontariato qualificato, con ovvi
benefici da un punto di vista terapeutico e di risparmio di spesa per la collettività.
Ancora oggi non riesco ad accettare il disfattismo e la rassegnazione che si percepiscono nei
discorsi di alcuni dottori: “Suo figlio non camminerà, non parlerà, sarà un peso per la società”.
Parole dure come macigni, che su una psiche fragile possono causare effetti terribili, quali
l'abbandono o, peggio, il desiderio di veder «sparire» l'ingombro. Racconto sempre, a questo
proposito, un fatto che mi è capitato e che ricordo con amarezza.
Era una sera di dicembre di qualche anno fa e alla mia porta si presentò una donna di mezza età, il
volto segnato dal dolore e da quella paura che ormai ben conoscevo. -È lei il dottor Tornar?-; alla
mia risposta affermativa, abbassando gli occhi, mi chiese se ero quello che si occupava dei bambini
con sindrome di Down.
Ben lontano dal capire cosa desiderasse la signora, risposi di sì. A quel punto si fece coraggio e
domandò se ero disposto a sopprimere il nipotino, nato il giorno prima, affetto appunto da tale
sindrome.
Senza parole per lo shock e cercando di rimanere calmo, mi feci spiegare tutta la storia. In clinica le
avevano detto che il nipote era «mongoloide» e che sarebbe rimasto un demente non
autosufficiente, qualcuno poi le aveva parlato di me equivocando sul tipo di intervento che
praticavo come medico!
In questi anni ho avuto il privilegio di conoscere madri e padri splendidi, che vedevano nella
riabilitazione una sorta di seconda nascita per il figlio; ma ho conosciuto anche la vigliaccheria di
uomini che hanno abbandonato la famiglia, perché il bambino era handicappato, e ho provato
vergogna e pietà per loro.
Ho nel cuore ricordi dolcissimi: Rosita con la sua erre moscia che mi diceva seria seria -Sono sicura
che un giorno tu riuscirai a farmi camminare-, o Francesco che confessò di avere in camera una mia
foto contro cui scagliava delle freccette per vendicarsi degli esercizi che gli avevo prescritto.
La riabilitazione e l'affetto della famiglia sono le basi per un buon recupero. Ma quando finisce
l'esperienza scolastica, allora bisogna affrontare il problema di non vanificare gli sforzi compiuti
fino a quel momento. Vi è il rischio reale che i bambini, diventati uomini, non riescano a trovare un
inserimento lavorativo, rimanendo così prigionieri della solitudine, regredendo, o comunque non
trovando più gli stimoli necessari per continuare a crescere. Per impedire che questo accada, hanno
bisogno degli altri perché è con la collettività che si devono confrontare ogni giorno. Vorrei che
ognuno capisse come l'inserimento di un disabile nella società rappresenti non tanto l'applicazione
di una legge dello stato, quanto una vittoria di civiltà e un arricchimento per ciascuno. Anche il mio
David dovrà far parte di questa società, cercando di ritagliarsi, con le sue forze e con l'aiuto di tutti,
uno spazio che, pur piccolo, sia comunque rispettoso della sua dignità.
Ma questo è un capitolo che io e mia moglie dobbiamo ancora scrivere per lui.
Daniele Tornar
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Testimonianza di un rapporto difficile, ma a volte possibile
La mia testimonianza non potrà che risentire del fatto di aver vissuto inizialmente l'esperienza di
genitore di un bambino Down e successivamente quella di un normale padre.
David è nato, infatti, quattro anni prima di Giorgia e questo ha voluto dire per noi dover imparare in
fretta ad essere genitori ed in più genitori di un bambino handicappato.
La prima sensazione è stata di emarginazione rispetto ai canoni tradizionali del genitore felice,
quasi in competizione con i colleghi di nursery, il non riuscire a provare gioia, il sentirsi in una
situazione d'inferiorità è ciò che ricordo con lucidità.
A questo va aggiunto il modo poco etico, certamente molto sbrigativo, con cui mi è stata
comunicata la notizia da parte del pediatra, una prassi al tempo molto diffusa che era nello stesso
momento comunicazione arida e sentenza di prognosi infausta che poteva anche innestare reazioni
di rifiuto devastanti. David alla nascita non era il bambino desiderato era un essere sconosciuto per
il quale immaginavo scenari tragici dei quali piangevo e mi commiseravo. In qualche modo la mia
posizione nella società cambiava e certamente non in meglio.
Almeno questo era ciò che pensavo, ciò che la mia cultura di Uomo e di Medico mi suggeriva, non
avrei certamente pensato che, al contrario, David sarebbe stato motivo d'orgoglio e di crescita
morale.
La prima scelta che mia moglie ed io abbiamo dovuto fare è stata quella della metodologia
riabilitativa, non avevamo che frammentarie notizie delle varie metodiche e la nostra scelta è stata
infine dettata dal desiderio di non adeguarci alla rassegnazione ed all'inerzia che ci veniva suggerita.
La nostra è stata una scelta (il metodo Doman) che abbiamo vissuto in solitudine con la totale
ostilità della parte pubblica che pur non offrendoci che rassegnazione sembrava volerci negare
anche il diritto a fare scelte diverse.
A distanza di tanti anni credo di poter affermare che abbiamo avuto la fortuna e la capacità di saper
far nostre le cose buone della metodologia (vedi il ruolo della famiglia) e di aver compreso con un
certo ritardo gli aspetti negativi pur non facendoci condizionare più di tanto.
L'esperienza scolastica è iniziata per David alle elementari, dopo una breve esperienza all'asilo.
Devo dire che siamo stati bravi e fortunati; bravi perché abbiamo indagato a lungo su quale poteva
essere la scuola migliore, l'ambiente migliore, gli insegnanti migliori.
La scuola elementare statale "Thouar"è stata una benedizione per David e per noi, non credo
potesse essere possibile trovare una miscela umana e professionale migliore, tanto che David si è
inserito a pieno titolo nel gruppo classe unendolo in un'amicizia che a distanza di vent'anni è ancora
presente in lui e nei suoi compagni.
I cinque anni delle elementari sono stati certamente il periodo più sereno anche perché nel
frattempo era arrivata Giorgia che ci aveva portato una gioia che alla luce dell'esperienza con David
era stata amplificata.
Naturale è sembrata la scelta di far continuare l'esperienza scolastica nel gruppo elementari che
andava alle medie e devo dire che anche gli anni delle medie sono stati positivi sulla spinta del buon
lavoro fatto alle elementari.
Le difficoltà, come è ovvio, sono iniziate alle superiori con una scelta estremamente sofferta e
difficile che ci ha portato ad iscrivere David ad un Istituto Professionale dove sembrava vi fossero i
presupposti per attività di laboratorio che integrassero la didattica.
Le maggiori difficoltà le abbiamo incontrate nel rapporto con la USL, con il Provveditorato, con
l'insegnante di sostegno ed a monte di tutto con le leggi finanziarie che anno dopo anno
penalizzavano il settore handicap nell'ottica di un risparmio che certamente doveva essere
razionalizzato ma che doveva essere cercato con più oculatezza in altri settori.
Le riunioni per la definizione del PEI si sono subito dimostrate momenti ben poco utili con
partecipazioni poco entusiaste e motivate ancora meno. L'insegnante di sostegno era un chiaro
esempio di personale docente che si era riciclato per non perdere il posto con scarsissima cultura,
poco amore e ancora minore dedizione all'insegnamento.
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Tale situazione si è protratta per due anni finché con una lettera decisa abbiamo chiesto un
avvicendamento che si è rivelato azzeccatissimo con un insegnante motivato e desideroso di far
fruttare l'esperienza scolastica. Grazie alla sua professionalità David ha ritrovato la voglia di andare
a scuola che aveva perduto ed i frutti si sono visti sotto forma di crescita intellettiva e di
maturazione.
David ed il suo insegnante hanno realizzato diversi CD interattivi su vari argomenti che spaziano
dall'olivocultura alla fotografia, mostrando capacità che noi stessi ignoravamo possedute da nostro
figlio, quali l'uso del computer e dei programmi in esso compresi.
Ma come avevo precedentemente detto le difficoltà continuano a nascere a monte con tagli alle ore
di sostegno che arrivano a ledere il diritto allo studio. Da più parti si sente sostenere un ritorno a
scuole speciali per handicappati, sono quelle voci che tutti negano ma che potrebbero avere un
fondamento impedendomi di provare un po' di sana invidia per quei genitori che a distanza di venti
anni dovrebbero trovare una società che integri i ragazzi Down con più facilità, che offra loro più
opportunità di studio e di lavoro, ma si ha, al contrario, la sensazione che la strada sia sempre più in
salita e che sempre più dovranno essere le associazioni dei genitori a dare voce alle richieste dei
nostri ragazzi.
La recente legge di riforma scolastica sembra dar corpo a questi timori. E quello che colpisce è il
silenzio che la circonda.
Le famiglie devono lottare per ottenere quelli che in fondo sono semplici diritti sanciti dalla legge.
In questi ultimi anni, per esempio, la lotta ai "falsi invalidi" pur partendo da un giusto principio ha
letteralmente messo in croce moltissime famiglie di ragazzi Down, che si sono trovate a battersi per
non vedere revocata la pensione d'invalidità e l’indennità di accompagnamento da commissioni
mediche prive spesso di competenze specifiche.
Il prossimo appuntamento sembra essere la nuova legge sull'inserimento lavorativo dei portatori di
handicap, sarà un'opportunità che la società civile saprà gestire in modo corretto o l'ennesima beffa
per chi ha già tanto subito? Ma aldilà di queste considerazioni, lasciatemi dire senza retorica che
mio figlio è una della cose più belle che ho avuto dalla vita, è difficile e forse inutile cercare di far
capire ciò che lui veramente significa per me, amore, tenerezza, orgoglio, dolore.
Sentimenti come questi sono troppo profondi, intimi, per parlarne ad altri, penso alle parole che
Hermann Hesse fa dire al suo Siddharta: "Ciò che è tesoro e saggezza d’un uomo suona sempre un
po’ sciocco alle orecchie degli altri".
Daniele Tornar
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Raccontiamo di Giacomo
Mi sembrava impossibile uscire dal “tunnel”
Mi sembrava impossibile uscire dal "tunnel" in cui ero entrata quando è nato Giacomo, il nostro
secondogenito, esattamente dal momento in cui ci è stato detto che aveva la sindrome di Down. E'
importante dirci tra noi come ci siamo sentiti e le sensazioni che abbiamo provato, perché da subito
ho capito che gli altri capiscono solo in parte il tuo dramma, solo chi lo ha vissuto può
comprendere. Io e Francesco abbiamo cercato subito di metterci in contatto con l'Associazione
(AIPD ndr), per sentirci meno soli e per vedere cosa poter fare. Sono uscita dallo stato depressivo
quando ho capito che dovevo farcela da sola senza cercare la comprensione e l'appoggio degli altri.
Gli altri ti dicono "Ma l'amniocentesi non l'avevi fatta?", "Certo un bimbo così è difficile da
gestire", "Come farete?" e, al limite, cercano di consolarti con i soliti stereotipi "Sono così dolci e si
affezionano tanto!", come se stessimo parlando di cagnolini. Adesso queste affermazioni mi fanno
sorridere, come mi fanno sorridere le espressioni della gente quando vado in giro serena e fiera del
mio bambino. La forza l'ho trovata dentro di me e dentro la nostra famiglia, sicuri che tutto era
scritto e corrispondeva ad un preciso progetto. Il passo successivo è stato sentire il desiderio di
impegnarsi per gli altri, per chi come me avrebbe fatto questa esperienza così violenta, perché il
trauma è inatteso e violento. Forse l'impegno per costruire un futuro migliore per tutti i nostri figli
poteva dare un senso alla nostra sofferenza privata. Ho capito che dovevo raccogliere tutte le mie
forze per essere dalla sua parte, aiutarlo a crescere non per quello che vorrei che fosse ma per quello
che riuscirà ad essere, accettandolo con i suoi limiti, le sue stranezze, il suo modo di essere. Ho
capito che dovevo raccogliere tutti i suoi "pezzetti" nel suo essere unico (i bambini Down danno
questa sensazione di vivere tante esperienze frammentate che fanno difficoltà a riunire in un vissuto
di identità propria, forse perché li costringiamo a fare tante terapie e tanti interventi che
contribuiscono a creare questa sensazione di frammentazione). Ho capito che c'è molto da fare per
cambiare ottica, per far diventare questi bambini sempre meno dipendenti dalla terapia (e dai
terapisti) e più contenti nelle mani di genitori esperti, perché aiutati e sostenuti da servizi
competenti. Ho capito che c'è ancora molto da fare perché si realizzino inserimenti scolastici
significativi. Ho capito che tanto c'è da lottare per loro perché siano rispettati i diritti come persone
produttive ed efficienti in questa società telematica. Il mio sogno è che il mondo impari, così come
ha fatto il mio primo figlio, Giovanni a convivere con la diversità trovando canali alternativi di
comunicazione, altre modalità di comprensione e di interazione, ad adattarsi al ritmo lento della
persona Down. Il mio sogno è quello di vedere le persone con la sindrome di Down sempre più
consapevoli dei propri diritti e capaci, da sole, di lottare per essi.
Caterina Vaglini
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Racconto a mandorla
Mi chiamo Giacomo. Io ho la sindrome di Down. Down è una parola inglese. Per quel poco di
inglese che ho imparato a scuola down significa “sotto” o “giù”. Io non capisco bene perché ci
abbiano chiamato così. Io non mi sento giù. Io sono contento.
Mi hanno detto che i bambini Down hanno gli occhi a mandorla, all’insù (ma allora è giù o in su?).
E’ questo che li rende diversi.
Un giorno ho fatto un sogno.
Ero nel parco del paese dove abitavo. In quel paese tutto era a mandorla: le foglie degli alberi, i
petali dei fiori. Le nuvole ed anche il sole e la luna.
Stavamo giocando con gli amici, tutti rigorosamente con gli occhi a mandorla.
Si presentò un bambino. Tutti rimanemmo stupiti e spalancammo gli occhi per quanto la forma a
mandorla lo permettesse.
Quel bambino aveva gli occhi TONDI.
Naturalmente ciò destò scalpore nel paese e nessuno se la sentì di giocare con lui.
Ben presto si diffuse ovunque la notizia di quel bambino con gli occhi tondi.
Una domenica mattina, di buon’ora decisi di andare a provare i miei nuovi pattini a rotelle ovali.
Incontrai il bambino dagli occhi tondi, seduto in un angolo, stava piangendo.
Per me si trattò di una scoperta sensazionale: anche dagli occhi tondi uscivano le lacrime!
Lo presi per mano e facemmo una corsa nel prato fino a cadere spossati.
Cadendo mi accorsi che, nel prato, accanto ai trifogli ed ai fiori coi petali ovali c’erano trifogli a
foglie tonde e fiori con petali tondi.
Erano sempre stati lì ed io non me ne ero mai accorto.
Scoprii che questa forma diversa era in mezzo a noi e noi non l’avevamo mai vista forse perché non
avevamo mai voluto osservare meglio.
Questa scoperta si rivelò ancor più sensazionale. Tondo ed ovale potevano convivere
tranquillamente senza confondersi a creare una struttura informe ed astratta, ma completandosi in
mille altre forme creative.
Ora che mi sono svegliato voglio continuare a sognare ad occhi aperti (perché anche gli occhi a
mandorla sono capaci di sognare…).
Caterina Vaglini
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Raccontiamo di Andrea
Quando i medici usano il fischietto
La sera del 25 aprile 1994 un gentile signore dall'aria grave si affacciò alla soglia della sala parto
dell'ospedale Queen's Mother di Glasgow (U.K.) dove mia moglie ed io stavamo "recuperando"
dalle fatiche del travaglio, presentandosi come il Dott. Thomas Turner. Entrò, si sedette e con voce
pacata ci disse quello che nessun genitore vorrebbe mai sentire: -I think your wee man has got
Down syndrome (Credo proprio che il vostro ometto sia affetto da sindrome di Down)-.
Quando ero ancora un ragazzino ad una nostra amica di famiglia nacque una figlia mongoloide. Sì,
avete letto bene, ho scritto proprio mongoloide! Questo termine orribile, oltre che scientificamente
scorretto, che ci fa oggi rabbrividire descrive compiutamente l'immagine distorta di quella bambina
che si impresse all'epoca nella mia mente. Per anni se qualcuno mi avesse chiesto quale era la cosa
peggiore che potesse succedermi nella vita, avrei risposto: -Avere un figlio ritardato-. Forse ero
condizionato da un ambiente familiare che poneva l'intelligenza (qualunque cosa questo parola
rappresenti) al di sopra di ogni altra qualità umana, o forse ero solo giovane e totalmente ignaro di
cosa significhi affrontare la vita. Oltre vent'anni più tardi la sorte mi aveva regalato (e lo dico senza
ironia) Andrea.
Andrea era nato da pochi minuti, o giorni, o secoli, in quel momento non avrei saputo dirlo,
completamente stordito da una sensazione di black-out totale attraverso la quale filtravano altre
parole che il Dott. Turner pronunciava da una distanza incredibilmente lontana. Seguì una pausa
lunghissima (o almeno mi parve, non credo di aver mai compreso così bene il concetto einsteniano
di relatività del tempo) al termine della quale ci chiese: -Come vi sentite?-.
No, dico, ma vi rendete conto? Che razza di domanda era? Se io fossi stato un pediatra sarebbe stata
l'ultima cosa che avrei chiesto, soprattutto in modo così diretto, anche se tutt'altro che brutale. Anzi
forse non avrei nemmeno avuto il coraggio di entrare in quella stanza e parlare a quei genitori. Ci
voleva del fegato, ma soprattutto ci volevano delle notevoli doti umane (non psicologiche, si badi
bene) per riuscire a trasmettere un sentimento di partecipazione emotiva che non suonasse
commiserativo o di compatimento. "Come vi sentite?" Bhè, non ci crederete, ma era la domanda
giusta, quella che avrebbe contribuito a dare una svolta alla nostra vita futura, forse perché contribuì
a renderci protagonisti della vita di nostro figlio fin dall'inizio.
-I feel positive- rispose mia moglie riportando la luce nel mio cervello. -That's good- replicò Turner.
Per mia fortuna non posseggo ricette miracolose e non scommetterei manco un centesimo, visto che
le lire sono fuori corso ormai, che quello che ha funzionato nel nostro caso sia valido in tutte le
situazioni familiari. So soltanto che quelle poche sillabe erano tutto ciò di cui avevo bisogno in quel
momento. La realizzazione che non ero solo, che avremmo lavorato insieme, mia moglie, io e quel
pediatra per dare ad Andrea il futuro che si meritava. A volte si riescono a stabilire delle
cooperazioni, se non proprio delle vere e proprie alleanze, senza accordi scritti o verbali, basta saper
fare bene il proprio mestiere: di genitore o di medico.
Già, facile a dirsi, ma come si diventa un bravo medico? Non ne ho la più pallida idea, faccio fatica
persino a districarmi nel ruolo di genitore! Però la strada percorsa insieme al Dott. Turner mi ha
lasciato qualcosa e non posso astenermi dal raccontarlo su queste pagine, nella speranza che serva
come spunto di riflessione e, perché no, di apprendimento per chi mi legge. Gli assidui frequentatori
di questa rubrica (“La parola ai genitori” – Un Pediatra Per Amico n.d.r.) si ricorderanno di
Rosanna Blasi, la mamma che sul numero di novembre/dicembre 2002 scriveva: "Uno degli
aspetti… con il quale ho dovuto spesso combattere è una sorta di generalizzazione che tutti
(genetisti, neuropsichiatri infantili, pediatri, insegnanti) fanno rispetto allo sviluppo della
personalità e quindi dell'identità personale". La buona notizia, cara Rosanna, è che talvolta la sorte
benigna ti fa incontrare qualcuno che non si limita a leggere o, peggio ancora appiccicare, etichette.
Thomas Turner è un bravo pediatra proprio perché è interessato ai propri pazienti, non alle loro
patologie. Prendete il nostro caso. Noi professionalmente (entrambi biologi che si occupavano di
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genetica) qualche conoscenza tecnica sulla sindrome di Down ce l’avevamo; eravamo pure in grado
di leggerci le pubblicazioni scientifiche a livello specialistico. Per svariate settimane perseguitammo
il poveretto dicendogli: -Ci dia del materiale da leggere sulla sindrome di Down, vogliamo saperne
di più-. E lui nicchiava. All’epoca, fummo abbastanza scontenti di questo atteggiamento, perché lo
interpretammo più come una forma di noncuranza, anche se, conoscendo la persona, sapevamo che
non poteva essere disattenzione nei nostri confronti. Realizzammo solo più tardi che, in realtà, il suo
atteggiamento era completamente diverso, il suo messaggio significava: -Non dovete diventare
degli esperti della sindrome, dovete imparare a conoscere Andrea-. Quella riluttanza a fornirci le
informazioni scientifiche che, forse un po' ingenuamente, cercavamo è stata estremamente positiva
perché ci ha aiutato a diventare non degli esperti di sindrome di Down, né tantomeno di disabilità in
senso lato, ma, molto più proficuamente, degli esperti di nostro figlio.
E come tali fummo sempre considerati nei mesi e negli anni successivi, con rispetto ed umiltà, due
termini che temo non vadano per la maggiore, forse perché non costituiscono materia d'esame
all'Università. Il Dott. Turner, come avrete ormai intuito, era uomo di poche parole, ma sapeva
ascoltare. Di più, sapeva valutare il valore della nostra esperienza maturata vivendo
quotidianamente a contatto con Andrea e metterla a frutto proprio perché la equiparava e la
integrava alle sue conoscenze scientifiche. Avevamo un pediatra che rappresentava sì un punto di
riferimento, ma senza interferire, senza porsi come intermediario tra noi e nostro figlio. Non ci
aveva chiesto di firmare una cambiale in bianco, una delega totale ed incondizionata a lui, allo
specialista. Anzi, ci aveva fatto intuire fin dall'inizio che noi eravamo i genitori ed i primi
responsabili della crescita e dell’educazione di Andrea, lui si limitava ad essere un consulente
tecnico che interveniva se, e soltanto se, ce ne fosse stato il bisogno e la richiesta da parte nostra. Ci
ha aiutato a crescere, senza bisogno di farci un corso di perfezionamento sulla genitorialità di cui
non avevamo nessun bisogno perché stavamo imparando a fare i genitori con Andrea (come
avevamo già fatto con suo fratello Luca) e ce la cavavamo benissimo da soli. Il suo ruolo era tanto
più importante, quanto meno intrusivo.
Ci chiedevamo come si diventa un bravo medico. Forse bisognerebbe applicare lo stesso criterio in
uso per gli arbitri di calcio, il migliore è quello che quando dirige si fa notare meno, quello di cui
arrivati alla fine della partita ci si chiede il nome.
Che speranze abbiamo che questo sogno si realizzi? Forse più di quante crediate. Il fatto stesso che
stia trascorrendo questo afoso pomeriggio scrivendo la mia testimonianza per UPPA (la prossima
volta vado al mare, giuro!) mi induce all'ottimismo, ma c'è dell'altro. Leggete queste righe: "Forse
bisogna condividere un approccio culturale diverso, nella formazione degli operatori... Forse
possiamo dimostrare che l'ascolto e la condivisione delle responsabilità con la famiglia, è uno
strumento necessario, non solo auspicabile… Una capacità di giudizio e analisi (quella dei genitori),
per il loro singolo caso, molto più discriminante della mia, e lungimirante, e più umile. Ciascuno di
loro, per il caso specifico del loro bambino, era un vero esperto, fonte di conoscenza per ogni
operatore. Se solo fossero stati ascoltati meglio, con rispetto delle loro intuizioni e competenze
affettive, nel loro percorso, si sarebbe risparmiato un po’ di dolore ed anche risorse economiche".
Pensate che provengano da qualche pianeta lontano? Vi sbagliate, le ha scritte Flavia Luchino, una
pediatra di Roma dopo una giornata trascorsa in compagnia di un gruppo di genitori agguerriti che
hanno deciso di unirsi per offrire la loro collaborazione agli operatori professionali che
interagiscono con i loro figli diversamente abili. Io mi assumo personalmente l'impegno di far sì che
questa voce non rimanga da sola a gridare nel deserto. Lo farò volentieri perché credo sia la maniera
migliore per ringraziare un certo Thomas Turner che ha dato una mano alla sorte nel regalarmi
Andrea.
Enrico Barone
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La scuola?
Un punto di domanda
Accipicchia, va già in quarta? Sono già passati tre anni da quel primo giorno? Cosa farà il mio
"gangillo", così piccolo, così indifeso? Capirà cosa gli dicono le maestre in italiano? "Non capisce,
forse gli dovremmo parlare in inglese?" "Perché non ci risponde quando parliamo in inglese?" "Ma
è sicura che suo figlio conosca i colori?" Cosa avrà fatto oggi? Perché oggi è così stanco? Perché le
maestre non mi scrivono nulla sul diario che ho incoraggiato ad usare? Perché Andrea è nel
corridoio? Perché è in giardino a prendere aria? Non dovrebbe imparare a stare in classe come gli
altri? Vuoi andare al compleanno di Greta? Ma potrò lasciarlo solo alla festa? Se la caverà? E se
deve fare la pipì lo aiuteranno? Cosa avranno fatto oggi? Perché da due lunghi giorni non c'è più
scritto niente sul quaderno d'italiano? Andrea hai mangiato? Andrea hai giocato con i compagni?
Andrea sei stato bene a scuola? Come faccio a comunicare? Quando riuscirò a sapere qualcosa da
lui? E' più facile provarci con Andrea o con le maestre? Perché continuo a guardare il diario? Come
mai Andrea non è più nel corridoio? Forse perché ho fatto la voce grossa? "Perché i genitori di
Andrea vogliono lo sdoppiamento della classe?" "Perché non hanno chiesto il parere di noi altri
genitori?" Dovremmo parlare di più? "Il prosciutto è troppo poco, troppe minestre di verdura,
guarda ti sei macchiato la maglietta, non correte, non sudate"…perché quando vado davanti alla
scuola vorrei scappar via? Perché ora che c'è un'insegnante in più nessuno è contento? Perché
parlano sempre di consolidare? Non ci si potrebbe fermare un momento a pensare? Perché non
usciamo dagli stereotipi? Ma la parola è l'unico mezzo per comunicare? Ma noi "normali" la
sappiamo usare davvero? Ma chi è "normale"? Perché non può lavorare con la classe? Un'altra
supplente? Mamma, perché Andrea non ha il libro come gli altri? Il libro non è importante? Ma per
lui non potrebbe esserlo? Devo proprio andare a quella riunione del GLIC, e farmi venire la colite
un'altra volta? Davvero queste riunioni sono fatte per i bambini? Perché mi fanno parlare tanto e poi
non mi ascoltano? Un'altra insegnante nuova? Perché nella scheda Andrea non ha i giudizi come gli
altri, ma lunghe frasi in cui si dice che sta migliorando? Ma a che serve questo PEI? Ancora la
supplente? Davvero ti hanno dato il libro di storia? Sei contento? Andrea, ancora a guardare quel
libro di storia? Ti piacciono gli antichi Egizi? Vuoi che lo leggiamo di nuovo? Andrea, perché
l'astuccio è vuoto? Potreste aiutarlo un po' nella sua autonomia? Potreste ricordargli di mettere via
le sue cose? Perché l'astuccio è ancora vuoto? Potreste incaricare un compagno per aiutare Andrea
ad essere più ordinato? Devo davvero guardare di nuovo nello zaino? Enrico perché non ci guardi
un po' tu nello zaino? Perché l'astuccio è di nuovo vuoto? Perché quel messaggio perentorio sul
quaderno: "si prega di rifornire Andrea di penna, matita, gomma, forbici, altrimenti non si può
lavorare"? "Mamma, sei triste…. perché sei triste?" Perché l'astuccio è di nuovo vuoto? Perché
nell'astuccio ci sono solo pastelli bianchi e mozziconi di matita? Ha già consumato tutti gli altri
colori? Perché non riesco a farmi capire? Le parole non vanno bene? Devo usare un tono diverso?
Quanto tempo ancora resisterò? Vale la pena cambiare scuola? Girare pagina e ricominciare? Ma
Andrea è un pacchetto postale? Un'altra insegnante nuova? Abbiamo ricominciato con il
programma della prima? Perché per le vacanze di Natale Andrea non ha la lezione come gli altri?
Perché mi sento un nodo allo stomaco? Perché deve riempire paginate di lettere e numeri invece che
scrivere il diario delle vacanze? Consolidare? Potevamo farglielo fare noi il diario? Ma non è vero
che i genitori sono i genitori e le maestre sono le maestre, e che non si devono confondere i ruoli?
Perché le maestre sono sempre così tese? Perché non si riesce ad essere tutti un po' più sereni? Non
sarebbe meglio vedere il bicchiere mezzo pieno, ed invitare anche altri a bere da quel bicchiere?
Davvero ci sono i giudizi nella scheda? Forse siamo riusciti ad ottenere qualcosa? Ma perché ci
sono tutti "buono"? "Mamma, non ti sembra che Andrea sia molto più bravo a matematica e disegno
che non a italiano?" Perché dicono che migliora e nel secondo quadrimestre ci sono ancora tutti
"buono"? Andrea, come hai fatto a farti male? E' stato Filippo mentre facevate la lotta? Vuoi che
Filippo venga a giocare con te per fare ancora la lotta? Hai trovato una fidanzata? Si chiama
Annamaria? Vuoi andare al compleanno di Luca? "Mamma, hai comprato il regalo?" "Mamma,
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perché non c'era Annamaria al compleanno?" "Perché non c'era neanche Filippo?" Ci sono tagli del
personale scolastico? La Dirigente si è data da fare? Un maestro nuovo? Forse un elemento
maschile ci vuole davvero? Accipicchia, va già in quarta?
Edi Cecchini
"A volte nella vita succedono cose che sono come domande. Poi passa un giorno, forse anni e la
vita ti risponde." Alessandro Baricco
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L’arcobaleno
Qualche tassello per un mosaico di grande valore
Ho letto con molto piacere l’articolo di Daniela Pari “Un mosaico di grande valore”, in cui si
descrive la Pedagogia dei Genitori come un grande mosaico e mi sono subito immaginata questi
pezzetti piuttosto insignificanti, se presi singolarmente, ma che insieme possono creare un
paesaggio bellissimo. Vorrei aggiungere qualcosa anch’io a quel paesaggio.
Sono la mamma di Andrea, un bambino di nove anni e mezzo che frequenta la quarta elementare in
una scuola a tempo pieno. Forse qualcuno avrà letto la mia narrazione “La scuola? Un punto di
domanda” ed avrà immaginato i temporali tempestosi che abbiamo vissuto in questi anni. Il ruolo di
genitori, responsabili, esigenti, che non si accontentano di situazioni accettabili ma che per i loro
figli vogliono il meglio, non è affatto facile. Per questo abbiamo fin dall’inizio cercato di instaurare
con la scuola un rapporto di collaborazione. Gli insegnanti sono sempre stati disponibili ad
incontrarci ma spesso abbiamo avuto l’impressione di non essere ascoltati o di non essere capiti.
Dato il nostro grosso coinvolgimento emotivo non ci siamo resi conto che c’erano molti preconcetti
da superare per vivere davvero l’inclusione. Preconcetti sulla figura ed il ruolo del genitore, visto a
volte come un controllore o un giudice, preconcetti sulle aspettative troppo spesso riposte negli
interventi terapeutici e riabilitativi. Quello che invece io, guidata dal mio istinto e con dei mezzi
sicuramente poco affinati, cercavo e tuttora cerco di far capire è che Andrea è prima di tutto un
bambino con i bisogni ed i sentimenti degli altri bambini della sua età. Per anni ho cercato di dire
che non volevamo per Andrea qualcosa di più, ma le stesse cose fatte per altri, semplicemente
adattate a lui. Chiedevo solo di usare piccoli trucchi: canali di comunicazione diversi, contenuti
semplificati, e così via. Avevo l’impressione che tutti i miei sforzi fossero vani, spesso mi sono
sentita un’aliena, parlavo una lingua non capita. Poi finalmente Andrea mi ha aiutato. E’ iniziato
uno di quei periodi in cui i bambini, quando uno meno se lo aspetta, fanno mostra di tutto quello
che hanno imparato prima, così, all’improvviso. Per le vacanze di Natale l’insegnante di matematica
ha dato alla classe delle schede di esercizi prevalentemente basati sulla logica. Mi ha detto: -Le ho
date anche ad Andrea perché vedo che con queste cose ci chiappa e può competere con i suoi
compagni-. Non ci ho creduto. Questa volta è stato proprio l’insegnante ad applicare i principi della
Pedagogia dei Genitori, non io. Un po’ dubbiosa ho proposto ad Andrea gli esercizi, pensando “ed
ora come glieli spiego?”. Il risultato è stato strabiliante. Guardava le serie logiche e, senza ombra di
dubbio, sceglieva il pezzo mancante. Questa esperienza è stata molto preziosa, mi ha aiutato a
scoprire aspetti di Andrea a me sconosciuti. Sino ad allora avevo osato, ma non abbastanza. E poi,
per la prima volta in quasi quattro anni di scuola, ho potuto partecipare ai commenti delle altre
mamme sulla lezione data ai nostri figli. Vi pare poco? Insomma, sembrerà sciocco ma per me
queste schede sono state un bellissimo regalo di Natale. Al rientro delle vacanze la bella favola è
continuata. Gli insegnanti hanno cominciato, uno ad uno (nemmeno si fossero messi d’accordo!) a
parlarmi all’uscita della scuola, cose semplici, momenti di vita scolastica, ma per me preziosi per
capire cosa succede in quelle lunghe ore. Un giorno l’insegnante di matematica ed educazione fisica
mi ha chiamato per farmi vedere com’era bravo Andrea a fare il giocoliere. E’ stato molto bello, era
la prima volta che venivo invitata in classe a vivere un momento della vita della classe, anche gli
altri bambini erano contenti, mi sono venuti tutti intorno. Poi mi è venuta incontro l’insegnante di
storia e geografia, -Andrea ha lavorato in autonomia- mi ha detto con entusiasmo, mostrandomi il
quaderno. Il mio sogno si era avverato, su quel quaderno ho visto quello che per anni avevo chiesto.
Il lavoro della classe fatto a misura di Andrea. E così Andrea ora sa parlare degli antichi romani,
degli arabi, della Lombardia…
Sì, vorrei proprio aggiungere un pezzo al mosaico di Daniela, vorrei metterci un arcobaleno, grande,
colorato, lanciato verso l’infinito. E’ così che vedo questo momento, bellissimo, forse effimero lo
so. Ma sono sicura che anche altri genitori vivranno prima o poi il loro arcobaleno e che tutti
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insieme un giorno lo terremo “acceso” abbastanza a lungo da riuscire, chissà, a trovare la pentola
dell’oro che si nasconde ai suoi piedi.
Edi Cecchini
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Lettera ad una madre coraggiosa
Mi piace ricordare la nostra incomprensione iniziale. Mi immagino la confusione e l’affanno che ti
ha portata dalla Dirigente Scolastica a manifestare le tue preoccupazioni per questo maestro che si
permetteva di dire e fare “cose” che apparivano sicuramente poco appropriate e fuori dagli schemi.
Poi ci siamo parlati. Hai cercato di farmi comprendere la tua ansia, la tua delusione perché non
riuscivi a parlare la nostra lingua, a farci capire che Andrea era prima di tutto un bambino con i
bisogni di tutti i bambini della sua età, che avevi bisogno di parlare con noi per partecipare alla
nostra “pedagogia”; mi hai parlato e fatto conoscere i principi della Pedagogia dei Genitori.
Ho cercato di farti comprendere la mia ansia nel cercare un “contatto”, un mezzo che mi
permettesse un livello di comprensione reciproca con il bimbo non standardizzato e convenzionale,
un tramite che mi permettesse di comprendere il modo di trarre profitto reciproco dalla presenza di
Andrea in classe, un sistema che, integrando il metodo educativo con concetti semplici, non svilisse
il rapporto pedagogico in una “lezione a parte”.
Sembra che la sinergia funzioni. Personalmente mi aspetto molto, non voglio che l’idea
dell’handicap limiti precocemente il tentativo in corso, non ho nessuna intenzione di mettermi a
disquisire ed a ricercare e riconoscere le “carenze tipiche possibili o prevedibili” del bimbo, non ci
credo, penso che i suoi risultati siano proporzionati all’impegno che complessivamente sapremo
mettere in campo. Stavo per aggiungere: “compatibilmente con le sue capacità”; pensiero atroce che
sicuramente ha limitato e limita molti miei colleghi o genitori, concetto che è tuttora vigente nella
normativa scolastica e che si può tranquillamente leggere sulle schede quadrimestrali.
Ma quali sono i limiti di Andrea? Perché presupporre che tali limiti esistano? Cosa ci può dare
questa sicurezza per cui siamo arrivati al limite? Non è forse questa concezione una sorta di
razzismo strisciante e di comodo? Certamente è faticoso, molto faticoso, specialmente in certe
situazioni di classi come la nostra, dove ogni anno si deve rincominciare a lottare per avere il
minimo necessario per poter lavorare; intellettualmente impegnativo cercare tutti i modi ed i
sistemi, con una ricerca continua ed un lavoro di équipe costante, per poter fare quello che stiamo
facendo con Andrea. E’ vero quello che scrivi, forse ci aspettano tempi più bui, può essere, adesso
però diamoci dentro pensando a come riesce a sorriderci tuo figlio, a come, fra il compiaciuto e
l’orgoglioso, riesce a rimarcare ogni suo successo.
Il merito comunque è tuo, madre coraggiosa; hai tentato, tentato e ritentato ancora. Ti auguro di
aver trovato un po’ di quell’arcobaleno di cui scrivi così bene nel tuo articolo; la pignatta dell’oro
lasciamola stare, troppo spesso ci rovina.
Il maestro
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Spicchio di sole
Eccomi di nuovo qui, sono sempre io, la mamma di Andrea, quella con la testa piena di domande,
quella che ha dipinto un arcobaleno nel mosaico di Daniela. Ho sentito il bisogno di riprendere la
penna in mano per condividere alcune mie recenti riflessioni con chi sta vivendo momenti di vita
difficili, delicati come quelli che anch’io ho vissuto. Questa volta però non è facile, vorrei dire tante
cose, e trovare le parole giuste non sarà un gioco.
Una mamma, dopo aver letto alcune testimonianze che le avevo segnalato, mi ha scritto: “...sono
stata molto colpita dalle testimonianze che ho letto: sai Edi io non ho ancora raggiunto la serenità
necessaria per poter parlare della storia del mio bambino se non con toni ancora molto cupi e
drammatici. Mi rendo conto che è sbagliato ma credo che tutto faccia parte di un percorso interiore
che ancora non sono riuscita a compiere pienamente…”. Ecco, anch’io mi sono sentita così per
molti anni, avevo dentro rabbia ed amarezza e solo l’amore per la mia famiglia mi ha aiutato a
convivere per tanto tempo con sentimenti tanto opprimenti.
I testi di psicologia recitano che parole sentite in momenti di forte coinvolgimento emotivo
rimangono per molto tempo vivide nella mente. Ricordo quando aspettavo Andrea ed i risultati del
triplo test indicarono un rischio superiore alla norma di avere un bambino con sindrome di Down.
Mi venne offerta la possibilità di fare l’amniocentesi, “è gratuita”, mi dissero. Io e mio marito ci
precipitammo dal nostro medico di base. Ero disperata, in lacrime, non sapevo cosa fare. La mia
religione mi dettava regole precise, ma quando ci sei dentro è tutto molto diverso. Prima di entrare
chiesi a mio marito: -Cosa facciamo?-. Mi rispose: -Non ucciderei mai un bambino Down-. Lui non
è credente, mi insegnò una lezione di vita, mi dette coraggio. La dottoressa Mc Cullen ci ricevette.
Ci ascoltò. Ci dette qualche consiglio medico, con calma e lucidità. Poi, con molta serenità ci disse:
-Ricordatevi che comunque vada questo non sarà un bambino con la sindrome di Down, questo sarà
il vostro bambino-. Quante volte mi sono risuonate nella mente le parole della Dott.ssa Mc Cullen.
E’ proprio così, un figlio è prima di tutto un figlio, una persona ed è forse per questo che ci
sentiamo profondamente feriti quando capiamo che altri, troppo spesso, vedono solo la sindrome.
I primi anni di vita con Andrea sono stati abbastanza facili, lo abbiamo trattato semplicemente come
suo fratello Luca, aiutandolo là dove aveva più bisogno di noi. Non ci siamo mai illusi che Andrea
fosse “come tutti gli altri”, ma abbiamo sempre cercato di dargli le stesse opportunità che hanno
tutti gli altri bambini.
Ma la famiglia ben presto non basta più. Inizia il confronto con il modo esterno che, ahimè, è
tutt’altro che un luogo comune. E così è ben presto arrivato anche per Andrea il momento
dell’inserimento scolastico, forse il primo grande confronto con il mondo. Questo ha coinciso con il
nostro rientro in Italia dopo molti anni di soggiorno all’estero. Ci sono stati momenti difficili, ci
sentivamo come degli stranieri nel nostro Paese, è stato un po’ come ricominciare una nuova vita.
Abbiamo dovuto ricominciare con il lavoro, farsi nuovi amici, e soprattutto creare un nuovo,
piccolo, rassicurante universo per i nostri bambini.
E poi la scuola… Nel Paese famoso nel mondo per una lunga tradizione di inclusione scolastica ci
siamo ben presto accorti che nulla va dato per scontato. Sono stati anni difficili, con tanti momenti
di scoraggiamento, tante lacrime versate. Volevamo il meglio per Andrea, per la sua educazione,
per la sua istruzione, per la sua crescita ed eravamo disposti a tutto. Non dimenticherò mai l’aiuto
ricevuto in questi lunghi anni da un caro amico, un pedagogista con tanta fiducia nelle risorse dei
genitori. A quel tempo non lo conoscevo neppure, era solo un cavo telefonico ad unirci, ma la sua
voce altisonante arrivava benissimo e le sue parole mi tenevano su come i fili per un burattino.
Poi, all’improvviso Andrea ci è venuto incontro. Ha cominciato ad ottenere grandi successi a
scuola, ripagando gli insegnanti e noi famigliari di tanti anni di duro lavoro. Ha iniziato a fare le sue
scelte. Superando le sue difficoltà di espressione, ci ha fatto capire chiaramente che voleva fare
pattinaggio. E così è stato. Lo fa con molta passione, con tenacia e determinazione. Poi ha “deciso”
quando ormai ci eravamo tutti rassegnati, di iniziare a masticare. Nel giro di poco tempo è passato
dai frullati alla pizza! Insomma, gratificazioni per tutti. Anch’io ho cominciato a sentirmi meglio,
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più serena, più giovane, anche più bella, con gran sollievo da parte del resto della famiglia. Anche i
miei rapporti con gli altri sono migliorati, perché erano scomparsi la rabbia, l’amarezza, il disagio.
Mi sembrava di vivere in un sogno. Però c’era ancora una cosa di cui non ero contenta. Il mio
rapporto con una delle insegnanti di Andrea. Non una qualunque, l’unica che ha seguito la classe sin
dalla prima, una maestra coscienziosa e attenta, severa e scrupolosa. Ma ciò nonostante in questi
anni il nostro rapporto è stato sempre piuttosto “acceso”, con mal celate divergenze di opinione,
scontri, litigi. Ho cercato in tutti i modi di farmi ascoltare, di farle capire che Andrea impara in
modo non convenzionale. Che non bisognava fermarsi di fronte al primo ostacolo, non ci potevamo
permettere di perdere tempo. Bisognava tentare vie alternative, poi i risultati sarebbero arrivati. Ma
niente da fare, mi rendevo conto che la sola cosa che stava crescendo fra noi era il disagio. Alla fine
ho rinunciato, proprio come avevo fatto con Andrea quando si rifiutava categoricamente di
masticare.
Poi, un giorno ho capito dal suo sguardo (e ormai lo conoscevo bene!) che qualcosa era cambiato.
Ho preso il coraggio a quattro mani (anche otto!) e le ho fatto leggere quello che avevo scritto sulla
scuola. Dovevo condividere con lei le mie emozioni, pur sapendo che molte delle cose che avevo
scritto non le sarebbero piaciute e che certamente le mie parole non le rendevano il giusto merito
per tutto il buon lavoro che, a suo modo, aveva fatto in questi anni. Dopo qualche giorno la maestra
ha voluto incontrarmi. Ero molto tesa, avevo messo in gioco il nostro futuro. Mi ha detto: -Mi hai
dato delle forti emozioni, ma ora tocca a te ascoltarmi-. Ora-tocca-a-te-ascoltarmi, non me lo aveva
mai detto prima. Poi ha aggiunto: -Ora io non sono la maestra di Andrea, ma una persona che parla
ad un’altra persona, non alla mamma di Andrea-. Finalmente due persone. Mi ha raccontato delle
sue angosce, le sue ansie, le sue preoccupazioni di questi anni. Tutte cose normali per un’insegnante
scrupolosa che si trova davanti una classe non facile e vuole dare il meglio ai suoi alunni. Mi
rimane un po’ di rammarico perché non posso fare a meno di pensare che forse se avesse ascoltato
un po’ di più noi genitori, invece che solo colleghi o “esperti nel settore della disabilità” si sarebbe
risparmiata almeno una parte delle sue angosce. Ma non importa più. Questi anni, per quanto
dolorosi e difficili, ci hanno aiutato a crescere e sono sicura che ci abbiano arricchito entrambe. Due
donne forti convinte di se stesse e del proprio operato si sono tolte la maschera ed hanno imparato
che non solo nelle favole “quando si vince si perde e quando si perde si vince”.
Ecco un altro pezzetto per il mosaico di Daniela. Dopo il temporale e dopo l’arcobaleno ha fatto
capolino uno spicchio di sole, un sole luminoso, vitale, un sole di primavera che mi avvolge in un
caldo abbraccio ristoratore.
Edi Cecchini
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E per finire…
Chiamatemi per nome
Chiamatemi per nome.
Non voglio più essere conosciuto per ciò che non ho
ma per quello che sono: una persona come tante altre.
Chiamatemi per nome.
Anch’io ho un volto, un sorriso, un pianto,
una gioia da condividere.
Anch’io ho pensieri, fantasia, voglia di volare.
Chiamatemi per nome.
Non più portatore di handicap, disabile,
handicappato, cieco, sordo, cerebroleso, spastico,
tetraplegico.
Forse usate chiamare gli altri:
“portatore di occhi castani”, oppure “inabile a cantare”?
o ancora “miope e presbite”?
Per favore: abbiate il coraggio della novità.
Abbiate occhi nuovi per scoprire che, prima di tutto, io
“sono”.
Chiamatemi per nome.
Pubblicato sul Notiziario n. 3 dell’Associazione Sesto Senso di e per genitori di bambini disabili di
Siena
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