L`UMORISMO COME ESORCIZZAZIONE DEL MALE DI VIVERE

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L`UMORISMO COME ESORCIZZAZIONE DEL MALE DI VIVERE
L’UMORISMO COME ESORCIZZAZIONE DEL MALE DI VIVERE
Interpretazioni antropologiche e filosofiche
La parola deriva dal latino humor o umor (umidità, liquido), che si avvicina al greco ygròs
(bagnato, umido), e sembra quindi derivare il suo significato dalle teorie della medicina ippocratica,
che attribuiva a dei fluidi (umori appunto) l'influenza sulla salute e l'indole degli uomini. L'essenza
dell'umorismo, così come è stata delineata, seppur nell'originalità e differenziazione delle rispettive
incanalazioni, dai diversi studiosi (filosofi, medici, scrittori) risiede proprio in questo legame con
l'emotività, con l'interiorità più atavica ed istintuale dell'uomo; un carattere distintivo di ciò che è
umano dunque. Benché l'umorismo sia una componente da sempre presente nella letteratura e nelle
società umane, uno studio sistematico sulle sue caratteristiche storiche, strutturali e psicologiche ha
preso avvio solo all'inizio del XIX secolo.
Il comico di Emerson
Ralph Waldo Emerson espresse la sua teoria del comico nel saggio The Comic, dove cercò di
perfezionare la teoria di Aristotele, per cui il ridicolo sarebbe «ciò che è fuori tempo e fuori luogo,
senza pericolo» ('con pericolo' ci sarebbe il 'tragico'). Dice Emerson: «L'essenza di ogni barzelletta,
di ogni commedia, sembra essere un onesto o benintenzionato esser mezzi e mezzi [halfness]; una
non-esecuzione di ciò che si pretendeva di eseguire, mentre uno a gran voce dà a vedere che farà
una notevole performance. L'ostacolo posto all'intelletto, l'aspettativa frustrata, la rottura della
continuità è commedia; e si annuncia fisicamente nei piacevoli spasmi che chiamiamo risata.»
Ricordando vagamente il dadaismo di Duchamp, Emerson disse inoltre: «Separate qualunque
oggetto, come un particolare uomo, un cavallo, una rapa, un barile di farina, un ombrello, dalla
connessione delle cose, e contemplateli da soli, stando lì nell'assoluta natura, e tutt'a un tratto
divengono comici; nessuna qualità utile, rispettabile, può salvarli dal ridicolo.» L'essenza del
comico sta nella "falsità" dell'uomo che «si arrende alla sua apparenza; come se un uomo si
dimenticasse completamente di sé per trattare la sua ombra sul muro con segni di infinito rispetto».
Il comico è quindi nella percezione (specie se improvvisa e inaspettata) del "mezzo uomo",
dell'uomo incompleto che fino a un momento prima si credeva uomo e maturo, e rispettabile. E con
la finezza delle sue ampie visioni, Emerson offre un'occhiata sull'intrinseca comicità dell'intera
nostra condizione: «Non facciamo nulla che non sia risibile ogni volta che lasciamo il nostro
sentimento spontaneo. Tutti i nostri piani, le nostre amministrazioni, le nostre case, i nostri poemi,
se paragonati alla saggezza e all'amore che l'uomo rappresenta, sono egualmente imperfetti e
ridicoli».
Il riso di Bergson
Fondamentale è stato il contributo di Henri Bergson con il suo saggio Il riso. Saggio sul significato
del comico (1900). Il filosofo francese apre la sua riflessione con una serie di considerazioni
generali sul comico: innanzitutto nota che «Non vi è nulla di comico al di fuori di ciò che è
propriamente umano»; anche quando l'oggetto del comico non è una persona, tuttavia ciò che
suscita il riso è un aspetto di quell'oggetto o animale che richiama alla mente atteggiamenti e
situazioni umane (pensiamo ad un burattino). In secondo luogo, l'apprezzamento della situazione
comica prevede «qualcosa come un'anestesia momentanea del cuore»: l'empatia, l'identificazione
con la persona oggetto del riso è bandita. Infine, è facile constatare che «Il riso cela sempre un
pensiero nascosto di intesa, direi quasi di complicità, con altre persone che ridono, reali o
immaginarie che siano». Da queste tre considerazioni risulta un'idea chiara della funzione della
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comicità: essa risponde a determinate esigenze sociali. In particolare, Bergson vede il comico come
una sorta di "castigo sociale" con cui la comunità (intesa come specie) individua, respinge e
corregge una serie di comportamenti percepiti come contrari allo "slancio vitale" con cui si
identifica la vita stessa (e qui risiede il legame profondo tra la definizione di comico ed il resto della
riflessione filosofica di Bergson). Questi comportamenti sono quelli meccanici («Ridiamo tutte le
volte che una persona ci dà l'impressione di una cosa»), monotoni che, nell'aderire cieco alla regola,
non sanno cogliere - ed anzi soffocano - la fluidità, l'intrinseca libertà autocreatrice della vita. È
questo impulso spontaneo, stimolo ad una continua evoluzione creatrice, a permettere il
superamento, in forme sempre nuove ed originali, degli ostacoli che ci si trova davanti; in questo
senso, il riso corregge quei comportamenti che metterebbero in pericolo la sopravvivenza della
specie. Ad esempio, la storiella in cui un deputato, interpellando il ministro su di un assassinio
famoso, rammenta che il colpevole, dopo aver ucciso la vittima, è sceso dal treno in senso contrario
alla sua direzione ed ha così violato il regolamento, è comica perché nel deputato l'adesione alla
regola ha soffocato la comprensione della vita.
Il motto di spirito di Freud
Ne Il motto di spirito (1905), la riflessione di Freud si distingue dalle precedenti perché, più che
definire l'approccio alla realtà che è espresso nell'umorismo, mira a descrivere i meccanismi
psichici che ne sono alla base - meccanismi che Freud allaccia alla teoria psicoanalitica; lo studio si
limita inoltre alle manifestazioni verbali del comico. Quest'ultimo è visto come meccanismo
comunicativo che permette al soggetto di esprimere i contenuti dell'inconscio, solitamente repressi,
in modo non traumatico o aggressivo per l'interlocutore. La capacità di "far passare" questi
contenuti (riconducibili all'istinto sessuale ed all'aggressività) eludendo la censura del Super-Io è
resa possibile da un lavoro che il soggetto inconsapevolmente attua al fine di mascherare questa
carica psichica all'interno del motto di spirito; l'insieme di queste regole di codificazione, detto
processo primario, include il doppio senso, la condensazione, lo spostamento: processo
rintracciabile anche in quell'appagamento di un desiderio frustrato che è il sogno, e non a caso per
Freud l'umorista «sogna ad occhi aperti». Il piacere associato al riso è riconducibile proprio a questo
risparmio di energia psichica: non solo il soggetto è riuscito a comunicare al suo interlocutore la
propria carica psichica, ma è riuscito a farlo evitando gli affetti penosi che avrebbero turbato la
comunicazione qualora la censura del Super-Io fosse stata violata apertamente.
Umorismo surreale
Il surreale è una forma di umorismo basata su giustapposizioni bizzarre, situazioni assurde e la
logica del nonsense. Le situazioni bizzarre possono essere varie, dall'esagerazione di aspetti reali
(es: «un uomo chiamato toffiees aveva un naso così lungo ma così lungo che non poteva soffiarsi il
naso, un giorno...»), all'invenzione di aspetti reali completamente ignoti o inesistenti (es: «un giorno
un professore di nome Enrico scoprì un nuovo tipo di elemento chimico, il mixino, che con il
semplice strofinamento della falange del mignolo ti permetteva di...») oppure alla creazione di
situazioni irreali completamente inventate («gli alieni provenienti da Tofone, un pianeta del sistema
solare dell'Ongia vengono sulla terra e...»). L'ortografia del testo non deve essere necessariamente
corretta, anzi, essendo sgrammaticata diventa più ridicola e quindi di successo. La tecnica più
comune di umorismo surreale è forse quella del non sequitur, in cui una affermazione è seguita da
un'altra senza alcuna progressione logica.
« Breve racconto: un uomo si sveglia al mattino e scopre di essersi trasformato nei propri plantari. »
(Woody Allen, Citarsi addosso, trad. di Cathy Berberian e Doretta Gelmini, Bompiani, 1996)
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In campo cinematografico, l'umorismo surreale si afferma sin dagli anni Trenta del 900: lo si può
ritrovare, per esempio, in alcune gag di Stanlio e Ollio, e in maniera quasi esclusiva nei film dei
Fratelli Marx. In seguito viene usato massicciamente nei cartoon, specialmente in quelli americani
della Warner Bros. A livello musicale si puo' ritrovare spesso una forma di umorismo nonsense
nelle canzoni del gruppo Elio e le Storie Tese
Due archetipi
Orazio, Sermonum 1.9
Ibam forte uia Sacra, sicut meus est mos,
nescio quid meditans nugarum, totus in illis.
accurrit quidam notus mihi nomine tantum,
arreptaque manu "quid agis, dulcissime rerum?"
"suauiter, ut nunc est," inquam, "et cupio omnia quae uis"
cum assectaretur, "num quid uis?" occupo. at ille
"noris nos" inquit; "docti sumus." hic ego "pluris
hoc" inquam "mihi eris." misere discedere quaerens,
ire modo ocius, interdum consistere, in aurem
dicere nescio quid puero, cum sudor ad imos
manaret talos. "o te, Bolane, cerebri
felicem!" aiebam tacitus, cum quidlibet ille
garriret, uicos, urbem laudaret. ut illi
nil respondebam, "misere cupis" inquit "abire;
iamdudum uideo: sed nil agis; usque tenebo;
persequar hinc quo nunc iter est tibi." "nil opus est te
circumagi: quendam uolo uisere non tibi notum:
trans Tiberim longe cubat is, prope Caesaris hortos."
"nil habeo quod agam et non sum piger: usque sequar te."
demitto auriculas, ut iniquae mentis asellus,
cum grauius dorso subiit onus. incipit ille:
"si bene me noui non Viscum pluris amicum,
non Varium facies: nam quis me scribere pluris
aut citius possit uersus? quis membra mouere
mollius? inuideat quod et Hermogenes ego canto."
interpellandi locus hic erat: "est tibi mater,
cognati, quis te saluo est opus?" "haud mihi quisquam:
omnis composui." "felices! nunc ego resto.
confice; namque instat fatum mihi triste, Sabella
quod puero cecinit diuina mota anus urna:
hunc neque dira uenena nec hosticus auferet ensis,
nec laterum dolor aut tussis, nec tarda podagra;
garrulus hunc quando consumet cumque: loquaces,
si sapiat, uitet, simul atque adoleuerit aetas."
uentum erat ad Vestae, quarta iam parte diei
praeterita, et casu tunc respondere uadato
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debebat quod ni fecisset, perdere litem.
"si me amas" inquit "paulum hic ades." "inteream si
aut ualeo stare aut noui ciuilia iura;
et propero quo scis." "dubius sum quid faciam" inquit,
"tene relinquam an rem." "me, sodes." "non faciam" ille,
et praecedere coepit. ego, ut contendere durumst
cum uictore, sequor. "Maecenas quomodo tecum?"
hinc repetit: "paucorum hominum et mentis bene sanae;
nemo dexterius fortuna est usus. haberes
magnum adiutorem, posset qui ferre secundas,
hunc hominem uelles si tradere: dispeream ni
summosses omnis." "non isto uiuimus illic
quo tu rere modo; domus hac nec purior ullast
nec magis his aliena malis; nil mi officit" inquam
"ditior hic aut est quia doctior; est locus uni
cuique suus." "magnum narras, uix credibile." "atqui
sic habet." "accendis, quare cupiam magis illi
proximus esse." "uelis tantummodo, quae tua uirtus,
expugnabis; et est qui uinci possit, eoque
difficilis aditus primos habet." "haud mihi deero:
muneribus seruos corrumpam; non, hodie si
exclusus fuero, desistam; tempora quaeram;
occurram in triuiis; deducam. nil sine magno
uita labore dedit mortalibus." haec dum agit, ecce
Fuscus Aristius occurrit, mihi carus et illum
qui pulchre nosset. consistimus. "unde uenis? et
"quo tendis?" rogat et respondet. uellere coepi,
et prensare manu lentissima bracchia, nutans,
distorquens oculos, ut me eriperet. male salsus
ridens dissimulare: meum iecur urere bilis.
"certe nescio quid secreto uelle loqui te
aiebas mecum." "memini bene, sed meliore
tempore dicam: hodie tricesima sabbata: uin tu
curtis Iudaeis oppedere?" "nulla mihi" inquam
"religio est." "at mi: sum paulo infirmior, unus
multorum: ignosces: alias loquar." huncine solem
tam nigrum surrexe mihi! fugit improbus ac me
sub cultro linquit. casu uenit obuius illi
aduersarius et "quo tu turpissime?" magna
inclamat uoce, et "licet antestari?" ego uero
oppono auriculam. rapit in ius: clamor utrimque:
undique concursus. sic me seruauit Apollo.
Me ne andavo a spasso per la Via Sacra,
come faccio di solito,
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meditando non so piú su quali sciocchezze
e tutto immerso in quelle,
quando incontro mi si fa un tale,
che conoscevo soltanto di nome,
m'afferra la mano e: 'Carissimo,
come va?' 'D'incanto, almeno per ora,'
gli rispondo, 't'auguro ciò che vuoi.'
Poiché mi seguiva: 'Hai bisogno?' azzardo.
E lui: 'Dovresti conoscermi,' dice,
'non siamo letterati?'
'Se è cosí,' gli faccio io, 'mi sarai piú caro.'
Cercavo disperatamente di svignarmela,
ora allungavo il passo,
ora mi fermavo, sussurrando qualcosa
senza importanza nell'orecchio del mio schiavo,
e intanto colavo sudore dalla testa ai piedi.
'Beato te, Bolano, che hai la testa calda',
ripetevo a me stesso,
mentre l'altro cianciava a ruota libera,
tessendo l'elogio dei rioni e dell'urbe.
Visto che non fiatavo:
'Tu hai una voglia disperata di andartene,'
mi fa, 'lo vedo da un pezzo; niente da fare:
non ti mollo, ti seguirò dovunque.
Dove mai sei diretto?'
'Non è il caso che tu faccia un simile giro:
devo visitare un tale che non conosci;
è a letto, lontano, oltre il Tevere,
vicino ai giardini di Cesare.'
'Non ho nulla da fare, e poi non sono pigro:
t'accompagno fin là.' Abbasso le orecchie,
come un asinello recalcitrante,
quando si trova sulla groppa
un carico troppo pesante. E quello attacca:
'Se mi conosco bene,
so che non avrai cari Visco e Vario piú di me:
dimmelo, chi può scrivere piú versi in meno tempo?
chi danzare con piú grazia? e poi canto
da fare invidia anche ad Ermògene!'
Era tempo di fermarlo: 'Non hai una madre
o dei parenti, che abbiano a cuore la tua salute?'
'Non ho piú nessuno: li ho seppelliti tutti.'
'Beati loro! Ora resto io. Finiscimi:
un amaro destino mi sovrasta,
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quello che da ragazzo una vecchia sabina,
scuotendo l'urna del futuro, mi predisse:
costui non lo stroncherà veleno mortale
o spada nemica, né pleurite, etisia
o blocco di podagra; un giorno o l'altro
lo porterà a morte un chiacchierone:
eviti dunque in età le lingue indiscrete,
se avrà giudizio.
Si era giunti al tempio di Vesta,
ormai verso le dieci,
e per fortuna quello
doveva comparire in tribunale
avendo presentato garanzia:
in caso contrario avrebbe perso la causa.
'Fammi il piacere,' mi dice, 'assistimi solo un attimo.'
'Mi prenda un colpo,
se ho la forza di stare in piedi
e se m'intendo di diritto:
e poi devo affrettarmi dove sai.'
'Sono in dubbio se lasciare te o la causa',
replica. 'Me, me, non ti pare?'
'Non sia mai detto', fa lui e s'incammina per primo.
Io, visto che è difficile combattere
con chi sa vincerti, lo seguo.
'E con Mecenate,' riprende, 'come va?'
'È uomo di poca compagnia, ma che mente fina!'
'Nessuno piú di lui
ha saputo prendere al laccio la fortuna.
Ma tu avresti un aiutante coi fiocchi
a farti da spalla, se solo tu volessi
presentargli quest'uomo: mi venga un malanno,
se non avresti soppiantato tutti.'
'Guarda che là non si vive, come tu credi:
non vi è casa piú pura
o piú aliena da simili intrighi di quella;
non mi fa certo ombra, ti ripeto,
che qualcuno sia piú ricco o dotto di me:
ognuno ha il proprio posto.'
'È straordinario, pare impossibile!'
'Eppure è cosí.' 'Tu mi ecciti il desiderio
d'essergli vicino.' 'Basta che tu lo voglia:
bravo come sei, lo conquisterai;
è uomo che si lascia vincere,
per questo rende difficili i primi approcci.'
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'Non mi risparmierò: a forza di mance
m'ingrazierò i servi;
e se oggi sarò messo alla porta,
non mi darò per vinto;
cercherò le occasioni buone,
l'aspetterò ai crocicchi, l'accompagnerò.
Niente ai mortali ha dato la vita senza travagli.'
Mentre quello parla, ecco che mi viene incontro
Aristio Fusco, mio buon amico, che certo
conosceva bene quel tipo. Ci fermiamo.
'Da dove vieni e dove vai?' chiede e risponde.
Comincio a tirarlo, stringendogli le braccia
senza che reagisca, ammiccando con gli occhi
gli faccio cenni, perché mi cavasse dai pasticci.
Ma quello sciagurato,
ridendo faceva finta di non capire:
la bile mi bruciava il fegato.
'Se non sbaglio, m'hai detto
che volevi parlarmi
di qualcosa a quattr'occhi.'
'Me lo ricordo bene,
ma te la dirò in un momento migliore;
oggi è il novilunio ed è sabato:
vuoi forse fare oltraggio agli ebrei circoncisi?'
'Non ho queste superstizioni', gli rispondo.
'Ma io sí: soffro di certe debolezze, come tanti.
Abbi pazienza: te la dirò un'altra volta.'
Una giornata proprio nera
doveva capitarmi!
Scappa il furfante e mi lascia sotto la lama.
Fortuna vuole, che incontro a quel tipo
gli venga l'avversario
urlando a gran voce: 'Dove scappi, canaglia?'
e a me: 'Posso prenderti a testimone?'
Io, manco a dirlo, gli porgo l'orecchio.
Lo trascina in giudizio;
urla dalle due parti,
gente che accorre da ogni dove.
E fu cosí che mi salvò Apollo.
Petronio, Satyricon
[CXLI] <Encolpus?>: "Ex Africa navis, ut promiseras, cum pecunia tua et familia non venit.
Captatores iam exhausti liberalitatem imminuerunt. Itaque aut fallor, aut fortuna communis coepit
redire ad paenitentiam suam." <. <. . . .> <Eumolpus>: "Omnes, qui in testamento meo legata
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habent, praeter libertos meos hac condicione percipient quae dedi, si corpus meum in partes
conciderint et astante populo comederint. Apud quasdam gentes scimus adhuc legem servari, ut a
propinquis suis consumantur defuncti, adeo quidem ut obiurgentur aegri frequenter, quod carnem
suam faciant peiorem. His admoneo amicos meos, ne recusent quae iubeo, sed quibus animis
devoverint spiritum meum, eisdem etiam corpus consumant." <. <. . . .> .>
Excaecabat pecuniae ingens fama oculos animosque miserorum. Gorgias paratus erat exsequi.
"De stomachi tui recusatione non habeo quod timeam. Sequetur imperium, si promiseris illi pro
unius horae fastidio multorum bonorum pensationem. Operi modo oculos, et finge te non humana
viscera, sed centies sestertium comesse. Accedit huc, quod aliqua inveniemus blandimenta, quibus
saporem mutemus. Neque enim ulla caro per se placet, sed arte quadam corrumpitur, et stomacho
conciliatur averso. Quod si exemplis vis quoque probari consilium, Saguntini oppressi ab Hannibale
humanas edere carnes, nec hereditatem expectabant. Petelini idem fecerunt in ultima fame, nec
quicquam aliud in hac epulatione captabant, nisi tantum ne esurirent. Cum esset Numantia a
Scipione capta, inventae sunt matres, quae liberorum suorum tenerent semesa in sinu corpora."
141 «Tanto per cominciare, la tua nave che doveva giungere dall'Africa, secondo la tua promessa,
con tanto di soldi e schiavi a bordo non è ancora arrivata. E i cacciatori di eredità, ormai ridotti in
bolletta, cominciano a tirarsi indietro. Perciò, o sono io che mi sbaglio, oppure la fortuna comincia
di nuovo a voltarci le spalle».
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«Tutti coloro che ho menzionato nel mio testamento, ad eccezione dei miei liberti, potranno avere
quanto ho lasciato loro solo a patto che taglino a pezzi il mio cadavere e se lo mangino alla presenza
del popolo».
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Sappiamo che presso alcune popolazioni esiste ancor oggi l'usanza che i vivi mangino i corpi dei
loro parenti defunti, tanto è vero che spesso i malati si sentono rinfacciare di rendere peggiore la
loro carne. Perciò io esorto tutti i miei amici a non sottrarsi alla mia volontà, invitandoli a mangiarsi
il mio cadavere con lo stesso gusto con il quale avranno di certo mandato a quel paese l'anima mia.
*
L'enorme risonanza di tutta quella ricchezza accecava gli occhi e le menti di quei poveracci.
*
Gorgia era disposto a rispettare la clausola.
*
«Non ho paura che il tuo stomaco si possa rifiutare. Seguirà le direttive impartite, se gli prometterai
che una sola ora di nausea verrà ricompensata da un sacco di belle cose. Basterà che tu chiuda gli
occhi e immagini di buttar giù un milione di sesterzi invece di carne umana. E poi, a tutto questo si
aggiunge che un sughetto per modificare il sapore lo troveremo. Infatti non esiste una carne che
piaccia in sé e per sé, ma viene lavorata ad arte perché risulti appetibile anche a uno stomaco cui
altrimenti ripugnerebbe. Se poi vuoi degli esempi che ti dimostrino quanto sto dicendo, sappi che i
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Saguntini assediati da Annibale mangiarono carne umana, anche se non aspettavano alcuna eredità.
E lo stesso fecero gli abitanti di Petelia nell'estremo bisogno, non aspettandosi da un banchetto di
quel tipo nient'altro se non vincere i morsi della fame. Quando Numanzia fu espugnata da Scipione,
si trovarono delle madri che stringevano tra le braccia i corpi semidivorati dei figli».
Pirandello e la poetica dell’umorismo
Il saggio L’umorismo è del 1908, posteriore dunque a quello di Bergson da cui risulta parzialmente
influenzato. Pirandello vi ha lavorato dal 1904, anno di pubblicazione di Il fu Mattia Pascal; le due
opere (il romanzo ed il saggio) sono espressione di un'unica maturazione artistica ed esistenziale
che ha coinvolto lo scrittore siciliano all'inizio del '900 e che vede come centrale proprio la poetica
dell'umorismo. L'originalità di questa concezione sta nella distinzione tra 'comico' ed 'umoristico' in
senso stretto; se il primo viene inteso come «avvertimento del contrario», quindi come pura
intuizione di una contraddizione (e qui sta l'eco di Bergson), l'umorismo è inteso come «sentimento
del contrario», l'elaborazione razionale e successiva del comico, una riflessione che porta ad un
sentimento di identificazione e compassione nei confronti della persona di cui ci si prende gioco.
Tale sentimento ha le sue radici nella natura del "contrario" analizzato dall'umorista: anche qui si
tratta del conflitto tra la forza profonda della vita e le cristallizzazioni della forma; tuttavia qui la
vita appare irrimediabilmente soffocata dalla forma, incarnata dall'ideologia, dalle convenzioni,
dalle leggi civili e dal meccanismo stesso della vita associata. Anche Bergson aveva notato che
«proprio come la vita dello spirito può essere ostacolata nel suo realizzarsi dalle esigenze della
macchina corporea, così la forma della vita sociale può soffocarne il senso», ma per Pirandello
questo soffocamento è intrinseco e strutturale nella vita associata. D'altronde lo stesso "slancio" che
permea la vita ha perso le connotazioni positive dello spiritualismo francese, per assomigliare più
ad un caos cieco ed oscuro, più vicino alle concezioni irrazionaliste di fine '800 ed alla
caratterizzazione dell'inconscio.
La "meccanizzazione" dunque non è più l'anomalia sociale da correggere, ma l'autoinganno con cui
l'uomo cerca di dare un senso all' informità della vita; in particolare, nel rapporto con gli altri
l'autoinganno prende la forma della 'maschera', dell'(auto)imposizione del soggetto di un'identità
fissa e predefinita dai valori morali e culturali, un'identità necessariamente percepita come estranea
ed inautentica. Ecco allora che sottolineare questi autoinganni, descrivere l'erompere saltuario della
vita dalla forma significa partecipare del dramma dell'uomo, combattuto tra bisogno di certezze e il
bisogno di aderire alla realtà autentica della vita: il "sentimento del contrario" è paragonato al dio
Giano bifronte, in quanto è riso e pianto insieme.
Nella prefazione ai Sei personaggi in cerca d'autore Pirandello sintetizza in tre punti «quelli che per
tanti anni sono stati i travagli del mio spirito: l'inganno della comprensione reciproca fondato
irrimediabilmente sulla vuota astrazione delle parole; la molteplice personalità d'ognuno secondo
tutte le possibilità d'essere che si trovano in ciascuno di noi; e infine il tragico conflitto immanente
tra la vita che di continuo si muove e cambia e la forma che la fissa, immutabile». Questi temi
fondamentali ritornano, in varie forme e combinazioni, in tutte le sue opere narrative e teatrali.
In sintonia con le filosofie vitalistiche contemporanee, Pirandello concepisce la vita come un
flusso spontaneo, inarrestabile, profondo, che le circostanze dell'esistenza e le convenzioni sociali ci
obbligano a bloccare in «forme» fittizie e superficiali. Sono i ruoli che rivestiamo nella società, i
doveri e le abitudini che ci siamo imposti, le immagini che gli altri si fanno di noi e quelle che noi
stessi ci costruiamo, finzioni necessarie ma inautentiche, incapaci di rispecchiare il nostro intimo
modo di essere: «Maschere, maschere... un soffio e passano per dar posto ad altre» (L'umorismo).
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Stretti tra il fluire della vita e la fissità delle forme, gli uomini sono inevitabilmente estraniati dai
loro impulsi profondi, soffocati da convenzioni e da obblighi che li snaturano; e se, «in certi
momenti tempestosi», il flusso violento dei desideri, degli istinti, delle passioni «straripa e
sconvolge tutto», scoppiano tragedie improvvise che sconvolgono le abitudini, i valori, gli affetti
che sembravano dare un senso e un ordine all'esistenza.
Chi cerca di liberarsi dalla prigione delle finzioni per mettere a nudo il suo vero volto,
scopre che la sua identità è inscindibile dalle maschere che indossa, che è impossibile dar voce alla
propria autentica natura: il fluire «continuo, incandescente, indistinto» della vita che scorre dentro
di noi non si può afferrare e definire una volta per tutte, e il nostro io ci appare come una continua
lotta di «più anime diverse e perfino opposte, più e opposte personalità», frutto dei diversi modi in
cui ci vedono gli altri, ma anche degli inganni che noi stessi ci costruiamo, per non essere costretti a
percepire l'insensatezza della vita, «il vuoto interno [...] a cui l'uomo non può affacciarsi, se non a
costo di morire o di impazzire» (L'umorismo).
Se non possiamo conoscere la verità su noi stessi, a maggior ragione non possiamo
conoscerla a proposito del mondo esterno: non c'è, fuori di noi, una «signora realtà» uguale per tutti,
che si possa descrivere oggettivamente, ma tante realtà che ciascuno si costruisce a modo suo, dal
suo particolare punto di vista. Così le parole con le quali ci illudiamo di comunicare tra noi ci
inchiodano alla solitudine e all'estraneità reciproca: «Abbiamo tutti dentro un mondo di cose;
ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole che io dico
metto il senso e il valore delle cose che sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente, le
assume col senso e il valore che hanno per sé del mondo che egli ha dentro? Crediamo di intenderci;
non ci intendiamo mai!» (Sei personaggi in cerca d'autore).
Pirandello è consapevole che, per dar voce a una simile visione del mondo, non è possibile
appoggiarsi sulle tradizionali concezioni dell'arte. Ne L'umorismo (1908) prende le distanze tanto
dalle poetiche veristiche e decadenti quanto dall'idea crociana della «poesia» come "intuizione pura", sgombra da ogni intrusione delle componenti razionali e filosofiche. Lo scrittore umoristico —
come egli definisce se stesso — deve far interagire «la fiamma del sentimento» con «l'acqua diaccia
della riflessione», che ne analizza e ne critica freddamente gli slanci: l'accostamento di questi atteggiamenti opposti mette a nudo le incongruenze dell'esperienza quotidiana, le sfasature tra ciò che
appare e ciò che è. Così, anziché mirare all'ordine, alla coerenza, all'armonia, l'umorista crea opere
scomposte, dissonanti, stridenti,che vogliono spiazzare il lettore, scardinare i meccanismi del senso
comune.
In questo quadro si colloca la distinzione tra "comico" e "umoristico", illustrata da
Pirandello con un esempio che è diventato famoso. Supponiamo di vedere «una vecchia signora coi
capelli ritinti [...] tutta goffamente imbellettata e parata di abiti giovanili»; la nostra prima reazione
è di ilarità, perché avvertiamo che quella vecchia signora «è il contrario di quello che dovrebbe
essere»: fin qui siamo nell'ambito del comico. Ma se andiamo oltre questa impressione superficiale
e mettiamo in funzione la riflessione, essa può suggerirci che «quella vecchia signora non prova
nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché
pietosamente s'inganna che, parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a
sé l'amore del marito molto più giovane di lei». Nasce allora un sentimento di pietà, opposto al
precedente: questo processo di sdoppiamento, per cui l'umorista «non può abbandonarsi a un
sentimento senza avvertir subito qualcosa dentro che gli fa una smorfia e lo turba e lo sconcerta e lo
indispettisce» è chiamato da Pirandello il «sentimento del contrario»: un misto di riso e di pianto, di
disprezzo e di compassione, di fronte alla «pena di vivere così».
Le ultime pagine del saggio
“Da quanto abbiamo detto finora intorno alla speciale attività della riflessione nell’umorista,
appare chiaramente quale dell’arte umoristica necessariamente sia l’intimo processo.
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Anch’essa l’arte, come tutte le costruzioni ideali o illusorie, tende a fissar la vita: la fissa in un
momento o in varii momenti determinati: la statua in un gesto il paesaggio in un aspetto
temporaneo, immutabile. Ma, e la perpetua mobilità degli aspetti successivi? e la fusione continua
in cui le anime si trovano?
L’arte in genere astrae e concentra, coglie cioè e rappresenta così degli individui come delle cose,
l’idealità essenziale e caratteristica. Ora pare all’umorista che tutto ciò semplifichi troppo la natura
e tenda a rendere troppo ragionevole o almeno troppo coerente la vita. Gli pare che delle cause,
delle cause vere che muovono spesso questa povera anima umana agli atti più inconsulti,
assolutamente imprevedibili, l’arte in genere non tenga quel conto che secondo lui dovrebbe. Per
l’umorista le cause, nella vita, non sono mai così logiche, così ordinate, come nelle nostre comuni
opere d’arte, in cui tutto è, in fondo, combinato congegnato, ordinato ai fini che lo scrittore s’è
proposto. L’ordine? la coerenza? Ma se noi abbiamo dentro quattro, cinque anime in lotta fra loro:
l’anima istintiva, l’anima morale, l’anima affettiva, l’anima sociale? E secondo che domina questa
o quella, s’atteggia la nostra coscienza; e noi riteniamo valida e sincera quella interpretazione
fittizia di noi medesimi, del nostro essere interiore che ignoriamo, perché non si manifesta mai
tutt’intero, ma ora in un modo, ora in un altro, come volgano i casi della vita.
Sì, un poeta epico o drammatico può rappresentare un suo eroe, in cui si mostrino in lotta elementi
opposti e repugnanti; ma egli di questi elementi comporrà un carattere, e vorrà coglierlo coerente
in ogni suo atto. Ebbene, l’umorista fa proprio l’inverso: egli scompone il carattere nei suoi
elementi; e mentre quegli cura di coglierlo coerente in ogni atto, questi si diverte a rappresentarlo
nelle sue incongruenze.
L’umorista non riconosce eroi; o meglio, lascia che li rappresentino gli altri, gli eroi; egli, per
conto suo, sa che cosa è la leggenda e come si forma, che cosa è la storia e come si forma:
composizioni tutte, più o meno ideali, e tanto più ideali forse, quanto più mostran pretesa di realtà:
composizioni ch’egli si diverte a scomporre; né si può dir che sia un divertimento piacevole.
Il mondo, lui, se non propriamente nudo, lo vede, per così dire, in camicia: in camicia il re, che vi
fa così bella impressione a vederlo composto nella maestà d’un trono con lo scettro e la corona e il
manto di porpora e d’ermellino; e non componete con troppa pompa nelle camere ardenti su
catafalchi i morti, perché egli è capace di non rispettar neppure questa composizione tutto questo
apparato; è capace di sorprendere, per esempio, in mezzo alla compunzione degli astanti, in quel
morto lì, freddo e duro, ma decorato e in marsina, un qualche borboglio lugubre nel ventre, e
d’esclamare (poiché certe cose si dicono meglio in latino):
Digestio post mortem.
Anche quei soldatacci austriaci della poesia del Giusti, di cui ci siamo occupati in principio, son
veduti in fine dal poeta come tanti poveri uomini in camicia: sono spogliati cioè di quelle loro
uniformi odiose, nelle quali il poeta vede un simbolo della schiavitù della patria. Quelle uniformi
compongono nell’animo del poeta una rappresentazione ideale, della patria schiava; la riflessione
scompone questa rappresentazione, spoglia quei soldati e vede in essi una forma di poveretti
addogliati e derisi.
«L’uomo è un animale vestito, - dice il Carlyle nel suo Sartor Resartus, - la Società ha per base il
vestiario». E il vestiario compone anch’esso, compone e nasconde due cose che l’umorismo non
può soffrire.
La vita nuda, la natura senz’ordine almeno apparente, irta di contradizioni, pare all’umorista
lontanissima dal congegno ideale delle comuni concezioni artistiche, in cui tutti gli elementi,
visibilmente, si tengono a vicenda e a vicenda cooperano.
Nella realtà vera le azioni che mettono in rilievo un carattere si stagliano su un fondo di vicende
ordinarie, di particolari comuni. Ebbene gli scrittori, in genere, non se n’avvalgono, o poco se ne
curano, come se queste vicende, questi particolari non abbiano alcun valore e siano inutili e
trascurabili. Ne fa tesoro invece l’umorista. L’oro, in natura, non si trova frammisto alla terra?
Ebbene, gli scrittori ordinariamente buttano via la terra e presentano l’oro in zecchini nuovi, ben
colato, ben fuso, ben pesato e con la loro marca e il loro stemma bene impresi. Ma l’umorista sa
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che le vicende ordinarie, i particolari comuni, la materialità della vita in somma, così varia e
complessa, contradicono poi aspramente quelle semplificazioni ideali, costringono ad azioni,
ispirano pensieri e sentimenti contrarii a tutta quella logica armoniosa dei fatti e dei caratteri
concepiti dagli scrittori ordinarii. E l’impreveduto che è nella vita? E l’abisso che è nelle anime?
Non ci sentiamo guizzar dentro, spesso, pensieri strani, quasi lampi di follia, pensieri
inconseguenti, inconfessabili finanche a noi stessi, come sorti davvero da un’anima diversa da
quella che normalmente ci riconosciamo? Di qui, nell’umorismo, tutta quella ricerca dei
particolari più intimi e minuti, che possono anche parer volgari e triviali se si raffrontano con le
sintesi idealizzatrici dell’arte in genere, e quella ricerca dei contrasti e delle contradizioni su cui
l’opera sua si fonda, in contrapposizione alla coerenza cercata dagli altri; di qui quel che di
scomposto, di slegato, di capriccioso, tutte quelle digressioni che si notan nell’opera umoristica, in
opposizione al congegno ordinato, alla composizione dell’opera d’arte in genere.
Sono il frutto della riflessione che scompone. «Se il naso di Cleopatra fosse stato più lungo, chi sa
quali altre vicende avrebbe avuto il mondo». E questo se, questa minuscola particella che si può
appuntare, inserire come un cuneo in tutte le vicende, quante e quali disgregazioni può produrre,
di quanta scomposizione può esser causa, in mano d’un umorista come, ad esempio, lo Sterne, che
dall’infinitamente piccolo vede regolato tutto il mondo!
Riassumendo: l’umorismo consiste nel sentimento del contrario, provocato dalla speciale attività
della riflessione che non si cela, che non diventa, come ordinariamente nell’arte, una forma del
sentimento, ma il suo contrario, pur seguendo passo passo il sentimento come l’ombra segue il
corpo. L’artista ordinario bada al corpo solamente: l’umorista bada al corpo e all’ombra, com’essa
ora s’allarghi ed ora s’intozzi, quasi a far le smorfie al corpo, che intanto non la calcola e non se
ne cura.
Nelle rappresentazioni comiche medievali del diavolo, troviamo uno scolare che per farsi beffe di
lui gli dà ad acchiappare la propria ombra sul muro. Chi rappresentò questo diavolo non era
certamente un umorista. Quanto valga un’ombra l’umorista sa bene: il Peter Schlemil di Chamisso
informi.”
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