Dov`eri? - D`ARS MAGAZINE

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Dov`eri? - D`ARS MAGAZINE
Dov’eri?
Dov’eri quando hanno ucciso Bin Laden?
È come un esercizio di memoria, un modo per individuare un luogo reale che ci appartenga e
inserirvi un ricordo per cristallizzarlo, in una sorta di nascondiglio segreto.
Alessandro Sambini, Still
da Replay!
Backstage #01 Courtesy Igor Cova
Spesso di un evento della storia, avvenuto nel corso della nostra vita, ricordiamo sia l’immagine
(fotografica o video) ufficiale che i media hanno scelto di riportare, sia la nostra istantanea o il
nostro breve corto, come se questi ultimi fossero la metabolizzazione intima di un’iperbole della
narrazione. Dopo i colpi di pistola del 22 novembre 1963 a Dallas, la risposta condivisa dell’America
era sintetizzabile nella domanda Dov’eri quando hanno sparato a Kennedy? Ossia nella capacità
collettiva di riportare in vita una nuova immagine che non fosse quella ufficiale, ma che riuscisse a
soddisfare la necessità di trasportare l’evento all’interno del proprio recinto d’appartenenza: salotto,
letto, marciapiede, automobile ecc. Questa doppia immagine del ricordo, che come vedremo nel
tempo si moltiplicherà, è resa possibile dalla testimonianza fotografica o video dell’evento stesso,
ossia dal “documento” che i media decidono di veicolare e quindi di restituire alla memoria collettiva,
ma se l’immagine è assente?
Consideriamo il caso della domanda posta all’inizio, ma riformuliamo la frase: Dov’è l’immagine
ufficiale che ci certifica che Bin Laden sia stato ucciso? Ossia dov’è l’immagine (ufficiale) da
sovrapporre a quella della nostra memoria? in realtà non esiste, non abbiamo, come in molti altri
casi, la possibilità di constatare l’avvenuto decesso con la prova testimoniale del corpo esanime.
Sappiamo che la fotografia non è una testimone fedele, sappiamo che le fotografie mentono, ma noi
spettatori della storia (in quanto narrazione) abbiamo bisogno della nostra dose giornaliera
d’illusione. L’unica magra consolazione che ci rimane è una fotografia che ci restituisce l’evento
visto dall’altra parte, dalla parte dei nostri, un tavolo affollato di facce corrugate, Obama in un
angolo con i gomiti sulle ginocchia e Hilary Clinton con una mano a coprirsi la bocca. Un’immagine
che testimonia indirettamente la fine di Bin Laden, omettendo il riconoscimento del corpo al mondo.
Questo può essere uno dei punti di partenza per capire il lavoro di Alessandro Sambini nel corso
degli ultimi due anni, dal progetto One is dead e Replay!, entrambi del 2012, all’ultimo lavoro,
ancora inedito, One is dead II. L’operazione di Sambini è stata quella di riflettere sulle immagini
(fotografia e video) della morte di Saddam Hussein, Muammar Gheddafi e Bin Laden e su come
possano essere riutilizzate e quindi ricodificate, trasformando l’evento in narrazione popolare (POP).
Consideriamo il progetto Replay!. Si presenta sotto forma di un classico format televisivo, una
puntata (ne seguiranno altre) in cui due famiglie si sfidano per aggiudicarsi un montepremi in
denaro. La sfida consiste nel replicare (appunto “to replay”) in studio, con una telecamera
amatoriale, due distinti filmati. La famiglia che meglio riuscirà ad essere fedele all’originale si
aggiudicherà il premio. I due episodi selezionati per essere rimessi in scena sono: l’impiccagione di
Saddam Hussein e l’uccisione di Gheddafi. Le regole del gioco sono semplici, le due famiglie hanno a
disposizione due set che, rispettivamente, simulano il patibolo per l’esecuzione e il deserto di Sirte,
alcune comparse e una serie di oggetti presenti sulla scena del crimine tra cui una pistola, un cappio,
una camicia sporca di sangue. il mancato utilizzo di tutti gli elementi messi a disposizione alle
rispettive famiglie comporta un decurtamento dell’eventuale vincita finale.
Il punto di partenza sono due filmati che ci garantiscono l’autenticità della storia, ma (presunta
anomalia) essi sono il prodotto di una trascrizione amatoriale dell’evento; sia nel caso di Saddam che
in quello di Gheddafi i video che ci riportano la successione dei fatti sono realizzati da fonti non
ufficiali, ma da testimoni diretti, anzi dagli stessi attori che prendono parte alla rappresentazione.
L’ufficialità dei filmati, ossia la consacrazione attraverso i media di stampo novecentesco con i
relativi commenti autorizzati, è un passaggio successivo alla distribuzione su larga scala (rete:
YouTube) compiuta dagli stessi operatori non autorizzati. La riproduzione, a cui sono costrette le
due famiglie del format Replay!, ricodifica il messaggio iniziale dando la possibilità ai protagonisti di
sviluppare una doppia memoria dell’evento: pubblica e privata.
Il format televisivo Replay!, grottesco e cinico, in realtà ripercorre alcuni fondamentali passaggi
della contemporanea distribuzione, acquisizione e restituzione dell’informazione. Innanzitutto i
filmati scelti per essere riprodotti, come già sottolineato, provengono da riprese amatoriali, quindi
da un nuovo modo di riportare la Storia, non filtrata dall’ufficialità del potere, ma da un testimone
che non considera la possibilità della distribuzione attraverso un canale bidimensionale (televisione,
giornale), ma tramite un medium reticolare, come quello della rete. Non c’è più nessun garante, il
fruitore è scrittore e lettore allo stesso tempo. L’imbarazzo che deriva dalla mancata (presunta tale)
garanzia dell’autorevolezza della fonte, viene colmata dall’acquisizione del materiale della rete dai
media ufficiali (nel caso di Replay! simboleggiati dalla televisione) che normalizzano l’informazione
amatoriale, riportandola all’interno della Grande Narrazione (romanzo).
Alessandro
Sambini, Saddam and Saddam,
2013, doppia video installazione, 1’38”, loop.
In realtà il passaggio non è concluso, infatti la possibilità offerta dalla rete e dai molteplici dispositivi
di riproduzione, permettono la moltiplicazione di cloni, ossia di reinterpretazioni della storia,
portando la memoria dell’evento su un piano personale, trasformando il romanzo in diario:
potenzialmente le famiglie in gioco che riproducono in studio i due episodi, potrebbero replicare
l’esperienza in forma casalinga e condividerla in rete, creando un numero X di cloni della storia.
Risulta essere quest’ultimo uno dei punti nodali della questione, sviluppato maggiormente nel
progetto One is dead II, ossia quello della replica della storia e delle storie. Passaggio che ci riporta
alla domanda iniziale Dov’eri?. Infatti la risposta alla domanda che permette alla Storia di
depositarsi e trasformarsi in un ricordo in cui noi stessi siamo i protagonisti, è la stessa operazione
che la rete e gli economici mezzi di riproduzione ci permettono di compiere: prelevare il racconto
ufficiale, amatoriale o professionale che sia, e replicarlo all’interno della nostra rassicurante
abitazione privata.
E quando l’immagine ufficiale, come nel caso della morte di Bin Laden, non è contemplata, cosa
succede? Si passa direttamente ad una narrazione fantastica, in cui la fiction colma la lacuna degli
operatori ufficiali o dei testimoni/attori amatoriali. Ed è questo uno dei passaggi su cui Sambini ha
concentrato l’attenzione nei progetti One is ead e One is dead II: nel primo caso Bin Laden è
riportato in vita da un testo letterario (un racconto), nel secondo da un’immagine rubata dalla
sequenza del film Zero Dark Thirty. In entrambi i casi l’invenzione assolve al bisogno d’avere un
ricordo, di soddisfare un buco di memoria. Ricordo falsificato che, a sua volta, può essere strappato
dal suo contesto e riutilizzato da un nuovo utente/produttore.
Se l’informazione si è sporcata e ha perduto la linearità della tradizione novecentesca, la possibilità
di produrre cloni della Storia, moltiplica le possibili risposte alla domanda Dov’eri?. Quando lo hanno
ucciso stavo percorrendo la tangenziale in macchina, e tu dov’eri quando mi sono fotografato con
una barba finta e un fucile al mio fianco simulando la morte di Bin Laden?
Andrea Tinterri
D’ARS year 53/nr 214/summer 2013