Pasqualino Settebellezze

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Pasqualino Settebellezze
Pasqualino Settebellezze
(Italia, 1976) colore, durata: C115’
soggetto e sceneggiatura: Lina Wertmüller
regia: Lina Wertmüller
fotografia: Tonino Delli Colli
montaggio: Franco Fraticelli
scenografia: Enrico Job
musiche: Enzo Jannacci
interpreti: Giancarlo Giannini (Pasqualino), Fernando Rey (Pedro), Elena Fiore (Concettina), Piero Di
Iorio (Francesco), Roberto Herlitzka (socialista), Lucio Amelio (avvocato), Enzo Vitale (don Raffaele)
Quaranta anni e non li dimostra. Questo va detto, prima di ogni altra cosa, di Pasqualino Settebellezze che la Wertmüller girò, nel ’76, quasi per caso (ma si sa quanto il caso sia poco casuale). Pasqualino esisteva, era l’“acquarolo” di Cinecittà, quello che girava con la tanica
d’acqua e i bicchieri di plastica fra i set, e un giorno raccontò a Giannini, che era lì a girare
qualcosa, la sua lunga storia. E nacque il film, da otto ore di racconto agghiacciante, vero, intriso di napoletanità verace, ma anche capace di rispecchiare un’epoca triste dell’Europa intera. (...) Pasqualino Settebellezze è un’opera ancora viva e grondante di umori, dove al comico
da avanspettacolo si fonde il tragico da tragedia greca, in un melting pot di linguaggi che dal
napoletano dei bassifondi al tedesco dei lager accende il sonoro del cuore del ventesimo secolo. Pasqualino è un guappo napoletano che finisce in un lager nazista. In estrema sintesi la storia è questa. Tutto quello che succede fra i due poli estremi è affidato alla magnifica sinergia
di forze fra Lina Wertmüller, con la sua regia nervosa, intransigente, capace di far convivere
satira sociale con accenti di pietas profonda, Giancarlo Giannini che, un film dopo l’altro, si
andava confermando attore versatile come pochi, Tonino Delli Colli e la sua magia fotografica, e una schiera di altre mani sapienti a collaborare alla stesura dell’affresco. Fra queste, Fernando Rey, poche apparizioni ma indimenticabili, il suo tuffo nella merda per morire disgustato da tutto quel che ha visto è un tocco da campione. Altra perla della collana il cameo di Roberto Herlitzka, deportato socialista incontrato alla stazione. Un affresco d’altri tempi, quando
il cinema era un lavoro di artigianato duro e sapiente, un primo piano era il risultato di un lavoro lunghissimo di luci, tagli e pose, e girare una scena necessaria, ma fuori orario, erano costi di produzione che aumentavano e rischi che si accettava di correre (una di queste scene è
quella dei due violinisti che suonano nella luce livida del cortile dove le SS sparano agli internati, una visione d’Inferno che resterà negli annali del repertorio cinematografico sulla
Shoah). Pasqualino è il campione senza valore di un’italianità che attraversa intatta epoche e
mode. È fratello unico di tante sorelle grasse e spumeggianti come la madre, e il loro onore,
pressoché indifendibile, visti i tempi, è nelle sue mani unte di brillantina: Je so’ n’omm’ e
onor, proclama con orgoglio poggiando il Borsalino sulla chioma unta. La pistola alla cintura
arriva dove il fisico mingherlino fa cilecca, e così un bel giorno spara. L’infermità mentale è
un modo per evitare l’ergastolo (dopo inutili fughe sui tetti dei quartieri spagnoli) e così uno
squarcio sulla situazione manicomiale in Italia fra le due guerre è un’altra finestrella sull’orrore. Arruolarsi volontario serve a uscire dal manicomio, ma poiché “non tutti sono dentro e forse neppure i veri”, come capita di leggere a volte sui muri di ex “case di cura”, Pasqualino andrà a combattere e vedrà i pazzi veri. Per scamparla e disertare ruberà le bende a un morto e
se le avvolgerà sulla testa, ed è l’incipit del film, che sceglie di allineare presente e flashback
fino a confluire nell’epilogo, il ritorno a casa, l’ultimo primissimo piano sul suo viso ormai
cereo e i suoi occhi allucinati che guardano in macchina.
(Paola Di Giuseppe, in “Indie Eye Cinema”)
Di pellicole sugli orrori del secondo conflitto mondiale, sull’abominio della Shoah, ne sono
stati prodotti tanti e non tutti di valore e con una mano ferma sul manubrio della Storia. Credo
infatti che nonostante il Cinema permetta alla fantasia di scatenarsi su fogli e pellicole, quando si affrontano determinati temi, ci si debba confrontare innanzitutto sulle conseguenze cui la
diffusione di un’opera può condurre. La sceneggiatrice e regista del film Pasqualino Settebellezze, Lina Wertmüller, ha dimostrato grande cura e indiscutibile capacità artistica nel ripercorrere quel tragitto storico sovraccarico di nefandezze. Il film le ha regalato il primato perché
prima donna candidata al Premio Oscar per la miglior regia. In realtà accumulò ben quattro
nomination, tra cui Sceneggiatura Originale, miglior film Straniero e miglior attore Protagonista (Giancarlo Giannini). Non vinse, ma può sicuramente vantare un buon portfolio artistico
oltreoceano. Pasqualino Settebellezze, chiamato così ironicamente per via della bruttezza delle sette sorelle, si aggira pieno di sé in una Napoli dove la camorra spadroneggia e detta le regole del vivere quotidiano. Proprio in questo scenario di giustizia fai-da-te, Pasqualino decide
di realizzare una vendetta con la sua pistola, così da diventare rispettabile agli occhi dei concittadini e soprattutto degli strateghi del crimine organizzato partenopeo. Le aspettative vengono deluse e piomba come un macigno indigeribile la condanna al carcere. Ma poi arriva la
Guerra, la seconda guerra mondiale, e servono uomini per combatterla. Il protagonista accetta
subito l’arruolamento nonostante il suo scarso patriottismo e la sua altissima dose di vigliaccheria, che in situazioni conflittuali non sono certo caratteristiche richieste. Infatti, decide da
subito di disertare e sicuramente non per convinzioni ideologiche contrarie al conflitto in atto.
In guerra conosce Francesco, un anarchico con cui stringe un forte legame e con il quale,
dopo il ritrovamento - avevano entrambi disertato fuggendo in Russia - viene rinchiuso in un
lager. È proprio in questa situazione che Pasqualino si scontra con il mostro del Nazismo. Mal
sopportando l’essere sottoposto alla visione di quella estrema durezza, Pasqualino cerca di
escogitare un modo per andare via, e nonostante l’aspetto trasandato ed esausto, il viso intagliato dalla stanchezza, prova a sedurre la giunonica e mascolina direttrice del lager. Con questo ultimo tentativo si guadagna realmente la nomina a kapò, che forse rappresenta la sua reale condanna. (...) Una scia ben scritta e diretta che insegue il tracollo di un uomo. Pasqualino
si scontra con la società criminale napoletana, prigione a cielo aperto di una città e di un’Italia
schiavizzata e ammutolita (colpevolmente ammutolita), attraversa controvoglia i campi di
guerra, si imbatte nell’inspiegabilità di un fenomeno sociale e politico quale il nazismo. Questa schizofrenica Odissea è interpretata dal camaleontico Giannini e dal suo viso - tanti i primi
piani utilizzati - che da vigoroso e vivace, pian piano si trasforma in una maschera senz’anima, costretta a mostrarsi, ma con il desiderio di potersi nascondere. La Wertmüller ha dato
prova delle sue doti di sceneggiatrice e regista, e soprattutto della sua consueta dimestichezza
con temi di grande rilevanza socio-politica, scelta artistica che spesso le è costata critiche e
polemiche. Il film è ammantato di cupezza, contrassegnato da una fotografia dai colori freddi
e da scene che si susseguono con aggressività; ingredienti che permettono di cogliere la caduta inesorabile che alcune scelte comportano, ma soprattutto la faccia deformante della codardia. E nonostante le venature comiche, tanto care alla regista, per tutta la durata del film si
sente un sottofondo acre che suona come un rifiuto inquisitore. Anche in questo caso, bisogna
sottolineare la grande bravura di Enzo Jannacci che ne ha firmato la colonna sonora, che di
rado al Cinema riesce davvero a danzare armonicamente con parole, percezioni ed obiettivi.
(Laura Preite, in “Cinema bendato”)
prossimo appuntamento
Il portiere di notte
di Liliana Cavani (1974)
sabato 9 aprile - Sala S. Antonio
ore 20.30 presentazione - ore 21.00 inizio film