Oscar Cullmann

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Oscar Cullmann
Oscar Cullmann
gli apici di una riflessione
1. Christus und die Zeit1, che porta come sottotitolo:
La concezione del tempo e della storia nel cristianesimo
primitivo, ruota tutto attorno all’idea centrale, ampiamente acquisita nei lavori precedenti: l’éschaton come salvezza attuata nel tempo. «Proprio in questo assunto sta
l’elemento nuovo introdotto dal Cullmann nella discussione teologica ancora in atto. La questione del tempo,
che egli affronta, è volta concretamente alle epoche, in
cui la storia della salvezza ha la sua dimensione temporale
in una progressiva attuazione, che coincide con la realtà
e la sostanza stessa del cristianesimo. Vengono così affrontati e risolti i problemi relativi al legame del presente con il tempo dell’incarnazione e della parusia, dando
del messaggio cristiano un’interpretazione rigorosamente
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Christus und die Zeit. Die Urchristliche Zeit-und Geschichtsauffassung,
Zollikon-Zürich, 1946; 19482, 19623 (con un Rückblick auf die Wirkung des Buches in der Nachkriegszeit); tr. franc. Christ et le temps, Neuchâtel-Paris, 1947;
19492; 19643; tr. it., Cristo e il tempo, Bologna 1965 (da cui le citazioni, talora
con qualche modifica) e presso differente editore: Bologna 1990; 2005. Cullmann ne ha dato una sintetica presentazione: «RHPhR» 28-29 (1948) pp. 85-90.
Cfr. J.S. Arrieta: La Iglesia del Intervalo. Aspecto Escatologico del Tiempo de la
Iglesia en Oscar Cullmann, Madrid 1959 e El Tiempo intermedio de la Iglesia
según O. Cullmann, «Revista Española de Teología» (1964), pp. 137 ss.; J. Frisque, O. Cullmann. Une théologie de l’histoire du salut, Tournai 1960; A. Briva
Mirabent, El tiempo de la Iglesia en la teologia de O. C., Barcellona 1961; R.
Gabas Pallas, Escatología protestante en la actualidad, Vitoria 1965, pp. 155183; B. Ulianich, Linee di sviluppo, intr. a Cristo e il tempo (1965), pp. xlv-lii;
H.G. Hermesmann, Zeit und Heil. O. Cullmanns Theologie der Heilsgeschichte,
Paderborn 1979, pp. 55-96; K.H. Schlaudraff, Heil als Geschichte?, Tübingen
1988, pp. 50-97.
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storico-salvifica»2. Un’introduzione ha cura di enucleare
esattamente il problema (pp. 39-56). C’è un paradosso,
che è ben messo in evidenza, almeno fin dal xviii (cioè
per lo meno fin da Bossuet), dal calendario cristiano, cioè
«l’abitudine di contare gli anni partendo dalla nascita di
Cristo, sia per risalire verso il passato che per discendere
verso il futuro», riconoscendo così che la venuta di Cristo
deve essere «considerata come il centro temporale di tutti
gli altri avvenimenti» (p. 40), come «una svolta decisiva della storia» (p. 41), come il luogo da cui «la storia
tutta intera deve essere compresa e giudicata» (p. 41); in
questo paradosso «l’opera di Cristo forma in primo luogo
il centro di una serie di avvenimenti particolari, che si
sviluppano sulla linea del tempo e che vanno considerati,
nel senso dato ad essi dal cristianesimo primitivo, come
storia di Cristo, come storia biblica. Ma in secondo luogo
questa storia diviene per il cristiano anche il metro della
storia generale, cosiddetta profana, la quale, considerata
in questa luce, cessa per lui di essere profana» (p. 43);
questo paradosso crea, ed è ovvio, non poche difficoltà
allo storico, poiché «questa storia biblica normativa deve
necessariamente apparirgli, nel suo insieme, come una
costruzione del tutto singolare» (p. 44). Tale paradosso è
risolvibile solo se il problema della storia biblica, e della
sua pretesa nei confronti della storia generale che «non si
ha il diritto di minimizzare» (p. 43), si pone come problema teologico; cioè solo se questa azione di Gesù di Nazareht, centro della storia, è riconosciuta «come rivelazione
assoluta di Dio agli uomini» (p. 45); solamente questa
fede consente di comprendere come la storia biblica possa «pronunciare un giudizio inappellabile anche sui fatti
della storia generale e sulla totalità degli avvenimenti del
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B. Gherardini, La Seconda Riforma, Brescia 1966, vol. 2, pp. 241-242.
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presente» (p. 43). Le conseguenze che se ne devono trarre
sono molteplici. In primo luogo occorre riconoscere che
«ogni teologia cristiana è storia biblica, nella sua intima
essenza» (p. 46); qui si manifesta «la stretta connessione»
esistente nel cristianesimo, «tra rivelazione e storia» (p.
45); qui si deve manifestare come Dio agisca, rivelando
ed operando «in modo definitivo» la salvezza, «nell’ambito di una storia nettamente circoscritta, ma continua»
come quella di Cristo (p. 46) e in essa3 «non c’è posto per
delle speculazioni su Dio, che abbiano la pretesa di essere
indipendenti dal tempo e dalla storia» (p. 46). In secondo
luogo, se la teologia cristiana è storia biblica, e se la storia biblica è la storia di Cristo, la teologia cristiana deve
esprimere e adottare un rigoroso e conseguente cristocentrismo4. «La stessa Parola di Dio, che si manifesta come
attività creatrice e che si manifesterà alla fine dei tempi
nella nuova creazione, si è fatta carne in Gesù Cristo, è
divenuta cioè storia in tutta la sua pienezza» (p. 47); «sen3
Tocchiamo qui, ancora una volta, uno dei principi metodologici fondamentali del Cullmann. Scrive Gherardini: «Con la coerenza che tutti gli riconoscono, il Cullmann si preoccupa di far capire che la premessa dell’escatologia temporale non va confusa con una qualunque metafisica, sia pure con una
di quelle poste al servizio della rivelazione. Ogni accostamento del messaggio
cristiano alle categorie del pensiero si risolverebbe fatalmente nel fagocitamento del primo ad opera del secondo. Il compito della teologia cristiana non
deve essere quello di rinunciare all’autonomia del proprio campo di lavoro, ma
al contrario di fissarsi in esso, mediante l’adesione esclusiva al contenuto della
fede, con una lucida visione di essa come storia della salvezza» (La Seconda
Riforma, vol. 2, p. 242). Principio certo discutibile (pp. 273-275), ma per lui
essenziale e caratteristico.
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«Adottando questa disposizione in luogo di quella trinitaria, non agirebbe forse il dogmatico moderno in modo più conforme ai fatti? Rivolgo questa
domanda a Karl Barth il quale, com’è noto, mantiene il piano trinitario nella
grande opera da lui intrapresa. La divisione cristologica secondo il piano della
storia della salvezza non avrebbe forse meglio corrisposto all’impostazione
rigorosamente cristocentrica, secondo cui egli tratta la materia e che proprio in
lui possiede il primo teologo che l’abbia applicata con così grande efficacia?»
(p. 49).
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za questa Parola, nulla è stato fatto. La Parola, il Logos, è
Dio nell’atto della sua rivelazione. E mai l’agire di Dio si
rivela agli uomini in modo così concreto come nella storia» (p. 46); «Cristo è il mediatore di tutto ciò che esiste,
sia nell’ordine cosmico che nell’ordine storico» (p. 48); la
rivelazione cristiana altro non è che «una storia cristocentrica continua» (p. 49). In terzo luogo occorre sottolineare
la stretta imbricanza fra storia della rivelazione e storia
della salvezza5, «cuore di ogni teologia neotestamentaria»
(p. 50), «nucleo specificamente cristiano» (p. 52), pur sapendo che qui si radica lo «scandalo» di fondo (p. 45),
come già aveva compreso Celso nella sua critica irridente
(p. 51), «lo scandalo di una storia particolare che si svolge
su di un’esilissima linea rispetto alla storia universale e
che si erge a giudice di questa; lo scandalo di alcuni anni
che non significano granché di diverso rispetto a tanti altri
periodi di tempo della stessa durata e che costituiscono il
centro e la norma di tutto il tempo; lo scandalo di credere
che Gesù è Dio nonostante il suo carattere banalmente
storico»6. Come esporre dunque questa storia della salvezza (così deve essere letto il titolo dell’opera, precisa
Cullmann nella prefazione alla seconda edizione, contro
fraintendimenti che non erano mancati: p. 10), restando nell’ambito di una teologia neotestamentaria (p. 55),
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«Sebbene l’espressione storia della salvezza che ha acquistato diritto di
cittadinanza nella teologia, soprattutto grazie a von Hofmann, sia troppo divenuta uno slogan per designare la posizione teologica della Scuola di Erlangen,
ce ne serviremo tuttavia in questo lavoro, perché corrisponde molto da vicino
al soggetto che noi trattiamo. Ma storia della rivelazione ha forse una portata
più ampia» (p. 50). «La storia biblica può anche esser definita come storia della
rivelazione o, poiché ogni rivelazione procede dall’amore di Dio, come storia
della salvezza» (p. 50). È dire, senza livellamenti (lo rileva anche F. Ferrario,
La teologia del Novecento, Roma 2011, pp. 206-210), la possibilità di una convergenza complementare con Pannenberg, da noi evocata nel nostro volume e
ritenuta sostanzialmente da B. Ulianich, Linee di sviluppo, p. l.
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B. Ulianich, Linee di sviluppo, p. li.
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come precisava con insistenza la prefazione alla prima
edizione, senza indebiti presupposti (pp. 5-7)?
a) Occorre in primo luogo (ed è l’oggetto della prima
parte: pp. 57-147) considerare che «la salvezza è legata ad
una successione continua di avvenimenti temporali, che
comprende il passato, il presente e l’avvenire. La rivelazione e la salvezza si attuano lungo una linea temporale
ascendente (aufsteingende Linie). Sarà qui da delimitare
la nozione di tempo rigorosamente lineare e rettilinea del
Nuovo Testamento rispetto a quella ciclica greca e nei
confronti di ogni metafisica che pone la salvezza nell’al
di là; e sarà da mostrarsi come, nella concezione dei primi
cristiani, la rivelazione e la salvezza accadono realmente e
in stretto vicendevole rapporto nel corso del tempo» (pp.
55-56). È il momento in cui occorre considerare quella che
il Nuovo Testamento chiama oikonomía, cioè il piano divino nella sua totalità; un piano che riposa sull’autorità di
Dio che sceglie e inanella i vari kairói della storia (p. 62);
kairói situati nel passato, nel presente, nel futuro, «dalla
cui unione scaturisce la linea della salvezza» (p. 65), kairói fra cui spicca come «veramente decisivo quel kairós
con cui Gesù stesso designa la sua passione e la sua morte,
ovvero «il compimento della sua opera» (p. 63); un piano «la cui successione può esser abbracciata e dominata
soltanto da Dio» (p. 69), una linea retta e continua su cui
Dio pone gli avvenimenti decisivi (p. 72). L’oikonomía,
cioè l’attività divina che si snoda nel tempo, non è mai
stata un problema per il Nuovo Testamento, è stata anzi
«il presupposto necessario e naturale» di ogni suo dire (p.
73), mentre è stata un problema cruciale in quell’alterazione del messaggio cristiano che è stato lo gnosticismo
(pp. 78-79), «il grande problema della teologia cristiana»
(p. 83). La fede cristiana (e in questo senso è benvenuta
e benefica l’autocritica di Karl Barth, che ora, malgrado
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qualche punto ancora in discussione, adotta decisamente
questa prospettiva7) «non conosce un Dio fuori dal tempo,
essendo «Dio colui che è, che era e che sarà» (p. 87); è il
pensiero greco ad aver instaurato «una differenza qualitativa» fra tempo ed eternità, concependo quest’ultima come
«assenza di tempo» (p. 85); per il cristianesimo «l’eternità
è la successione infinita degli aiónes: «e per questo il suo
carattere temporale è da affermarsi vigorosamente (p. 86),
assumendolo nel suo significato «ingenuamente corrente»
(p. 87), pensandolo quindi «nel modo meno filosofico possibile» (p. 88). Per la fede cristiana non vi è che una linea
del tempo unica, con almeno tre aiónes: «quello prima
della creazione, in cui l’avvenimento della rivelazione si
prepara nei piani di Dio e nel Logos, che è già presso Dio;
quello fra la creazione e la fine del mondo, l’aión presente;
l’aión futuro, nel quale si colloca l’avvenimento della fine,
la nuova creazione» (pp. 91 s.); in questa linea retta continua («che non può accordarsi con il dualismo di tempo
ed eternità»: p. 92) e che è essa stessa un fatto temporale
(p. 93), lo schema tripartito rimane, ma muta di valenza e
di significato, essendo «il valore proprio di ciascuna epoca determinato dal rapporto che la unisce all’avvenimento
temporale centrale» (p. 93), ponendosi quindi un «prima»
e un «dopo» rispetto a questa cesura definitiva, come una
«preparazione» e una «prosecuzione» rispetto a questo
«punto unico, in cui il tempo è compiuto» (p. 92). Tutto
questo rileva dall’assoluta sovranità di Dio, «che solo conosce i kairói della sua attività salvifica» e che solo misura
il tempo «con misure che differiscono tanto dalle nostre
quanto la durata di un giorno da quella di mille anni» (p.
105). Tutto questo è il mystérion che viene partecipato (de7
Cristo e il tempo, pp. 84, 86-88, 90, 118. Buoni rilievi in R. Gabas Pallas,
Escatologia protestante en la actualidad, pp. 104-115, 159-163, 140-141.
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stando un’ammirazione infinita in Paolo: p. 103) e che ora
«è accessibile nella Chiesa, in cui opera lo Spirito Santo,
a tutti i membri della comunità», così come, però isolatamente, era stato reso noto agli antichi profeti (p. 103). Tutto questo è la rivelazione di quanto avviene in quel centro
che è Cristo, in cui «non si compie soltanto tutto il tempo
anteriore, ma si decide anche tutto quello futuro» (p. 97).
Questo indicano temi come presenza del Logos, predestinazione (per la comunità non meno che per gli individui),
anticipazione in Cristo degli avvenimenti futuri (p. 95),
mediante l’azione dello Spirito, in cui sono cominciati gli
ultimi giorni e in cui sperimentiamo le primizie, la caparra,
la particolare tensione che esiste fra presente e avvenire
(p. 98). «In Cristo appare evidente tutta intera la linea di
salvezza» (p. 99); ed è il culto della comunità primitiva
che manifesta la centralità di tale avvenimento, non meno
della sua temporalità8. Il credente, che vive nel presente
(un segmento ben preciso della storia della salvezza: p.
101), proprio per la sua partecipazione al mistero di Cristo
(il Nuovo Testamento parla a questo riguardo di santificazione: p. 100) comprende il suo inserimento nell’intera
linea della salvezza (p. 102), il dinamismo di questa storia
(p. 103), l’elemento decisivo che fa di Cristo la cesura definitiva (p. 105).
A questo punto è possibile fare un passo in più e vedere
come la divisione tripartita della linea biblica del tempo
(che mantiene il suo valore) sia sovrapposta dalla divisione bipartita nel giudaismo non meno che nel cristianesimo.
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Cristo e il tempo, p. 100: «Nel servizio divino si verifica ogni volta, sin da
ora, ciò che segnerà il compimento della storia della salvezza alla fine dei tempi.
Così anche il giorno dedicato dai cristiani al servizio divino, il giorno commemorativo della risurrezione di Cristo, viene indicato come giorno del Signore,
che non ricorda unicamente il giorno della risurrezione, ma anche il giorno del
Signore, il jom Yahweh che si attende nel futuro».
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«Nella divisione bipartita giudaica tutto è visto nel segno
dell’avvenire. Il centro stesso di questa linea è costituito
dalla futura venuta del Messia, dall’avvento dell’era messianica della salvezza con tutti i miracoli che la caratterizzano. È là per il giudaismo la grande cesura della storia
intera, che rimane divisa in due metà. Per il giudaismo il
centro della linea, vale a dire la salvezza, si trova nell’avvenire. L’elemento cronologicamente nuovo apportato da
Cristo alla fede del cristianesimo primitivo consiste nel
fatto che, dopo la Pasqua, il centro non si trova più, per
il credente, nell’avvenire. Questa è una verità di immensa
portata e tutte le altre considerazioni sul fluire del tempo
perdono, per la Chiesa primitiva, qualsiasi valore di rilievo
alla luce di questa affermazione semplicemente rivoluzionaria, fatta propria da tutto il cristianesimo primitivo: il
centro della storia è già raggiunto» (p. 106). Qui con la
rappresentazione lineare del tempo, condivisa, si tocca la
differenza: «Nel giudaismo si ha soltanto un centro che è
situato nel futuro e coincide con la cesura fra l’eone presente e l’eone futuro (quello della nuova creazione)»; nel
cristianesimo invece «il centro cade fra l’eone presente
e l’eone futuro» (p. 107). Di conseguenza «l’attesa resta
come nel giudaismo: si continua ad attendere dall’avvenire quanto ne attendevano gli ebrei. Ma il centro della
storia della salvezza non è più in esso, bensì in un fatto storico già verificatosi. Il centro è raggiunto, ma la fine deve
ancora venire» (p. 109); «la rivelazione consiste proprio
nell’annunciare che l’avvenimento compiutosi sulla croce,
seguito dalla risurrezione rappresenta la battaglia decisiva
già vinta» (p. 109); quindi (sia detto contro Schweitzer e la
sua scuola in modo netto9) «non la parusia, ma la croce e
9
«È da dire nei confronti di Martin Werner e di Albert Schweitzer che l’intera prospettiva in cui essi pongono il Nuovo Testamento è falsa in quanto considerano come centro della storia l’avvento futuro dell’era messianica (il Regno
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la risurrezione di Cristo costituiscono il punto centrale e il
senso di tutta la storia» (p. 111). Dire che «l’avvenimento
della salvezza è ormai sopravvenuto ed è già compiuto»
(p. 112), non significa però sminuire la portata degli avvenimenti finali; significa anzi fondarla più solidamente
(p. 115); significa infatti aprire nuovi orizzonti (p. 111).
E quello che si deve dire per il futuro, lo si deve dire per
il passato. Anche qui fra giudaismo e cristianesimo la differenza è radicale. «Nel giudaismo tutta la storia d’Israele riceve la sua luce dall’avvenire, dal venturo Messia,
così che essa viene effettivamente considerata soltanto
da un punto di vista escatologico; nel cristianesimo primitivo, al contrario, anche la storia d’Israele è illuminata
dal nuovo centro; essa acquista cioè il senso cristologico,
non più soltanto in rapporto alla fine dei tempi, ma alla
storia della salvezza» (p. 116). Si deve anzi dire di più.
«Irradiandosi da questo centro, la luce illumina, risalendo verso un passato ancora più remoto, il tempo anteriore
alla creazione e la creazione stessa. Ora tutto il tempo che
precede la creazione viene inteso come preparazione alla
redenzione in Gesù Cristo. È già in esso che Dio elegge i
suoi e che lo stesso Logos, che poi si fa carne, è presso di
lui; è in esso che tutto il mistero divino della salvezza, di
di Dio), mentre in tutto il Nuovo Testamento, e già in Gesù, il centro del tempo
è costituito dall’agire storico di Gesù e tutto ha da essere quindi spiegato non in
funzione dell’avvenire, ma partendo da questo fatto» (pp. 109 s.). «Non si insisterà mai troppo su questo punto nei confronti dell’escatologia. La quale resta sì
attesa del futuro in senso pieno, temporale, ma il suo realizzarsi non costituisce
più la cesura centrale fra quest’eone e quello futuro. La nuova divisione del
tempo non coincide più con quella vecchia, ma la interseca» (p. 110). «Conseguentemente la soluzione neotestamentaria che presuppone una vittoria decisiva
già riportata, ma che non pone fine alle ostilità fin quando non si sia concluso
l’armistizio (cfr. p. 109), non si appiglia a un espediente che si spiegherebbe,
secondo M. Werner, con il mancato avvento della parusia, ma, al contrario, attinge essenzialmente alla convinzione positiva che il travolgente avvenimento di
Cristo ha dato al tempo un nuovo centro» (pp. 110 s.).
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cui Gesù Cristo è lo strumento, è già nascosto fin nei suoi
dettagli, compresa la sorte dei pagani, nei consigli di Dio.
È quindi nel cristianesimo primitivo che per la prima volta
la stessa creazione viene completamente considerata alla
luce della liberazione dal peccato operata da Gesù Cristo.
L’universo è già stato creato in Cristo, perché sarà riconciliato con il suo sangue. Lo stesso Cristo che deve liberare
il mondo dal peccato in cui cadrà, è il mediatore della sua
creazione» (pp. 116 s.). È ora chiaro perché «la sovranità
di Dio sul tempo si manifesta in Cristo. E si capisce perché in Cristo esiste un’anticipazione della fine e perché la
sua attività preesiste alla sua incarnazione. La rivelazione,
partecipata ora ai credenti e innanzitutto agli apostoli, che
Gesù Cristo crocifisso e risorto è il centro della storia della salvezza ci permette di riconoscere la sovranità di Dio
sul tempo. Perché è in questo centro temporale, che dà un
senso alla storia, che tutto si riassume. Ma ciò non toglie
che tutta la storia della salvezza, prima e dopo di lui, debba necessariamente svolgersi nel tempo» (p. 117). Infatti
«con Cristo non si produce un tempo nuovo, ma una nuova
divisione del tempo» (p. 118). Non è perciò esatto «dire
che in Cristo l’eternità temporale penetra nel tempo, trionfa sul tempo. Occorre dire invece che in Cristo il tempo ha
attinto il suo centro e che, contemporaneamente, è giunto
il momento in cui questo è annunciato agli uomini» (p.
119). Tutto ciò, naturalmente, soltanto nella fede (p. 119),
non in una riflessione di stampo filosofico (p. 117).
A questo punto occorre ribadire due importanti considerazioni. La prima è che la storia della salvezza non è un
tratto mitico generalizzato da demitizzare (p. 122); essa
è «storia interpretata profeticamente», che «in ogni sua
parte possiede il carattere di uno sviluppo temporale» (p.
127); il suo centro è un fatto storico che stringe in una solidarietà indistruttibile la storia delle origini e la storia della
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fine (p. 128), la creazione umana e la creazione cosmica
(p. 128), il mondo creato ed il mondo delle potenze angeliche, cioè di quegli esseri invisibili che operano dietro ogni
avvenimento visibile (pp. 130 s.), in una tensione fra già e
non-ancora e fra ancora e già che ha trovato in Paolo un illustratore mirabile (p. 129). La seconda è di rappresentare
la linea della salvezza come linea di Cristo: «Cristo mediatore della creazione – Cristo, servo sofferente di Yahveh
che realizza l’elezione d’Israele – Cristo, il Kýrios che
regna attualmente – Cristo, Figlio dell’uomo, che ritorna
per portare a compimento tutte le cose create ed essere il
mediatore della nuova creazione. Egli è prima dell’inizio,
è stato crocifisso ieri, regna oggi, invisibile, e ritornerà alla
fine dei secoli. Tutte queste immagini non ne formano che
una, quella di Cristo che esercita successivamente nel tempo le sue funzioni storico-salvifiche» (p. 136), così come
attestano d’altronde le primitive confessioni di fede (pp.
139-142). È ora possibile enucleare il doppio movimento
della linea della salvezza che si snoda secondo il principio
dell’elezione e della sostituzione10. «La linea della salvezza presuppone la rivelazione divina e il peccato dell’uomo
come atto di rivolta contro di essa. Il peccato ha un inizio:
la caduta. È questa che rende necessaria una storia della
salvezza, nel senso proprio del termine, poiché la maledizione che pesa ormai sull’uomo e sull’intera creazione a
lui legata, non è l’ultima parola di Dio che è amore. Nella
sua misericordia, il Creatore fa svolgere un’ulteriore serie
di avvenimenti temporali al fine di annullare la maledizio10
Facciamo nostra l’osservazione di B. Ulianich (p. 143) circa la traduzione del termine Stellvertretung: esso significa non solo sostituzione, ma anche
rappresentanza; il discorso, come d’altronde specifica lo stesso Cullmann deve
essere colto in tutta la sua concretezza ed esistenzialità (p. 143); rappresentanza
indica infatti un coinvolgimento attivo ed efficace. Forse nessuno lo ha visto
meglio di Barth nella sua dottrina dell’elezione e della riconciliazione.
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ne del peccato e della morte, di riconciliare l’uomo con lui
e, nello stesso tempo, di ricondurre l’universo intero a una
nuova creazione, in cui non esiste più la morte. Il principio
di questo evento di grazia è l’elezione di una minoranza
per la redenzione della totalità, in altre parole, il principio
della sostituzione» (pp. 143 s.). «La storia della salvezza sperimenta così, fino a Gesù Cristo, una progressiva
riduzione: l’umanità, il popolo d’Israele, il resto d’Israele, l’Unico, cioè il Cristo. Fino a questo punto la pluralità
tende all’unità, a Gesù Cristo, il quale diventa Salvatore
dell’umanità, anzi di tutta la creazione, proprio in quanto
Messia d’Israele. La storia della salvezza è giunta qui al
suo centro» (pp. 144 s.). «A partire da questo punto, un
profondo cambiamento si produce nel principio stesso del
movimento che abbiamo considerato. Il principio rimane
quello dell’elezione e della sostituzione, ma non viene più
applicato nel senso di una riduzione progressiva. Al contrario, a partire dal centro raggiunto nella risurrezione di
Cristo, lo sviluppo successivo non avviene più procedendo dalla pluralità all’unità, ma inversamente passando progressivamente dall’unità alla pluralità, in modo tale che è
la pluralità a dover rappresentare l’Unico. La via conduce
ora dal Cristo a quelli che credono in lui e si sanno salvati
attraverso la fede nella sua morte, morte nella quale egli si
sostituisce ad essi. Essa porta agli apostoli, alla Chiesa che
è il corpo dell’Unico e che ha da realizzare per l’umanità
la missione del resto, del popolo dei santi. E da qui si passa
ancora all’umanità redenta nel regno di Dio e alla creazione redenta dei nuovi cieli e della nuova terra» (p. 145).
«L’intera storia della salvezza si articola così in due movimenti: il passaggio dalla pluralità all’Unico, vale a dire la
Vecchia Alleanza; e il passaggio dall’Unico alla pluralità:
la Nuova Alleanza. Proprio al centro si pone l’atto espiatorio della morte e della risurrezione di Cristo. Che il punto
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centrale si trovi proprio qui sta a comprovarlo la seguente costatazione. Ambedue i movimenti hanno in comune
il fatto che si attuano secondo il principio dell’elezione
e della sostituzione. Ciò vale infatti anche per il periodo
attuale che procede dal centro. Alla Chiesa terrestre, che
rappresenta il corpo di Cristo, spetta, secondo gli autori
del Nuovo Testamento, una parte centrale nella redenzione dell’umanità intera e quindi di tutta la creazione» (p.
145 s.). La simbologia del nostro calendario, nella quale le
date prima di Gesù Cristo vanno decrescendo e crescendo
invece dopo di lui, esprime in maniera felice questo dato
teologico di grande portata (p. 147), la riduzione di tutto e
di tutti nell’unità del Cristo, «il servo sofferente che porta a compimento il senso della storia d’Israele, il Figlio
dell’uomo glorioso che porta a termine l’opera creatrice
di Dio nella sua qualità di secondo Adamo, prefigurato
nell’uomo creato ad immagine di Dio» (p. 139)11.
b) Registrata con forza12 la continuità della storia della salvezza e bloccato il pericolo, sempre ricorrente, dello
gnosticismo, che è agli occhi di Cullmann una minaccia
mortale13, si deve passare ora (ed è la seconda parte dell’o11
Cullmann riconosce che questo duplice movimento è stato trattato in maniera analoga da Carl August Auberlen nella sua importante opera Der Prophet
Daniel und die Offenbarung Johannis, Berlin 1854; sottolinea peraltro che Auberlen vi è giunto per altra via; il che rafforza la coincidenza (p. 145). Ma le differenze con la scuola di Erlangen (pp. 80, 171, 218) ed ancor più con Johannes
Coccejus che con la sua Foederaltheologie ne è precursore (p. 80), permangono.
12
«Troppo insistito forse, per essere sicuro di aver insistito a sufficienza!»
(M. Carrez, Oscar Cullmann: instant et temps, «Foi et Vie» 65, 3[1966], p. 47).
E ne aveva ben donde data la situazione dell’epoca. D’altronde la discussione
seguita conferma come giusta la scelta di Cullmann.
13
Lo gnosticismo (lo ribadirà anche Il mistero della redenzione, pp. 23-29)
comporta tre conseguenze fatali: rifiuto dell’Antico Testamento, come se fosse
antitetico o passato, senza conseguenze rispetto al Nuovo; riduzione di Gesù
a un’appartenenza umana e quindi eliminazione della realtà storica dell’Incarnazione; inutilità dell’escatologico, rimpiazzato dalla distinzione fra di-qua e
di-là. Lo gnosticismo è frutto, secondo Cullmann, dell’ellenizzazione del cristianesimo. La sua tesi è tanto netta (cfr. H.G. Hermesmann, Zeit und Heil, pp.
13
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pera: pp. 149-207) a rapportare le differenti epoche della
storia della salvezza al loro centro, all’ephápax che dà irrepetibilità e unicità a tale storia secondo quanto ha insistito (p. 151; cfr. p. 56) Paolo (Rm 6,10), ma non solo lui
(Eb 7,27; 9,12; 9,28; 10,10; 1Pt 3,18), anche se i diversi
segmenti dell’intera linea «ininterrottamente determinati»
dall’ephápax conservano il loro specifico significato temporale (p. 56). Per ben comprendere la posizione di Cullmann – e la concreta specificità del suo cristocentrismo14
– occorre notare che con il termine ephápax (Einmaligkeit)
egli non indica solo il sacrificio dell’Uomo-Dio (come fa
Eb 10,10), ma ogni avvenimento salvifico, ogni intervento
di Dio in Cristo. «Per questo il tempo dell’Uomo-Dio ha
carattere di centralità rispetto all’intera storia, è il tempo
di Dio, che condiziona ogni prima e ogni dopo, in quanto
li riassume in sé, non già svuotandoli, ma proiettandosi in
essi verso il passato e verso il futuro, come unico e decisivo valore capace di modificare qualitativamente la storia in storia della salvezza»15. Perciò il termine ephápax
57-63 e 95-96), anche perché è risposta polemica al Werner (cfr. F. Flückiger,
Der Ursprung des christlichen Dogmas. Eine Auseinandersetzung mit Albert
Schweitzer und Martin Werner, Zollikon-Zürich 1955). Naturalmente il discorso
sull’ellenizzazione (che già i Padri videro impostando la tematica del «retto uso»
della cultura classica: Chr. Gnilka, Kresis. Die Methode der Kirchenväter im
Umgang mit der antiken Kultur: vol. 1; Der Begriff des rechten Gebrauchs, Basel-Stuttgart 1984), che ha una lunga storia (cfr. W. Glawe, Die Hellenisierung
des Christentums in der Geschichte der Theologie bis Luther auf die Gegenwart,
Berlin 1912), può avere altre soluzioni come mostra l’indagine storica di A. Grillmeier, Hellenisierung-Judaisierung des Christentums als Deuteprinzipien der
Geschichte des christlichen Dogmas, «Scholastik» 33 (1958), pp. 321-355 e
528-558 (per citare solo l’articolo forse più significativo) o la ricerca teologicofilosofico-ermeneutica di M.C. Bartolomei, Ellenizzazione del cristianesimo. Linee di critica filosofica e teologica per una interpretazione del problema storico,
L’Aquila 1984 (che ha anche il merito di una non ovvia prefazione di Germano
Pattaro, per molti aspetti decisiva: pp. 7-14).
14
B. Gherardini, La Seconda Riforma, vol. 2, p. 253; H.G. Hermesmann,
Zeit und Heil, pp. 113 ss.; K.H. Schlaudraff, Heil als Geschichte?, pp. 77 ss.
15
B. Gherardini, La Seconda Riforma, vol. 2, p. 254.
14
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si riferisce per un verso ad ogni punto della storia della
salvezza, per un altro, e in modo speciale, all’avvenimento
centrale della salvezza» (p. 151); «all’atto unico e decisivo di Cristo succedono ancora altri atti unici e decisivi, ma tale carattere non compete loro che nella misura in
cui essi sono fondati nell’atto unico di Cristo» (p. 152);
ciò vale anche (e basta riandare al rapporto instaurato
fra storia e profezia) andando a ritroso (p. 152). Qualora si spezzasse questo rapporto tra il centro da una parte,
e il prima e il dopo dall’altra, la salvezza cesserebbe di
essere storia, perderebbe le dimensioni del passato e del
futuro, non riguarderebbe più l’uomo nella sua concreta
realtà esistenziale. Verrebbe meno, ed è il grande pericolo del docetismo, «tanto vecchio quanto il cristianesimo»
(p. 155) e diffuso ovunque nel cristianesimo primitivo (p.
158), lo scandalo del cristianesimo, conservato invece con
forza dalle antiche confessioni di fede (p. 160). E cioè che
nell’intera storia di Gesù, culminata nella sua morte e risurrezione, proprio nella storia apparentemente insignificante dell’Uomo-Dio, si sia verificata per noi l’ephápax,
che fa di essa l’autocomunicazione di Dio (Selbstmitteilung Gottes), rendendola unica e decisiva, centro unificante verso cui convergono passato, presente, futuro. Al
docetismo, che non rispetta «ciò che di storicamente unico
vi è nell’opera redentrice di Cristo» (p. 157), Paolo oppone
la realtà dello scandalo della croce e Giovanni insiste sulla
realtà dell’incarnazione (p. 155). Proprio perché qui si gioca la specificità della rivelazione cristiana, l’autore della
lettera agli Ebrei nota «con insistenza quasi pedantesca»
(p. 154) il valore dell’ephápax16. Al Cristo, o meglio al
16
Alle pp. 158-160 Cullmann nota il riaffiorare del pericolo doceta anche ai
suoi tempi e porta l’esempio di P.L. Couchoud (Le mystère de Jésus, Paris 1924),
cui M. Goguel rispose con il suo ancora insuperato Jésus de Nazareth. Mythe ou
histoire?, Paris 1925. Poco dopo (p. 164), in un contesto parzialmente diverso,
15
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tempo di Cristo, cesura decisiva della storia, viene quindi riconosciuto il ruolo di centro. Occorre ora mettere a
fuoco questa mediazione per il passato, per il futuro, per il
presente, onde far risaltare la caratteristica tensione (Spannung) della storia della salvezza che già caratterizzava fortemente Könighreschaft Christi, Die Hoffnung e gli studi
che fanno loro corona.
Il passato, cioè «dalla creazione a Cristo» (p. 161), è
già storia della salvezza; lo attesta l’Antico Testamento
che lo riferisce; «ma il rettilineo orientarsi dei suoi avvenimenti verso un avvenimento storico preciso non viene
riconosciuto prima di Cristo», poiché, come scrive Paolo,
«un velo copriva gli occhi di Mosé, fino al momento in
cui non venne rivelato il loro significato» (p. 161). Certo, l’Antico Testamento rende testimonianza a Cristo; ma
esso è da considerarsi come «preparazione temporale»
verso l’avvenimento di Cristo, da percepire come tale (p.
165) solo quando si verifica il compimento (p. 164). Non
si tratta dunque, come avviene singolarmente nell’Epistola
di Barnaba, di applicare un discutibile metodo allegorico,
in cui il contenuto veterotestamentario viene privato della
sua tensione verso il compimento (p. 163); si tratta piuttosto di mostrare che «gli avvenimenti riferiti nel Vecchio
Testamento, che come tali hanno un loro specifico valore
nella storia della salvezza, costituiscono proprio in questo loro valore, la preparazione a Cristo, all’avvenimento
centrale che dà senso a tutta la storia della salvezza» (pp.
164 s.); «trovare nel Vecchio Testamento la testimonianza
resa a Cristo significa imparare a vedere negli avvenimenti passati della storia della salvezza, alla luce di ciò che
sappiamo del Cristo incarnato e crocifisso, la preparazione
la critica tocca Prosper Alfaric (L’Evangile selon Marc, Paris 1929; Pour comprendre la vie de Jésus, Paris 1929).
16
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dell’incarnazione e della croce» (p. 166). «La creazione
mantiene invariato il suo valore di accadimento, la storia
d’Israele resta storia, ma il tutto viene interpretato profeticamente come annuncio di Cristo. Questa interpretazione
che abbraccia la creazione, le leggende primitive e le narrazioni storiche è divenuta possibile soltanto ora, perché è
soltanto ora che possediamo il criterio concreto per l’interpretazione e l’orientamento di tutta la storia. Già prima
di Gesù si è certamente avuta un’interpretazione profetica
di tutti gli avvenimenti veterotestamentari: l’elezione del
popolo d’Israele è infatti già rivelata. Ma il compimento di
questa elezione non si realizza che nel fatto storico della
morte sulla croce, nella rivelazione dunque della Nuova
Alleanza. Di conseguenza, è soltanto partendo da Gesù
di Nazareth, crocifisso sotto Ponzio Pilato, che l’intero
Vecchio Testamento può essere interpretato in funzione di
Gesù Cristo. Ora soltanto si può mostrare che il peccato e
la redenzione, che formano il tema di tutta la storia, richiedono necessariamente, sin dal principio, questa serie di
avvenimenti particolari che mirano al Cristo fatto uomo e
crocifisso e che passano per le tappe temporali dell’incarnazione e della crocifissione» (p. 166). «Anche il Vecchio
Testamento è ephápax; ma il suo significato storico-salvifico viene riconosciuto soltanto quando tutto questo periodo
venga messo in relazione con l’ephápax dell’avvenimento
centrale» (p. 165). Qui si pone immediatamente un’obiezione17: «come può un simile svolgimento temporale, che
è soltanto preparazione, avere ancora un senso per la salvezza attuale del credente in Cristo, quando nel frattempo
ciò che era in preparazione è divenuto realtà?» (p. 167).
Che senso ha il Christuszeugnis del Vecchio Testamento,
17
È un punto essenziale: R. Gabas Pallas, Escatologia protestante en la
actualidad, pp. 166-167; M. Carrez, Oscar Cullmann: instant et temps, p. 45;
K.H. Schlaudraff, Heil als Geschichte?, p. 78.
17
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se è preparazione temporale di un compimento ormai verificatosi? La risposta è in quanto già detto. Occorre tenere
i due elementi (da un lato il significato peculiare storicosalvifico di questo passato unico, cioè la preparazione;
dall’altro la relazione con l’avvenimento centrale unico,
cioè il compimento); essi fanno sì che, nel Nuovo Testamento, questo passato conservi il suo valore attuale per la
salvezza; «vecchio» non significa perciò «svuotato e reso
inutile». Proprio il titolo di Figlio dell’uomo, che Gesù
usa a preferenza di altri, e il titolo di Servitore Sofferente
mostrano, anche qui, come già prima (p. 139), «perché il
Vecchio Testamento appartiene alla rivelazione cristiana»
(p. 168), con un significato che si spinge fino alla parusia,
come insegna Rm 9-11 (p. 169). «Si tratta di un circolo. La
morte e la risurrezione di Cristo permettono al cristiano di
vedere nella storia di Adamo e nella storia d’Israele la preparazione della crocifissione e della risurrezione di Gesù.
E, a loro volta, la storia di Adamo e la storia d’Israele, così
intese, gli permettono di capire l’opera di Gesù Cristo crocifisso e risorto in rapporto al piano divino della salvezza»
(p. 167), un piano «secondo cui la storia dell’elezione del
popolo d’Israele, dell’Israele katá sárka, continua attraverso i tempi e trova il suo coronamento nella conversione
finale di questo popolo» (p. 169).
Per il futuro, «la norma non è più costituita da ciò che
verrà, ma da Colui che è già venuto» (p. 170); perciò il
problema del futuro si pone così: «quale rapporto sussiste
fra l’avvenire e i fatti già avvenuti per la nostra salvezza?
Fino a che punto l’avvenire porta il compimento di ciò che
è già stato deciso?» (p. 171); e ancora, con maggior precisione: «in che cosa consiste l’ephápax di questo periodo?
Se ne può affermare il carattere di unicità?» (p. 172). Per
rispondere a questa domanda, che mette in risalto la forza
peculiare dell’avvenire (p. 170), occorre tenere presente
18
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che esso è ephápax «e possiede in se stesso il suo peculiare valore storico-salvifico; ma contemporaneamente che
questo ephápax è fondato sull’ephápax dell’avvenimento
centrale unico, in cui «il télos che dà il suo senso alla storia
della salvezza è già venuto» (p. 171). Il problema della
data di tale ephápax, che l’escatologia conseguente ritiene
essenziale, si pone certamente, ma quel che conta è che il
télos della storia, che nel giudaismo era soltanto atteso,
ora è riconosciuto come compimento. Il futuro, la parusia
con la nuova creazione, aggiunge di specifico all’ephápax
già compiuto questo: «lo Spirito Santo, lo pnéuma, prende
possesso di tutto il mondo della sárx, della materia» (p.
172); «allora i morti risusciteranno con un sóma pneumatikón» (p. 173), allora lo pnéuma creerà «nuovamente tutta
la materia, decaduta nella sárx» (p. 173), «un’occasione
in cui non vi sarà posto né per l’appassimento, né per la
corruzione» (p. 173). Tutto ciò avverrà quando il Figlio
dell’uomo, «che apparirà in tutta la sua gloria, discenderà
sulla terra»; e questo compimento «riguarderà il cielo e la
terra» (p. 173). E tutto ciò sarà possibile grazie all’ephápax
centrale già avvenuto, in particolare grazie alla risurrezione di Cristo (p. 174), ephápax in cui tutto ciò è già in un
certo senso anticipato, poiché lo Spirito già abita in noi e
già innerva il mondo.
Più complessa è la relazione da instaurarsi rispetto al
presente. Cullmann ha subito a cuore di distinguere la sua
posizione dalla tematica kierkegaardiana della contemporaneità (Gleichzeitigkeit), allora molto in uso; la contemporaneità kierkegaardiana scatta quando la fede, ignorando
il presente, si ricongiunge al Signore e alla sua espiazione
vicaria per trovarvi il suo contenuto; l’ephápax di Cullmann è al contrario il presente della salvezza e del Regno
di Cristo (pp. 177 s.; 201 ss.). Per meglio comprendere,
riassumiamo con Gherardini: «La nozione cullmanniana
19
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del presente, in cui convergono i loci teologici che più direttamente riguardano il rapporto fra Dio e l’uomo, come
la Chiesa, la tradizione, i sacramenti e naturalmente la cristologia, è ricavata dalla sua inserzione tra due estremi. Da
una parte si ha la fine del momento centrale comprendente
gli anni del Signore e l’era apostolica, dall’altra la fine dei
tempi e la parusia. Il presente si svolge dunque come tempo intermedio (Zwischenzeit) tra questi due poli; mosso
da un’intima tensione risolutiva (Spannung) verso l’escatologia, di cui già si possiede un’anticipazione in quella
fine (télos), che fu operata dalla morte e dalla risurrezione
del Signore. Infatti la fine del regno del peccato introduce
nel presente il fatto della salvezza: salvezza iniziata, non
ancora perfetta, che esploderà in tutta la sua cristallina trasparenza al momento della fine dei tempi. Ciò non toglie
che la salvezza sia sostanzialmente avvenuta una volta per
sempre, unilateralmente, irreversibilmente; ed è qui che il
concetto di ephápax concorre alla determinazione del presente come Zwischenzeit che è tempo della Chiesa e della
salvezza per la Chiesa, della salvezza temporalizzata»18. Si
parte anche qui dalla più antica confessione di fede, Kýrios
Christós, su cui «la comunità cristiana primitiva fonda la
forte coscienza di essere strumento della storia della salvezza» (p. 178), coerentemente con la convinzione di Cristo che ha previsto un tempo intermedio (non importa di
quale lunghezza) tra la sua morte espiatoria, decisiva per
la salvezza e la sua parusia e quindi un tempo in cui i discepoli hanno un innegabile ruolo da svolgere (p. 181).
Kümmel ne ha offerto una prova decisiva dal punto di vista esegetico19. Due sono i passaggi da tener presente: si
tratta innanzitutto di definire questo tempo della Chiesa
B. Gherardini, La Seconda Riforma, vol. 2, pp. 254-255.
W.G. Kümmel, Verheissung und Erfüllung, Zürich 1945 (19532), pp. 58
ss. citato in Cristo e il tempo, pp. 96 s., 108, 179 ss.
18
19
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in rapporto alla sua fondazione; si tratta in seguito di definirlo in base al suo significato nella storia della salvezza.
In rapporto alla sua fondazione esso si pone come tempo della regalità di Cristo, una regalità nel presente che
«implica che si riconosca il suo rapporto con il passato e
con l’avvenire» e che si presupponga «la linea intera della
salvezza» (p. 184), descritta utilizzando le espressioni del
Salmo 110: Cristo è assiso alla destra di Dio e a lui sono
sottomessi tutti i nemici (p. 183); la prima espressione intende sottolineare che «Cristo regna su tutte le cose in cielo
e in terra» e che il «centro spaziale di questa sovranità è la
Chiesa, che rappresenta il suo corpo sulla terra» (p. 182);
la seconda, con il rinvio alle «potenze invisibili» (così
esplicitano le confessioni di fede il riferimento ai «nemici»: p. 186), che sono sottomesse a Cristo (sebbene «questa sottomissione, conseguenza della vittoria riportata da
Cristo con la sua morte e risurrezione, sia per ora soltanto
un incatenamento, poiché queste potenze debbono essere
vinte, ancora una volta, alla fine»: p. 185), intende chiarire
«il rapporto che esiste fra la Chiesa, corpo di Cristo, e la
sovranità universale di Cristo» in questo tempo intermedio
(p. 186). In rapporto alla sua fondazione, il tempo della
Chiesa (così si determina l’ephápax del presente) è dunque un essere fra i tempi, caratterizzato dalla tensione fra
il centro e la fine (p. 186), «l’ultima ora, prima della fine,
che è già fine, eppure non ancora la fine» (p. 176), tutto
determinato e orientato dall’avvenimento centrale (cui tutto deve essere subordinato: p. 178), poiché «ogni epoca ha
un suo proprio valore storico-salvifico, ma soltanto in relazione con l’avvenimento centrale di Cristo» (p. 207). «La
Chiesa è il centro terrestre dal quale diventa visibile tutta
la sovranità di Cristo. È il corpo del Cristo crocifisso, ma
anche del Cristo risorto. È il sóma pneumatikón di Cristo e
attraverso la partecipazione a esso nella degna celebrazio21
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ne della cena, il credente si appropria, sin da ora, dei frutti
dello Spirito Santo, persino in ciò che concerne il suo corpo terrestre. La Chiesa è il luogo in cui, sin da ora, lo pnéuma, questo elemento escatologico, agisce come caparra,
come primizia. La costituzione della Chiesa attraverso lo
pnéuma è divenuta visibile il giorno della Pentecoste. Nella Chiesa, lo Spirito Santo opera già i miracoli tipici degli
ultimi giorni. E tuttavia domina ancora la sárx, la grande
antagonista dello Spirito. La tensione temporale si manifesta nella Chiesa attraverso il persistere del peccato, che
pure è già stato vinto dallo Spirito. La Chiesa è il supremo
dono salvifico di Dio in questo periodo intermedio, eppure
essa è composta di uomini imperfetti e peccatori. Come
la storia intera della salvezza in quanto tale non può essere dimostrata, ma soltanto creduta, così pure la Chiesa
non può essere che oggetto di fede. E molto coraggio è
necessario alla fede per scorgere in questa comunità, così
imperfetta e troppo umana sin dall’inizio, il centro della
sovranità attuale di Cristo» (pp. 186 s.). Così la Chiesa
vive la tensione (Spannung) di questo periodo intermedio
(Zwischenzeit) fra un già adempiuto (schon erfüllt) e un
non ancora pienamente compiuto (non nicht vollendet) ed
è nella cena che si concretizza in maniera peculiare «la situazione storico-salvifica del presente, con il suo contemporaneo e particolarmente stretto rapporto con il centro e
con la fine» (p. 188), come indica la più antica preghiera
liturgica, il Maranathá! (p. 188), preghiera che invoca ad
un tempo la presenza del Risorto nella comunità dei suoi
fedeli e la sua venuta finale (p. 99).
Subordinato al centro, teso verso la fine, di cui già è
anticipazione, il tempo intermedio esprime non solo la sua
caratterizzazione in rapporto alla sua fondazione, ma anche la sua caratterizzazione in rapporto al significato che
riveste nella storia della salvezza. E qui emerge l’aspetto
22
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strumentale della Chiesa con il suo compito missionario;
«il duplice carattere della Chiesa che, per un verso, è il
dono della salvezza offerto da Dio al mondo e, per l’altro,
è formata da uomini peccatori, implica che l’azione storico-salvifica della Chiesa sia, tutto insieme, una missione
nei confronti dei suoi membri e una grazia divina escatologica» (p. 189); in altre parole siamo di fronte a una predicazione «fondata sull’ephápax dell’avvenimento centrale
di Cristo» (p. 189), «tesa direttamente al tempo del compimento» (p. 190), «vivificata dall’elemento escatologico, lo
Spirito Santo, che fonda la missione» (p. 190), nel tempo
stesso in cui invita i membri della Chiesa alla conversione
e al pentimento (p. 185). Ciò apre a tre ordini di considerazioni. In primo luogo occorre notare come questo tema
della missione sostenga «l’alta coscienza che la comunità
primitiva aveva di continuare ogni giorno la storia divina
della salvezza, d’essere strumento del suo attuarsi, di aver
parte in un avvenimento che è avvenimento della salvezza
alla stessa maniera di quello che ha preceduto l’incarnazione e di quello che si svilupperà nella fase finale avvenire»
(p. 200); una coscienza che, nella predicazione (p. 189),
non meno che nella cena (p. 202), si rapporta «alla sovranità attuale di Cristo» (p. 189); una coscienza che si esprime dovunque nel Nuovo Testamento con la convinzione20
che «la fine del mondo non verrà prima che il Vangelo
sia stato predicato a tutti i popoli» (p. 190), indipenden20
Qui Cullmann riassume tre suoi importanti articoli: Le caractère eschatologique du devoir missionaire et de la conscience apostolique de saint Paul.
Étude sur le Katechon de 2 Thess, 2,6-7 (1936: =Vorträge und Aufsätze,
Tübingen-Zürich 1966, pp. 305 ss.; Des sources de l’Evangile à la formation
de la théologie chrétienne, Neuchâtel-Paris 1969, pp. 51 ss.); Quand viendra le
Royaume de Dieu? Le témoignage des écrivains chrétiens du ii siècle jusqu’en
150 (1938: Vorträge, pp. 535 ss.); Eschatologie und Mission im Neuen Testament (1941: Vorträge, pp. 348 ss.). L’esame attentissimo dei dati qui può solo
essere presupposto: pp. 189-200.
23
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temente dal successo conseguito (pp. 191-193), aprendo
così a un periodo che è il tempo della grazia, della conversione, della penitenza (p. 199). In secondo luogo occorre
considerare, contro un protestantesimo ristretto, «che la
storia della salvezza continua progressivamente a partire
dall’ascensione di Cristo e che proprio la nostra epoca attuale ha anch’essa il suo proprio senso storico-salvifico»
(p. 207): bisogna tenere ben presente «che, secondo la fede
neotestamentaria, Cristo regna ora invisibilmente sul cielo
e sulla terra, agisce visibilmente nella Chiesa e attraverso
la Chiesa, continua a esercitare tutte le sue funzioni, compresa quella di sommo sacerdote, intercedendo presso il
Padre e presentandogli tutte le nostre preghiere» (p. 201);
in questo tempo intermedio, di cui si deve riconoscere «il
suo rapporto con il passato e con l’avvenire, presupponendo l’intera linea della salvezza» (p. 184), Paolo colloca «la
storia del popolo di Dio» con il rifiuto da parte degli ebrei
del messaggio evangelico e l’accoglienza riservata al medesimo da parte dei pagani (p. 200), rapportandosi ancora
una volta al tema della missione, che durerà fino al tempo
stabilito da Dio per il ritorno di Cristo («segno precursore»
della fine, cioè dell’avvenimento della parusia, con gli avvenimenti collegati, ivi compreso l’Anticristo: pp. 197 s.),
il cui kairós non può certo essere computato dalla scienza
degli uomini, perché appartiene esclusivamente a Dio (p.
189), strettamente connesso con la conversione d’Israele
(p. 196), tratto questo rilegato ai temi rabbinici della penitenza d’Israele, necessaria prima che si realizzino i tempi
messianici, della predicazione di Elia alla fine dei tempi,
del Regno che non può venire prima che il numero degli
eletti sia compiuto (pp. 191-192). Questo tempo intermedio, che è il tempo della Chiesa, non può essere eliminato
nel suo carattere specificamente temporale; esso è segnato
dal dono dello Spirito (p. 194); e in esso gli apostoli sono,
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secondo l’ordine di Cristo, «strumenti ed esecutori del piano escatologico della salvezza» (p. 195). In terzo luogo
occorre sottolineare che se il tempo presente va conservato
nella sua temporalità di Zwischenzeit, esso non deve però
essere assolutizzato come avviene nel cattolicesimo (p.
178), in maniera emblematica quando esso non subordina
la tradizione alla Scrittura, «elevando a centro il presente
post-pasquale della Chiesa» (p. 201), mentre il centro è il
tempo di Cristo e degli apostoli, la cui singolarità è irrepetibile e fondatrice (p. 205) proprio nei confronti del tempo
intermedio (p. 202); la Chiesa è solo prolungamento, luogo e strumento della Signoria del Kýrios che è stato crocifisso ed è risorto, è ora assiso alla destra di Dio e ritornerà
alla fine dei tempi (questo significa che la Chiesa è «centro
spaziale» della sovranità di Cristo, «rappresentando il suo
corpo sulla terra»: p. 182) e la sua esistenza trae forza dallo Spirito che la vivifica (p. 190)21; l’ephápax centrale, che
21
È da rilevare espressamente l’importanza accordata da Cullmann all’opera
dello Spirito Santo: naturalmente per la caratterizzazione del tempo intermedio
che è tutto irradiato dalla Pentecoste e che proprio per questo è tempo di anticipazione e caparra escatologica, ma ancor più per una esatta caratterizzazione del
ruolo della Chiesa. È noto (e lo ricorda bene Ferrario: La teologia del Novecento,
pp. 198 e 200) che, a questo proposito, nelle letture cattolico-romane della storia
della salvezza il significato teologico della Chiesa viene sottolineato maggiormente che non nelle letture protestanti, come quella di Cullmann: lo Spirito e la
comunità cristiana, responsabile dell’annuncio, sono certo strettamente collegati, e non può essere diversamente, ma vi è un rischio che non può esser corso, ed
è quello di una clericalizzazione della storia, letta a partire dalla Chiesa, che si
verifica quando la dimensione pneumatologia resta troppo implicita, rischio cui
la sensibilità protestante è sempre stata molto attenta e che in Cullmann è sempre acutamente contrastato. Negli anni di Christus und die Zeit, con sensibilità
diverse, il problema è lucidamente dibattuto sia in campo cattolico (si pensi alla
Theologie der Geschichte del Balthasar, testo emblematico, la cui prima edizione data 1950 e in cui la pneumatologia ha un ruolo determinante e fortemente
innovativo) e sia in campo protestante (si pensi al volume capitale di Jean-Louis
Leuba, L’Institution et l’Evénement: défense et illustration, Neuchâtel-Paris,
1950 con L’Institution et l’Evenement: défense et illustration, «Verbum Caro»
(1951), pp. 105-127, ripreso in Á la découverte de l’espace oecuménique, Neuchâtel-Paris 1967, pp. 28-46). Ne abbiamo sinteticamente ricostruito il contesto
25
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è un fatto unico, non può subire attualizzazioni indebite
nel tempo presente, cessando, in un certo modo, «di essere un fatto unico del passato» (p. 202). Questo significa
la fissazione del canone scritturistico, che per l’appunto
mostra come la Chiesa antica abbia sentito la necessità di
«sottomettere al suo controllo qualsiasi ulteriore tradizione» e perciò di «subordinare, a partire da un certo momento, la tradizione alla Scrittura» (p. 203). «Di fronte alla
interpretazione restrittiva protestante della fede cristiana
primitiva va affermato che la Chiesa antica, stabilendo il
canone, non ha voluto impedire il formarsi di un’ulteriore
tradizione; essa credeva infatti che la storia della salvezza sarebbe continuata, ma riteneva che soltanto ponendosi
in una prospettiva fermamente ancorata nell’avvenimento
centrale si sarebbe potuto riconoscere in quale direzione
questa storia va realmente; prendendo orientamento dal
centro, la Chiesa deve guardarsi dal considerare certe deviazioni come storia della salvezza. Così la Scrittura stessa
ha dovuto, per così dire, essere considerata come ancora
facente parte dell’elemento centrale. Questi libri, redatti
al tempo degli apostoli, dovevano essere inseriti più tardi
nell’avvenimento centrale della salvezza, Di conseguenza,
a partire dalla seconda metà del ii secolo, l’intera epoca
apostolica è stata considerata come tempo dell’atto unico
della fondazione della Chiesa, e questa fondazione, che, in
verità, appartiene già all’epoca attuale, posteriore alla Pasqua, è stata concepita, ciò nonostante, come avvenimento
del centro stesso. Gli apostoli e gli scritti del Nuovo Testamento, fatti risalire ad essi, parteciparono così all’ephápax
del tempo della Chiesa, ma in una posizione tutta particolare, cioè in quanto fondamento. Per questo motivo,
e la portata teologica nel nostro Hans Urs von Balthasar. Un’esposizione critica
del suo pensiero, Bari 1976, pp. 520-525. Buone osservazioni in H.G. Hermesmann, Zeit und Heil, pp. 126-128.
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dal punto di vista della Chiesa antica, un’espressione che
viene riferita nel Nuovo Testamento alla vocazione apostolica, non può essere direttamente applicata al ministero
episcopale. La vocazione di apostolo è ephápax, intrasmissibile, perché l’apostolo è, nel Nuovo Testamento, un
testimone della risurrezione di Cristo, apparso nella carne.
La predicazione deve certo continuare fino alla fine, ma
non può perpetuarsi il fondamento di questa predicazione» (pp. 204 s.). Brunero Gherardi ha scritto giustamente: «Come strumento della sovranità di Cristo, la Chiesa
(secondo Cullmann) non può essere considerata che nella
realtà del suo tempo o, in altre parole, nella realtà della sua
funzione rappresentativa e unificatrice che prende le mosse dal tempo centrale (il tempo di Gesù e degli apostoli)
e ne dipende rigorosamente. Non c’è Chiesa al di fuori di
questo rapporto. Ma questo rapporto si regge se e in quanto non si sovrappone all’ephápax del quale fa propria la
tradizione e la norma»22.
c) Ci siamo soffermati a lungo sulle prime due parti
di Christus und die Zeit23, seguendole passo a passo, non
solo per ribadire, ancora una volta, quanto queste pagine
s’innervino in Königsherrschaft in Die Hoffnung e negli
scritti ad essi afferenti, ma soprattutto per farne comprenB. Gherardini, La Seconda Riforma, vol. 2, p. 258.
Dato lo scopo della presente introduzione ci siamo riferiti direttamente
alla terza edizione dell’opera, senza sottoporre il lettore alla fatica troppo improba di un confronto fra le tre edizioni; il lavoro d’altronde non avrebbe spostato granché, trattandosi di precisazioni; a parte le integrazioni con riferimenti
a opere successive al 1946 dello stesso Cullmann, gli spostamenti di qualche
rilievo sono, ci pare, solo due; una maggior insistenza sul «centro» del tempo da
intendersi come «cesura» definitiva, irrepetibile e risolutiva, in modo da illuminare meglio il rapporto con il passato, con il futuro e con il tempo intermedio;
una netta riduzione del termine «ascendente» nell’espressione «linea ascendente
continua», per dare maggior evidenza allo svolgersi concreto lungo tutto il suo
cammino, lasciandola quindi aperta e impregiudicata nella sua contingenza, anche se la vita, la morte e la risurrezione la determinano in modo irreversibile.
Spostamenti questi che fruttificheranno nel prosieguo della riflessione.
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dere la specificità nel dibattito suscitato. Come si è visto (e
come ancora avremo occasione di vedere) per Cullmann la
storia della salvezza, Cristo operante in essa e suo centro,
costituisce l’essenza del messaggio neotestamentario. È
partendo da questo nucleo centrale e rapportando ad esso
tutti gli altri elementi presenti nel vangelo che si può ricostruire la linea della salvezza, che si può cogliere il valore
di ogni realtà umana e cosmica, il significato storico-salvifico specifico di ogni epoca, che si comprende la missione
che incombe alla Chiesa nel periodo attuale e i compiti e le
responsabilità che in questo spettano al singolo individuo.
Si è detto che la ricostruzione di Cullmann è unidimensionale, che considerando la dimensione storica, temporale,
ha lasciato fuori della sua visuale la sopranatura, la trascendenza religiosa e che quindi è gravemente incompleta,
che per rispettare la positività Cullmann è giunto al positivismo, che della storia della salvezza ciò che in effetti importa non è tanto lo sviluppo temporale, quanto che Dio in
essa si rivela, interpellando le coscienze». Dopo l’analisi
che ne abbiamo dato, «non sappiamo fino a che punto queste obiezioni possano essere valide»24 o non siano invece
risolvibili alla luce di una lettura più globale25. Più problematica da un punto di vista cattolico è la caratterizzazione
dello Zwischenzeit, almeno per le conseguenze ecclesiologiche che Cullmann trae e che costituiscono il vero punto
di dissenso, su cui dovremo ritornare pur senza sottacere la
tanta luce che ne promana26. Ad ogni modo, una lettura atB. Gherardini, La Seconda Riforma, vol 2, p. 258.
Così ci paiono risolvibili, almeno parzialmente anche le critiche più specifiche di B. Gherardini, La Seconda Riforma, vol. 2, pp. 252 e 253, che d’altronde
non lesina elogi all’impostazione generale di Cullmann, come abbiamo visto
più volte.
26
J. Frisque, Oscar Cullmann. Une théologie de l’histoire du salut, pp. 206
ss.; L. Bini, L’intervento di Oscar Cullmann nella discussione bultmanniana,
Roma 1961, pp. 101 ss.; B. Ulianich, Linee di sviluppo, pp. li-lii.
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tenta dell’opera, che si vuole strettamente ancorata ai dati
neotestamentari, aiuta a non operare i fraintendimenti, che
non sono mancati e a impostare, meno frettolosamente di
quanto non si sia fatto in taluni casi, la discussione. Christus und die Zeit infatti non è un testo facile o, comunque,
meno facile di quanto lo si sia ritenuto. Le ultime due parti
toccano temi su cui possiamo essere più sintetici, perché li
abbiamo incontrati più volte nella nostra esposizione.
d) In quattro brevi capitoli, la terza parte (pp. 211-250)
tratta del rapporto instaurabile fra la storia della salvezza e
la storia universale; è il tema dell’universalismo cristiano,
scandito dall’esergo «per mezzo di Lui tutto» e imposto
anche qui dal Kýrios Christós, confessione che «implica
una radicale pretesa alla totalità», una «sovranità veramente universale» (p. 212); ed è un tema ineliminabile,
perché «il cristianesimo primitivo nonostante tutto il suo
concentrarsi sulla linea della salvezza intesa nel senso più
specifico, e anzi partendo da essa, tiene presente l’intera
storia universale» (p. 211). La storia della salvezza riveste
un valore universale non soltanto in funzione dell’ampiezza della sua base di partenza e di quella della meta finale,
ma in funzione della portata universale dell’avvenimento
centrale, in cui è proprio in vista della redenzione di tutti
che la riduzione (sostenuta dal principio di sostituzione)
attinge il suo punto culminante. Non esiste per il cristianesimo primitivo che questa sola ed unica linea della storia
divina, per la quale, dall’inizio fino alla fine, vale il principio: tutto viene da Dio e va a Dio e tutto è attraverso Cristo, attraverso la Parola» (pp. 212 s.). Per parte sua «la
storia universale si trova inserita nell’accadimento della
salvezza nei tre punti essenziali della linea della salvezza
cristologica. Nella creazione: tutto è creato attraverso Cristo; nella morte e risurrezione di Cristo: tutto è riconciliato
attraverso di lui; nel compimento escatologico: tutto sarà
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sottomesso a Dio, che è tutto in tutti» (p. 213). Naturalmente fra storia della salvezza e storia universale non vi è
coincidenza; gli ambiti restano distinti; sono però correlati
(p. 218). In questa connessione il Nuovo Testamento non
pone il discorso di una «rivelazione naturale»27, ma pone
la tematica del significato che spetta ai pagani alla luce
degli avvenimenti della salvezza (p. 217), pone cioè il problema del loro rapporto con la salvezza (p. 217) e del loro
inserimento in quel piano divino che Paolo ha illustrato
più di ogni altro autore neotestamentario (p. 218). In modo
del tutto specifico il problema si pone per il tempo intermedio, in cui si esplicita la regalità di Cristo su ogni cosa,
sebbene in maniera differente; sulla Chiesa certo, che è il
corpo di cui egli è il capo (p. 221); ma anche sul mondo (p.
222), la cui storia profana serve molte volte da sfondo sia
nell’Antico e sia nel Nuovo Testamento (p. 224), come vediamo emblematicamente in Pilato, «strumento inconscio
dell’avvenimento di Cristo, che egli conduce addirittura al
suo punto culminante, alla decisione sulla croce» (p. 224),
meritandosi, in tal modo, senza esserne cosciente, un riferimento nel Credo28. Il rapporto, strettamente cristologico
(p. 222), si può enucleare così. La Chiesa, il cerchio più
vicino al centro, che è Cristo, è formato certo da uomini
27
Vi era stata negli anni antecedenti a Christus und die Zeit una lunga controversia al riguardo: l’esame dei testi, cui Cullmann si limita, non vi apporta
nulla di nuovo; ma resta un fermo avvertimento (questa volta concorde con Bultmann: p. 216) a non estrapolare indebitamente le tematiche.
28
Cullmann aveva già trattato questo problema (sulla scia del venerato maestro W. Baldensperger, Il a rendu témoignage devant Ponce Pilate, «RHPhR»
1922, pp. 1 ss., 95 ss., in Les premières confessions de foi chrétiennes, pp. 19 ss.
(=La foi et le culte, pp. 61 ss.) cercando di mostrare come l’origine storica della
menzione di Ponzio Pilato nel Credo derivi dal fatto che le più antiche professioni di fede fossero pronunciate, durante le persecuzioni, davanti ai tribunali
pagani; qui allarga sensibilmente il campo, vedendovi un esempio di come (naturalmente con gli occhi della fede del cristianesimo primitivo: p. 218) «la storia
cosiddetta profana si trovi in rapporto con la storia della salvezza» (p. 225).
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peccatori, ma questi uomini «credono nella redenzione di
Cristo» e, in questa fede, sanno che Egli regna su di essi e
sul mondo intero. Il resto del mondo visibile ed invisibile
è anch’esso sotto la sovranità di Cristo (anche di esso Cristo è il centro), ma dapprima senza saperlo. Esso può trovarsi infatti sotto la sovranità di Cristo, anche senza averne
coscienza, in quanto gli è soggetto. La Chiesa invece deve
annunciare al mondo intero che tutti, appartengano o no
alla Chiesa, si trovano sotto la stessa sovranità. Poiché
essa soltanto conosce questo Kýrios Christós, deve annunziarlo a coloro che, senza saperlo, gli sono ugualmente
soggetti e svolgono la funzione loro assegnata (pp. 222 s.).
Questo discorso funge da prolegomeno a tre questioni che
hanno pesato non poco nella storia cristiana: il problema
della accettazione del mondo o della sua negazione alla
luce della storia della salvezza neotestamentaria; il problema dello Stato pagano e cristiano; il problema della sottomissione delle exousíai e del loro persistente, ma limitato
potere. Al primo problema si risponde affermando che «il
credente sa che il mondo nel quale vive passerà, ma sa
anche che questo mondo è, attualmente, ancora voluto da
Dio e dominato da Cristo nel quadro della storia della salvezza» (p. 249), senza acquiescenza indebita (p. 249), senza negazione ascetica (p. 250), senza «febbre escatologica» come quella che regnava a Tessalonica (p. 248). Al
problema dello Stato, che richiama fortemente quello delle
exousíai, da cui risulta determinato (pp. 226-230), al punto
che per Paolo «lo Stato è strumento esecutivo di potenze
invisibili» (p. 231), rapportandosi anche qui al fondamento cristologico29, occorre rispondere così: nella concezione
29
Importante, proprio per la serie di chiarificazioni portate (pp. 242-245),
è il confronto con E. Brunner, Zur christologischen Begründung des Staates,
«Kirchenblatt für die reformierte Schweiz» 1943, pp. 2 ss., 18 ss., 34 ss. Vi è qui
un altro importante punto di contatto con Barth (cfr. p. 223).
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del cristianesimo primitivo «lo Stato non è una realtà ultima, ma prefinale, che scomparirà con l’eone attuale. Nei
suoi confronti, il cristiano si comporterà sempre in maniera vigilante e critica, poiché sa che, dietro a esso, operano
delle potenze che, sebbene inserite nell’ordine divino
(táxis) instaurato dalla vittoria di Cristo, hanno ancora una
certa possibilità di far rivivere di tempo in tempo, sotto
forma di una potenza apparente, le loro demoniache aspirazioni all’indipendenza» (p. 235). Il Nuovo Testamento
non offre una trattazione completa riguardo allo Stato (pp.
239, 243, 245); «lascia anzi aperta una quantità di problemi» (p. 238); si pone infatti unicamente nella problematica
del tempo intermedio, che è quella della regalità attuale di
Cristo (p. 234) e si limita a dire quando uno Stato oltrepassa i limiti fissati dalla táxis divina, mostrando nei riguardi
dello Stato il massimo lealismo possibile (p. 238). Il Nuovo Testamento poi non parla dello Stato in generale, ma
dello Stato romano pagano, che è uno Stato di diritto.
Donde due annotazioni. Innanzitutto occorre rilevare che
gli scritti neotestamentari «presuppongono una concezione secondo cui lo Stato serve Dio e attua la sua volontà,
non per sua essenza, ma in quanto inserito in un determinato ordine» (p. 237); quest’ordine, per Paolo, è la táxis
del regnum Christi, poiché «non si dà altra táxis, dopo
Cristo, all’infuori del regno di Cristo» (p. 240), all’infuori della regalità universale e totale di Cristo sulla Chiesa e
sulle potenze (pp. 233 ss.), così come attestato dalla confessione di fede (p. 226); «uno Stato pagano può essere
uno Stato giusto che rispetta i suoi limiti e serve Dio nel
giudicare il bene e il male e nell’esercizio della vendetta
divina (cfr. p. 236); in quanto Stato pagano, ignora naturalmente di essere membro del regno di Cristo; la comunità di Gesù Cristo lo sa e non deve mai cessare di annunziarlo, soprattutto quando constata che lo Stato si trova in
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pericolo di sottrarsi alla táxis» (p. 240). E in secondo luogo bisogna precisare quando lo Stato, spinto dalle exousíai
che tentano di ricuperare la loro libertà (p. 233), travalica
i limiti della táxis, il che avviene quando «impone al discepolo di Cristo di riconoscere l’imperatore come il
Kýrios divino», impedendogli così «di confessare che
Gesù Cristo è il suo solo Kýrios» (p. 238). Questo dice il
Nuovo Testamento e questo si deve dire da parte di un
esegeta. Ciò non significa però che non si possa «nello
spirito del Nuovo Testamento» (p. 245), andare oltre e interrogarsi sulla natura dello Stato in generale (come fa
Brunner: p. 243) o sui suoi compiti (come ha fatto F.J.
Leenhardt: p. 239); ciò è naturalmente legittimo (come ha
indicato Barth: p. 223), a condizione di mantenere da un
lato il fondamento cristologico (p. 243) e dall’altro (il che
è pressoché la stessa cosa) «la tensione fra presente ed
avvenire, fra già compiuto e non ancora pienamente realizzato» (p. 234) che qualifica il regno di Cristo (p. 244).
Al problema delle exousíai, di cui tralasciamo la disanima
esegetica con le relative polemiche, si deve rispondere
che «le potenze costituiscono già lo sgabello di Cristo e
tuttavia che esse dovranno essere debellate una volta ancora alla fine dei tempo» (p. 234); e anzi che «gli esseri
demoniaci non hanno mai posseduto un potere indipendentemente da Dio, neppure nel tempo anteriore alla venuta di Cristo, in quanto già allora essi erano destinati ad
esser sottomessi attraverso Cristo»; cosicché si può affermare che tali potenze ancor «prima di essere vinte da
Gesù Cristo, non hanno potuto esercitare la loro perniciosa attività, che in vista della loro sottomissione futura» (p.
246). Che tutto ciò, come tutto quello che concerne l’imbricanza fra storia della salvezza e storia universale, sia
comprendibile solo nella fede, non è neppure più il caso
di sottolinearlo (p. 218).
33
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e) Con l’ultima parte, segnata dall’espressione di Col
3,3 (la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio) la storia
della salvezza tocca l’individuo: «la nostra vita personale
viene ancorata nella linea temporale dell’avvenimento di
Cristo che abbraccia il passato, il presente, l’avvenire» (p.
254). L’appartenenza al passato è ben espressa dal concetto neotestamentario di fede, che attualizza per noi la giustificazione, l’elezione personale, l’elezione comunitaria
a lungo annunciate e in Cristo realizzate (p. 256); è così
che si è inseriti «nell’intero avvenimento della salvezza»
(p. 257); ed è in questa partecipazione che si appartiene
al passato della storia della salvezza, che è e diventa il
nostro passato (p. 257; p. 253: tua res agitur!). Tale appartenenza si attualizza nel presente: sono i sacramenti
della cena e del battesimo ad esserne tramite (pp. 257 s.)
ed è lo Spirito a realizzarla, con la specifica tensione che
caratterizza il tempo presente (p. 259). Tale appartenenza
è anzitutto ecclesiale: «anche il più umile servizio, nella
comunità di Cristo appartiene alla storia della salvezza»
(p. 261). Tale appartenenza si manifesta poi nel comandamento (das Gebot) in cui «l’imperativo è saldamente
fondato nell’indicativo» (p. 261), poiché «nessun piano
dell’esistenza umana sfugge al giudizio morale» (p. 266);
«la condizione del presente, caratterizzato come tempo
intermedio, fa sì che il cristianesimo primitivo non stabilisca dei nuovi comandamenti etici generali, ma che, in
ogni momento del presente la decisione etica sia presa
partendo dalla situazione concreta, vale a dire dalla conoscenza del fatto centrale, della sovranità attuale di Cristo
e del fine a cui tende la storia della salvezza» (p. 262);
non si stabilisce quindi nel cristianesimo «un nuovo comandamento», ma «si esige che il vecchio da tanto tempo
conosciuto venga attuato partendo dall’indicativo (Cristo
regna, ora), vale a dire venga radicalmente osservato» e
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applicato ad ogni situazione concreta (p. 263). Qui, come
insegna Paolo, occorre applicare il dokimázein, il discernimento, «chiave di ogni etica neotestamentaria» (p. 265);
è lo Spirito che guida questo dokimázein (p. 265), la cui
legge è l’amore di Dio inverato nell’amore del prossimo
(p. 267). Nello Zwischenzeit «è partendo dall’amore che la
legge veterotestamentaria viene radicalmente attuata» (p.
276). E il punto più alto dell’amore è l’opera di Cristo, «da
cui risulta ciò che Dio esige dal credente» (p. 268). Anche
per il futuro ci si deve muovere su una linea consimile,
poiché «tutto quanto riguarda la risurrezione dei corpo
(così si concretizza il rapporto fra storia della salvezza e
individuo in questa fase) è inseparabile dalla storia della
salvezza» (p. 271). «È proprio della tensione temporale
in cui ora viviamo, tra risurrezione e parusia di Cristo, il
fatto che, come dice Paolo, Dio ci ha liberato e ci libererà
dalla morte» (p. 276); questa è la speranza cristiana (che
già traluce, nel modo che gli è specifico, nel giudaismo
dell’epoca di Gesù: pp. 272-273); essa è tesa fra un fatto
del passato (Cristo è risorto), è ben reale (poiché Cristo
risorto è il primogenito fra i morti e quindi a noi è data la
caparra della risurrezione, tramite lo Spirito), si realizzerà alla fine dei tempi, ponendosi come fatto nuovo e specifico della fase finale. «La speranza nella risurrezione è
comprensibile soltanto partendo dalla stretta connessione
che il Nuovo Testamento stabilisce tra la fede nella già
avvenuta risurrezione di Cristo e la fede nell’azione presente del potere di risurrezione. Poiché fondandosi sulla
risurrezione di Cristo, noi sappiamo di poter sperare nella
risurrezione del corpo, la quale sarà operata dallo stesso
Spirito, che già abita in noi (Rm 8,11). Questo è il fatto
nuovo ed unico che l’avvenire apporterà al credente» (p.
276), nell’ambito più generale di una nuova creazione (p.
270). «I morti dunque vivono anch’essi in uno stato in cui
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sussiste ancora la tensione tra il presente e l’avvenire» (p.
279); certo, coloro che muoiono in Cristo, sono con Cristo
subito dopo la morte (p. 277); però, «nella misura in cui la
trasformazione dei corpi è riservata alla fine dei giorni, la
risurrezione rimane nel Nuovo Testamento, oggetto della
speranza nell’avvenire» (p. 275). «L’apparente contraddizione dei passi in cui si parla della risurrezione del corpo,
alla fine, e quelli che ritengono che ogni singolo cristiano
si trovi con Cristo subito dopo la morte, svanisce non appena si sia riconosciuto che essere con Cristo non significa
ancora risurrezione del corpo, ma unione con Cristo, resa
più intima dal potere di risurrezione dello Spirito Santo»
(p. 279). In questo contesto non bisogna certo appellarsi
«alla fede greca nell’immortalità dell’anima» (p. 269), che
toglie la tragicità della concezione neotestamentaria della
morte (pp. 271-272); e neppure all’idea che la risurrezione dei corpi avvenga immediatamente per ogni individuo
dopo la morte (p. 270). La risurrezione avverrà alla fine,
«miracolo creatore del Dio onnipotente e dispensatore
della vita» (p. 272), grazie all’opera di Cristo Risorto (p.
274) e alla potenza di risurrezione che lo Spirito dà a noi
come caparra, essendo egli «la potenza attraverso cui Dio
ha operato la risurrezione di Cristo» (p. 274). Chiedersi
su come si debba rappresentare questo stato intermedio o
come sarà il corpo risuscitato è del tutto secondario (p.
280). Al Nuovo Testamento basta ribadire che «in coloro
che credono nel Risorto il potere di risurrezione dello Spirito Santo è già in atto e vi resta inalienabile sino alla fine
dei giorni, quando, anche per il singolo credente, la storia
della salvezza troverà il suo compimento specificatamente futuro, in cui Colui che ha risuscitato Gesù Cristo dai
morti, renderà, attraverso lo Spirito, la vita ai nostri corpi
mortali (Rm 8,11)» (p. 281).
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2. Christus und die Zeit illustra in tutte le maniere due
principi fondamentali. Il primo: per il teologo «nella rivelazione si trova un punto di riferimento superiore (a quello
proprio dello storico): tutto ne viene illuminato, tutto vi si
orienta, e gli stessi avvenimenti assumono un significato
che trascende i limiti del tempo, cui sono fisicamente legati, per dare vita a una storia originale, solcata da un dinamismo possente, che la proietta verso il secolo futuro attraverso il presente, e stabilisce un rapporto di compresenza tra Cristo e l’umanità, prima della consumazione
finale»30. Il secondo: «solo alla tradizione apostolica è
possibile attingere la conoscenza della salvezza, perché
solo la tradizione ce ne porta il messaggio, e ce lo rivela
nello svolgersi della storia attraverso la linea temporale
tripartita. Quando Cullmann parla di rivelazione, è ben
lontano dal rappresentarsela come una specie di sistema
definito; essa è invece la viva voce di Dio nei tre momenti
del suo intervento mondano, tenuto conto del rapporto che
i due estremi hanno con quello centrale»31. Donde quel
particolare cristocentrismo che innerva Christus und die
Zeit, anzi ogni testo cullmanniano32, poiché per il teologo
alsaziano «l’unico criterio esegetico, anzi ermeneutico di
cui può disporre il teologo nella determinazione della storia della salvezza è Gesù Cristo, il suo tempo e la sua
opera»33. La Christologie del 195734 intende verificare tutB. Gherardini, La Seconda Riforma, vol. 2, p. 243.
Ibi, vol. 2, p. 245.
32
B. Ulianich, Linee di sviluppo, p. lxv.
33
B. Gherardini, La Seconda Riforma, vol. 2, p. 245; ottime osservazioni
in S. Ubbiali, Cristologie nel quadro della problematica della storia, «Scuola
Cattolica» 105 (1977), pp. 25 ss.
34
Die Christologie des Neuen Testament, Tübingen 1957; tr. franc., Christologie du Nouveau Testament, Neuchâtel-Paris 1959 (da cui citiamo); tr. it.,
Cristologia del Nuovo Testamento, Bologna 1970. Cfr. B. Gherardini, La Seconda Riforma, vol. 2, pp. 245-255; B. Ulianich, Linee di sviluppo, pp. lxvlxxi; K.H. Schlaudraff, Heil als Geschichte?, pp. 243-246. Anche autori come
30
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to ciò in una duplice direzione: mostrando come ogni cristologia si articoli (o si possa articolare) secondo la traiettoria storico-salvifica; mostrando come i risultati raggiunti
confermino e supportino da parte loro l’impianto della teologia cullmanniana. L’assunto fondamentale è quello di far
rivivere, mediante un’accurata analisi delle fonti e nella
linea della tradizione apostolica, la figura, così semplice
nella sua singolarità, di Gesù Cristo. Il metodo è quello di
attingerla, ricalcando il modo con cui il Nuovo Testamento
la presenta e lo fa in maniera forte perché, come attestano
le più antiche professioni di fede (anche qui fondamentali)
«la teologia cristiana primitiva è quasi esclusivamente cristologia» (p. 10). È un modo che si affida a una larga serie
di titoli cristologici, che Cullmann distingue in quattro
gruppi, dei quali l’uno contiene i titoli che esprimono l’incarnazione del Verbo e la sua opera terrestre (il Profeta, il
Servo di Yahweh, il Sommo Sacerdote), il secondo quelli
relativi al Cristo venturo e alla sua opera avvenire (il Messia, il Figlio dell’uomo), il terzo quelli riguardanti la sua
opera presente (il Kýrios, il Salvatore), il quarto quelli
concernenti la sua preesistenza eterna presso Dio (il LoPannenberg (Grundzüge der Christologie, Gütersloh 1964, 19765; tr. it., Brescia
1974) e Moltmann (Der gekreuzigte Gott. Das Kreuz Christi als Grund und
Kritik christologischen Theologie, München 1989; tr. it., Brescia 1991) per non
citare Barth (su cui resta fondamentale lo studio di J.F. Konrad, Abbild und Zeil
der Schöpfung, Freiburg 1962, che dell’ermeneutica cristologica del Barth offre
una valutazione equilibrata), hanno offerto a fondamento delle loro prospettive
un’illustrazione cristologica di rara pertinenza. Nella premessa della sua opera
Cullmann sottolinea due punti, degni di nota: il metodo esegetico che è quello
di ascoltare il testo onestamente, soprattutto senza indebiti adattamenti (p. 8);
non si consideri lo studio come semplice opera di referenza, ma lo si legga interamente, rispettando le interazioni delle diverse parti (p. 7), il che, purtroppo
non sempre è avvenuto, anche perché, nota giustamente Ferrario, in esso «sono
concentrati gli esiti di ricerche che hanno accompagnato la carriera del grande
teologo e che, ancora una volta, lo conducono a proporre una tesi in competizione con quelle, all’epoca furoreggianti, degli esegeti della scuola bultmanniana»
(La teologia del Novecento, p. 202).
38
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gos, il Figlio di Dio). Non possiamo in questa sede seguire
la disamina cullmanniana dei diversi titoli35, che mostra
come «ogni tappa della storia della salvezza ha un significato cristologico preciso; il ruolo del Cristo si stende su e
in tutta quanta la storia; e questa è orientata, incentrata,
condotta da lui. Cristo non è solamente un punto cronologico del tempo, ma è colui che dona la sua realtà ed il suo
senso a ciascuna delle grandi divisioni della storia della
salvezza»36. Rinviando il lettore alla densa conclusione
dell’opera, modestamente intitolata: Prospettive della cristologia neotestamentaria (pp. 276-287), ci limitiamo a
sottolineare tre aspetti, che hanno un ruolo fondamentale
nella caratterizzazione dell’opera e nella discussione se35
Cullmann ha cura di individuare e di riassumere ciò che ogni titolo apporta alla soluzione del problema cristologico così come lo imposta il Nuovo Testamento (pp. 11-13; 42-47; 72-73; 79-94; 115-117; 141-143; 176-205; 208-212;
224-233; 252-265; 266-273). Il metodo d’indagine unisce armoniosamente due
percorsi: «Da un lato il percorso ciclico: partendo da ciascuna delle concezioni
studiate, si tracciano delle linee verso tutti quanti gli elementi della storia della
salvezza, sebbene ciascuna di queste concezioni ne rischiari immediatamente
uno solo, o anche solamente un frammento di essi. D’altro lato, il metodo storico
e cronologico, gemellato con il primo percorso: ogni titolo è esaminato successivamente partendo dalla storia delle religioni e dal suo radicarsi nel giudaismo,
poi, quando lo esige la tematica, con riferimento alle parole e alle reazioni di
Gesù, infine nell’insegnamento particolare di ciascun autore del cristianesimo
primitivo. L’impiego simultaneo di questi due metodi fa apparire il legame che
unisce le diverse soluzioni cristologiche» (p. 276). «Illustrazione decisiva, nota
Carrez, di ciò che può produrre, condotta con cura e competenza, una ricerca
nello stile della Formgeschichte» (Oscar Cullmann: instant et temps, «Foi et
Vie» p. 65, 3[1965], p. 40), assunta, soprattutto per quanto riguarda il problema
del Gesù storico in funzione nettamente positiva (Cristo e il tempo, pp. 54-55;
Christologie, pp. 14-15; Unzeitgemässe Bemerkungen zur historischen Jesus der
Bultmannschule [1960; 19612], in Vorträge, pp. 141 ss.). Come ha sottolineato
Ulianich: «di fatto il Cullmann cerca di giungere, utilizzando proprio le testimonianza di fede come fonti storiche, alla coscienza stessa di Gesù. Egli ritiene
possibile infatti distinguere con criterio oggettivo tra coscienza di Gesù e visuale
delle testimonianze di fede, introducendo all’interno di un vangelo la distinzione
fra loghia di Gesù, che gli evangelisti si limitano semplicemente a trasmettere e
titoli cristologici che essi usano invece di propria iniziativa» (Linee di sviluppo,
p. lxvi).
36
M. Carrez, Oscar Cullmann: instant et temps, p. 44.
39
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guita. In primo luogo: secondo Cullmann, il Nuovo Testamento non presenta alcuna sintesi riguardo alla cristologia, ma considera, sempre sotto nuovi punti di vista, «la
grande linea centrale, comandata dalla storia della salvezza e della rivelazione» (p. 276); il risultato non è certo «un
mosaico frastagliato senza coerenza e senza unità» (p.
276); la sintesi operata dal cristianesimo primitivo si pone
proprio nell’analisi dei diversi concetti, dei differenti titoli
con i quali s’intende dare una risposta alla domanda relativa a chi fosse Gesù, una domanda che può avere una risposta convincente solo se si articola sul principio della storia
della salvezza, che non è quindi uno schema estrinsecamente imposto, ma un movimento intrinseco, una linea
direttrice che il metodo adottato, quasi una spirale, rende
giustificabile a pieno titolo (p. 277). Per questo Cullmann
procede esaminando i singoli titoli cristologici attraverso
tutti gli scritti neotestamentari, notando la svolta operata
dagli avvenimenti della croce e della risurrezione (p. 278),
dal sorgere dell’attesa escatologica (p. 279), dalla rilettura della tematica del Servitore Sofferente e del Figlio
dell’uomo (p. 280), il punto di non ritorno determinato
dalla ferma convinzione della Signoria di Cristo, «radice
principale della cristologia neotestamentaria», elemento
«determinante per lo sviluppo di una cristologia risolutamente orientata sulla storia della salvezza» (p. 280), lo
sforzo di adattamento che l’incontro con il mondo ellenistico impone (pp. 281 s.) e il lungo processo di formazione
(p. 283). E li raggruppa in ordine alla vita, all’azione, alla
passione e morte di Gesù, all’esperienza della sua presenza e della sua ulteriore azione, oltre la morte, nella comunità dei discepoli, alla sua opera escatologica e a quella da
lui compiuta nella sua preesistenza (p. 283). «Il fondamento di ogni cristologia è la vita di Gesù», «in forza della
coscienza messianica di Gesù stesso» e «in forza delle rea40
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zioni che la sua persona e la sua opera suscitano nei discepoli e nel popolo» (p. 278); prima velate (p. 278), poi rese
evidenti dal seguito degli avvenimenti (p. 279), queste
idee imposero l’opera terrestre di Gesù come l’elemento
centrale e la situarono in mezzo a una linea di salvezza,
come cesura decisiva, per un avanti, fino alla parusia e per
un indietro, fino alla creazione, anzi fino alla preesistenza,
ponendo così in luce la realtà unica della sua filiazione e
della sua divinità (p. 281); così la cristologia del Nuovo
Testamento è «concepita in una prospettiva di storia della
salvezza» e quest’ultima non può essere ridotta «a funzione mitica imposta dall’esterno ad un kerigma originariamente estraneo alla storia della salvezza» (p. 277). Così,
come annota Ulianich, «da qualsiasi prospettiva tematica
il Cullmann muova, egli viene sempre ad incontrarsi con
un accadimento che si svolge nel tempo, con la storia della
salvezza: una verità (la verità, l’essenza, il nocciolo del
messaggio: das Zentrale; das Wesen; der Kern) che egli
scopre nelle confessioni di fede e di cui trova, ogni volta,
rinnovata conferma negli scritti neotestamentari. Conferma che in questo caso, trattandosi proprio delle risposte
che i primi cristiani danno al problema di Cristo, assume
un’importanza capitale che ha il valore di una riprova
essenziale»37. In secondo luogo: la cristologia neotestamentaria, proprio perché è legata essenzialmente alla storia della salvezza e di conseguenza proprio perché non è
comprensibile senza una linea della salvezza svolgentesi
nel tempo, è sempre legata a un accadimento storico-salvifico; per questa ragione una cristologia dei titoli cristologici non può che essere funzionale; nel Nuovo Testamento
non si può trattare della persona di Gesù indipendentemente dalla sua opera (p. 285). Esegeticamente parlando,
37
B. Ulianich, Linee di sviluppo, p. lxix.
41
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il Nuovo Testamento non conosce speculazioni sulle due
nature (p. 285): «Poiché il Logos è Dio che si rivela, comunicandosi nella sua azione, e poiché il Nuovo Testamento ha per suo unico oggetto questa azione, ogni astratto speculare sulle nature che Cristo è non solo un’impresa
vana, ma in definitiva, il rifiuto di tenere conto del fatto
che, in virtù della natura stessa del Logos, non se ne può
parlare altrimenti che riferendosi all’azione di Dio» (p.
231). Nota Ferrario: «Il teologo alsaziano è altamente consapevole del proprio compito di esegeta, il che lo porta a
sottolineare quello che egli chiama l’aspetto funzionale o
economico dei titoli cristologici. Essi cioè non costituiscono in primo luogo affermazioni di tipo metafisico e ontologico, bensì modalità per esprimere il significato storicosalvifico di Gesù. Ciò vale anche e proprio per le affermazioni decisive relative al rapporto di Gesù con Dio e
dunque per il linguaggio trinitario adottato dalla fede cristiana. Secondo Cullmann, il Nuovo Testamento permette,
e anzi richiede, di parlare di Dio in termini trinitari, ciò
però, appunto, non direttamente sul piano metafisico, mediante una sorta di descrizione teologica della vita intratrinitaria di Dio, bensì sul piano funzionale. Le affermazioni
sulla Trinità sono descrizioni dell’operare di Dio nella storia della salvezza; si privilegia così un discorso economico
sulla cristologia e sulla Trinità, rispetto a uno immanente.
Una lettura della tradizione dogmatica che sottolinei in
modo unilaterale la dimensione ontologica e immanente
del linguaggio cristologico e trinitario, rischierebbe, per
Cullmann, di allontanarsi in misura pericolosa dalla testimonianza biblica»38. Su questo punto, la discussione sarà
chiarificatrice e feconda, come lo stesso Cullmann riconosce nella prefazione alla terza edizione di Cristo e il tempo
38
F. Ferrario, La teologia del Novecento, pp. 202-203.
42
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(pp. 27-29). In terzo luogo: se il cristianesimo primitivo
non giunge a una sintesi dei vari titoli relativi alle diverse
funzioni di Cristo temporalmente suddivise, questi vengono tuttavia progressivamente collegati (p. 16) e rapportati,
nella coscienza dell’illuminazione dello Spirito Santo, alla
storia della salvezza e partendo dal centro di questa,
espresso dal Kýrios Christós (pp. 15-16; 176-202; 280281). Non solo, ma le diverse soluzioni date al problema
cristologico dal cristianesimo primitivo appaiono sempre
determinate da due principi, che abbiamo avuto occasione
d’incontrare e che orchestrano la cristologia e la storia della salvezza: quello della sostituzione vicaria (Stellvertretung) e quello dell’autocomunicazione di Dio (Selbstmitteilung Gottes), che collegano «le diverse fasi dell’avvenimento fra di loro, cosicché, nella comune prospettiva
della rivelazione, Cristo, in quanto mediatore della creazione, può essere posto sullo stesso piano del Gesù di Nazareth crocifisso» (p. 284). Ciò basta per dire come Christus und die Zeit riceva nella Christologie una fondazione
di rara profondità, come d’altronde la Christologie riceva
da Christus und die Zeit la struttura portante della storia
della salvezza, come più di ogni altro ha illustrato Brunero
Gherardini39.
3.1. Heil als Geschichte, grazie anche al suo sottotitolo Heilsgeschichtliche Existenz im Neuen Testament, pur
volendo essere un approfondimento di Christus und die
Zeit e dei problemi lasciati aperti o troppo brevemente
trattati in quell’opera (pp. 7-8), innova profondamente40.
B. Gherardini, La Seconda Riforma, vol. 2, pp. 250-253.
Heil als Geschichte. Heilsgeschichtliche Existenz im Neuen Testament,
Tübingen 1965; Le salut dans l’histoire. L’éxistence chrétienne dans le Nouveau
Testament, Neuchâtel-Paris 1966; Il mistero della redenzione nella storia, Bologna 1966 (da cui citiamo talora con modifiche). Cfr. G. Müller-Fahrenholz, Heil39
40
43
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«Heil als Geschichte, la salvezza come storia, è più giusto
di Heilsgeschichte, storia della salvezza. Dice meglio il disegno, l’ampiezza del disegno di Dio, un’ampiezza in cui
taluni avvenimenti diventano epifanie, cioè avvenimenti
di Dio in pieno mondo contingente»41; Heilgeschichtliche
Existence vi aggiunge l’amalgana della storia della salvezza e della sua rivelazione che, mediante la decisione
della fede, integra la mia esistenza individuale in questa
storia particolare, qui e ora; di conseguenza se è giusto
dire che «raggiungiamo l’avvenimento solo mediante il
suo significato», dobbiamo ugualmente dire che è proprio
«l’avvenimento storico ad avvicinarci al significato che
assume nel messaggio, così come i testimoni l’hanno consegnato, dato che è proprio l’avvenimento che determina
il significato»42. Il disegno di Dio, così come trasmesso in
quella serie di avvenimenti che nella storia della salvezza costituisce la linea di Cristo e la libertà della decisione
personale si accordano, non si elidono. «Vorrei dimostrare
che è falso porre a fronte esistenza cristiana e storia della
salvezza come due realtà opposte. La visione oggi preferita del cristianesimo primitivo, secondo la quale la storia
della salvezza costituirebbe uno scadimento dalla comprensione esistenziale del kérygma originale, mi pare poggiare su una falsa alternativa. Indubbiamente tutto il Nuovo Testamento contiene l’appello alla decisione della fede,
che implica una nuova comprensione dell’esistenza; ma
non poggia, questo, appunto sulla fede, che si è realizzata e
continuerà a realizzarsi una storia divina, la quale mira sì a
geschichte zwischen Ideologie und Prophetie. Profile und Kritik heilsgeschisclicher Theorien in der oekumenischen Bewegung zwischen 1948 und 1968,
Freiburg 1974; H.G. Hermesmann, Zeit und Heil, pp. 82-187; K.H. Schlaudraff,
Heil als Geschichte?, pp. 98-256.
41
M. Carrez, Oscar Cullmann: instant et temps, p. 57.
42
Ibi, p. 50.
44
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suscitare questa fede, ma non ne dipende? Credere non significa forse inserire hic et nunc la mia esistenza in questo
contesto di eventi? Una fede di questo tipo non è proprio
null’altro che l’errato sforzo di raggiungere una garanzia
con la quale si sconvolgerebbe il vero rapporto originario che lega la coscienza della creatura a Dio, considerato
come il fondamento creatore dell’essere? La conoscenza
della creaturalità della mia natura è possibile solo in base
al presupposto che io ignori da dove vengo e dove vado?
La consapevolezza della mia creaturalità e quella di essere
inserito in un contesto di eventi che mi supera, sono davvero in contrasto fra loro? Nel quadro di questa alternativa, che a me pare falsa, si è rimproverato alla teologia della storia della salvezza di poggiare su un pensiero statico.
Vorrei dimostrare che una storia della salvezza rettamente interpretata, cioè non contrapposta alla comprensione
esistenziale, costituisce invece la più audace espressione
della dinamica profetica della Bibbia e lascia quindi posto
alla libera decisione» (pp. 4-5). Riandando a Christus und
die Zeit ed ai fraintendimenti suscitati (pp. 8-9), Cullmann
precisa con forza due punti: da un lato sottolinea che la
tensione già e non-ancora porta sulla tensione (Spannung)
e non sulla linearità, evitando al lettore attento dell’ultima
parte di Christus und die Zeit tante considerazioni non pertinenti (p. 8); dall’altro rileva: «Non ho mai pensato che
il senso direzionale della storia della salvezza escludesse
ricadute connesse con il peccato dell’uomo davanti a Dio:
se oggi ancora parlo della linea, indicando la direzione generale in cui si muove la storia, tengo ora a sottolineare
che non si tratta di una linea retta, ma di una linea ondulata (Wellenlinie), nella quale possono presentarsi lunghe
deviazioni. Chi pensava che mi dovesse essere contestata
quella semplificazione, era naturalmente portato a rimproverarmi che, secondo la mia concezione, vi era soltanto
45
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un piano di Dio e nessuna contingenza storica, nella storia
della salvezza; ne era conseguita l’errata deduzione che io
non lascerei alcun posto alla decisione. Mi sta particolarmente a cuore eliminare questo errore» (p. 9). Dopo aver
ricordato più volte43 che il piano generale di Dio «include
anche la resistenza dell’uomo, il peccato, ciò che può significare pure perdizione e giudizio» (p. 113), Cullmann
vi dedica un intero capitolo (pp. 161-167). Una lunga citazione può dare il polso: «Per quanto Dio rimanga fedele
alla sua promessa, questa si adempie in un modo che non
è una volta per tutte a disposizione del sapere umano e che
nei suoi particolari è difficilmente calcolabile. Occorre in
primo luogo considerare il peccato dell’uomo, che si oppone al disegno di Dio. In Rm 3,2 ss. e 9-11 Paolo mostra
che Dio può misteriosamente volgere al bene l’incredulità
e il peccato dell’uomo, sì da condurre innanzi il proprio disegno. Paolo respinge con passione la conseguenza che ne
è stata tratta, che l’uomo non sia responsabile del peccato.
Paolo non annulla il coesistere del disegno divino e della
responsabilità umana, anzi lo conserva come insostituibile
parte integrante della storia della salvezza. Così l’incredulità d’Israele diviene occasione per l’accesso alla salvezza
di tutti i pagani, senza che peraltro venga abbandonato il
disegno di Dio iniziato con l’elezione d’Israele. Inoltre,
vista dalla parte dell’uomo, e anche a prescindere dal suo
peccato, la contingenza è costitutiva del modo con cui Dio
svolge il suo disegno. Nella Bibbia il momento e lo scopo
di tale piano sono profeticamente rivelati in anticipo, non
però le singole tappe che vengono invece rivelate negli
eventi che via via si verificano. Questo nesso istituito fra
l’attuarsi ininterrotto del piano divino e la contingenza, i
43
K.H. Schlaudraff, Heil als Geschichte?, pp. 54-59, 76 s., 105 s., 214
s., 235-240, 248; vi attirano l’attenzione sia B. Ulianich, Linee di sviluppo, p.
lxxiv e sia M. Carrez, Oscar Cullmann: instant et temps, pp. 50-51.
46
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ritorni e le deviazioni, si esprime in un proverbio portoghese che Paul Claudel ha posto come esergo al suo dramma Le soulier de satin: Dio scrive dritto, ma con linee
ondeggianti» (p. 164). Il volume, «fortemente sistematico
e a volte anche un po’ pesante nella sua compattezza»44,
fittissimo in referenze (e l’amplissima discussione instaurata dallo Schlaudraff ne è riprova e cartina al tornasole) si
divide in cinque parti.
a) Nella prima, a guisa di prolegomeno, con una corposa presentazione del dibattito di quegli anni, cui più volte
già ci siamo riferiti (pp. 31-78), Cullmann intende ribadire
«l’importanza centrale del problema della storia della salvezza» (p. 76) e della sua ineludibilità (p. 77), da svolgere
senza preclusioni aprioristiche (pp. 15-21), ma con una
particolare attenzione alla storia dei dogmi, in specie alla
lotta contro lo gnosticismo, che si rivelò decisiva (soprattutto nell’intervento di Ireneo45) per l’individuazione «della storia della salvezza come caratteristica fondamentale
del messaggio cristiano» (p. 21; cfr. pp. 23-29). Certo esistono problemi di terminologia (che sono anche problemi
di contenuto: p. 93). Così Heilsgeschichte, che deve essere
usato solamente nel senso del termine oikonomía, come si
trova nel Nuovo Testamento, in Ignazio di Antiochia, in
Ireneo (pp. 93-96) e instaurando per il termine storia solo
un’accezione analogica (pp. 96-98), senza di che è legittima una posizione critica (p. 97); così per escatologia cui
44
G. Jossa, La risposta di Oscar Cullmann, alla scuola bultmanniana sul
problema della rivelazione come storia, intr. a Il mistero della redenzione nella
storia, p. x.
45
Cullmann, che riprende qui spunti già presenti in Cristo e il tempo (pp. 7884, 155-158, 231-232), si fonda sull’ottimo lavoro di A. Bengsch, Heilsgeschichte
und Heilswissen. Untersuchung zur Struktur und Entfaltung des theologischen
Denkens im Werk Adversus Haereses des Hl. Irenäus von Lyon, Berlin 1957, che
ora riceve conferma dallo studio di Ph. Bacq, De l’ancienne à la nouvelle Alliance selon st. Irénée. Unité du livre iv de l’Adversus Haereses, Paris 1978.
47
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va conservato «un carattere temporale intrinseco», senza
ridurla ad un «tempo di decisione» (p. 98-100); così per
apocalittica, termine a lungo usato in senso peggiorativo,
ed ora giustamente rivalutato (sebbene non senza qualche
unilateralità: p. 102), a condizione che «la visione del futuro sia radicata nell’intera storia della salvezza» (p. 104) e
si ponga quindi come «un prolungamento legittimo dell’escatologia profetica» (p. 102). Ed esistono anche problemi
di tipo ermeneutico: certo non esiste un’esegesi senza una
qualche precomprensione o un qualche presupposto46; è
però possibile evitare storture applicando adeguatamente
il metodo critico-storico-filologico; e questo per affermare
nettamente: «se la decisione di fede di cui si parla nel Nuovo Testamento implica realmente che ci auto-inseriamo in
quel seguito di avvenimenti, quest’ultimo non può essere
demitizzato, cioè destoricizzato, deoggettivizzato» (p. 86).
Cullmann si arresta qui; a lui preme conservare una distinzione netta fra soggetto e oggetto, fra avvenimenti oggettivi della redenzione e la loro appropriazione soggettiva,
per fede; e sottolineare che tale distinzione non è né falsa,
né superata (p. 85). Da più parti gli si è contestata questa
scelta47 e si è invitato Cullmann ad approfondire la sua posizione48. Richiesta certo legittima, ed anche condivisibile,
soprattutto per chi ritiene carente ed aporetica la visione
del Bultmann49. Cullmann però, proprio per le opzioni che
46
Cullmann rivendica l’apporto fornito nei suoi primissimi lavori (p. 82):
Les récentes études sur la tradition évangélique (1925) e soprattutto Les problèmes posés par la méthode exégétique de Karl Barth (1928) =Vorträge, pp.
41 ss. e 90 ss.
47
L. Bini, L’intervento di Oscar Cullmann, pp. 59 ss., 63 ss., 278 ss.; L.
Malevez, Les dimensions de l’histoire du salut, «NRTh» 86 (1964), pp. 571 ss.
(=Histoire de salut et philosophie, Paris 1971, pp. 175 ss.); G. Jossa, La risposta
di O. Cullmann, pp. xvi-xx.
48
M. Carrez, Oscar Bultmann: instant et temps, pp. 55-58.
49
In particolare B. Gherardini, La Seconda Riforma, vol. 2, pp. 405-496 con
pagine di rara pertinenza.
48
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guidano la sua ricerca, rimane sulla sua posizione. Ci sono
dunque delle innovazioni, tese però a preservare la visione
d’insieme raggiunta precedentemente, rispondendo, ancora una volta, al problema, fondamentale50, dell’essenza del
messaggio neotestamentario (p. 15).
b) La seconda (come si è formata la concezione della
salvezza: pp. 95-180) e la terza parte (pp. 181-249: caratteristiche fenomenologiche) intendono (e si nota subito lo
spostamento intervenuto) verificare «se realmente l’escatologia di Gesù nella sua intima essenza possa essere svuotata della sua temporalità in base a una interpretazione esistenziale e quindi contrasti radicalmente con la storia della
salvezza, ovvero se invece, con ciò che io chiamo tensione
fra già e non ancora non venga offerto, non dico una storia
della salvezza, ma almeno un punto partendo dal quale il
cristianesimo primitivo ha potuto giungere a una concezione storico-soteriologica» (p. 46). Già abbiamo avuto
modo di considerare taluni punti chiave del percorso cullmanniano: l’avvenimento e la sua interpretazione, che
giustifica come necessaria l’introduzione della categoria
del profetico nella visione biblica della storia della salvezza; la susseguente relazione, determinata dall’acquisizione del centro cristologico, fra storia della salvezza
e storia; l’interpretazione del mito come storicizzazione.
Qui ci limitiamo esclusivamente a sottolineare taluni punti fondamentali.
Riportiamoci innanzitutto al quadro d’insieme: «Per
definire l’essenza del messaggio neotestamentario bisogna
tenere conto di una concatenazione di avvenimenti, che
non è un puro quadro esteriore, bensì fondamento»; «questo significa che la Scrittura ci vuole invitare a riconoscere
un piano divino nella correlazione e nello sviluppo pro50
K.H. Schlaudraff, Heil als Geschichte?, pp. 52-54 e 181-195.
49
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gressivo degli eventi»; «circa poi il formarsi della storia
neotestamentaria della salvezza, si deve tener presente che
tutti gli avvenimenti, quelli passati come quelli presenti e
quelli attesi nel futuro sono condensati in un avvenimento che costituisce il punto culminante e centrale, la morte di Gesù sulla croce e la risurrezione che l’ha seguita»
(pp. 108-110), avvenimento «che ha portato a una nuova
comprensione» del passato (p. 112), che viene attualizzato
nel presente come elemento essenziale (p. 111) e che «resta decisivo e normativo per tutti i tempi, per il passato,
per il presente e per il futuro» (p. 112). In secondo luogo,
nel considerare la relazione fra gli avvenimenti e la loro
interpretazione, che si concretizza in un «reciproco rapporto» (p. 113) e in una interazione (p. 119), pur tenendo
nel massimo conto che la situazione odierna dell’esegeta
è ben diversa da quella dei testimoni biblici (p. 123), occorre evitare una duplice unilateralità. Da un lato: non si
deve dedurre che «nel processo di formazione mito e avvenimento storico avessero la medesima importanza e che
quindi l’avvenimento, quanto alla sua funzione, dovrebbe
essere equiparato al mito e che entrambi avrebbero unicamente lo scopo di esprimere, oggettivandolo, un kérygma
che sta al di là del mito e al di là della storia e che va compreso in senso esistenzialista» (p. 120). Dall’altro: «non
è lecito considerare l’indagine storico-morfologica come
se il suo unico scopo fosse quello di rendere avvertibile il
distacco insuperabile fra kérygma e storia. Essa deve permetterci anzitutto di risalire dal kérygma all’avvenimento
che ha dato occasione all’interpretazione, e più oltre ad
altre interpretazioni kerygmatiche tramandate oralmente e
agli avvenimenti che stanno loro alla base. Dopo di ciò,
saremo in grado di percorrere per così dire insieme agli
uomini della Bibbia la via che porta dagli avvenimenti alle
loro interpretazioni, cosicché sarà posto in luce non soltan50
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to il distacco fra avvenimento e interpretazione, ma anche
il collegamento positivo nel quale quegli uomini individuarono la rivelazione portatrice di salvezza» (p. 124)51.
In terzo luogo si deve sottolineare l’ephápax decisivo e
normativo dell’intera storia della salvezza (p. 129), la cui
verticalità implica l’orizzontalità52: «da un lato l’evento
verificatosi nell’Incarnato include l’intera storia della salvezza precedente e seguente, dall’altro si inserisce in essa.
Non è possibile abbandonare l’orizzontalità, richiamandosi al significato normativo dell’evento di Cristo; ma non è
neppure lecito disconoscere il carattere unico dell’evento
Cristo, confondendolo con tutti gli altri avvenimenti della
storia della salvezza» (p. 130). Questo ephápax importa un
principio di continuità nel quadro della storia della salvezza: «da un lato con l’avvenimento considerato centrale e
con il relativo kérygma risalente allo stesso Gesù; dall’altro, molto più indietro, con il kérygma presente nell’Antico
Testamento» (p. 133). «Il principio di continuità, caratteristico di ogni storia della salvezza, viene personificato qui,
al culmine dell’intero processo storico-soteriologico, nella
persona di Gesù Cristo: i nuovi avvenimenti, che riassumono tutti quelli precedenti, vengono compiuti dall’Unico» (p. 134).
Qui si apre (ed è la quarta costatazione) una questione importante53: «come la tradizione orale della comunità
51
Cullmann contrasta in particolare H. Conzelmann, Gegenwart und Zukunft in der synoptischen Tradition, «ZThK» (1957), pp. 277 ss. che invita,
nell’indagine storico-morfologica, a «ragionare partendo aprioristicamente dalla
frattura (denken vom Bruch) fra kérygma e storia» (p. 125).
52
Cullmann vi insiste per rispondere a critiche di scuola barthiana (pp. 9-10;
75-76); meno centrata ci pare invece la critica, espressa peraltro con riserve,
alla posizione di Balthasar (p. 130), di cui Cullmann è estimatore (cfr. la notizia
necrologica: «Basler Zeitung» 2 luglio 1988, p. 37).
53
Essa implica la ripresa, ancora una volta, del problema del Gesù storico e
del Cristo kerygmatico (pp. 137-150) con una discussione puntigliosa (cfr. K.H.
Schlaudraff, Heil als Geschichte?, pp. 131-150) e con un continuo rimando ai
51
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primitiva ha reinterpretato il messaggio annunciato dallo stesso Gesù incarnato» (p. 133). I primi testimoni dei
nuovi avvenimenti riferiti alla risurrezione sono infatti «al
tempo stesso, come testimoni oculari del Gesù incarnato,
garanti del kérygma immediatamente precedente che risaliva a Gesù. Essi non devono collegare soltanto, come gli
uomini dell’Antico Testamento, i nuovi avvenimenti da
loro vissuti dopo la morte di Gesù con altri vissuti da precedenti testimoni, in parte in un lontano passato, bensì devono collegarli in primo luogo con avvenimenti di cui essi
sono stati testimoni oculari: gli avvenimenti della vita di
Gesù» (p. 133), onde far risaltare «che il Gesù incarnato e
il Glorificato si identificano, ovvero che l’Incarnato continua a operare come il Glorificato» (p. 134). Naturalmente (e questo è il filo conduttore del vangelo giovanneo) «il
significato della vita di Gesù, inquadrata nella storia della
salvezza, si chiarì ai discepoli soltanto dopo la sua morte
(il «ricordarsi» giovanneo), e grazie all’opera del Paraclito, che li conduceva nella verità» (p. 135); prima i discepoli non avevano compreso (o compreso solo a sprazzi:
p. 13454), ma «in relazione con i nuovi avvenimenti, il
ricordo acquistò un altissimo valore di rivelazione per la
reinterpretazione del kérygma che risaliva a Gesù» (p.
135); «a posteriori si fece chiaro per loro che tutto ciò che
avevano visto e udito, la vita e la predicazione di Gesù,
era stato rivelazione, anzi, la rivelazione decisiva della
redenzione» (p. 135). «Alla luce degli eventi di Pasqua
diviene chiaro per i discepoli che essi avrebbero potuto,
già allora, comprendere non soltanto gli avvenimenti, ma
dati della Christologie. La ripresa della discussione in Der johnneische Kreis,
Tübingen 1975 (tr. franc.: Genève 1976) non fa che confermare queste tesi.
54
Con rinvio al fondamentale contributo L’apôtre Pierre, instrument du diable et instrument de Dieu, in New Testament Essays. Memorial T.W. Manson,
Manchester 1959, pp. 94-106 (=Vorträge, pp. 202 ss.).
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anche la relativa interpretazione che va dall’Incarnato al
Glorificato» (p. 138), rivelazione che fonda il susseguente
sviluppo «che porta dall’interpretazione di Gesù all’interpretazione che i discepoli danno in base agli eventi della
Pasqua» (p. 139). La continuità che qui si riscontra non
deve essere garantita dall’appello alla decisione (p. 139),
ma proprio dalla coscienza messianica di Gesù (p. 140),
«tema fondamentale, audacissimo, del messaggio cristiano primitivo: che cioè Gesù si è ritenuto non solo l’annunciatore, ma il compitore della storia della salvezza d’Israele e che in particolare ha considerato la sua morte come la
morte espiatrice che porta a compimento il senso di tutta
questa storia della salvezza» (p. 141). La continuità consiste nell’affermazione di un kérygma storico-soteriologico, «che rientra nella linea delle interpretazioni e reinterpretazioni storico-soteriologiche dell’Antico Testamento,
anche se esso si presenta come l’adempimento decisivo»
(p. 144) e che si riferisce «al kérygma del Gesù storico,
alla sua vita e alla sua predicazione» (p. 145). È stato lo
stesso Gesù storico a determinare il suo inserimento nella
storia della salvezza. Più ancora di tutti i rivelatori precedenti, Gesù, che annuncia l’evento decisivo di tutto il
processo storico-soteriologico, ha avuto la convinzione di
fare parte anch’egli, in modo determinante, di questo processo, nella sua qualità di rivelatore dell’evento decisivo»
(p. 147). Questa acquisizione è fondamentale, secondo
Cullmann: precisa il carattere degli avvenimenti della comunità primitiva, che determinano le reinterpretazioni (p.
149), mettendo a fuoco il tema del «ricordo» e il ruolo del
Paraclito (p. 148); li intreccia «strettamente» con il Gesù
incarnato, il cui kérygma, la cui autorivelazione in parole
ed in opere è considerata decisiva (pp. 144-145, 147, 149150); li inserisce in un quadro di storia della salvezza, in
cui gli eventi appellano sì alla decisione della fede, senza
53
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con ciò abdicare al loro ruolo storico: «se è vero che per
Paolo credere significa: credere che, prima della mia fede
e a prescindere da essa, la mia redenzione è stata conseguita, allora appello e decisione non dipendono in primo
luogo da una rivelazione concernente la mia esistenza,
bensì da una rivelazione su un contesto di eventi attuati da
Dio e solo perciò da una rivelazione concernente la mia
esistenza» (p. 152). Quest’ultimo aspetto è ulteriormente
illustrato da Cullmann, insistendo sul fatto che la fede, nel
Nuovo Testamento, si riferisce effettivamente alla storia
della salvezza (pp. 151-156), seppure attraverso la mediazione, determinante, della fede dei testimoni (pp. 156159), con una decisione fondata e radicata in tale processo
(p. 159): «decisione per i testimoni del Nuovo Testamento» è «inserirsi in un preciso piano divino» che «non è
certo a disposizione dell’uomo, né scorre in modo rettilineo, ma piuttosto secondo linee ondeggianti e in modo
che a noi è attualmente oscuro nei suoi particolari»; «pur
tuttavia, tale piano, in tutto il suo movimento verso una
meta precisa, viene rivelato ai profeti e agli apostoli e per
mezzo di loro, cioè in ultima analisi per mezzo dello stesso Cristo e viene ricevuto per mezzo dello Spirito Santo»;
«questa fede e queste decisioni scaturiscono dal fatto di
essere stati afferrati dagli eventi e dalla conoscenza del
loro nesso» (p. 160), cioè, nella sostanza (p. 169), con il
quadro della storia della salvezza, che nelle epistole paoline (ma non solo), partendo a volte dalla messa in evidenza
di un solo elemento (p. 171), è sempre supposto nella sua
totalità temporale («una visione storica della redenzione, rivolta sia al passato che al presente e al futuro»: p.
171; mai in maniera solo «isolata» e «sporadica»: p. 170),
così come accade anche, fatte salve le regole del genere,
nella tipologia (pp. 176 s.) e nell’allegoria (pp. 177-180).
Questi dati concernono una lettura rinnovata, come ab54
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biamo visto, di annose questioni quali quelle del rapporto
storia-mito (la «storicizzazione» del mito: pp. 183-201)
e dell’interconnessione storia neotestamentaria della salvezza e storia (pp. 203-223); al termine viene riaffermata la tensione storico-soteriologica fra già e non ancora55
come chiave interpretativa della storia neotestamentaria
della salvezza (pp. 225-249); in quest’ultima non è certo
escluso l’appello alla decisione, ma esso va inserito nel
quadro generale con chiare caratteristiche temporali (pp.
230-231). Poiché più volte abbiamo descritto questa tensione costitutiva56 che deve essere presa estremamente sul
serio nella sua «temporalità lineare», nel suo inserimento
«nel processo storico orizzontale» (p. 239), ci limiteremo
qui a notare le «integrazioni» (p. 226) portate a Christus
und die Zeit, già riecheggiate nello sguardo retrospettivo
della terza edizione dell’opera (1962).
55
«L’elemento nuovo, nel Nuovo Testamento, non è l’escatologia, bensì
ciò che chiamo la tensione fra il decisivo già-adempimento e il non-ancoracompletamento tra presente e futuro». E in nota: «Purtroppo nelle nostre lingue
moderne non si trova un aggettivo corrispondente. Uno dei miei discepoli mi
ha proposto, dal greco, il termine taseologico (da tasis= tensione), perché l’aggettivo escatologico, a rigore, ha soltanto il generico significato di finale e non
esprime quella tensione fra presente e futuro che è appunto costitutiva dell’escatologia storico-soteriologica. Il vocabolo taseologia si avvicinerebbe quindi
maggiormente al significato neotestamentario dell’escatologia. Ma è meglio non
appesantire ulteriormente con termini stranieri incomprensibili il nostro già sovraccarico greco teologico» (p. 233).
56
«Autentico nerbo di tutto questo mio lavoro» (p. 236). Per questo Cullmann riprende ancora una volta, approfondendo quanto detto antecedentemente (pp. 31-78), a guisa di anticipazione (p. 236) della quarta parte (pp. 251
ss.), la discussione con Bultmann, con la sua scuola, con il Dodd e anche con
W. Kreck, sebbene in prospettiva ben specifica che cercheremo di delineare.
Anche in quest’occasione, discutendo con Barth, e con esplicito riferimento
alle polemiche seguite alla Christologie, Cullmann distingue accuratamente
le prospettive del dogmatico e quelle dell’esegeta del Nuovo Testamento: «Il
problema puramente speculativo, lecito solo al dogmatico, se dal punto di vista di Dio, Signore del tempo, il futuro sia futuro, non è neppure concepibile
nell’ambito del Nuovo Testamento, che ha appunto per unico oggetto l’agire
di Dio nel tempo» (p. 239).
55
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Ne rileviamo tre. Viene innanzitutto ribadito e precisato il nesso che lega tutte le epoche fra di loro (p. 226) e
nello stesso tempo la vera diversità di fondo di ciascuna di
esse, nel flusso della storia della salvezza (p. 229). In secondo luogo, nella caratterizzazione del tempo intermedio
in senso storico-soteriologico («concezione solo accennata in Gesù, giunta a pieno sviluppo in Luca»: p. 228),
illustrata quanto al suo contenuto dal compito concreto di
«annunciare a tutto il mondo, in questo lasso di tempo, l’evangelo della croce e della risurrezione di Cristo, in forza
dello Spirito Santo già operante e irradiante dalla Chiesa,
in vista della fine» (p. 229), si sottolinea la dialettica fra
già e non ancora (pp. 232-233), con un riferimento alla
dinamica interna delle confessioni di fede (pp. 231-232);
lo schema storico-soteriologico, «base comune di tutto il
Nuovo Testamento» (p. 234), non implica «alcuna frattura
fra Gesù e la Chiesa primitiva» (p. 234), non è una «deformazione secondaria» (p. 236), non è asservibile ad uno
«sviluppo protocattolico» (p. 235); contrariamente a quanto avviene con Schweitzer, Dodd, Kaesemann (ed in misura non minore in Kreck) la tensione deve esser conservata
(p. 235) e la Temporalität lineare non può essere ricondotta a semplice Zeitlichkeit (come vuole Bultmann), sebbene
la includa (p. 237). In terzo luogo occorre soffermarsi su
questa dialettica, che pone il presente, «in modo teologicamente significativo» (p. 237), fra passato e futuro. Quando
si parla del «già», occorre certo riconoscere che esso «è
un’irruzione verticale» e che «racchiude virtualmente in
sé l’intera storia divina della redenzione», ma altrettanto
bisogna affermare che «si inserisce in un processo storico
orizzontale» (p. 238); bisogna quindi sottolineare che la
tensione, che pure è risolta nell’evento decisivo di Cristo,
sussiste sempre, «poiché l’anticipazione della fine in Cristo
è anticipazione in lui solo e poiché l’evento di Cristo solo
56
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alla fine si dispiega, in prospettiva storico-soteriologica,
nella sua universalità e nel suo carattere permanente» (p.
239; cfr. pp. 248, 351, 365); «il fatto che il decisivo evento
futuro è già anticipato in Cristo non impedisce, secondo il
Nuovo Testamento, che avvenimenti specificamente futuri, pur essendo virtualmente contenuti nel fatto decisivo
di Cristo, nella sua morte e risurrezione, attendano ancora
il loro realizzarsi», si pensi solo a «tutto ciò che è in relazione con la risurrezione del nostro corpo trasformato
dallo Spirito e con la nuova creazione» (p. 240). Proprio il
«non-ancora» che ne deriva impedisce di ridurre l’escatologia57 a «demondanizzazione» (p. 242). E proprio questo
struttura la tensione del tempo intermedio (p. 244). Siamo
«nell’ultima ora» (p. 246); «la battaglia decisiva è vinta,
ma la guerra continua ancora per un certo tempo» (p. 247,
per riprendere l’immagine di Christus und die Zeit); e «gli
effetti concreti di questo tempo intermedio si manifestano
nel fatto che esso è il tempo dello Spirito Santo escatologico che già rinnova ogni cosa, il tempo della Chiesa, il
tempo della predicazione dell’evangelo al mondo, prima
che venga la fine» (p. 247). Sostenendo questa prospettiva non si fa opera di «armonizzazione forzosa» (come più
volte è stato detto: p. 247), ma si tocca il cuore del Nuovo
Testamento (p. 247); essa permette di misurare la distanza
con il passato d’Israele che l’evento decisivo compie ed
integra (p. 248); essa consente anche di anticipare il futuro
(in modo esemplare nel culto), radicandolo nella decisività
57
Allora poco in auge (p. 241); le cose muteranno (grazie a Pannenberg,
Moltmann, Sauter e alla reviviscenza dell’apocalittica) proprio in quegli anni;
Cullmann ha il merito di situare bene la tensione: «Secondo il Nuovo Testamento non è più concepibile alcun futuro senza la vittoria che Cristo ha già riportato
sulla morte; eppure le dichiarazioni relative al futuro, radicate in questo passato, additano un evento conclusivo dell’intero processo soteriologico, evento
che prima della fine non è ancora attuato in nessun luogo nella sua definitività»
(p. 241).
57
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dell’evento compiuto, eppure ancora da compiersi in maniera definitiva (p. 249).
c) A questo punto, chiarificate lungamente le prospettive specifiche in un dialogo serrato con Bultmann e al sua
scuola – ed il lettore non avrà difficoltà a cogliere i numerosi spunti di discussione, dovunque disseminati58 –
a Cullmann spetta il compito di offrirne una puntigliosa
prova esegetica. È quanto avviene nella quarta parte (le
posizioni neotestamentarie fondamentali: pp. 253-359).
Non possiamo in questa sede analizzare questo blocco di
rara penetrazione59, svolta capitale nell’impostazione della
problematica60. Vi si troverebbe una conferma dettagliata
delle posizioni più volte incontrate: non è possibile individuare quella grossa «frattura» che Bultmann ed i suoi
discepoli pongono fra Gesù, Paolo e Giovanni da un lato e
Luca e gli scritti «protocattolici» a lui apparentati dall’altro, tale da far ritenere la storia temporale della salvezza come un elemento estraneo al nucleo essenziale del
kérygma primitivo; sussiste indubbiamente una differenza
non trascurabile fra l’attesa di una fine a breve scadenza
da parte di Gesù e l’ammissione, tosto affermatasi, che il
tempo intermedio avrebbe avuto durata indefinita; però la
fondamentale e originale storia della salvezza costituisce
l’elemento di collegamento fra l’una e l’altra; essa era già
presente in abbozzo nella predicazione di Gesù («frammenti storico-soteriologici, i quali tuttavia presuppongono una visione storico-soteriologica generale»: p. 255) e
non se ne deve dissolvere la temporalità a vantaggio di
un kérygma esistenzialistico; «non l’abbandono di un’attesa di una fine prossima, bensì l’abbandono della tensione
G. Jossa, La risposta di Oscar Cullmann, p. xi.
K.H. Schlaudraff, Heils als Geschichte?, pp. 175-180.
Ibi, pp. 171-175 e, limitatamente a Giovanni, anche H.G. Hermesmann,
Zeit und Heil, pp. 170-176.
58
59
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propria della storia della salvezza significa allontanamento dall’essenza più vera del messaggio neotestamentario»
(p. 335). Già antecedentemente, riferendosi al manifesto
dello Heidelberger Kreis, e in particolare al contributo di
Ulrich Wilckens61, Cullmann notava come l’autore, pur
largamente debitore della scuola bultmanniana, non condividendone la base esistenzialista (p. 70), si distaccasse
su punti importanti e, per il nostro assunto, decisivi: «nella
valutazione positiva dei fatti e quindi anche a proposito
del problema del Gesù storico, ove egli pone l’accento sul
destino di Gesù; nel valore attribuito all’apocalittica; ma
soprattutto nel riconoscimento del grande merito di Luca:
questi, con la sua teologia d’indirizzo storico-salvifico –
che avrebbe conservato la conoscenza, fondamentale per
la fede cristiana, dell’autorivelazione di Dio avvenuta nella storia – avrebbe il medesimo orientamento di Paolo – in
tal modo viene distrutta una delle armi fondamentali della
scuola bultmanniana» (p. 11) e quindi «non dobbiamo rendere Luca responsabile della grande defezione dalla posizione paolinica» (p. 335)62.
Cullmann può quindi esporre i capisaldi della sua tesi.
«Da qualunque punto di vista consideriamo la predicazione di Gesù giungiamo alla conclusione che per lui la
61
U. Wilckens, Die Offenbarungsverständnis in der Geschichte des Urchristentums, in Offenbarung als Geschichte (1961), pp. 42-90 (tr. it. Rivelazione come storia [1969], pp. 91-161). Sul rilevante posto di Wilckens nell’ambito
dello Heidelberger Kreis cfr. il nostro Ritratto di W. Pannenberg, «Teologia del
presente» 2, 2(1972), pp. 91-92.
62
E però aggiunge: «Il saggio di Wilckens contiene molti giudizi di fronte
ai quali ci si domanda se siano presi più o meno semplicemente dalle posizioni bultmanniane e se Wilckens, in base alle premesse esposte nello scritto
programmatico, non avrebbe dovuto in realtà giungere a conclusioni diverse.
Penso ad esempio alla sua trattazione sul titolo del Figlio dell’uomo, che sarebbe stato attribuito a Gesù soltanto dalla comunità primitiva (cfr. p. 142),
ma soprattutto a ciò che scrive a proposito dell’evangelo giovanneo, nel quale,
d’accordo con la scuola bultmanniana, vede la vicenda di Gesù spogliata del
suo carattere storico» (p. 71).
59
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storia della salvezza è più che una forma concettuale di
formale derivazione giudaica: essa è intimamente legata
alla coscienza che egli ha di sé e alla sua visione profetica
dello svolgersi del presente, al cui centro sta egli stesso.
Sebbene Gesù non abbia formulato alcuna periodizzazione, come avvenne più tardi, e in lui si trovino solo le prime
tracce di una storia della salvezza compiutamente formulata, la storia della salvezza ha per lui non solo il medesimo valore che ha per i cristiani della Chiesa primitiva,
bensì un valore ancora maggiore: infatti egli è colui che
contemporaneamente attua i fatti decisivi del piano divino
e colui che proclama la rivelazione su questi fatti e sul
posto centrale che essi occupano nel piano globale di Dio.
Il suo sguardo abbraccia passato, futuro e presente. Interpretare gli eventi che si sono verificati prima di lui e quelli
che si verificano per mezzo suo, significa, per lui come per
i profeti, inserirli nella storia della salvezza, ma in modo
tale che la sua rivelazione e la sua opera divengono ora
il punto culminante dell’intera storia della salvezza e l’adempimento della storia d’Israele» (p. 319). Per Gesù cioè
si devono dipanare positivamente63 le seguenti questioni:
si trova già nella predicazione di Gesù la caratteristica tensione storico-soteriologica fra adempimento nel presente e
compimento in un futuro temporale? (pp. 263-284); la sua
attesa di una fine prossima implica davvero indifferenza
nei confronti di un presente in cui si veda un periodo soteriologicamente significativo? O non ha invece proprio
questo presente il suo posto obbligato sia nell’appello alla
decisione rivolto da Gesù e sia nelle sue istruzioni etiche
per sostenere la prova? (pp. 284-311); il tempo intermedio, per quanto breve lo si pensi, si prolunga pur sempre,
63
Sui criteri da adottare circa l’autenticità o meno dei detti escatologici di
Gesù: pp. 256-263.
60
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seppure brevemente, dopo la morte di Gesù? Il pensiero di
Gesù, di conseguenza, è impostato secondo una prospettiva storico-soteriologica, cosicché egli veda il presente
come adempimento non solo del futuro, ma anche del passato di questa storia della salvezza che viene attualizzata?
(pp. 311-318).
Quanto a Paolo (e già Wrede aveva notato che egli pensa con categorie storico-soteriologiche e che la storia della
salvezza costituisce il nerbo della sua fede: p. 337, non
quindi «soltanto un residuo del suo passato giudaico»: p.
338, «un quadro formale, temporalmente condizionato»
da demitizzare: p. 33864), non è difficile dimostrare come
egli interpreti la sua specifica vocazione alla predicazione
ai pagani: un mandato forte espressosi in un’apokálypsis
(p. 340), ma al tempo stesso una rivelazione sull’intero
piano divino della salvezza (p. 341), legata a quegli eventi
decisivi che sono croce e risurrezione (scandalo per i giudei e follia per i pagani: pp. 343-344) e culminante nella
grandiosa visione storico-soteriologica di Rm 9-11, che è
tutt’altro che una «complicata speculazione» come vuole
Schoeps65. Se è vero che Paolo accentua l’«adesso della
decisione», è altrettanto vero che lo subordina sempre al
contesto storico-soteriologico (p. 346) ed il pensiero sotteso a Rm 9-11 (con il suo tipico coordinamento fra la costante della fedeltà di Dio e la piena contingenza storica
di questo piano divino: p. 341, in cui il peccato dell’uomo
64
Cullmann adotta come emblematica per la posizione della scuola di
Bultmann la trattazione di G. Klein, Röm. 4 und die Idee der Heilsgeschichte,
«EvTh» 1963, pp. 424 ss. che è in effetti molto sintomatica; senza poter entrare
nei dettagli, notiamo che la recente ricerca su Paolo (si pensi solo a K. Stendahl,
E.P. Sanders, J.C. Becker, J. Dunn, F. Watson, N.T. Wright, G. Barbaglio per
offrire qualche raccordo) conferma con autorevolezza non poche prospettive
cullmanniane, come mostra la sintesi di G. Barbaglio, Coerenza del pensare
teologico di Paolo, «Studia Patavina» 50 (2003), pp. 959-970.
65
H.J. Schoeps, Paulus, Tübingen 1959, pp. 231 ss., 259 ss., 273 ss.
61
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gioca un ruolo determinante: pp. 360-363) «percorre tutta
quanta l’opera e la riflessione dell’apostolo» (p. 342). Per
quanto «il tempo sia ormai abbreviato», secondo Paolo,
«il tempo intermedio è per lui un anello assolutamente indispensabile del piano redentore di Dio» (p. 345) e tutta la
teologia paolina è dominata, di conseguenza, dalla tensione fra già e non-ancora, essenziale a una visione storicosoteriologica (p. 347), sebbene in più di un’occasione Paolo accentui il già (p. 351), senza peraltro misconoscere la
tensione fondamentale. Lo si verifica senza difficoltà nella
sua pneumatologia (che, in maniera audacissima, coinvolge l’attesa di tutta la creazione: pp. 347-348); nell’ecclesiologia (pp. 349-350); nell’etica (che è «un’etica di
tensione»: pp. 350-351); nella sua sacramentologia («i sacramenti non avrebbero alcun significato, se il tempo intermedio non presentasse un interesse storico-soteriologico: in esso sia l’attualizzazione del passato che l’anticipo
dell’avvenire realizzano entrambe il già»: p. 352), dove
proprio il legame instaurato fra circoncisione e battesimo
offre a Paolo una concatenazione su cui è il primo a riflettere (p. 354), aprendo a un’efficace rilettura della storia
teologica d’Israele (p. 357); nella sua rilettura della teologia dell’elezione (pp. 358-362); nella sua visione di ciò
che ancora si attende, quando «la potenza di risurrezione
dello Spirito Santo, che è già all’opera con tanta forza, al
definitivo apparire escatologico di Cristo afferrerà anche
la creazione, anche i nostri corpi mortali che le appartengono» (p. 363).
Per quel che riguarda il quarto vangelo (e gli scritti a
esso apparentati), che certo ha caratteristiche ben specifiche (p. 366), non solo vi si trova una prospettiva storicosoteriologica, ma essa «vi è anzi presente in modo particolarmente accentuato» (p. 367), se si tiene presente che
l’evangelista «espone tutta la storia della salvezza conden62
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sandola, in modo a lui caratteristico nella vita di Gesù» (p.
384). È proprio nella vita del Verbo Incarnato, e l’evangelista lo ha premesso nel prologo, che si realizza il punto culminante che dà senso a tutto il resto» (p. 368); è lo Spirito
che apre all’interpretazione piena di tale evento (pp. 370371); «il ricordo di cui parla l’evangelista, è dunque da un
lato ricordo di un evento particolare, dall’altro, contemporaneamente, riconoscimento del nesso che lega al processo
storico passato dell’Antico Testamento e a quello venturo
della Chiesa di Cristo» (p. 372). Nello svolgersi temporale
di questa vita, scandita dal tema dell’ora (pp. 374-378),
traluce la gloria del Preesistente e l’opera del Glorificato
(p. 369); in ogni fatto e in ogni detto dell’esistenza storica di Gesù si annuncia il loro prolungarsi nell’opera che
il Glorificato compie nella comunità primitiva (pp. 379385) e si instaura un rapporto con il passato (pp. 385-391),
in modo peraltro non dissimile da Paolo (p. 385). Se così
stanno le cose, la tensione caratteristica di ogni storia della
salvezza permane (p. 392), non solo nei testi strettamente
escatologici, che non è lecito eliminare come interpolati (p.
394), ma proprio come struttura portante, sebbene il già sia
sottolineato in maniera preminente (p. 392), però nella sua
funzione di anticipazione escatologica (p. 393). Se, come
abbiamo visto, è la tensione storico-soteriologica del già e
non-ancora ad essere dirimente per la concezione heilsgeschichtliche (cfr. pp. 225-249), non quindi la questione,
troppo frettolosamente qualificata come fondamentale del
ritardo della parusia (cfr. pp. 31-36 e 46-56), che pure ha
giocato un ruolo che non è lecito sottovalutare (pp. 321328), allora non è consentito porre una diastasi fra Gesù,
Paolo, Giovanni da un lato e Luca dall’altro, sebbene con
il Conzelmann (p. 332) occorra riconoscere che solo con
Luca si sia elaborata una concezione completa da un punto
di vista storico-soteriologico, nella quale l’accento cade
63
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ormai sul tempo intermedio, senza con ciò affermare che
Luca non prenda sul serio la fine, tant’è vero che in lui lo
Spirito Santo è visto come elemento escatologico.
Alla tensione fra già e non ancora si era rivolta d’altronde immediatamente la comunità primitiva: «il fatto
che il Regno non sia venuto non produsse nessuna crisi»;
«al posto del già delle guarigioni miracolose, della vittoria
su Satana e della remissione dei peccati (tipico dei tempi
di Gesù) subentra (ora) il già degli avvenimenti che, per
via di rivelazione, furono interpretati nella comunità come
risurrezione di Gesù e come manifestazioni dello Spirito»;
«in presenza di questi avvenimenti divenne una certezza,
per i discepoli, il fatto che realmente l’atto decisivo nello
svolgersi del piano redentore di Dio era già stato compiuto
e che essi stessi, con la loro attività missionaria, proseguivano l’attuazione di questo piano» (p. 328). «Poiché
il tempo continuò a procedere, si impose logicamente con
forza sempre maggiore il valore storico-soteriologico del
tempo intermedio» (p. 329). «L’inserzione di un tempo
intermedio nella storia della salvezza non fu dunque un
artificio teologico, una soluzione d’emergenza; non fu originariamente soluzione di un problema, bensì interpretazione storico-soteriologica di nuovi avvenimenti, com’era
sempre avvenuto nello svolgersi della storia biblica della
salvezza; non la delusione, non una riflessione sorta da tale
delusione, bensì la gioia per i nuovi avvenimenti e per la
rivelazione che li aveva accompagnati, sta alla radice della
costatazione che il tempo intermedio si prolunga e alla radice della valutazione teologica di questo tempo intermedio che si prolunga» (pp. 330-331). Non c’è quindi ragione
di ritenere che uno schema storico-soteriologico, sebbene
con differenze fra questo o quel libro neotestamentario (p.
335), non sorregga l’intera impostazione neotestamentaria (p. 333), così come accade per l’Antico Testamento (p.
64
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331), dettata «da avvenimenti che continuavano a verificarsi (da un lato la risurrezione di Cristo, dall’altro lato
le varie manifestazioni dell’opera dello Spirito), nei quali
i primi cristiani vedevano una rivelazione concernente il
Regno di Dio» (p. 331). A condizione però di conservare
la tensione temporale del tempo intermedio: «Cristo è già
risuscitato dai morti; la morte è già vinta (e si consideri
che cosa deve aver rappresentato una simile affermazione
per tutto il pensiero dei primi cristiani!); l’elemento escatologico del Regno di Dio, lo Spirito Santo, è già presente
come caparra; Cristo è presente nella comunità: perciò il
Regno verrà» (p. 333). Si conclude così un lungo percorso che ha portato a considerare il problema genetico della
storia della salvezza (come si è formata la storia della salvezza, ossia il rapporto fra avvenimento e interpretazione), le sue caratteristiche fondamentali (condensate nella
tensione storico-soteriologica come chiave interpretativa
della storia neotestamentaria della salvezza), le posizioni
neotestamentarie nella loro caratterizzazione.
d) Nell’ultima parte si riprendono talune questioni, su
cui già abbiamo avuto occasione di gettare uno sguardo
(e quanto detto ci esime dal ritornarci ancora), presentate
come «deduzioni fondamentali dai risultati dell’indagine
neotestamentaria» (p. 399). Ci limitiamo ad elencarle.
Inanzitutto: che cosa signifca il culto della chiesa cristiana
per l’attualizzazione della storia della salvezza nel tempo
che è il nostro? (pp. 429-437). «Ogni culto di cui parla
la Bibbia è attualizzazione del passato e del futuro» (p.
432) e perciò è giusto dire che «tutto il culto della chiesa
cristiana, come già quello giudaico, ha una impostazione
storico-salvifica» (p. 429), irriducibile a una visione puramente esistenziale (p. 430). «Per loro intima essenza, il
culto ebraico e quello cristiano sono incomprensibili se
si prescinde dalla storia della salvezza. Come la teologia
65
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ebraica e quella cristiana sono private della loro genuina sostanza quando se ne elimina la storia della salvezza,
come ha cercato di fare il sincretismo gnostico, così il
culto ebraico e quello cristiano cessano di essere ciò che
li distingue dal culto delle altre religioni dell’antichità,
quando perdono il loro riferimento agli avvenimenti irripetibili della storia della salvezza e all’evento finale ad
essi connesso» (p. 437), tenendo naturalmente presente,
quando si parla di «attualizzazione», che «l’ephápax, il
carattere irripetibile dei vari avvenimenti cristologici
della storia della salvezza non può essere abbandonato»
(p. 433). In secondo luogo: in che rapporto stanno con
la storia della salvezza, la nostra fede, la teologia, la vita
della comunità ecclesiastica? (pp. 439-451). «Se la nostra
fede è veramente orientata su quella dei testimoni biblici,
abbiamo con loro in comune la marcata coscienza di trovarci tutti nel flusso della storia della salvezza, rivelatoci
nella Bibbia» (p. 446); «credere che ci troviamo in questa
storia implica credere che ci troviamo nello sviluppo degli avvenimenti cristologici essenziali» (p. 447), avvenimenti che necessitano di «costante reinterpretazione» (p.
448), partendo dalla comunità, ponendosi «sulle tracce
degli autori neotestamentari» (p. 449), pur conservando
naturalmente un grande sforzo di oggettività (p. 449) e
senza disdegnare le odierne metodologie scientifiche (p.
450). In terzo luogo: quale etica si può costruire sulla
storia della salvezza?, ovvero l’imbricanza imperativoindicativo in una storia in cui il piano divino s’intreccia
con la contingenza storica, rispettando l’ephápax cristologico, la molteplicità delle forme di vita dipendente dalla
molteplicità dei doni dello Spirito, la tensione fra già e
non-ancora, in cui viene esaltato il ruolo del dokimázein
(il giudizio etico di cui Paolo parla ripetutamente, p. 459),
l’esercizio dell’agápe, nella sua dialettica con la legge
66
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(che mantiene validità come comandamento, mentre viene abolito tutto ciò che è stato superato nel progredire del
piano divino di salvezza», p. 461), nella convinzione di
essere collaboratori del piano divino di salvezza (p. 465),
cui dobbiamo conformare le nostre decisioni etiche (pp.
453-466). «Possiamo riassumere tutto ciò che si può dire
circa la radice storico-soteriologica dell’etica neotestamentaria nella triade che appare ripetutamente nell’epistolario paolino: fede nell’evento di Cristo passato e presente, speranza dell’evento soteriologico futuro, amore
quale principio normativo e quale attualizzazione della
fede e della speranza, della storia della salvezza passata,
presente e futura, nel presente della decisione etica» (p.
466), nel retto uso del dokimázein, «il grande dono dello
Spirito di cui abbiamo bisogno per applicare correttamente le norme che ci sono state date» (p. 463), memori che
l’economia della sárx, l’economia di questo mondo, pur
vinta, non è ancora definitivamente annientata (p. 462).
3.2. La prospettiva heilsgeschichtliche finora delineata, di rara coerenza, dopo le discussioni che per tanto
tempo l’hanno accompagnata, vede oggi, come abbiamo
detto una più equa valutazione della sua forza e delle sue
potenzialità. Ma vi è un aspetto, ritenuto da Cullmann
imprescindibile, che continua a suscitare forti riserve in
campo cattolico, malgrado tutto il favore che si accorda
al pensiero dell’Autore, chiarificato in maniera essenziale
con Heil als Geschichte66. Cullmann stesso, d’altronde,
66
Sintomaticamente G. Jossa, La risposta di O. Cullmann, p. xx: «Heil als
Geschichte non può non riscuotere presso i teologi cattolici lo stesso generale
favore che già riscosse anni fa Christus und die Zeit. La serietà e l’obiettività
della ricerca, lo sforzo costante di tenere presenti le posizioni altrui ed in modo
particolare l’apertura piena d’interesse e di simpatia verso la Chiesa cattolica
meritano tutta la stima e l’attenzione da parte loro»; p. xxii: malgrado le riserve
da fare, «la posizione di Cullmann su moltissimi punti è pienamente accettabile
67
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ne è pienamente cosciente, come rileva la prefazione alla
seconda edizione di Christus und die Zeit fin dal 1948
(pp. 9-10) e come sottolinea la parte conclusiva di Heil
als Geschichte, che invita a concentrarsi su questo problema nel dialogo ecumenico, che dev’essere svolto a tutto
campo (pp. 413-416, 418-421). È un problema più volte
riaffiorante in Königsherrschaft (che da esso è come innervata), tematizzato in Christus und die Zeit (pp. 106 ss.;
134 ss.; 143 ss.; 175 ss.; 211 ss.; 219 ss.; 259 ss.) e nella
Christologie (soprattutto nelle fondamentali pagine consacrate al titolo di Kýrios: pp. 169 ss.), ripreso nei capitoli
finali di Heil als Geschichte, dove si tratta della prosecuzione della storia della salvezza nel tempo intermedio (pp.
409 ss.). Dato il peso della discussione, riassumiamo sinteticamente le posizione cullmanniane, che già abbiamo
avuto modo d’incontrare. «Ogni epoca della storia della
salvezza riceve il suo senso da Cristo, in quanto essa è
imperniata in lui. Ogni epoca assolve una funzione unica,
irrepetibile: è ephápax nel senso di una mediazione o di
una tensione rispetto al centro. L’epoca in cui viviamo
non è esclusivamente escatologica, non vive cioè esclusivamente di attesa; vive nell’attesa, ma questa è fondata
nella certezza che la vittoria decisiva è già riportata da
Cristo. Questo periodo intermedio è il tempo della Chiesa, corpo terrestre del Cristo, continuazione del Cristo,
che sa che Cristo regna e che questa realtà centrale deve
annunciare agli uomini (missione), perché questa realtà
li riguarda individualmente (fede, etica neotestamentaria,
azione dello Spirito): deve dare all’umanità la coscienza
di appartenere già al regno di Cristo (rapporto fra Chiesa
e stato, fra Chiesa ed umanità, fra storia della salvezza e
storia universale). Nella Chiesa è già presente per anticida parte cattolica e soprattutto non impedisce di riconoscere anche a quest’ultimo libro un grande valore ecumenico».
68
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pazione, nei sacramenti del battesimo e della cena eucaristica, in Cristo, lo Spirito, l’elemento del futuro che ne
costituisce l’anima. Attraverso la Scrittura poi, vive nella
Chiesa la testimonianza degli apostoli»67. Occorre però
ben precisare, seguendo il pensiero neotestamentario che
«aveva l’esatta nozione della Chiesa e della sua funzione
rappresentativa e unificatrice, così come aveva l’esatta
nozione dell’assoluta sovranità di Gesù Cristo, assiso alla
destra del Padre, da cui ha avuto ogni potere in cielo e
in terra. Secondo tale nozione, la sovranità del Signore
si attua come prolungamento del tempo centrale, senza
essere questo medesimo tempo, ma semplicemente Zwischenzeit. È evidente (in questa linea) la singolarità irripetibile del tempo centrale. Ma è pure evidente che, se un
suo prolungamento c’è, questo si ha soltanto per mezzo
della Chiesa. Essa ne è il luogo e lo strumento»68. «Come
strumento della sovranità di Cristo, la Chiesa non può essere considerata che nella realtà del suo tempo o, in altre
parole, nella realtà della sua funzione rappresentativa e
unificatrice, che prende le mosse dal tempo centrale»69.
È Zwischenzeit, cui va conservata una temporalità reale, che si regge come tale (pp. 418-421), se e in quanto
non si sovrappone all’ephápax centrale, irrepetibile nella
sua singolarità (p. 419), da cui deriva tradizione e norma. Proprio per preservare questa situazione temporale
specifica (messa in dubbio, presso i protestanti, da un
principio scritturale concepito ed applicato in modo troppo angusto: p. 414), Cullmann pone una grossa frattura
67
B. Ulianich, Linee di sviluppo, p. l. Poco prima Ulianich sottolinea «la
visione organicamente articolata che ha il suo punto centrale, gravitazionale, in
Cristo» (p. xlvii), espressione che dice come poche altre, felicemente, la tensione che anima la riflessione cullmanniana, come rilevata anche espressamente in
Il mistero della redenzione, pp. 419-420.
68
B. Gherardini, La Seconda Riforma, vol. 2, p. 257.
69
Ibi, vol. 2, p. 258.
69
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tra il tempo apostolico, che è tempo centrale di Cristo e
tempo post-apostolico; certo il tempo centrale si proietta
in avanti, qualificando il presente, poiché «l’evento verificatosi in Cristo deve svilupparsi progressivamente fino
alla sua piena manifestazione» (p. 402), senza perdere «la
dinamica in forza della quale sappiamo di essere inseriti
oggi, nella Chiesa, nella corrente possente di un processo
soteriologico e in forza della quale ci si svelano pure i
nessi profondi che la cosiddetta attualità profana ha con
questo processo» (p. 414); però «se la storia della salvezza continua, naturalmente solo come sviluppo dell’evento
di Cristo»70, è «conclusa la rivelazione, data negli avvenimenti e nelle relative interpretazioni, sul piano divino,
in base al quale la storia della salvezza si è sviluppata e si
svilupperà fino alla fine» (p. 402).
Lo Zwischenzeit, con la frattura così delineata, trova la
sua fondazione con la definizione del canone71, che, per
70
Cullmann (lo ha notato con forza M. Carrez, Oscar Cullmann: instant et
temps, pp. 54 e 57 s.) sottolinea con cura particolarissima come la storia della salvezza debba essere norma del presente (in polemica con K.G. Steck, Die
Idee der Heilsgeschichte, Zürich 1959, pp. 53 ss.): «la Bibbia ci insegna a discernere i segni del nostro tempo», annunciando così «il confluire escatologico
di tutta la storia nella storia della salvezza» (p. 422), senza «certo cedere alla
smania settaria di trarre dalla Bibbia delle date e quindi di disporre del piano
divino di salvezza, in ultima analisi misterioso» (p. 423); «quando valutiamo
gli eventi contemporanei dal punto di vista particolare della storia della salvezza, prestiamo attenzione sia all’opera positiva della salvezza che alle reazioni
demoniache. Come membri della Chiesa dobbiamo tenere il giornale accanto
alla Bibbia e soprattutto la Bibbia accanto al giornale» (p. 423), operando un discernimento difficile, quanto necessario (p. 423; cfr. p. 421 il riferimento a Barth
e a Königsherrschaft); il peccato toglie ogni illusione di «sviluppo rettilineo»,
sebbene «in modo misterioso, Dio si possa servire anche del peccato dell’uomo
per condurre a termine il suo piano» (p. 424), nonostante, talora, l’accumulo
degli insuccessi «che non smentiscono che la storia della salvezza proceda» (p.
425). E felici sono le applicazioni al problema delle religioni non bibliche (p.
424), alla particolare funzione d’Israele (pp. 425-426), al problema ecumenico
(pp. 426-427), pagine in cui si affaccia con forza l’ultima importante tappa della
riflessione cullmanniana.
71
Cullmann precisa: definizione del «concetto» di canone, «non della defi-
70
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l’appunto, «non si giustifica se si prescinde dalla storia
della salvezza» (p. 403) e che si pone come unico concetto
biblico valido per esprimere il legame che stringe tutti i
libri biblici (p. 408) e la loro interpretazione globale (p.
407). Che cosa significa dunque il canone, quando si vuole
dedurre dalla Bibbia stessa la sua necessità?72 Innanzitutto
occorre tenere presente che «tutta la storia della salvezza,
quella presente come quella futura, inclusa quella escatologica, ha raggiunto il suo culmine e al tempo stesso
si è riassunta nella vita, nella morte e nella risurrezione
di Gesù. Ciò che ancora si va attuando è sviluppo e piena manifestazione di ciò che è già presente in Cristo. Se
prendiamo sul serio la temporalità della storia della salvezza, la storia della rivelazione del piano soteriologico,
che ne è parte integrante, deve considerarsi conclusa con
questo evento verificatosi nel primo secolo della nostra
era. Il processo storico-soteriologico continua sviluppandosi. Si verificano nuovi avvenimenti soteriologici, però
non solo non siamo in grado di dire con sicurezza dove e
quando essi si verificano, ma anzi lo svolgimento ulteriore
può soltanto sviluppare ciò che è venuto alla luce nello
svolgimento precedente fino a Cristo» (p. 404). In secondo luogo occorre sottolineare il ruolo specialissimo (cfr.
pp. 151 ss.) dei testimoni oculari, la cui morte determina
una cesura: «da quel momento vi saranno ancora testimoni di quegli eventi e degli sviluppi che essi avranno nella
nizione effettiva e definitiva, che si è protratta per secoli» (p. 403; cfr. p. 406). Su
questo problema: T. Dorman, The Hermeneutics of Oscar Cullmann, Ann Arbor
Mich. 1980 (microfilm), pp. 302 ss.; H.G. Hermesmann, Zeit und Heil, pp. 181
ss.; K.H. Schlaudraff, Heil als Geschichte?, pp. 196 ss.
72
Qui, come nota espressamente (p. 403), Cullmann si scosta dalle soluzioni
correnti e da lui stesso sostenute nell’opuscolo La Tradition (1953), ritenendole
«valide», ma «insufficienti» per presentare «sia il concetto e sia il modo della
realizzazione» del canone come «elemento fondamentale» della storia biblica
della salvezza.
71
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storia ulteriore; vi saranno teologi che prolungheranno la
storia dell’interpretazione; ma non vi possono più essere
testimoni che siano al tempo stesso testimoni oculari (e
interpreti: p. 404) degli avvenimenti decisivi verificatisi
in quel momento centrale» (p. 405). In terzo luogo si deve
rilevare come la definizione del concetto di canone rappresenti «dal punto di vista del contenuto, l’anello conclusivo
di tutta la storia precedente dell’interpretazione», «la reinterpretazione definitivamente elevata a principio di tutta la
Bibbia» (p. 406), cosicché «mediante questa ricapitolazione dei vari libri della Bibbia tutta la storia della salvezza
deve ormai essere tenuta presente nell’interpretazione di
ogni libro» (p. 407), ponendo così la storia della salvezza
come il vero «canone nel canone» (p. 408). Il concetto di
canone nasce quando nel cristianesimo primitivo si accentuano due constatazioni: che il tempo intermedio può avere una durata imprecisata e che la generazione dei testimoni oculari degli eventi decisivi è scomparsa. Sono queste
due constatazioni a rendere «necessaria una norma atta a
determinare la natura e l’azione della Chiesa nel tempo
che si prolunga» (p. 409).
Guardando alla definizione del concetto di canone si
possono ora trarre alcune conclusioni. Innanzitutto, posta
l’assoluta rilevanza accordata alla testimonianza oculare
degli apostoli, il tempo centrale si estende fino a includere il tempo apostolico, nel quale si sono formati i libri
neotestamentari (p. 402), che riconducono tutti all’evento
centrale di Cristo ed alla sua interpretazione globale (p.
404), cosicché l’intero processo storico-soteriologico «riceve un’interpretazione unitaria alla luce dell’evento soteriologico attestato dal Nuovo Testamento» (p. 406). Gli
apostoli nella loro qualità di testimoni oculari e di interpreti, come coloro che sono stati testimoni oculari e interpreti
degli avvenimenti dell’epoca apostolica e ne hanno scritto,
72
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fanno parte dell’evento centrale della storia della salvezza.
Perciò, «il Nuovo Testamento va oltre il periodo della vita
di Gesù, fino al momento in cui questi testimoni oculari
muoiono» (p. 405). In secondo luogo, e di conseguenza, se
la storia della salvezza continua anche oltre il tempo centrale, includente il tempo apostolico, essa è da considerarsi
solo come sviluppo, rigorosamente normato dalla rivelazione, conclusasi con la definizione del concetto di canone e della sussunzione del tempo apostolico nell’ephápax
ricapitolativo del tempo centrale (p. 409); «sappiamo con
precisione come si è sviluppato il processo soteriologico
nell’epoca biblica; sappiamo quali siano stati i suoi rapporti con la storia antica, poiché abbiamo la Bibbia; invece, relativamente al nostro presente la Bibbia ci dice solo
che quel processo prosegue e in quale direzione procede,
ma non ci dice in quali avvenimenti particolari, con le relative interpretazioni, esso si manifesti» (p. 410); «è tipico
della nostra situazione interinale, caratterizzata dalla tensione fra già e non-ancora, che possediamo sì il canone
biblico, in base al quale sappiamo esattamente in quale
direzione la storia della salvezza procede ulteriormente,
e siamo in grado, con l’ausilio dello Spirito Santo, di interpretare correttamente la rivelazione dei segni del nostro
tempo; tuttavia possiamo parlare soltanto di un proseguire
nascosto della storia della salvezza» (p. 412). Allora, ed è
la terza considerazione, quale è la situazione specifica di
questo Zwischenzeit, normato dall’ephápax centrale, cui
si aggiunge il tempo apostolico? Diciamo subito che la
Chiesa, proprio perché è il Zwischenzeit, può essere detta
«centro spaziale» (cioè prolungamento, luogo e strumento) che manifesta e rende visibile il Regno di Cristo, ma
non può essere detta anticipazione del Regno di Dio, che
resta una realtà esclusivamente futura; certo può sussistere
una certa analogia nel parlare di anticipazione (pp. 274,
73
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418); ma è improprio e solo in un secondo momento, scadendo la tensione fra già e non-ancora (pp. 334-335), la
comunità ha integrato Regno di Dio e Chiesa73. La Chiesa
non è dunque il regno di Dio, ma il Regno di Cristo che va
verso il Regno di Dio74. In questo suo cammino, il Kýrios
è protagonista solo nella funzione cultuale (pp. 432-433),
in cui l’attualizzazione dell’ephápax non è mai disgiunta
dalla tensione verso il futuro (pp. 434-437); per il resto è
lo Spirito che attualizza l’ephápax del Cristo, guidandoci
nell’interpretazione della Scrittura (pp. 412-413), che diventa, grazie al canone, «un evento storico-soteriologico,
che determina il nostro presente» (p. 411). Di conseguenza, «la definizione della Bibbia quale norma, da un lato
fa parte della storia biblica della salvezza, costituendone
la conclusione ed essendone nata organicamente; dall’altro, come punto di partenza storico-soteriologico, si trova
all’inizio del tempo post-biblico; perciò troviamo in essa
una norma storico-soteriologica per ogni interpretazione
attualizzante; accanto ad essa, nel nostro tempo intermedio, non se ne può scorgere alcun’altra che abbia pari autorità, poiché questo nostro tempo non è ancora terminato.
Nessun magistero infallibile, sia esso impersonato da un
papa, o si esprima in un concilio, o nella collaborazione
73
Fondandosi su uno studio capitale di O. Knoch, Eigenart und Bedeutung
der Eschatologie im theologischen Aufriss des ersten Clemensbriefes, Bonn
1964, Giorgio Jossa (cui si deve l’essenziale ricerca Regno di Dio e Chiesa, Napoli 1970, splendido studio sulla teologia di Ireneo) contesta l’idea che la Chiesa come anticipazione del Regno di Dio indebolisca il carattere di tensione del
tempo intermedio, così come non lo indebolisce il riconoscimento alla Chiesa di
una vera, anche se imperfetta, santità. Sembra anzi che la «cattolicizzazione» del
cristianesimo, cui Cullmann è giustamente sensibile, sia cominciata, soprattutto
con la prima lettera di Clemente Romano, proprio quando il Regno di Dio è stato
considerato come una realtà esclusivamente futura e la Chiesa ha perduto, o per
lo meno attenuato la sua coscienza di comunità escatologica che introduce già
nel secolo futuro: La risposta di O. Cullmann, p. xxi.
74
K.H. Schlaudraff, Heis als Geschichte?, pp. 79 ss.; 82 ss.; 175 ss.
74
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di entrambi, può affiancarsi, neppure come interpretazione
della Bibbia, all’irrepetibile testimonianza oculare che gli
apostoli hanno reso agli eventi cristologici essenziali, la
morte e la risurrezione di Gesù, testimonianza oculare che
solo nella Bibbia si trova inglobata nella testimonianza
generale» (p. 414). In altre parole: «In seno alla comunità
(cfr. pp. 448-450) troviamo l’assistenza dello Spirito Santo, possediamo la Bibbia; si aggiunge il magistero, non
però infallibile, inteso come sforzo comune per ottenere lo
Spirito della verità» (p. 414), che «ci permette di conoscere la tradizione vivente» (p. 412); con tutto ciò ci troviamo
sul piano della storia biblica della salvezza; «la storia della
salvezza trova la propria norma nella storia della salvezza» (p. 414).
La risposta cattolica è stata ampia e articolata75, tanto
più intensa, come avremo occasione di vedere, quanto è
motivo comune il rilevare che proprio qui «l’ecclesiologia
75
Già il Daniélou aveva fatto notare come vi fosse incoerenza nell’affermazione di Cullmann, secondo cui il Kýrios è all’opera nei sacramenti, ma non
nel magistero della Chiesa relativo alla tradizione (Réponse à Oscar Cullmann,
«Dieu Vivant» 24 [1953], pp. 107-116). Più in generale si può osservare, con
L. Bini (L’intervento di Oscar Cullmann, pp. 157 ss.; 220 ss.), che il magistero
infallibile della Chiesa ci rende presente e ci garantisce il contenuto di ciò che
già ci è stato rivelato. Come scrive G. Jossa: «Esso prosegue quell’attività di formazione che la Chiesa ha già svolto nel ii secolo con la fissazione del canone. La
possibilità di un’autorità normativa attuale della Chiesa relativamente alla determinazione dell’apostolicità delle tradizioni non è diversa infatti da quella di cui
ha già fatto uso nel ii secolo per fissare il canone scritturistico. Questa autorità
non fa che offrire alla nostra speranza la base di una fede sicura. Ciò non toglie
però che la nostra conoscenza sia oggi soltanto in aenigmate e la nostra vita è
pur sempre in tensione tra la fede in ciò che è già rivelato e la speranza della
visione finale» (La risposta di O. Cullmann, pp. xxi-xxii). P. Benoit aggiunge:
se la Chiesa ha il diritto di riconoscere una tradizione per apostolica e ha usato
di questo diritto «per decidere quali dei suoi scritti fossero veramente apostolici,
può ancora usarlo nei secoli successivi dichiarando che questa o quella delle
sue tradizioni orali possiede pure un valore apostolico che s’impone alla fede»
(Exégèse et théologie, Paris 1961, vol. 2, p. 314). Una visione globale è offerta
con erudizione ed equilibrio da G. Maffei, Il dialogo ecumenico sulla successione attorno all’opera di O. Cullmann, Roma 1979.
75
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cullmanniana manifesta motivi di netta differenziazione
rispetto a quella cattolica»76 e che l’idea che il Cullmann
si fa del tempo della Chiesa è per il teologo cattolico una
«difficoltà attualmente insormontabile» e «il problema
centrale che divide il teologo alsaziano dai cattolici»77. Si
è parlato di «positivismo», di «fideismo che contrasta con
il carattere rigorosamente scientifico della sua opera»78;
si è sottolineato, ed è giustizia, che Cullmann resta coerente con i dati della sua tradizione protestante e lo resta
esplicitamente, suscitando com’è normale un dialogo franco a tutto tondo79; personalmente rileveremmo in queste
posizioni cullmanniane una logica di fedeltà alla posizione heilsgeschichtliche da Cullmann difesa ed esposta80,
quand’anche, in prospettiva cattolica, essa possa apparire
incoerente con le premesse81 o solo «apparente»82. Lo moB. Gherardini, La Seconda Riforma, vol. 2, p. 261.
G. Jossa, La risposta di Oscar Cullmann, p. xx.
78
J. Frisque, Oscar Cullmann, pp. 206 ss.; G. Jossa, La risposta di O. Cullmann, p. xxii.
79
Esemplari sono le due recensioni di P. Benoit al Petrus e a La tradition
che citeremo; il confronto fra B. Gherardini (Per una valutazione cattolica di O.
Cullmann, «Divinitas» 15 [1971], pp. 177-212) e G. Tourn, (A proposito di una
valutazione di O. Cullmann, «Prot» 27 [1972], pp. 101 ss.); le valutazioni di G.
Maffei, Il dialogo ecumenico, pp. 37 ss.; 74 ss.; 97 ss.; 143 ss.; 184 ss.
80
Così B. Ulianich, Linee di sviluppo, pp. xlix-l, lii, lviii-lxi. Questo comporta, nota ancora Ulianich (sulla scorta di un’importante rassegna di
F. Obrist, Echtheitsfragen und Deutung der Primatsstelle Mt. 16, 18 ss in der
deutschen protestantischen Theologie der letzten dreissig Jahre, Münster 1961),
che Cullmann si differenzi anche da altri autori protestanti che non condividono
la sua specifica posizione, né Cullmann d’altronde, se ha affermato nettamente
la sua qualifica di teologo protestante, ha mai preteso di essere un portavoce
della teologia protestante: pp. lix e lxiv-lxv.
81
Soprattutto P. Benoit, Exégèse et théologie, vol. 2, pp. 309-317.
82
B. Gherardini, La Seconda Riforma, vol. 2, p. 263. Tourn, (A proposito di
una valutazione) dopo aver rilevato la caratteristica personalità del Gherardini
e la sua «eccezionale conoscenza, non solo quantitativa, ma qualitativa, della
teologia protestante» (p. 101), nota: «La valutazione del Gherardini si presenta
come un’interpretazione cattolica e non si può negare che lo sia veramente; altrettanto legittimamente però si potrebbe affermare che si tratta di una interpretazione cattolica indubbiamente autorevole, ma che potrebbe, come avverte lo
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stra questa pagina di Heil als Geschichte: «Affermando
la necessità di un magistero infallibile che costituisca la
norma per il presente, accanto alla Bibbia e allo Spirito
Santo, non si inserisce forse un’istanza di rivelazione di
natura diversa da quella del processo storico-soteriologico
biblico, cioè un’istituzione? Beninteso, il magistero e la
Chiesa in quanto istituzione sono parte integrante della
storia della salvezza; se però il magistero si attribuisce
infallibilità, non viene forse mutata la struttura storicosoteriologica dello Zwischenzeit, per il fatto che su questo
punto il non-ancora non ha più validità? Non si inserisce
forse in tal modo nelle nostre interpretazioni un elemento statico, estraneo al carattere storico-soteriologico del
nostro tempo? Non viene in tal modo deformata la grandiosa continuità che abbiamo constatato nella storia della
salvezza contenuta nella Bibbia e anche oltre i limiti di
questa? Non minaccia di irrigidirsi la dinamica storicosoteriologica che deve prolungarsi anche nel presente nel
modo che le è caratteristico? Non viene preservata meglio,
questa dinamica, malgrado l’insicurezza che in ultima analisi permane, se nell’interpretazione che diamo del tempo
post-biblico, in piena fiducia nello Spirito Santo, lasciamo sussistere accanto al già, anche sul piano gnoseologico, il non-ancora, cioè se nel nostro commento crediamo
nell’opera dello Spirito Santo, eppure non escludiamo che
l’esegesi ecclesiastica possa cadere in errore? Il fatto che
ci troviamo in piena storia della salvezza, non è provato,
appunto, dalla nostra partecipazione alla tensione fra un
vero già e un vero non-ancora?» (pp. 414-415). Così Heil
als Geschichte ribadisce una posizione, che ritornerà con
costanza fino alla fine come caratteristica.
stesso autore, porsi accanto ad altre, forse meno legate della sua ai valori assoluti
del magistero» (p. 106).
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4. Nel 1952 appare uno dei lavori fondamentali del
Cullmann: Petrus: Jünger, Apostel, Märtyrer. Das historische und das theologische Petrus-problem, riproposto nel
1960 con integrazioni che, nelle note soprattutto, tengono
conto delle discussioni intercorse83. Si tratta di un testo dedicato, come dice il titolo, al problema di Pietro, cioè alla
sua posizione fra i dodici durante la vita terrena di Gesù,
e dopo la morte di Gesù e la sua risurrezione, come capo
della prima comunità cristiana di Gerusalemme, alla sua
missione giudeo-cristiana, al problema relativo alla sua
venuta a Roma, al suo martirio, alle questioni connesse, su
questa base, alla rivendicazione di un primato della Chiesa cattolica romana sulla Chiesa universale fondata sulla
successione apostolica dei vescovi di Roma sulla cattedra
di Pietro. «Il tono generale dell’opera è sereno, sia nell’affrontare il problema sul piano storico, che su quello esegetico e dogmatico. Nella prefazione egli afferma espressamente che questo suo lavoro non vuole nuocere affatto al
colloquio ormai fruttuosamente instauratosi con i teologi
cattolici, ma, nella chiarezza delle posizioni, questo collo83
Ed. ted., Zürich 1952 (19602); tr. franc.: Neuchâtel-Paris 1952 (19602);
tr. it. nel collettivo, curato e introdotto amplissimamente da A. Prandi (pp. viilxxiv): Il primato di Pietro nel pensiero cristiano contemporaneo, Bologna,
1965: San Pietro: Discepolo, apostolo, martire (tr. di Gino Conte): pp. 1-349
(sulla 2. ediz.; viene riportata anche la pref. alla 1a ediz; cui rinviamo). Cfr. B.
Ulianich, Linee di sviluppo, pp. lii-lv; B. Gherardini, La Seconda Riforma, vol.
2, pp. 264-273; A. Prandi, Il dialogo ecumenico e il problema del primato, pp.
xxiii-liii; H.G. Hermesmann, Zeit und Heil, pp. 140-146; G. Maffei, Il dialogo
ecumenico sulla successione, pp. 3-81 e 164-184. Parte rilevante deve essere accordata (lo ricorda il Cullmann nella prefaz. alla 2a ed., p. 10) al saggio L’apôtre
Pierre, instrument du diable et instrument de Dieu. La place de Mt 16,16-19
dans la tradition primitive, in New Testament Essay. Studies in Memory of T.W.
Manson, Manchester 1959, pp. 94-106 (= Vorträge, pp. 202-213). Importante è
anche l’art. Petra, Petros nel Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament,
vol. 6 (1959), coll. pp. 94-112 (tr. it., vol. 10, pp. 109 ss.). Invece l’articolo
Simon Pierre, in Dictionaire Encyclopédique de la Bible (Paris 1935), vol. 2,
pp. 398-401 ha solo (come d’altronde la manciata di altri articoli ivi pubblicati)
valore documentario.
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quio vuole fomentare. Del resto, soprattutto per quanto riguarda l’ultima parte del lavoro, quella che giunge a delle
conclusioni sul piano dogmatico, egli, questi teologi cattolici ha tenuto particolarmente presenti e con essi si è quasi
intrattenuto in muto continuo colloquio, sentendo e soppesando le loro eventuali critiche ed obiezioni. Siamo ben
lontani dagli scritti polemici della controversia confessionale. Anche le obiezioni di fondo vengono sempre avanzate in un ambito di discussione scientifica senza apriorismi
o preconcetti confessionali, con gli strumenti di un’esegesi fine e scientificamente fondata. Naturalmente i testi
di fondo, probanti, sono quelli neotestamentari, laddove
la tradizione, intesa in un senso ben determinato come interpretazione vivente del messaggio da parte della Chiesa
che tale messaggio ha trasmesso, come coscienza che la
Chiesa ha di se stessa e che, in questa, legge e interpreta
la Bibbia, non viene implicitamente considerata come probante ai fini dei problemi in discussione, così che di fatto
essa mai appare»84. Un libro protestante quindi, e nettamente, com’è giusto che sia, ma che non cede alle polemiche confessionali protestanti85. Un libro coraggioso che sa
voltare pagina86. Un libro che, senza intenzioni esplicite,
B. Ulianich, Linee di sviluppo, p. liii.
Ancora Ulianich: «Chi conosce soltanto un poco il modo e l’argomentazione con cui è stato discusso per secoli un problema così scottante come quello di Pietro e del papato da parte protestane, si vedrà qui di fronte a un salto
qualitativo per la serietà, la profondità e nello stesso tempo la chiarezza con
cui Cullmann affronta i problemi e per le tante suggestioni che questo studio
provoca» (p. lix).
86
Già lo abbiamo notato con G. Tourn trattando della metodologia cullmanniana: A proposito di una valutazione cattolica, pp. 107-108, E.G. Maffei:
«Oscar Cullmann, in un momento storico molto meno maturo dal punto di vista
ecumenico che l’attuale, e assumendosi tutti i rischi che la funzione di un pioniere ogni volta comporta, seppe aprire con audacia il dibattito in cui tutti i suoi
interlocutori lo hanno seguito» (Il dibattito sulla successione, p. 189). Cfr. pure
le indicazioni di A. Prandi, Il dialogo ecumenico e il problema del primato, pp.
xxiii, xxvi-xxviii, liii-lvi, lvi-lvi, lxxii-lxxiv.
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in un momento difficile, ha saputo impostare e praticare
una «teologia ecumenica» che, proponendo «come via
per superare incancrenite controversie il ritorno alle fonti
bibliche»87, ha ancora molto da dire88. Per questo (e quanto diremo sulla sua ricezione lo dimostra) è «un libro che
ha fatto molto rumore fra cattolici e protestanti»89. Non
possiamo in questa sede seguire passo a passo il lavoro.
Ci limitiamo ad alcuni dati essenziali90. Occorre naturalmente ricordare che il Petrus «si inscrive in uno sviluppo
organico di problemi già chiaramente impostati altrove»
(in Königsherrschaft ed in Christus und die Zeit in modo
particolare) e «già inseriti in una visione globale che, pur
non mutando, viene qui non marginalmente approfondita»; così come esso presupponga «le posizioni già assunte
dal Cullmann nei suoi scritti relativi al problema escatologico e riassunte in una netta risposta ad un duro articolo di
F. Buri» e qui nuovamente ribadite (pp. 272 ss.); e come
parimenti s’inserisca in una lunga controversia esegetica
riguardante l’autenticità di Mt 16,17 ss., che proprio i suoi
precedenti lavori (e soprattutto Königsherrschaft) avevano
rinfocolato e che il Petrus aiuta a risolvere (pp. 221 ss.), in
un momento particolarmente critico di fluidità di posizioni
(p. 235), dopo un precedente, più positivo consenso (pp.
F. Ferrario, La teologia del Novecento, p. 204.
A. Prandi, Il dialogo ecumenico e il problema del primato, pp. vii-xxii
offre considerazioni egregie e contestualizzate che il lettore potrà integrare con
due luminosi interventi di A. Bellini: Dimensioni ecumenica dell’intera teologia, «Seminarium» 3(1968), pp. 400-449 e Un’apertura ecumenica, «Vita e Pensiero» 53, 8/9(1970), pp. 54-69.
89
B. Gherardini, La Seconda Riforma, vol. 2, p. 264.
90
Mi limito a rinviare il lettore alla chiara e analitica recensione di P. Benoit,
«Rev Bibl» (1953), pp. 565-579 (=Exégèse et théologie, vol. 2, pp. 285-308),
che si apre con netto giudizio: «libro importante, per il soggetto e per l’autore» e si conclude con il riconoscimento della «leale franchezza di questa tesi
magistralmente esposta», cui il recensore ha creduto di dover rispondere con
franchezza altrettanto grande.
87
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231 s.), come abbiamo già avuto occasione di ribadire con
B. Ulianich91. Quali gli elementi nuovi che affiorano nella
trattazione di questa problematica? Quale ruolo riveste in
essa la visione neotestamentaria della storia della salvezza? E preliminarmente, come si pone il Cullmann di fronte
ad un problema storico certamente, ma con evidenti risvolti teologico-dogmatici, come mostrano gli ampi ed articolati excursus che disseminano l’opera (pp. 93 ss., 221 ss.)
e la stringente disamina delle fonti che sostanzia questo
lavoro (pp. 102 ss., 165 ss., 177 ss., 313 ss.), facendone
«uno degli esempi più lucidi dell’uso del metodo storicoesegetico» e contemporaneamente «una continuazione ed
un’applicazione del grande disegno di Christus und die
Zeit»?92 Tre le parti: il problema storico; il problema esegetico di Mt 16,17-19; il problema teologico-dogmatico
dell’applicazione di Mt 16,17 ss. alla Chiesa posteriore.
a) La storia di Pietro, condotta sulle fonti a noi accessibili, si può così riassumere93. Pietro, durante la vita di
91
B. Ulianich, Linee di sviluppo, pp. liii-liv. La cit. monografia di F. Obrist
analizza il tutto con grande accuratezza e documentazione.
92
A. Prandi, Il dialogo ecumenico e il problema del primato, p. xxii.
93
Il problema storico: il discepolo; nome, origine e professione di Pietro:
pp. 15-23; la posizione di Pietro nel gruppo dei discepoli: pp. 23-35; l’apostolo:
la direzione della comunità delle origini: pp. 37-47; la missione a servizio della
Chiesa primitiva giudeo-cristiana: pp. 47-71; il problema del mandato apostolico: pp. 71-83; la concezione teologica dell’apostolo: pp. 84-89; il martire: il
problema: pp. 91-93; storia del problema del soggiorno di Pietro a Roma: pp.
93-102; le fonti letterarie: pp. 102-165; le fonti liturgiche: pp. 165-177; gli scavi:
pp. 177-213. Per una valutazione e un approfondimento del capitale intervento
della 1 Clemente circa la morte di Pietro e di Paolo (pp. 120-146) si può vedere
il mio contributo Per una biografia paolina: la Lettera di Clemente, il Canone
Muratoriano, la letteratura apocrifa, in Testimonium Christi: Scritti in onore di
Jacques Dupont, Brescia 1985, pp. 289 ss. (pp. 289-301) che conferma la lettura
cullmanniana, presentata la prima volta in Les causes de la mort de Pierre et de
Paul d’aprés le témoignage de Clément Romain, «RHPhR» 10 (1930), pp. 29
ss. Per un ulteriore inquadramento del problema degli scavi vaticani: H.A. de
Marco, The Tomb of Saint Peter. A representative and annotated Bibliography
of the Excavations, Leiden 1964; M. Guarducci, Le reliquie di s. Pietro sotto
la Confessione della Basilica Vaticana: una messa a punto, «Arch Class» 19
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Gesù, ha avuto una posizione di rilievo fra i discepoli: è il
primo dei discepoli, colui che quasi li rappresenta, sia nel
bene sia nel male, il loro portavoce nei confronti di Gesù.
Ha già un grado di preminenza, conferitogli da Cristo che
gli dà il soprannome di Kefa-Roccia e su tale «roccia» Cristo stesso afferma di voler fondare la sua Chiesa. Pietro
è poi il primo testimone della risurrezione, cioè il primo
degli apostoli; come tale è a capo della comunità di Gerusalemme, la prima comunità cristiana, la prima Chiesa;
questa sua preminenza dipende innanzitutto da un esplicito mandato ricevuto dal Gesù risorto, ma a legittimarlo
come capo della comunità ha contribuito la posizione da
lui avuta durante la vita di Gesù, riconosciutagli da Gesù
stesso. Però il mandato, la funzione dell’apostolo Pietro
sono cronologicamente limitati, valgono cioè per il tempo
della fondazione della Chiesa (p. 83). Dopo essere stato
per qualche tempo a capo della comunità di Gerusalemme
(gli subentra Giacomo), a Pietro viene affidata, «per incarico della comunità primitiva e in dipendenza da essa», la
missione giudeo-cristiana (p. 71). Circa il problema se Pietro sia stato a Roma, vagliate criticamente le testimonianze
che ci restano, possiamo solo dire che Pietro sia effettivamente venuto a Roma come capo della missione giudeocristiana, in un momento che non può essere esattamente
precisato, ma certo verso la fine della sua vita e qui sia
morto martire, sotto Nerone, al termine di un’attività assai
breve (p. 213). Quanto agli scavi vaticani basti questa valutazione: «l’indagine archeologica non ci permette di dare
una risposta, né positiva, né negativa, al problema se Pietro abbia o no soggiornato a Roma. La tomba di Pietro non
(1967), pp. 1-97; l’appendice di E. Dassmann, alla terza ediz. di E. Kirschbaun,
Die Gräber der Apostelfürsten. Petrus und Paulus in Rom, Frankfurt 1974. La
situazione resta controversa: R. Pesch, Simon Pietro. Storia e importanza storica
del primo discepolo di Gesù Cristo (1980), Brescia 2008, pp. 224-228.
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può essere identificata. Le vere prove del martirio romano
di Pietro sono, ora come prima, da dedurre dalle testimonianze letterarie indirette e in questo campo siamo giunti
alla conclusione che Pietro è stato veramente a Roma ed è
stato suppliziato sotto Nerone. Gli scavi parlano a favore
dell’ipotesi secondo cui il supplizio ha avuto luogo nella zona del Vaticano» (p. 213). E Cullmann, ricordando
la frase memorabile di Harnack, secondo cui il rifiuto del
soggiorno romano di Pietro è un errore oggi chiaro come il
sole per ogni studioso che non si accechi volutamente (p.
96), può concludere che non solo il soggiorno, ma anche
il martirio di Pietro a Roma «può essere accettato come un
fatto, se non assolutamente, almeno relativamente accertato nel quadro storico della Chiesa antica» (p. 153).
b) Tenendo presente questi dati storici, Cullmann passa quindi a esaminare il primato di Pietro con un’accurata
indagine esegetica della pericope matteana94 ed in seguito
a trarre conclusioni dal punto di vista teologico-dogmatico95. Posto che la pericope di Mt 16,17 ss. (considerata
in stretta connessine con Lc 22,31 s. e con Gv 21,17) sia
94
Il problema esegetico di Mt 16,17-19: storia delle principali interpretazioni: pp. 221-237; il quadro narrativo della pericope: pp. 238-261; autenticità e
significato della pericope: pp. 261-298 (Chiesa, le porte dell’Ade, le chiavi del
Regno, legare e sciogliere, la «roccia» e i successori). Le annotazioni equilibrate
sull’esegesi della pericope offerta all’epoca della Riforma (pp. 226-228) sono
ora illustrate con forza nello studio di J.E. Bignane, Faith, Christ or Peter: Mt.
16,18 in sixteent Century Roman Catholic Exegesis, Washington 1981. La travagliata storia dell’interpretazione di questa pericope si ha in J.A. Burgess, A history of the Exegesis of Mt 16,17-19 from 1781 to 1965, Ann Arbor Mich. 1976.
Per la situazione odierna è importante l’ampia rivisitazione, per molti aspetti
antitetica, di C. Claudel, La confession de Pierre. Trajectoire d’une péricope
évangélique, Paris 1988; C.C. Caragounis, Peter and the Rock, Berlin-New York
1989; T. Wiarda, Peter in the Gospel, Tübingen 2000.
95
Il problema teologico-dogmatico dell’applicazione di Mt 16,17 ss. alla
Chiesa posteriore: la posa del fondamento della Chiesa: pp. 301-313 (Pietro
«roccia» in quanto apostolo; Pietro «roccia» della Chiesa ephápax; Pietro «roccia» attraverso la Scrittura); la direzione della Chiesa: pp. 313-334 (Pietro capo
della Chiesa ephápax; Pietro prototipo dei capi della Chiesa).
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autentica (e lo sappiamo già fin da Königsherrschaft), che
cosa voleva dire Gesù con queste parole? Si riferiva Gesù
«alla Chiesa di tutti i tempi, oppure aveva in vista la Chiesa che doveva essere edificata allora, dopo la sua morte e
durante il periodo apostolico, cioè durante la vita di Pietro?» (p. 217). Anche se non ritiene valido il contesto in
cui Matteo inserisce il passo relativo a Pietro, contesto che
dovrebbe essere dato dalla storia della passione (precisamente, secondo Luca, dall’ultima cena), Cullmann sostiene che Gesù predice a Pietro che su di lui avrebbe fondato
il popolo di Dio sulla terra, popolo di Dio che avrebbe dovuto guidare verso il Regno e di cui sarebbe stato a capo.
Cristo pensa immediatamente soltanto al tempo di Pietro
(così Gv 21,16 ss.: p. 293). «Ma quand’anche egli avesse esplicitamente indicato il tempo successivo alla morte
di Pietro come il tempo dell’edificazione della Chiesa,
la parola circa la «roccia», rivolta a Pietro, varrebbe pur
sempre soltanto per lui, l’apostolo storico che rappresenta
una volta per tutte (ein für alle Mal) il fondamento terreno, l’inizio che regge l’intera costruzione futura della
ekklesía» (p. 298). Certo «nel futuro Gesù edificherà su
di un fondamento che, durante l’esistenza terrena sua e
di Pietro, è stato posto proprio nella persona storicamente
individuata di questo apostolo» (p. 294); e perciò naturalmente si parla di successione, che però va ben precisata96;
96
«Appena in una parola detta da Gesù agli apostoli si profila un prolungarsi dell’attività apostolica, gli esegeti cattolici parlano di successione. Bisogna
tuttavia dire decisamente che un prolungarsi di tale attività non implica affatto
necessariamente che ciò avvenga nella persona dei successori» (p. 296; cfr. pp.
307 ss.). «Dovunque Gesù parla delle funzioni che i suoi discepoli dovranno
esercitare, egli pensa soltanto a questi discepoli, non ai loro successori. E se
nella prima fase, relativa all’opera di edificazione, egli avesse davvero incluso
anche il periodo post-petrino, il che non è probabile, ciò significherebbe soltanto
che la funzione di «roccia», esercitata dal Pietro storico e di carattere irripetibile
nella linea della storia della salvezza, è tale che essa prosegue nella sua peculiare particolarità, anche al di là della sua morte, in modo che anche in questo
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resta però che «l’immagine del fondamento, equivalente
a quella della roccia, in tutto il Nuovo Testamento designa
sempre e soltanto la funzione apostolica, irripetibile e cronologicamente possibile soltanto agli inizi della fondazione» (p. 294). «Non è dunque corretto argomentare come
segue: il tempo della edificazione, per Gesù, è illimitato.
Ma il Pietro storico morirà; egli non può più quindi essere
la roccia di una Chiesa che sussisterà dopo di lui. Perciò accanto a Pietro devono già essere inclusi in questa
promessa i suoi successori». «Neppure è possibile giustificare esegeticamente l’estensione ai successori dicendo:
il potere delle chiavi, di legare e di sciogliere, affidato a
Pietro, deve essere esercitato pure nella Chiesa edificata
da Gesù e che perdura; quindi insieme a Pietro sono interpellati i suoi successori, che eserciteranno questo legare e questo sciogliere e amministreranno il potere delle
chiavi. Non sulle chiavi, non sul legare e sciogliere, Gesù
costruirà la sua Chiesa, ma sull’apostolo Pietro, al quale
allora ha affidato le chiavi» (p. 297). «Proprio sul limitare dell’analisi esegetica, possiamo mettere in evidenza un
punto decisivo. La posizione cattolica, che dal perdurare
della Chiesa e quindi della necessità di una direzione ecclesiastica, deduce l’esigenza che Pietro abbia dei successori, considerandola insita nella parola che Gesù rivolge
a Pietro-Roccia, mi pare dipenda da un disconoscimento
dell’elemento di fondo di tutto il pensiero neotestamentario. Per Gesù, come per l’intero pensiero biblico, è caratteristico il fatto che ciò che è permanente si radica in ciò
che è temporalmente unico ed irrepetibile. Questo paradosso, per cui un particolare evento storico costituisce un
evento essenziale nella storia della salvezza, cioè non può
non limitato prolungamento dell’opera di edificazione, il Pietro storico sarebbe
e rimarrebbe il fondamento» (p. 295).
85
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essere ripetuto, ma fonda una situazione permanente che
continua a vivere di esso, questo paradosso sta alla base
dei discorsi profetici di Gesù e trova nell’immagine del
fondamento e della edificazione successiva, un’immagine
quasi classica. Dobbiamo perciò considerare ogni evento
apostolico come un elemento fondamentale che appartiene alla sfera di ciò che è unico e irrepetibile» (p. 297),
cioè al tempo apostolico, «che appartiene al centro, che
è la norma di ogni altro evento che si verifica nella linea
temporale della storia della salvezza» (p. 298).
c) Questa conclusione esegetica c’immette quindi nel
problema teologico-dogmatico: quale rapporto intercorre
fra la Chiesa della fondazione apostolica e la Chiesa del
periodo posteriore, fra apostolato ed episcopato? Il gettare
le fondamenta della Chiesa va inteso in senso temporale;
le parole di Gesù vengono rivolte a un apostolo, non a un
vescovo; proprio su uno di questi apostoli, su Pietro, Cristo vuol fondare in modo particolare la sua Chiesa (p.
305). Pur ponendo distinzione fra Pietro, roccia sulla quale
verrà edificata la Chiesa e Pietro, capo della Chiesa all’inizio della sua edificazione, Cullmann afferma tuttavia che
non solo la prima funzione è unica e irripetibile97, ma anche la seconda. Anch’essa ha valore temporale (e per di
più limitato, poiché Pietro vi rinuncia in favore di Giacomo) e la sua portata storico-salvifica per tutti i tempi consiste nel fatto che Pietro è stato a capo della comunità delle origini (p. 306). Naturalmente ci devono essere nella
Chiesa vescovi, presbiteri, missionari e gli apostoli stessi
scelgono dei vescovi come loro successori; la funzione di
97
Sul problema dell’apostolato, assolutamente fondamentale: pp. 302-303:
«L’apostolo ha ricevuto un incarico particolare dal Gesù incarnato oppure apparso dopo la sua risurrezione e, secondo la regola tardo-giudaica, lo rappresenta
pienamente, gli deve rendere conto, gli restituisce il suo mandato dopo averlo
eseguito e non può trasmetterlo agli altri» (p. 302).
86
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questi ultimi però, pur seguendo a quella degli apostoli, è
fondamentalmente diversa; gli apostoli trasmettono ai vescovi la direzione della Chiesa, non il loro ufficio apostolico (p. 307). Inoltre, nulla dice il Nuovo Testamento, del
modo come i vescovi devono succedere ai vescovi (p.
308). E anche se nella Chiesa vi deve essere una successione e una direzione generale, che eserciti il potere delle
chiavi, il legare e lo sciogliere, «la cosa non può comunque avvenire limitandola ai futuri titolari di una data sede
episcopale. Questo principio di successione non è giustificabile né alla luce della Scrittura, né a quella della storia
della Chiesa antica; e in realtà la direzione della Chiesa
universale non può essere determinata in base a una successione intesa come vincolo ad una determinata sede episcopale. L’importanza di singole comunità per la Chiesa
universale va e viene. Ma la roccia, il fondamento per tutte
le chiese di tutti i tempi resta il Pietro storico, prescelto un
giorno da Gesù fra i Dodici e designato quale testimone
della sua vita e della sua morte e primo testimone della sua
risurrezione. Su di lui, Cristo, che è la pietra angolare, continuerà a edificare la sua Chiesa, finché ve ne sarà una sulla terra» (p. 334)98. Ma un fondamento cronologicamente
inteso e delimitato, come può essere «attuale» oggi?
98
Con finezza B. Ulianich, Linee di sviluppo, p. lviii nota: «Primo fra i
discepoli, primo fra gli apostoli, Pietro è anche, per il Cullmann, primo nel gettare le basi della teologia cristiana. Proprio Pietro che, durante la vita terrena
del Maestro, rifuggiva dal credere alla necessità della passione e della morte di
Gesù, incentra la sua teologia, dopo la risurrezione, nella morte di Gesù (il Servo
sofferente di Yahweh, vaticinato da Isaia). La soluzione cristologica più antica
è a Pietro che risale» (pp. 85-88; la Christologie ne dà attestazioni numerose e
convincenti: ed. franc.: pp. 66-68 e 71-73) e a lui anche «la tradizione evangelica più antica, se è vero che il più antico vangelo è quello di Marco» (p. 310).
Posizione lungimirante che le amplissime ricerche del commento a Marco di R.
Pesch (1976-1977: 2 voll., Brescia 1980-1982; cfr. pure Simon Pietro. Storia
e importanza storica del primo discepolo di Gesù Cristo, pp. 194-195) hanno
confermato (cfr. la nostra recensione: «Nicolaus» 16 [1989], pp. 245-258; cfr. in
particolare pp. 254-255).
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«Come può Pietro diventare attuale (nel senso etimologico
di presente) per la Chiesa di ogni generazione: proprio Pietro, e non presunti successori? Come può la Chiesa essere
ancora oggi fondata sulla persona storica dell’apostolo
Pietro» e non su presunti «successori»? (p. 309). Ciò è
possibile, secondo Cullmann, «soltanto se si rispetta l’unicità temporale del fondamento apostolico, cioè se l’impronta della sua persona e della sua opera, nella loro unicità storica, continua a esistere nel nostro presente come un
dato concreto del tempo della rivelazione» (p. 309). Come?
Non mediante la persona «di un vescovo vivente, inserito
in una ininterrotta catena di successione, bensì dagli scritti
apostolici» (p. 310). L’ulteriore azione degli apostoli continua, non attraverso il principio di successione, ma attraverso la loro parola e i loro scritti. Pietro rimane per noi la
«roccia» dei vangeli, nel Nuovo Testamento, in cui la rivelazione, proprio attraverso gli apostoli, si è costituita definitivamente. «Il presente è tempo della Chiesa, e appartiene alla storia della salvezza, ma ha da normarsi costantemente sul tempo apostolico della rivelazione, in quanto
centro del tempo: gli apostoli, la Chiesa apostolica, appartengono allo stesso tempo di Cristo. Il contatto fra Chiesa
attuale e fondamento storico è possibile proprio perché la
testimonianza apostolica, per mezzo della Scrittura, è divenuta un dato permanente della Chiesa del tempo intermedio, una norma definitiva dell’intera edificazione della
Chiesa»99. E attraverso questa testimonianza, in maniera
concreta, «eppure irripetibile», Pietro, in quanto primo dei
dodici, «ha da garantire la continuità fra il Gesù incarnato
e noi» (p. 311). «L’interrogativo che si formula a questo
punto da parte cattolica: chi garantisce al presente il riferi99
B. Ulianich, Linee di sviluppo, p. lviii; cfr. K.H. Schlaudraff, Heil als
Geschicte?, pp. 196 ss. Cfr. le precisazioni del Cullmann a questo riguardo, discutendo le tesi di R. Baumann (p. 312, n. 14).
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mento scritturale agli apostoli?, è in sé giustificato; ma
non vi si può rispondere in base al detto sulla roccia, che è
una dichiarazione di fondazione; la roccia è e resta qualcosa di unico. Garanti, sorveglianti, pastori, interpreti sono
naturalmente necessari nella Chiesa; ma essi sono infedeli
al loro compito se riferiscono a se stessi il detto circa la
roccia. Essi sono elementi indispensabili dei quali Cristo si
serve per proseguire l’edificazione della sua Chiesa. Essi
devono badare a che questa roccia rimanga incrollabile nel
posto ove Cristo l’ha posta, e così come l’ha posta. Sorveglianti, pastori e vescovi sono dunque strumenti della promessa di Gesù di edificare su Pietro la sua Chiesa» (p.
312). Quanto detto finora a proposito del fondamento, vale
anche, già l’abbiamo detto, a proposito della direzione della Chiesa da parte di Pietro. Bisogna precisare due cose:
«da un alto il carattere intrasmissibile della direzione della
comunità primitiva esercitata da Pietro», pur tenendo conto (ed è un fatto che deve rimanere ben fermo) che Pietro,
anche quando Giacomo assumerà la direzione della comunità gerosolimitana, «conserva comunque per ogni età una
grandezza e una dignità particolari, quella di essere stato il
conduttore della comunità primitiva nei primi giorni della
Chiesa di Gesù Cristo, cioè dell’intera Chiesa allora vivente» (p. 314); «dall’altro, il fatto che anche in seguito la
Chiesa deve avere una direzione e che Pietro è quindi in
qualche modo archetipo e modello di ogni futura direzione
ecclesiastica» (p. 314). Solo come «esempio» la direzione
esercitata da Pietro sulla Chiesa primitiva (e solo per un
certo tempo, prima dell’assunzione della direzione da parte di Giacomo: p. 317) può entrare in linea di conto; non
«un principio di successione legato a una catena ininterrotta» (p. 319). «Pietro non lascia Gerusalemme per trasferire
altrove il primato, ma per diffondere l’evangelo» (p. 316);
Pietro non è stato vescovo in Antiochia e, «quand’anche
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ciò fosse vero, non per questo egli ha diretto da Antiochia
l’intera Chiesa» (p. 317); certo Pietro è venuto a Roma e vi
è morto martire: «ma questo costituisce base sufficiente
per un’affermazione teologicamente così rilevante, nella
linea della storia della salvezza qual è quella secondo cui
soltanto la Chiesa, la cui direzione passi da un vescovo
romano all’altro, in successione ininterrotta, possa richiamarsi a Pietro e sia essa la sola Chiesa cattolica apostolica?» (p. 321). «Pietro infatti non ha mai insediato un vescovo come capo di tutta la Chiesa, e soprattutto egli non
ha posto in onore nessuna comunità, a parte Gerusalemme,
quale sede della propria direzione su tutta la Chiesa. Infatti, anche se dopo la direzione della comunità gerosolimitana egli avesse temporaneamente guidato, come missionario apostolico, qualche altra comunità, resta comunque il
fatto che egli in tal caso sarebbe stato soltanto più il capo
di quelle singole comunità, e non della Chiesa universale.
Capo della Chiesa universale, Pietro lo è stato soltanto in
Gerusalemme» (pp. 321 s.). «Il fatto che, con ogni probabilità, Pietro ha sofferto il martirio a Roma non può conferire a quella comunità la dignità che compete unicamente
alla Chiesa-madre di Gerusalemme: quella di avere costituito un tempo la totalità della Chiesa e di essere stata, in
quanto tale, guidata dall’apostolo Pietro, nel periodo apostolico della rivelazione» (p. 323). «Né da Antiochia, né
da Roma, ma solo in Gerusalemme Pietro ha, per un breve
tempo, diretto l’intera Chiesa. La storia del cristianesimo
primitivo non ci permette in alcun modo di pensare che
Pietro sia venuto a Roma per trasferirvi il primato» (p.
325). «Né il ruolo effettivo, che fino ad oggi hanno avuto i
vescovi della comunità romana, prova che essi debbano
esercitare quel primato che Pietro ha esercitato a Gerusalemme e che gli era stato promesso da Gesù» (p. 327). «È
un circolo vizioso, una petitio principi affermare che, poi90
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ché da un lato la promessa di Gesù a Pietro sussiste e
dall’altro si può constatare il fatto che Roma ha abbastanza
presto cominciato ad esercitare il primato, si debba desumere che tale primato poggia su quella promessa in modo
tale da essere normativo per ogni epoca» (p. 330).
d) In conclusione: Cullmann non ha alcuna difficoltà
a riconoscere il significato particolare, e anzi unico, rivestito dall’apostolo prima e dopo la morte e la risurrezione
del Signore; ovviamente, secondo Cullmann, è anacronistico attribuire a Pietro un ministero di tipo universale:
quest’ultima problematica è posteriore di secoli; resta il
ruolo dell’apostolo come testimone particolarmente autorevole della tradizione su Gesù. Parimenti non vi è problema, per Cullmann, a valorizzare la pericope matteana
come elemento forte. Il vero e proprio problema teologico,
e dunque anche ecumenico, che si pone con acuità anche
al di là delle soluzioni date al problema storico e al problema esegetico, come mostra tutta la discussione100, non
100
Non solo la discussione sorta attorno all’opera del Cullmann, ma anche
il prosieguo fino ad oggi, come abbiamo cercato di chiarire in Il primato di Pietro, servizio all’unità della Chiesa: invito alla lettura, «Credere oggi» n. 103,
1(1998), pp. 129-138, che parte proprio dalle ricadute del lavoro del Cullmann.
Nell’amplissima bibliografia (la rassegna più completa, e certo una delle più perspicaci, è forse quella curata da D. Valentini, in In cammino verso l’unità dei cristiani. Bilancio ecumenico a 40 anni dall’Unitatis Redintegratio, Roma 2005) a
titolo esemplificativo, ricordo tre saggi di spessore, in molti punti collimanti con
l’apporto cullmanniano: lo stringato lavoro del riformato valdese V. Subilia, Tu
sei Pietro. L’enigma del fondamento evangelico del primato, Torino 1978 che
non ha avuto tutta l’attenzione che merita (cfr. le recensioni di B. Gherardini,
«Divinitas» 23 [1979], pp. 335-345; P. Benoit, «RB» 87 [1980], pp. 460-461;
A. Moda, «Nicolaus» 16 [1989], pp. 261-263); le dense pagine del luterano W.
Pannenberg, Teologia sistematica: vol. 3 (1993), Brescia 1996, pp. 445-456 (già
abbiamo avuto l’occasione di rilevare l’attenzione del Cullmann alle posizioni
pannenberghiane); le tesi conclusive dello studio del cattolico W. Klausnitzer,
Das Papstamt im Disput zwischen Lutheranern und Katholiken. Schwerpunkte
von der Reformation bis zur Gegenwart, Innsbruck 1987, pp. 527 ss. Il recente, prezioso, contributo di S. Dianich, Per una teologia del papato, Cinisello
Balsamo 2010, nella sua parte critica (a giudizio del Dianich, Cullmann e la
teologia protestante in genere non considerano in modo adeguato «la dimensione
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riguarda la figura di Pietro, in quanto tale, bensì l’idea di
una successione petrina, la tesi cioè che vede nel vescovo
di Roma colui che esercita nella storia un ministero che
dovrebbe essere analogo a quello di Pietro. Secondo Cullmann, una simile costruzione non ha alcun fondamento
né nella Scrittura, né nell’antica tradizione della Chiesa.
Il papato romano è una delle espressioni storiche del ministero dell’autorità nella Chiesa, per molti aspetti assai
significativa e veneranda, che tuttavia non può rivendicare alcun particolare fondamento scritturale, né diretto,
né indiretto. Si comprende facilmente la direzione in cui
si è mossa la discussione, presso i protestanti e presso i
cattolici. In questa sede vorremmo concludere sottolineando un dato che ritorna nella discussione e che è per noi
importante, e cioè la coerenza delle posizioni cullmanniane, rispetto alla sua concezione heilsgeschishtliche. «Si
ha qui infatti una nuova conferma della consequenzialità
con cui il Cullmann applica l’idea di ephápax all’ecclesiologia. La Chiesa, egli dice, è edificata sul fondamento
degli apostoli e dei profeti. E poiché le fondamenta non
si gettano che una volta sola, la famosa parola di Gesù
riguardo alla Chiesa in Mt 16,18 non può fornire alcuna
giustificazione biblica al papato». Lo sfondo temporale
su cui vengono proiettate queste affermazioni «è sempre
quello del rapporto e della subordinazione del presente (lo
Zwischenzeit) al tempo centrale. Appartiene a questo non
sacramentale, pervasiva di tutta la realtà ecclesiale, come luogo importante nel
quale interpretare i rapporti della storia della Chiesa e del mondo con l’unico
ed irripetibile evento fondativo. Alla radice c’è pur sempre la radicalizzazione
del pur sacrosanto principio del sola fide che rischia di svuotare del loro valore
sacramentale più profondo sia i riti sacramentali, sia la dimensione misterica di
tutta la realtà della Chiesa, compresa la sua struttura ministeriale»: p. 49) come
nella sua parte propositiva (l’accentuazione della sacramentalità del ministro ecclesiale e, conseguentemente, della funzione petrina) pur con questioni da approfondire ulteriormente (nella linea indicata da A. Maffeis, «Teologia» 35 [2010],
pp. 506-508) resta emblematica della discussione attuale.
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soltanto il Cristo, che ne è il protagonista, ma anche l’apostolo, sia perché scelto dal Signore per l’annuncio dell’evangelo, sia perché testimone di Lui di fronte al mondo.
Non altrettanto si può dire del vescovo, che appartiene al
presente, e non può testimoniare il Signore se non di riflesso. Di conseguenza la successione apostolica, e in particolare il primato che il romano pontefice indebitamente
ripete da Pietro, sono per Cullmann nettamente al di fuori
della rivelazione neotestamentaria»101. Cullmann «non si
nasconde la documentazione biblica con cui il cattolicesimo sostiene la tesi del primato pontificio»; la espone anzi
con precisione; ma la critica severamente, proprio perché
la fa passare «attraverso il setaccio di quel suo inesorabile ephápax che esclude, con la sua unicità e decisività, il
rinnovarsi nel tempo intermedio di quei fatti che, appartenenti al tempo centrale, si prolungano nel presente, lo
guidano e lo riempiono di sé»102. Insomma, «nel dialogo
fra Cullmann e i cattolici attorno al Petrus ci troviamo davanti al fenomeno della coincidenza, da una parte, circa i
fatti ecclesiali e i testi scritturistici riguardanti la successione apostolica e petrina e del disaccordo, dall’altra, circa
il modo di rapportare fra loro fatti e testi e di qualificare i
fatti dal punto di vista teologico»103. È a queste dinamiche,
ritenute, giustamente dirimenti che Cullmann ritorna con
La Tradition, e vi ritorna nella linea di Christus und die
Zeit104, com’è logico che sia105.
101
B. Gherardini, La Seconda Riforma, vol. 2, pp. 264-265; cfr. B. Ulianich,
Linee, p. lx.
102
B. Gherardini, La Seconda Riforma, vol. 2, p. 266.
103
G. Maffei, Il dialogo ecumenico sulla successione, p. 81.
104
B. Ulianich, Linee di sviluppo, p. lxi.
105
B. Gherardini, La Seconda Riforma, vol. 2, p. 258: «Quello della tradizione è un elemento essenziale della concezione ecclesiastica cullmanniana. Se non
c’è la Chiesa al di fuori del rapporto tra il tempo intermedio e quello centrale, ne
deriva che non c’è presente, nella storia della salvezza, se il tempo centrale non
si proietta in avanti, qualificando il presente. Ciò avviene mediante la tradizione.
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5. La tradition. Problème exégétique, historique et
théologique106 riprende, rielaborandoli, due studi precedenti, non senza aver prestato la dovuta attenzione alle osservazioni mossegli da alcuni critici, in particolare da Daniélou107 e all’intera discussione suscitata dal Petrus, con
cui, intenzionalmente, Cullmann si ricollega (p. 157). Egli
infatti non intende trattare in lungo e in largo il problema
del rapporto fra Scrittura e Tradizione, che poco prima J.N.
Bakhuizen van der Brink aveva ripreso in un’opera fondamentale ancora oggi108, ma delucidarlo nella dinamica intercorrente fra «tradizione apostolica» e «tradizione postapostolica», intendendo il termine «apostolica» in senso
proprio, cioè «storico», «e non nel significato esteso che
gli attribuiscono sovente i teologi cattolici, quando identificano tradizione apostolica e tradizione ecclesiastica» (p.
158). Anche qui ci limitiamo a mettere in evidenza le linee di forza, che Cullmann stesso ha cura di sintetizzare in
apertura del suo studio (p. 159), inserendole in uno spirito
di franco ecumenismo che se non nasconde le differenze, le sa immettere in un clima nuovo (pp. 194-195); per
Occorre pertanto analizzare particolareggiatamente questo concetto, e il posto
che occupa nell’opera cullmanniana, anche perché se è indubbio che costituisce
un passo avanti d’incalcolabile valore rispetto alla classica teologia protestante,
sarebbe esagerazione non priva di pericoli scorgervi il segno d’un processo di
cattolicizzazione da parte del suo Autore».
106
Ed. franc., Paris-Neuchâtel 1953 (=Études de théologie biblique, pp. 157195; ed. parziale anche in Catholiques et protestants, Paris 1963, pp. 18-44); ed.
tedesca, Zürich 1954; tr. it., Studi di teologia biblica, pp. 203-256. Cfr. B. Ulianich, Linee di sviluppo, pp. lx-lxv; B. Gherardini, La Seconda Riforma, vol. 2,
pp. 258-263; G. Maffei, Il dialogo ecumenico sulla successione, pp. 85-163. Le
citazioni nel testo si riferiscono alla silloge francese.
107
Paradosis et Kyrios. Le problème de la tradition dans le paulinisme,
«RHPhRel» 30 (1950), pp. 16-30 (anche in inglese «Scottish Journal of Theology» 1950, pp. 150 ss.); Ecriture et tradition, «Dieu Vivant» 23 (1952), pp.
47-67 cui rispose J. Daniélou: «Dieu Vivant» 24 (1953), pp. 107-116.
108
J.N. Bakhuizen van der Brink, Traditio in de Reformatie en het katholicisme in de 16. euw., Amsterdam, 1952 che Cullmann cita p. 158.
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un approccio analitico, i testi non mancano109. Tre dunque
le parti110.
Nella prima Cullmann si sforza «di stabilire che il Nuovo Testamento considera come autore diretto della tradizione degli apostoli il Kýrios elevato alla destra di Dio»
(p. 159). A prima vista, il termine parádosis ha negli scritti
neotestamentari un senso non univoco. «Gesù e la comunità primitiva sono vissuti in un ambiente completamente intriso dalla concezione della parádosis, cioè dell’interpretazione rabbinica della Scrittura che aveva posto, sempre
di più, come norma accanto, e anche sopra la Scrittura. A
ragione Gesù rifiuta tutta questa parádosis ton presbytéron
come un’opera umana che, invece che interpretare la Scrittura, l’abolisce. Lo slogan dei giudei osservanti era: mantenere la tradizione. Gesù lo riprende ironicamente quando
dice: Voi mantenete la tradizione degli uomini, dopo aver
abolito i comandi di Dio. Nelle epistole paoline invece,
ritroviamo tutta la terminologia giudaica relativa alla
parádosis e non in un senso peggiorativo, anzi come oggetto di esortazione a mantenere le tradizioni» (p. 162).
L’apparente dissidio è presto risolto, a condizione di ben
interpretare il pensiero paolino che, a partire dal celebre
testo di 1Cor 11,23, è ben più complesso di quanto non
sembri. Che cosa significa: ho ricevuto la tradizione da
parte del Signore?; perché aggiungere «da parte del Signore» (apó tou Kýriou)?; perché non dire semplicemente, cosa indubbiamente vera, «da parte della comunità»?
109
Soprattutto le recensioni di P. Benoit («RB» 62 [1955], pp. 258-264
=Exégèse et théologie, vol. 2, pp. 309-317), S. Cipriani («Scuola Cattolica» 83
[1955], pp. 355-389), G. Mitchell («Irish ThQ» 23 [1956], pp. 12-24).
110
La tradizione apostolica e il Signore innalzato alla destra di Dio: pp.
159-174; la portata dell’unicità dell’apostolato: pp. 174-184; la portata della
fissazione del canone da parte della Chiesa del ii secolo: pp. 184-194 con una
conclusione ricapitolativa: pp. 194-195 e una precisa definizione dell’angolo
prospettico della trattazione: pp. 158-159.
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(p. 160). La soluzione tradizionale afferma: «Con la preposizione apó» l’apostolo intende l’origine cronologica
di tutta quanta la catena di trasmissione presupposta, cosicché bisogna intendere queste parole in questa maniera:
l’ho ricevuta partendo dal Signore; e di conseguenza sottintendere: l’ho ricevuta mediante una catena di trasmissione che comincia con il Signore» (p. 161), intendendo
con Signore, evidentemente, il Gesù storico. Tale soluzione non sembra rendere esattamente conto «della maniera sorprendente» (p. 161) con cui si esprime l’apostolo.
Cullmann, sfruttando una suggestione del Crisostomo
(p. 162), concordando con la soluzione tradizionale che
vede in 1Cor 11,23 (e nel susseguente 1Cor 15,3: p. 163)
una tradizione della comunità che a sua volta presuppone
una tradizione storica dei fatti (come ha ben sottolineato
il Goguel) che Paolo trasmette fedelmente, così come ha
ricevuto (cioè per mediazione: p. 163), se ne differenzia
nell’interpretazione del termine Kýrios, «che non designerebbe il Gesù storico, inizio cronologico e primo anello della catena di trasmissione, ma il Signore elevato alla
destra di Dio», che diventa così «il vero agente di tutta la
tradizione che si sviluppa in seno alla Chiesa apostolica»
(p. 161). Il Kýrios, in questa prospettiva, «è all’opera nella
trasmissione delle sue parole e delle sue opere mediante la
comunità primitiva» e «agisce attraverso essa» (p. 162).
«La mediazione non è esclusa» (p. 163), anzi, a credere a
J. Jeremias, è ben messa in evidenza, con forza particolare
(p. 163); questa catena di trasmissione, che implica tutti
e singoli gli apostoli, che vi hanno un posto particolare
in quanto testimoni oculari (p. 171), sia delle parole e sia
delle opere del Gesù terreno riconosciuto come il Risorto
e quindi come il Kýrios come accade a Paolo (p. 172),
costituisce un’estensione del tempo centrale nell’età apostolica (cioè nell’età degli apostoli, intesi come testimoni
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oculari: p. 165); quivi è all’opera il Signore Risorto, che,
compimento della Legge, prende il posto di tutta quanta
la parádosis giudaica (p. 165) e agisce nella forza dello Spirito Santo come sottolineano in particolare Paolo e
Giovanni (pp. 170-171), con un’idea che però può essere
considerata patrimonio comune dell’intera Chiesa primitiva (p. 171). Il Cristo non è qui inteso come il primo
anello di una catena di trasmissione (p. 167), ma «come il
contenuto e l’autore della tradizione» (p. 168). Ciò è particolarmente visibile in Paolo: «fra la affermazione di Paolo
secondo cui egli ha ricevuto l’Evangelo direttamente da
parte del Signore e il fatto di aver ricevuto delle tradizioni
da parte di altri vi è questo legame: il Cristo innalzato alla
destra di Dio si pone lui stesso come agente trasmettitore
dietro agli apostoli che trasmettono le sue parole e i racconti delle sue opere. L’apostolo Paolo può dunque mettere sul medesimo piano l’apocalisse (la rivelazione) del
cammino di Damasco e la tradizione apostolica ricevuta,
perché nelle due il Cristo presente è all’opera in maniera
diretta» (p. 168). «La trasmissione che si opera mediante
gli apostoli non è trasmissione operata mediante degli uomini (se non strumentalmente), ma trasmissione operata
dal Cristo stesso, il Kýrios che comunica la rivelazione
in questa maniera particolare» (p. 172). Ciò vale anche
quando Paolo (come mostra 1Cor 7,11), in mancanza di
una precisa parola da parte del Signore, dà una sua indicazione, che però s’ispira a questa generale parádosis
del Signore e resta comunque a essa «totalmente subordinata» (p. 173; cfr. p. 164). «Secondo la concezione del
cristianesimo primitivo, una parádosis ton apostólon non
è una parádosis ton anthrópon. Al contrario, è il Kýrios
stesso che presiede alla sua trasmissione, in modo tale che
non vi è più opposizione tra rivelazione apostolica e rivelazione diretta» (p. 174).
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Questa visione così nettamente positiva della parádosis apostolica111 autorizza ad attribuire il medesimo valore normativo alla parádosis ecclesiastica ulteriore,
così come fa la Chiesa cattolica «che identifica l’autorità
della Chiesa postapostolica che conserva, trasmette e interpreta il messaggio degli apostoli con l’autorità degli
apostoli» (p. 174)? La risposta, per Cullmann, è ovviamente negativa ed è la seconda parte dello studio ad offrire le delucidazioni necessarie. Cullmann, rifacendosi a
Königsherrschaft e a Christus und die Zeit, ricorda che
«l’alternativa: condizione o subordinazione della Tradizione alla Scrittura può essere riportata al problema del
come debba intendersi il fatto che il tempo della Chiesa è
la continuazione e lo sviluppo del tempo degli apostoli»
(p. 174), questione suscettibile di interpretazioni divergenti, «cosicché l’accordo sul fatto che la Chiesa continua
l’opera di Cristo sulla terra non implica necessariamente
l’accordo sul rapporto Scrittura-Tradizione» (p. 174). Nei
confronti di una posizione protestante troppo angusta che
nega al tempo della Chiesa qualsiasi specifico valore nella storia della salvezza (p. 174), occorre ribadire che «il
tempo della Chiesa fa parte della storia della salvezza»
perché altrimenti verrebbe misconosciuto un dato fondamentale, «che il Cristo regna attualmente e che la Chiesa è
111
L’aspetto cristologico che è la base della riflessione cullmanniana ha avuto momenti di ripresa molto forte e merita una considerazione più sostenuta.
Segnalo solo tre esempi che si sono espressi con esplicite intenzioni ecumeniche: F. Guimet, Tradition, souvenir du Seigneur et mystère de l’Esprit-Saint,
«Les quatre fleuves» 1(1973), pp. 97-108; J.L. Leuba, Que signifie pour des
Eglises divisées de faire appel à un passé commun?, in La portée de l’Eglise des
apôtres pour l’Eglise d’aujourd’hui, Paris-Bruxelles 1974, pp. 13-19; C. Morerod, Tradition et unité des chrétiens. Le dogme comme condition de possibilité
de l’oecuménisme, Langres, 2005 (con la recensione importante di A. Romita,
«Nicolaus» 34, 2[2007], pp. 210-218). Ma fin dal 1952, Ch. Moeller vi aveva
attirato con forza l’attenzione in un contributo che ha fatto data: Tradition et
oecuménisme, «Irénikon» 25 (1952), pp. 337-370.
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il centro del suo regno universale» (p. 176); ma parimenti
occorre sottolineare che il tempo della Chiesa è tempo
intermedio (Zwischenzeit) e che questo è il suo ephápax
irrinunciabile e specifico. «Il tempo della Chiesa prolunga il tempo centrale, ma non è il tempo centrale. Prolunga
il tempo di Cristo incarnato, ma non è il tempo del Cristo
incarnato e dei suoi apostoli-testimoni oculari. La Chiesa
è edificata sul fondamento degli apostoli e, finché esisterà, sarà edificata su questo fondamento, ma essa, non può
più produrre, nel tempo presente, degli apostoli» (p. 176),
anche se vi sono dei vescovi, che succedono agli apostoli,
«ma su un piano completamente differente» (p. 177). Ne
deriva, per quanto concerne la tradizione, una differenza
essenziale: da un lato si devono porre la fondazione-fondamento della Chiesa che ha luogo al tempo degli apostoli e la conseguente tradizione apostolica; dall’altro la
Chiesa post-aspostolica, che è la Chiesa dei vescovi e la
conseguente tradizione ecclesiastica; poiché la tradizione
apostolica è il fondamento della tradizione ecclesiastica,
non si può parlare di coordinazione (p. 178), ma solo di
subordinazione, sebbene ciò non implichi alcun deprezzamento per la tradizione ecclesiastica, poiché anche nello Zwischenzeit è all’opera lo Spirito Santo (p. 177). La
tradizione apostolica appartiene al tempo centrale, non
allo Zwischenzeit e fa parte dell’ephápax unico del tempo centrale, che, per l’appunto, va dalla nascita di Cristo
alla morte dell’ultimo apostolo (p. 175). Essa rileva (lo
ha notato giustamente Bultmann: p. 172) dall’esercizio
di una particolare competenza affidata dal Signore agli
apostoli, come missione personale e non ulteriormente
trasmissibile. Solo gli apostoli (i dodici e Paolo) hanno
ricevuto dal Signore incarnato e risorto l’ordine diretto
e unico di testimoniare ciò che hanno visto e udito. Ed è
tanto singolare il compito loro affidato, che anche a essi
99
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(ma solo a essi e non ai vescovi) vengono applicate le
immagini cristologiche più comuni e significative, come
pietra, fondamento, colonne (p. 176). «Vi è una sola tradizione normativa, quella degli apostoli, considerata nella
sua diversità come un’unità» (p. 178). «Certo, anche la
Chiesa rende testimonianza al Cristo; ma essa non può
rendergli quella testimonianza diretta che caratterizza la
testimonianza degli apostoli; la sua è una testimonianza
derivata, dato che non si appoggia più sulla rivelazione
diretta, che costituisce il privilegio dell’apostolo-testimone oculare» (p. 177). Certo sia la tradizione apostolica che
la tradizione post-apostolica (cioè ecclesiastica) rendono
testimonianza al Cristo e intorno al Cristo; la prima in
senso proprio, diretto ed esclusivo; la seconda invece in
maniera derivata, indiretta e subordinata. «Non già che il
Cullmann voglia in tal modo scavare un vuoto, ma solamente calcare l’idea che il tempo intermedio, quello della
Chiesa e della sua tradizione, ha un suo valore nella storia
della salvezza, nella misura in cui rispetta la sovranità di
Gesù Cristo e si appoggia alla pietra angolare e alle colonne della Chiesa»112.
Il problema che si pone allora è quello di rendere possibile l’incontro con la pietra angolare e le colonne della
Chiesa, cioè come attualizzare oggi, per noi, la testimonianza che Dio, per la salvezza del mondo, ha accordato
agli apostoli. È necessaria la successione apostolica, il magistero infallibile della Chiesa, la tradizione della Chiesa?
(p. 178). Per Cullmann (lo si sa già dal Petrus) è l’apostolo
stesso che ha da attuare la sua funzione, «nella Chiesa, non
attraverso la Chiesa, ma attraverso la sua parola, diá tou
lógou, in altri termini, attraverso i suoi scritti» (p. 178).
«Dio parla alla Chiesa di oggi attraverso la testimonianza
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B. Gherardini, La Seconda Riforma, vol. 2, p. 260.
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degli apostoli. Fin quando ci sarà una Chiesa, questa testimonianza degli apostoli sarà una norma sufficiente» (p.
181). La Chiesa ha certo «il diritto e il dovere di proclamare ciò che, esaminato alla luce della norma apostolica,
le appare come verità» (p. 182). Così si forma la tradizione ecclesiastica, «che ha un grande valore per la Chiesa
e che il protestantesimo ha torto di sottovalutare, in linea
di principio» (p. 182). Però tale tradizione non può mai
assumere lo stesso valore della norma apostolica (p. 181),
non potrà mai diventare norma essa stessa (p. 182). «La
testimonianza scritta degli apostoli è per noi l’elemento
vitale che sempre di nuovo ci pone in faccia a Cristo. Se
ci rendiamo conto della grandezza di questo miracolo,
cioè del ministero unico degli apostoli vissuti all’epoca
dell’incarnazione, realizzato in mezzo a noi, non da noi o
da qualche altro dei nostri contemporanei, ma proprio da
questi apostoli, uomini del primo secolo, allora non possiamo più parlare della Bibbia come di una lettera morta;
tuttavia questo presuppone che noi condividiamo la fede
dei primi cristiani secondo cui gli apostoli non sono scrittori comparabili ad altri autori dell’antichità classica, ma
uomini scelti da Dio affinché mettano in opera mediante la
loro testimonianza, prima orale e poi scritta, il suo piano
di salvezza» (p. 179). Il fatto dell’apostolato unico nella
storia divina della salvezza sembra a Cullmann sminuito nel suo valore e nella sua portata dal magistero infallibile, così come è concepito nella Chiesa cattolica (pp.
179-180); solo quanto è avvenuto nel tempo centrale (il
tempo dell’incarnazione che si prolunga fino alla morte
dell’ultimo apostolo) ha valore e carattere normativo (p.
182); certo il tempo centrale svolge la sua determinante
funzione nello Zwischenzeit che è il tempo della Chiesa,
ma tale funzione non è destinata a rinnovare l’irrepetibilità
del tempo centrale. Nel tempo centrale la determinazione
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viene direttamente dal Signore che sceglie gli apostoli cui
assegna un ruolo irrepetibile di fondazione, vincolante per
tutti i tempi (p. 183); nella tradizione ecclesiastica del tempo intermedio determinate è lo scritto apostolico. È esso,
appartenente in maniera irripetibile all’ephápax del tempo
centrale, ad essere dirimente. «Certo, il medesimo Spirito
che ha ispirato gli apostoli è all’opera nella Chiesa e la
Chiesa è il luogo in cui Cristo manifesta la sua presenza.
Non spegnete lo Spirito, dice s. Paolo ai Tessalonicesi; ma
sa anche che altri spiriti sono all’opera nella Chiesa stessa. Ecco perché aggiunge: Esaminate ogni cosa e ritenete
ciò che è migliore. Non significa negare l’ispirazione, se
si dice che essa deve essere controllata: controllata dalla
parola degli apostoli» (p. 184). Negare questo significa
negare la tensione, caratteristica fondamentale dello Zwischenzeit. Del resto, Cullmann ritiene (ed è questo l’argomento della terza parte) che è stata proprio la Chiesa
stessa a tracciare una netta e chiara linea di demarcazione
fra tempo degli apostoli e tempo della Chiesa, fra tempo
della fondazione e quello della costruzione, fra comunità
apostolica e Chiesa dei vescovi, cioè fra tradizione apostolica e tradizione ecclesiastica, proprio con la fissazione del
canone (p. 185). Così facendo (p. 186), «la Chiesa ha riconosciuto che a partire da quel momento ogni tradizione
ulteriore doveva essere sottomessa al controllo della tradizione apostolica. In altri termini, essa ha dichiarato: ecco
la tradizione che ha costituito la Chiesa, che s’è imposta
alla Chiesa. Con questo, certamente, essa non ha inteso
porre fine alla continuazione dell’evoluzione della tradizione. Ma, per un atto di umiltà, per così dire, essa ha sottomesso ogni tradizione ulteriore al criterio supremo della
tradizione apostolica codificata nelle Sacre Scritture» (p.
187). Così facendo la Chiesa del ii secolo «ha fissato una
norma a se stessa, ha sottomesso la Chiesa di tutti i secoli
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futuri a questa norma. In questo modo essa non ha privato
la Chiesa del suo magistero, ma ha dato al magistero il
suo carattere preciso. Esso sarà veramente magistero della
Chiesa solamente nella misura in cui prenderà il suo punto
di partenza nell’atto di sottomissione alla norma ecclesiastica del canone» (p. 188). Dire che gli scritti riuniti in un
canone (la tradizione apostolica certo, ma anche l’Antico Testamento «testimonianza di quella parte della storia
della salvezza che ha preparato l’incarnazione» p. 189),
devono essere considerati come norma, significa riconoscerli come sufficienti. E questi scritti si sono imposti alla
Chiesa non perché nel periodo precedente la fissazione
del canone «esistesse un’autorità dottrinale propriamente
detta», bensì «attraverso la loro autorità apostolica intrinseca, come s’impongono ancora oggi anche a noi, poiché
in essi parla il Cristo, il Kýrios» (p. 188). Ma così «non
significa forse accordare alla Chiesa del secondo secolo
che ha concepito questa idea del canone una dignità eccezionale?» Bisogna rispondere positivamente. «Bisogna
infatti riconoscere che quello fu un momento decisivo per
il tempo della Chiesa. Da un lato, verso il 150 si era ancora
assai vicini al tempo degli apostoli per fare, con l’assistenza dello Spirito Santo, la scelta fra tradizioni orali e scritte;
d’altro lato il pullulare spaventoso di tradizioni gnostiche
e leggendarie aveva reso la Chiesa matura per quell’atto
di umiltà che è la sottomissione di ogni ispirazione ulteriore a una norma. La fissazione del canone non poteva
essere intrapresa in nessun altro momento del tempo della
Chiesa. È in questo momento preciso che Dio ha accordato
alla sua Chiesa la grazia di riconoscere la differenza fra
il tempo dell’incarnazione e il tempo della Chiesa» (pp.
188-189). «La distinzione netta fra questi due periodi è
la sola che possa permettere alla Chiesa di conservare la
sua alta coscienza di avere nella storia della salvezza il
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suo posto, il suo tempo specifico. Essa l’ha precisamente
nella misura in cui riconosce che il tempo di Gesù e degli
apostoli è il centro di tutti i tempi e dà il significato proprio a tutti i tempi, quindi anche al tempo della Chiesa.
Creando una norma, la Chiesa non ha voluto essere la sua
propria norma, proprio perché aveva costatato che, senza
una norma scritta superiore, il suo magistero non avrebbe saputo conservare integra la tradizione apostolica» (p.
189). La fissazione del canone, avvenuta nel ii secolo, vale
d’altronde come autorità normativa dirimente non solo nei
riguardi della tradizione postapostolica (p. 189), ma anche della tradizione preapostolica dell’Antico Testamento
(p. 190), proprio perché appartiene, come atto eccezionale
ed unico, al tempo centrale, nettamente distinto dal tempo
della Chiesa, sebbene operante in essa mediante la tradizione apostolica113.
A simili conclusioni si giunge anche partendo «dalla
fissazione definitiva della regola di fede apostolica» che
«risponde esattamente allo stesso bisogno di codificare la
tradizione apostolica come la canonizzazione degli scritti
apostolici» (p. 191). Questo credo è «infatti come il riassunto apostolico dei libri neotestamentari»; la sua funzione è di essere norma, regola di tutta la tradizione postapostolica; perciò (e ben lo videro i Padri della Chiesa),
dovendo fungere «da norma interpretativa» non può che
essere tradizione apostolica (p. 191). Non deve quindi essere confuso con la futura elaborazione dei vari simboli
elaborati dai Concili (che fanno parte, per quanto venerandi, solo della tradizione postapostolica: p. 192). Proprio
perché apostolico (e ponentesi anch’esso verso la metà del
113
B. Ulianich nota giustamente che proprio grazie a tale netta distinzione
Cullmann salva il principio scritturistico della sua tradizione confessionale, poiché l’atto di fissazione del canone scritturistico non è riconosciuto come prova o
fondamento del principio della tradizione: Linee di sviluppo, p. lxv.
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ii secolo: p. 192), tale credo riveste una funzione analoga
alla fissazione del canone (p. 193) e appella al medesimo
principio (p. 192), permettendo così «d’intendere per i secoli avvenire la parola degli apostoli e di fare esperienza
della presenza del Cristo, privilegio che nessuna tradizione
orale non apostolica poteva più assicurare» (p. 193). Così
la Chiesa, fissando il canone e la regola di fede apostolica,
pone essa stessa una netta, decisiva e definitiva distinzione
fra tradizione apostolica e tradizione postapostolica, in cui
si svolge l’interpretazione, certo necessaria (p. 193) della Scrittura da parte del magistero della Chiesa del tempo
intermedio, che però non ha valore vincolante per sempre
(p. 193). Cullmann riconosce che molte cose sono mutate
su questa tematica nel confronto confessionale (p. 194) ed
è agevole concordare con lui114; ma rileva, e giustamente,
anche il persistere delle divergenze (p. 195). I cattolici,
particolarmente chiamati in causa, se esprimono da un lato
la loro riconoscenza perché Cullmann ha saputo rilanciare
la discussione115, stimolandoli con forza116, non nascondono dall’altro le loro perplessità, non comprendendo la
necessità di una cesura così radicale fra tempo centrale e
114
Si vedano le poche pagine scritte a questo riguardo da H.A. Obermann,
che presentano lo scritto cullmanniano (nelle sue parti essenziali) in Catholiques
et protestants. Confrontations théologiques (1961), Paris 1963, pp. 15-17. Un
bell’esempio è dato dal contributo di W. Rordorf, Le problème de la tradition
dans la discussion oecuménique des dernières décennies, in La tradizione. Forme e modi, Roma 1990, pp. 7-30.
115
Un testo molto significativo è il contributo di J.R. Geiselmann, Schrift,
Tradition, Kirche: ein oekumenisches Problem, nella Festschrift Otto Karrer:
Begegnung der Christen (Stuttgart-Frankfurt 1959), curata proprio dal Cullmann (con M. Roesle), ripreso in Catholiques et protestants (Ecriture, Tradition, Église: un problème oecuménique: pp. 48-79), cui una recente indagine
dedica ampio spazio: J. Garcia Morales, La inspiración biblica a la luz del principio católico de la tradición, Roma 2012, pp. 123-264 (la tradizione come viva
voce del vangelo nella chiesa: Geiselmann, Congar, J.A. Moeller).
116
Per un inquadramento, amplissima è la ricerca di J.G. Boeglin, La question de la Tradition dans la théologie catholique contemporaine, Paris 1998.
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tempo intermedio. Cullmann però è rimasto sulle sue posizioni; come abbiamo visto, in Heil als Geschichte ne ha
dato un approfondimento notevole117; e in altre occasioni
vi è ritornato sopra con precisazioni di non poco conto118.
Noi possiamo fermarci qui. Il lungo percorso cui ci siamo assoggettati in questo contributo ci ha messo in grado
di comprendere appieno il duplice livello della riflessione
cullmanniana: da un lato la rivendicazione coerente di un
progetto heilsgeschichtlich che lo ha opposto a una visione
per molto tempo maggioritaria in seno alla teologia protestante; dall’altro la rivendicazione di una ben specifica
riflessione, tutta ruotante nella caratterizzazione del tempo intermedio, con la sua dialettica con il tempo centrale,
scandito dall’unicità irripetibile dell’ephápax, visione che
ha dato luogo a un’amplissima discussione ecumenica. È
la ricezione di quest’opera che ora ci accingiamo a compiere per sommi capi. Essa, ancora una volta, aiuterà a
comprendere la forza di questa teologia che non ha mai
velato (anzi, da quanto detto, ha sempre sottolineato) la
sua appartenenza confessionale, utilizzandola per aprire
nuove strade, con un progetto di rara coerenza e lucidità.
Il mistero della redenzione, pp. 401-427.
Segnalo in special modo: Die Bibel auf dem Konzil, in Diaolog unterwegs
(a cura di G. Lindbeck), Göttingen 1965, pp. 144-159; Renouveau biblique et
oecuménisme, in Rencontre oecuménique à Genève (a cura di J.G. Bodmer),
Genève 1965, pp. 119 ss.; Die Kritische Rolle der heiligen Schrift, in Die Autorität der Freiheit (a cura di J.C. Hampe), München 1967, vol. 1, pp. 189197; Die Reformbestrebungen des Zweiten Vatikanischen Konzils im Lichte der
Katolischen Kirche, «ThLZ» 92 (1967), pp. 1-22 (=Vero e falso ecumenismo,
Brescia 1972, pp. 11-54); Oekumene, Bibel und Exegesis, in Freiheit in der Begegnung (a cura di J.L. Leuba e H. Stirnimann), Stuttgart-Frankfurt 1969, pp.
31-39 (=Vero e falso ecumenismo, pp. 77-89), esaurientemente presentati da G.
Maffei, Il dialogo ecumenico sulla successione, pp. 135-141.
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