LA PASQUA METROPOLITANA

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LA PASQUA METROPOLITANA
LA PASQUA METROPOLITANA
Cinquant’anni fa moriva a Parigi Blaise Cendrars, un personaggio dall’esistenza
errabonda e turbol enta, reporter, poet a, r oma nziere, conduttore radiofonico, combatte nte
nella Prima Guerra mondiale durante la quale perderà una mano. Egli ci ha lasciato, tra
i vari suoi scri tt i, un sorprendente poe mett o intitolato Pasqua a New York (1912). In q u el
testo rappr ese ntava una sua Settimana Santa per le strade e i quartieri della Grande Mela ,
tra ladri, vagabondi, pezzenti, prostitute , suonatori ambulanti, «cinesi che sorridono co n
le schiene, fa cendo inchini», scenden do ne lla metropolitana, ma penetrando anche a Wall
Street: «Signo re, la B anca illuminata è come u na cassaforte / dove si è coagulato il san g ue
della tua morte».
Cendrars s’ avviava anche sul le banchine ove approdavano «gli immensi battelli
neri» degli emi granti: «C i sono greci, sp ag no li, italiani, russi, bulgari, mongoli, persia ni. /
Sono bestie da circo che saltano i mer idian i. / Si getta loro un pezzo di carne nera, co me
ai cani». E p oi ecco gl i ebrei nel lor o quar tier e e le chiese cristiane, una presenza tra
le tante in una società così multicultur ale . Affiorava, così, in lui la nostalgia del passa to
nei villaggi eu ropei: «D ove sono le dolci antifo ne, le litanie? / Dove i lunghi uffici e i b ei
cantici? / Dove sono le musiche e i rit i lit ur gici?». Alla fine il poeta giungeva nella fredd a
stanza d’albergo ove era ospitato.
E qui si consumava lo scontro- incontr o col Cristo pasquale, sofferente e vivente :
«Signor e, rientro st anco, sono solo e m olt o triste…/ La mia camera è nuda come un a
tomba. / Penso, S ignore, alle mie ore più br ut te. / Penso, Signore, alle mie ore già andate . /
Non penso più a Te. N on penso più a Te». Eppure affiorava, segreta, un’implorazio ne
mistica: «F a’, Si gnore, che il mio viso là tr a le mie mani / lasci cadere la masche ra
d’angoscia che mi preme. / Fa’, Sig no re, che le mie mani posate sulla bocca / no n vi
lecchino la schiuma di una disperazion e cupa».
Abbiamo voluto evocare ampiame nt e questo poemetto dimenticato perché – sia p ure
a distanza di un secol o da oggi – dipinge la scena che è vissuta da molti di coloro che o ra
leggono ques te righe. La Pasqua – a diff er en za del Natale ove almeno le luci commercia li,
il rito degli auguri e una certa memo ria collettiva custodiscono ancora il ricordo di un
evento cristi a no – scivol a quasi invisibile n el calendario e negli spazi urbani. Al massimo è
scandita da un aff oll arsi maggiore nelle stazio ni ferroviarie e negli aeroporti per obbe dire
alle offerte promozi onali degli itinerar i t ur istici verso le mete più disparate. Come n e lla
New York mult iet nica di allora, anche nelle nostre città una larga fetta di popolazione no n
ha nella sua agenda questa memoria crist ia na capitale, così come sempre più largo è il
“cortile dei Ge nti li ” ove battezzati non più cr edenti o indifferenti non si premurano certo d i
interrogarsi s u quel la realtà di morte e di vita.
A questo punto potremmo avanzare un interrogativo: il cristiano che, invece,
varca la soglia di una chiesa forse g ià a part ir e dal Giovedì Santo, che desidera anco ra
testimoniare la sua fede, che vorre bb e deporre un seme di ricerca nel deserto d e lla
superficialità e della banalità domina nt e, che scelta ha di fronte a sé? Tentiamo d i
suggerir e qualche proposta. Innanzitu tto deve lui per primo ritornare a quelle sorgenti di
luce, di amore, di bel lezza, perché pr ob ab ilm ente esse si sono ricoperte di sabbia an ch e
nel suo cuore. La l it urgia è un orizzon te di segni e di simboli trasparenti, il Crocifisso è
un em blema nel quale si raggruma tut t o il do lore dell’umanità, la Veglia di risurrezione è
il sipario apert o sull ’et erno e sull’infinito che Dio rende disponibili anche all’umanità. L a
Pasqua, quindi , potrebbe essere una “ rica rica ” della propria fede, dopo giorni di abitud ine
e forse anche di infedeltà.
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C’è, però, un’al tra possibilità d i t estimonianza ed è quella che deve spinge re
i nostri passi verso col oro che – come Cendr ars – sono soli e abbandonati. Neanch e il
giorno di Pasqua il loro telefono squiller à. Rimarranno là nel loro appartamento – come
scriveva un no stro poeta, Giorgio Capro ni – davanti a una parete: soli, con le loro ragio ni e
i loro torti, a parlare ai morti, perché nessun vivo si ricorda e pensa più a loro. Il cristia n o
dovrebbe scovare nei giorni pasquali, a ll’int er no del suo quartiere o del suo condominio
una persona (anzi ana, malata, stranier a) pe r la quale la “risurrezione” può riprodursi e
attuarsi attr averso il suo gesto d’affet t o, un a parola di vicinanza, un ascolto partecipe .
E, infine, c’è tutto quel grande “ cort ile” che spesso – come accadeva nel temp io
di Ger usalemme – si allarga proprio d ava nt i alle nostre chiese, nelle piazze “laich e”:
penso, ad esempio, a piazza Duomo a Milan o ove si accalcherà una folla che non si
azzarderà cert o a superare i portali dell’ed if icio sacro per gettare uno sguardo su que l
Cristo croci fisso, sulle grandi immagini della sua storia umana e divina, a sosta re in
silenzio alme no con la propria coscienza. Eb bene, chi è nel tempio e ora canta e preg a ,
dev’ essere capace – una volta uscito in quel “cortile” che è poi la vita quotidiana, ch e è
il lavoro, la scuol a, la società – di m et t er e in pratica quello che già secoli fa sugge riva
ai cristiani l’a postol o Pietro: «Siate pr on ti sem pre a rispondere a chiunque vi doma ndi
ragione della speranza che è in voi. E questo sia fatto con dolcezza, rispetto e re tta
coscienza» (1 Pietro 3,15-16).
Parola e vita da portare in quel “cor tile” , senza vergogna e senza asprezza, non
nascondendo sott o il moggio la propria luce, m a neanche volendo scagliarla contro gli altri.
Lasciarla r isplendere «davanti agli uo min i per ché vedano le vostre opere buone»: alla fine ,
forse, anche loro saranno pronti lung o vie ina ttese «a rendere gloria al Padre che è n ei
cieli» (Matteo 5,16).
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