Isola Nera 1/33 Maggio 2006

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Isola Nera 1/33 Maggio 2006
Isola Nera 1/34
Casa di poesia e letteratura.
La prima in Sardegna, in Italia, aperta alla creazione letteraria degli autori
italiani e di autori in lingua italiana.
Isola Nera è uno spazio di libertà e di bellezza per un mondo
di libertà e bellezza che si costruisce in una cultura di pace.
Direzione Giovanna Mulas. Coordinazione Gabriel Impaglione.
[email protected] - giugno 2006 - Lanusei, Sardegna
Pubblicazione Patrocinio UNESCO. Inserita nella categoria Riviste (italia)
http://www.unesco.org/poetry/
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Gabriel Impaglione
Argentina
Tratto da Carte di Sardinia
Nell’immensità delle pianure del sale
cercarono le reti
il pesce d’oro, i porti dove ancoravano
la prima aurora, il bacio dell’ultima sirena,
la casa stabilita del pane caldo.
Furono le navi l’origine delle moltitudini.
Negli umidi corridoi dove nacquero
speranze, figli morti, garofani
nelle mani
uno dietro l’altro in lunga fila di silenzi
resero le loro lingue
le valigie sovraccariche di domande.
Allora subirono nella terra nuova le scarpe
rotte alle impalcature
costruirono la volontà del pranzo.
Si guastarono la pelle fino a denudare la piaga
dove il dolore pulsa il suo primo grido,
li bruciò la calce, la macchina
gli tolse una mano, l’olfatto, li morsicò la luce,
ogni paga giornaliera fu una spugna d’aceto.
Nei rioni dove il muschio d’orina
non ha potuto con la rosa, aprirono un vuoto
nel freddo per cullare i figli.
La terra li chiamò seme e il seme
padre, e fondarono l’esplosione del cereale.
E così la ruota avanzò dove nulla fu e nulla successe se non il vento.
Il cammino si fece stenditoio di cranii e papaveri,
stracci, nomi perduti, guerre
che morsicavano la memoria, lunghe traversie
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cercando l’origine che non era se non la nuova
direzione.
Il ritorno coperto nelle cartoline
a volte trepidò come un passero ferito.
Riempirono i nuovi orizzonti di olive,
chitarre, strutture, viti, punti di partenza,
e sollevarono la casa che li vide nascere, partire
e tornare ogni domenica il meglio dei sogni.
Molto dopo nelle pianure del sale
i figli rientrarono per il pesce d’oro
il palmo d’aria
il possibile
di spalle all’humus carbonizzato dalla tristezza.
Allora i paesi di strade strette,
dove già nessuno aspettava notizie d’oltre mare,
dove restavano molto lontane
le nuove dimensioni del mondo.
En la inmensidad de las llanuras del salitre
buscaron las redes
el pez de oro, los puertos donde anclaban
la primera aurora, el beso de la última sirena,
la casa establecida del pan caliente.
Fueron los barcos el origen de las multitudes.
En los húmedos corredores donde nacían
esperanzas, hijos muertos, claveles
en las manos
uno detrás de otro en larga fila de silencios
rindieron sus lenguas
las valijas abarrotadas de preguntas.
Entonces subieron en la tierra nueva los zapatos
rotos a los andamios
construyeron la voluntad del almuerzo.
Se gastaron la piel hasta desnudar la llaga
donde el dolor pulsa su primer grito,
los quemó la cal, la máquina
les llevó una mano, el olfato, les mordió la luz,
cada jornal fue un esponja con vinagre.
En los arrabales donde el musgo del orín
no pudo con la rosa, abrieron un hueco
en el frío para acunar los hijos.
La tierra los llamó semilla y la semilla
padre, y fundaron el estallido del cereal.
Y así la rueda avanzó donde nada hubo y nada
sucedía sino viento.
El camino se hizo tendedero de cráneos y amapolas,
harapos, nombres extraviados, guerras
que mordían la memoria, largas travesías
en busca del origen que no era sino la nueva
singladura.
El regreso cobijado en las postales
a veces tembló como un pájaro herido.
Llenaron los nuevos horizontes de aceitunas,
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guitarras, estructuras, vides, puntos de partida,
y levantaron la casa que vio nacer, partir
y regresar cada domingo lo mejor de los sueños.
Muy después a las llanuras del salitre
los hijos regresaron por el pez de oro
el palmo de aire
lo posible
de espaldas al humus carbonizado por la pena.
Entonces los pueblos de calles estrechas,
donde ya nadie esperaba noticias de ultramar,
donde quedaban muy lejos
las nuevas dimensiones del mundo.
Il vento è un fiume perduto
Scorre notturno la sua multitudine minuta.
C’è un’ora fragile,
luna di pane lontana da un bambino.
Nelle gemme la tua carezza lenta
e marzo nell’isola.
Tu vieni come il giorno che nasce
a parlarmi della vita
e marzo nella patria lontana.
Là le ferite sono calli in tumulto
e il vento, donna mia,
marcia in silenzio, tristemente…
corteo di volti e parole.
Persistente ondeggìo di memorie.
Mai Più
nel suo eco ingovernabile.
El viento es un río extraviado.
Escurre nocturno su muchedumbre diminuta.
Hay una hora frágil,
luna de pan lejos de un niño.
En los brotes tu caricia lenta
y marzo en la isla.
Tu vienes como el día que nace
a hablarme de vida
y marzo en la patria lejana.
Allá las heridas son cauces bravíos
y el viento, mujer,
marcha callado, apesadumbradamente...
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cortejo de rostros y palabras.
Persistente oleaje de memorias.
Nunca Más
en su eco ingobernable.
è in distribuzione
Carte di Sardinia
di Gabriel Impaglione
Poesia, spagnolo / italiano
UNI-Service Editrice Italiana
Prenotazioni e ordinazioni : Via Verdi 9/A, 38100 Trento
www.uni-service.it / [email protected]
Pablo Neruda
Cile
Se non fosse perché
Se non fosse perché i tuoi occhi hanno color di luna,
di giorno con argilla, con lavoro, con fuoco,
e tieni imprigionata l'agilità dell'aria,
se non fosse perché sei una settimana d'ambra,
se non fosse perché sei il momento giallo
in cui l'autunno sale su pei rampicanti
e anche sei il pane che la luna fragrante
elabora passeggiando la sua farina pel cielo,
oh, adorata, io non t'amerei!
Nel tuo abbraccio io abbraccio ciò ch'esiste,
l'arena, il tempo, l'albero della pioggia,
e tutto vive perché io viva:
senz'andare sì lungi posso veder tutto:
vedo nella tua vita tutto ciò che vive.
Dino Campana
Italia
Viaggio a Montevideo
Io vidi dal ponte della nave
I colli di Spagna
Svanire, nel verde
Dentro il crepuscolo d'oro la bruna terra celando
Come una melodia:
D'ignota scena fanciulla sola
Come una melodia
Blu, su la riva dei colli ancora tremare una viola...
Illanguidiva la sera celeste sul mare:
Pure i dorati silenzii ad ora ad ora dell'ale
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Varcaron lentamente in un azzurreggiare: ...
Lontani tinti dei varii colori
Dai più lontani silenzii
Ne la ceste sera varcaron gli uccelli d'oro: la nave
Già cieca varcando battendo la tenebra
Coi nostri naufraghi cuori
Battendo la tenebra l'ale celeste sul mare.
Ma un giorno
Salirono sopra la nave le gravi matrone di Spagna
Da gli occhi torbidi e angelici
Dai seni gravidi di vertigine. Quando
In una baia profonda di un'isola equatoriale
In una baia tranquilla e profonda assai più del cielo notturno
Noi vedemmo sorgere nella luce incantata
Una bianca città addormentata
Ai piedi dei picchi altissimi dei vulcani spenti
Nel soffio torbido dell'equatore: finché
Dopo molte grida e molte ombre di un paese ignoto,
Dopo molto cigolìo di catene e molto acceso fervore
Noi lasciammo la città equatoriale
Verso l'inquieto mare notturno.
Andavamo andavamo, per giorni e per giorni: le navi
gravi di vele molli di caldi soffi incontro passavano lente:
Sì presso di sul cassero a noi ne appariva bronzina
Una fanciulla della razza nuova,
Occhi lucenti e le vesti al vento! ed ecco: selvaggia a la fine di un giorno che apparve
La riva selvaggia là giù sopra la sconfinata marina:
E vidi come cavalle
Vertiginose che si scioglievano le dune
Verso la prateria senza fine
Deserta senza le case umane
E noi volgemmo fuggendo le dune che apparve
Su un mare giallo de la portentosa dovizia del fiume,
Del continente nuovo la capitale marina.
Limpido fresco ed elettrico era il lume
Della sera e là le alte case parevan deserte
Laggiù sul mar del pirata
De la città abbandonata
Tra il mare giallo e le dune...
Uno spazio Libero!!!
Il blog di Isla Negra
http://isla_negra.zoomblog.com
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Bartolo Cattafi
Barcellona Pozzo di Gotto, Messina 1922-1979 Italia
Capanno
Vorrei mettere in ordine
e a piombo
questa materia grezza
malta fango mattoni
fami il capanno degli attrezzi
che poi sono quei quattro
gatti di sentimenti e stilemi
due remi per la barca
e una candida dea
seminuda
con pochissime idee per la mente.
Teódulo López Meléndez
Venezuela
Paura
Sembrano coltelli carnefici
qui
nella solitudine della sera
i becchi delle ombre.
Traggo
dal tuo armadio
foulard che volano.
Un po´di luce
ti siluetta nela mia gola.
Tratto da BIFFA: Traduzione dello spagnolo: Daniela Baldassari
Francesco Guccini
Italia
Signora Bovary
Ma che cosa c'è in fondo a quest' oggi
di mezza festa e di quasi male,
di coppie che passano sfilacciate
come garze stese contro il secco cielo autunnale,
di gente che si frantuma in un fiato
senza soffrire, senza capire
e i tuoi pensieri sono solo uno iato
tra addormentarsi e morire...
Ma che cosa c'è in fondo a questa notte,
quando l' ora del lupo guaisce
e il nuovo giorno non arriva mai, mai
e il buio è un fischio lontano che non finisce
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di minuti lunghi come il sudore,
di ore che tagliano come falci
e i tuoi pensieri solo un cane in chiesa
che tutti prendono a calci...
Ma cosa c'è, cosa c'è...
atrii a piastrelle di stazioni secondarie,
strade più strade di avventure solitarie,
clown nella notte,
valigie vuote,
piene di trucchi per tragedie immaginarie...
...telecomandi per i quotidiani inferni,
battute argute di architetti postmoderni,
amanti andate,
piaceri a rate,
pallottolieri per contare estati e inverni...
Ma che cosa c'è proprio in fondo in fondo,
quando bene o male faremo due conti,
e i giorni goccioleranno come i rubinetti nel buio
e diremo "...un momento, aspetti..." per non essere mai pronti,
signora Bovary, coraggio, pure
tra gli assassini e gli avventurieri,
in fondo a quest' oggi c'è ancora la notte,
in fondo alla notte c'è ancora, c'è ancora....
Gladys Sica
Argentina
Ciò che mi resta
Atavico appartarsi
fra ombre tese.
Partirò, questa volta,
più lontano
dove vedrò la grande onda
nuda.
Perché vivere e morire?
Per un piccolo fulgore,
un’implacabile tristezza.
Dove va tutto l'amore non dato?
Dove vanno i sacri sogni?
Dove andrà tutto questo tempo?
Di nero si è riempito il quadro:
irrefrenabile uragano
a raffiche mutevoli.
Silenzio su silenzio,
come coltelli,
polverizzano l'insalvabile futuro.
Soccombono labbra e braccia.
Non mi resta una parola
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da donarti
né un rosso, né un bianco.
Nel fuoco del silenzio -i l viaggio- Poesia Edizioni "Archivi del '900", MI, 2005
Giancarlo Micheli.
Italia
Prima della pioggia
Al patrilineare richiamo dei passeri
Nell’aria catafratta d’azzurro
Sotto asili di embrici e pergole
Si risvegliarono
E un’odorosa brezza sentiva
Le labbra delle finestre schiudersi
Dentro era tutta una febbre di corpi
A spogliarsi di settimane e di mesi
In un’ombra cortese sedevano
Tra le ringhiere ed i muri sbreccati
Dove giocavano il sole e la pietra
E si dicevano in gran segreto
Di voler far crescere l’erba
Dal cortile all’eternità.
"Che": Un rivoluzionario scomodo
di Giuliano Naria
<L'odio come fattore di lotta, l'odio intransigente per il nemico, che spinge l'essere umano oltre i limiti naturali e lo
trasforma in un'efficace, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere. I nostri soldati devono essere così; un
popolo senza odio non può trionfare su un nemico brutale>. (Ernesto "Che" Guevara: "Creare due, tre, molti
Vietnam") .
Quando era vivo, lo chiamavano "rivoluzionario da farmacia", "avventuriero", dopo la sua morte lo hanno rivalutato per
trasformarlo nel rivoluzionario buono da contrapporre a quelli cattivi, cioè a quelli che, come lui, hanno provato a fare
la rivoluzione. Improvvisamente, qualche anno fa, lo hanno tirato fuori dal limbo della storia, in cui lo avevano
collocato, per trasformarlo in un mito da consumare e da sfruttare, adattandolo al gusto di ogni palato. Ne è venuto fuori
quanto di più surreale si potesse immaginare: "un James Dean" latino-americano, un "beat" senza chitarra, "una Teresa
di Calcutta" di sinistra, un "rivenditore di motociclette usate" senza patente, un "esistenzialista" un po' romantico, e,
peggio del peggio: "un Bertinotti giovane". Stimati falsi intellettuali hanno potuto pubblicare le loro cazzate, e persino
farci i soldi, rincorrendo e alimentando questa moda. Ridicoli voltagabbana più o meno telegenici, per agguantare un
pizzico di notorietà, hanno urlato insulse asinate contando su di un ascolto garantito e, spesso, complice. Ci si sarebbe
aspettati che qualcuno dei "guevaristi" più accesi, che bazzicano i "Centri sociali" e le sezioni di "Rifondazione
comunista" si fosse pronunciato contro questo scempio, ma erano occupati a chiedere "marijuana libera" o a discutere
sull'ultima giacca del loro segretario e hanno preferito tacere.
Infine, sull'onda di un contraddittorio penoso tra l'ex-rivoluzionario Regis Debray e una delle figlie del "Che"
riguardante " ciò che non siamo mai stati e comunque non siamo più", finalmente Rossana Rossanda ha preso la
penna in mano e con il suo classico stile di dire e non dire, ha oscuramente accennato ad una verità che gente come lei
avrebbe il dovere, ma non ha fatto, di rivelare ai giovani. Questa verità, la Rossanda, non ha poi rivelato, lasciandoci
tutti, giovani e non giovani, in spasmodica attesa. Nel suo articolo sul Manifesto, però, adombra un fattaccio: forse il
"Che" non era democratico, forse il "Che" non era neppure un pacifista, un ecologista, un femminista o un gay. Forse
non era un dissociato, un pentito, un voltagabbana e, oggi come oggi, non avrebbe votato "Ulivo" e letto Liberazione
nella sala d'attesa di una organizzazione umanitaria. Forse era uno di quei cattivi comunisti da cui la creazione del suo
mito "usa e getta" ci avrebbe dovuto proteggere e immunizzare. O forse la banda degli "intelligenti" che ha messo in
pedi il teatro si è accorta di stare esagerando, se qualcuno leggesse veramente le opere del "Che", non quelle degli
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illustri biografi, magari potrebbe cominciare a dubitare e poi indignarsi, e poi ancora pensare di trasformare il mondo
con il mitra in mano. Chissà!
L'irritazione della Rossanda ha contribuito a demitizzare il "Che", a farlo ritornare quello scomodo rivoluzionario che è
sempre stato. E pertanto bisogna ringraziarla. Ora, fuori dal mito e fuori dai denti, forse sarà possibile riprendere i testi
di Guevara, leggere la sua strategia e imparare a confrontarsi con la sua azione.
Il pensiero del "Che", una volta compiuta la rivoluzione cubana, strategicamente si articola su due livelli: la rivoluzione
latino-americana e la lotta dei popoli contro l'imperialismo. Occorre ricordare che Guevara è stato essenzialmente un
comandante guerrigliero e che il suo maggiore contributo al marxismo-leninismo è stato quello di aver sviluppato la
teoria della "guerra rivoluzionaria". Ci dispiace sottolinearlo, il "Che" non ha mai scritto poesie o canzoni, ma si e
soffermato soprattutto sulle tecniche guerrigliere e sulle motivazioni che spingono un uomo a trasformarsi in un soldato
e a combattere. La "teoria del foco", cioè del focolaio guerrigliero, a suo tempo fece discutere e ricevette numerose
critiche ma anche altrettante adesioni. Almeno due generazioni di latino-americani hanno sentito come supremo dovere
non quello di girare il continente in motocicletta, ma quello di dare inizio ad una lotta armata che si trasformasse in una
guerra di liberazione. E molti di questi sono morti dopo aver imbracciato il fucile.
L'esempio del "Che" ha portato uomini e donne anche in Occidente non a dedicarsi alla riproduzione delle magliette con
il volto barbuto del comandante, ma a cercare di creare le condizioni per impiantare una guerra popolare nei loro paesi.
Possono aver commesso errori, ma non certo quello di aver tentato di aprire un processo rivoluzionario nel cuore del
dominio imperialista.
Il "Che" dunque ci ha rimesso tre lasciti (oltre a quello, enorme, di aver partecipato come dirigente politico-militare alla
rivoluzione cubana e alla costruzione del socialismo a Cuba): l'esempio, la teoria, la strategia. L’ esempio: non basta
parlare, bisogna agire in prima persona, prendere le armi e combattere. La teoria del "foco": non occorre aspettare
all'infinito le cosiddette condizioni rivoluzionarie, bisogna contribuire a crearle e l'organizzazione di una banda
guerrigliera è il più importante contributo che ciascuno di noi può dare. E la strategia che lui stesso condensò in una
frase: "creare due, tre, molti Vietnam".
Credo che un "guevarista", e anche un non guevarista, debba riflettere su questi lasciti, piuttosto che dedicarsi ad
organizzare insulse tavole rotonde, in attesa che cominci il concerto, in cui gli ipocriti, i traditori, e tutti coloro che
quando ebbero l'opportunità di seguire l'esempio del "Che" non lo fecero, tengano banco tra gli applausi ingenui dei
fumatori di marijuana e degli estimatori di giacche.
Torniamo un attimo alla strategia. Dice il "Che" (ma, se non l'avete ancora fatto, andatevelo a leggere che è meglio!)
che la rivoluzione nel continente latino-americano ( la "Patria Grande"), pur mantenendo una specificità paese per
paese, è un unico processo dato che i tratti comuni sono e restano forti e presenti. Unico è il dominio dettato
dall'imperialismo statunitense e dai loro servi che occupano posizioni di potere nelle varie nazioni. Comune è il passato
coloniale, le forme di sfruttamento e di oppressione. Comune è, in larga parte, la lingua, la cultura, i valori, la fame e la
sofferenza. Come comune fu, in larga parte, la lotta di indipendenza dal dominio coloniale, e ora l'ansia di rivolta e di
riscatto. Comune è il senso di appartenenza, ontologico si potrebbe quasi dire, tra i vari popoli e individui che abitano
questo grande continente.
Questo progetto, per il quale il "Che" morì in Bolivia, è ancora attuale, a mio giudizio, e ciò che più importa, inquadrato
in una differente concezione, ancora in corso.
"Creare due, tre, molti Vietnam", ovvero la seconda lama della forbice della strategia guevarista, è una provocazione (in
senso intellettuale) che conserva, a mio parere, tutto il suo significato euristico. Contro l'equivoco umanitarismo delle
associazioni, contro il pacifismo ipocrita, contro la solidarietà fasulla, conviene ricordare che l'internazionalismo
proletario consiste nell'individuazione del nemico comune, che oggi è sempre lo stesso di ieri: l'imperialismo, in primo
luogo nordamericano, e nella lotta mortale contro di esso. Occorre perciò che ciascuno trasformi il proprio paese in un
Vietnam per non trovarci ad ogni nuova situazione a dire: "che fare per gli hutu? ... E per i bosniaci?... ; Dobbiamo
manifestare contro i Talibani o sostenere il Papa?"
In questo momento di atroce confusione, occorre fare chiarezza e occorre che tutti facciano chiarezza. La politica deve
tornare al posto di comando. Inseguire, belando, i disastri provocati dall'imperialismo e dalla logica del dominio e del
profitto comporta che, a un certo punto, senza saperlo uno si trovi a combattere sullo stesso fronte insieme al... nemico!
E' quello che sta succedendo. Alcuni l'hanno capito e se lo tengono per sé: anche loro sono il nemico.
L'aridità intellettuale, l'eterna ingenuità, la mancanza di curiosità portano all'egemonia dei mostri, al regno dell'idiozia.
Alimentando un processo di svilimento della ragione. Alcuni semplici paragoni tratti dalla fenomenologia del
quotidiano ci aiutano a capire. E' come coloro che credono di fare del bene perché danno mille lire al povero bambino
albanese trovato al semaforo e non sanno, o fanno finta di non sapere, che quel bambino è schiavo di una mafia di
farabutti e le mille lire finiscono in mano ai farabutti perpetuando la schiavitù dei bambini. E' come coloro che si
credono pacifisti ed ecologisti perché vogliono mettere al bando le mine antiuomo senza aver messo al bando prima le
bombe atomiche e i missili intelligenti, privando i poveri di una delle poche armi alla loro portata. O quelli che
chiedono l'abolizione del servizio militare in favore di un esercito professionale, in modo che il popolo sia espropriato
anche del diritto simbolico di difendere la propria libertà. Gli esempi sono infiniti e aumentano con lo scorrere del
tempo.
Dunque: creare due, tre, molti Vietnam. La liberazione di noi stessi non può essere opera che di noi stessi.
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<<Ogni nostra azione è un grido di guerra contro l'imperialismo, è un appello vibrante all'unità dei popoli contro il
grande nemico dei popoli: gli Stati Uniti d'America. In qualunque luogo ci sorprenda la morte, che sia la benvenuta,
purché il nostro grido di guerra giunga a un orecchio ricettivo, e purché un'altra mano si tenda per impugnare le nostre
armi e altri uomini si apprestino a intonare canti di morte con il crepitio delle mitragliatrici e nuove grida di guerra e di
vittoria>
( Ernesto "Che" Guevara: "Creare due, tre, molti Vietnam" ).
Tratto dal mensile di politica e cultura comunista Nuova Unità, del febbraio '97. Fonte unica: http://www.ecn.org
- N/ Isola Nera. Ernesto Guevara scrivi varii poesie, cualche di queste hanno sito publicate i Isola Nera e Isla
Negra, anche nel blog isla Negra (http://isla_negra.zoomblog.com)
Francisco Azuela
Messico
Las manos del Che
Poema Sinfónico- Inédito
Con la mia amicizia nel tempo, per la poetessa Giovanna Mulas e il poeta Gabriel Impaglione.
Canto Primo
Non sono arrivato tardi comandante
Per salutare il tuo nome
Di storia grande in America
Nella quale tutti entriamo.
Vivo nella casa vicina
Dove sono state nascoste le tue mani in Bolivia,
Tutte le mattine
Metto le mie mani quella parete di pietra e mattoni
Per salutarti.
Nella notte stellata di ottobre
Vedo il volo luminoso di un condor rosso
Sopra la Cordigliera reale delle Ande,
Sotto la Croce andina,
Vedo volare sopra il tempo
Le tue mani e la tua maschera.
Ti accompagnano dal Cañon di Ñancahuazú
I tuoi combattenti e comandanti
Quelli che sentirono la terra
Della sierra di Incahuasi,
e bevvero nel fiume della quebrada de Yacunday,
lo spessore del bosco.
I sotterrati in Choreti
Dietro i forni di mattone,
I persi in Alto Seco
e Río San Lorenzo
dove deambula solitaria
Tania.
Alle 13.30 di quella domenica nera
Dell’ 8 ottobre 1967
Nella quale si ascoltò la tua voce
“Mi arrendo! Non mi ammazzate! Sono il Che!
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valgo più vivo che morto!”
Canto Secondo
Quelli che ti assasinarono,
Quelli che ti tagliarono,
Quelli che viaggiano nel lato oscuro della storia
Meritano d’essere dimenticati.
Lasciarono seminati nella Valle Grande
E nella Quebrada del Yuro
Il sangue di quelli che diedero luce alla nostra storia.
Canto Terzo
Comandante d’ America,
ala triste nei venti dell’alba,
il sole incrocia il tuo orizzonte
il tuo sangue non è stato invano
tuttavia penso a questo barattolo di formol
che trascende una pioggia di speranze.
Qui ti fecero eroe,
Ti fecero patria
Tu hai seminato il cammino di stelle,
Tu sei patria,
La patria americana.
Suolo di spine
Di quebradas e sentieri oscuri
Dove s’aprirono alla vita
I tuoi ricordi.
Comandante
Anche oggi ti do il mio saluto
E il mio abbraccio fraterno,
Tu già trionfasti
E con te abbiamo trionfato tutti.
Le tue mani hanno viaggiato al rincontro
Del resto delle membra
Del tuo corpo addolorato,
Ferito nelle sue vene
Monumento vivo d’America
“Che” Comandante
compañero del tempo e dell’ aurora
dove appare cicatrizzata la tua anima.
La Paz, Bolivia, 14 de mayo de 2006. Tratto del libro inédito: CORDILLERA REAL DE LOS ANDES
Trad. Giovanna Mulas- Gabriel Impaglione
Isla Negra
revista en español de poesía y narrativa breve
per abbonarsi: [email protected]
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Li Po
China
Un addio
Veleggiando distante oltre il fiume Ch'ing-men,
aggirando la terra di Ch'u,veniamo
dove le file dei monti hanno fine nell'incolta pianura
e il fiume avanza in un vasto spazio deserto.
Sotto la luna sussulta lo specchio del cielo,
le nuvole si alzano dense come torri sul mare.
Ancora sento di amarle queste acque del mio vecchio paese,
verrei con te per diecimila lì, sulla barca, lontano!
José Emilio Pacheco
Messico, 1939
Cuento de espantos
Violò la cripta a mezzanotte. Trovò il suo cadavere nel sarcofago.
Trad. Giovanna Mulas- Gabriel Impaglione
Giacomo Leopardi
Italia
C.XXXVIII (frammento dell’elegia II)
Io qui vagando al limitare intorno,
invan la pioggia invoco e la tempesta,
acció che la ritenga al mio soggiorno.
Pure il vento muggia nella foresta,
e muggia tra le nubi il tuono errante,
pria che l’aurora in ciel fosse ridesta.
O care nubi, o cielo, o terra, o piante,
parte la donna mia: pietá, se trova
pietá nel mondo un infelice amante.
O turbine, or ti sveglia,or fate prova
di sommergermi, o nembi, insino a tanto
che il sole ad altre terre il dí rinnova.
S’apre il ciel, cade il soffio, in ogni canto
posan l’ere e le frondi, e m’abbarbaglia
le luci il crudo Sol pregne di pianto.
Eleonora Ruffo Giordani
Italia
Sara 2 (diario in poesia)
Non era soltanto bella.
Sara,
spaziava nell' immensità
del sublime.
Dal volto chiaro
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organza diafana
traspariva amabilità.
Teneva le gote
di rosati colori.
Labbra sorridenti
impronte di armonia.
Giocava con i fiori
e con i colori.
Cantava al cielo
lodava l'Infinito.
Un segreto nel cuore
ripiegava foglio di diario.
Occhi neri e grandi
ornati di stille
nuotavano nel desiderio
della dedizione...
Amarezza…
I pensieri profumavano
di fiori
nel tramonto del sole
quando la lasciarono
per volare in cielo.
Nell'incantevole seno
del mare di Ortigia
laddove la luna stendeva
la sua nostalgica luce
le finestre dell'anima
si aprivano al canto
e alla poesia.
Al calare delle ombre
della sera: mesta, romantica,
raccolta nella preghiera
vespertina, si preparava
alla compieta e sognava
sognava l'amore mai vissuto
…scriveva le sue fiabe.
Appassionata,ardente,
entusiasta trovava
magia ineffabile
nella silenziosa contemplazione
dei luoghi che amò
dove visse felice.
Nessun uomo riuscì
a disturbare i suoi voli
ed i sogni custoditi
nell'anima
All'improvviso tutte le luci
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si spensero
le voci ed i canti cessarono
l'oscurità e il silenzio
invasero la sua beatitudine.
Nella camera nuziale
lo Sposo non c'era…
Sentiva il cuore ghiacciarsi
e un immane dolore
l'affondò nella tristezza.
Destino volgare,
negazione di ogni poesia
di ogni entusiasmo
su quella croce senza fiori.
Congiunge le mani
in atto di preghiera
col cuore chino
mangia polvere
e respira veleni
Una voce nel vento
la desta…
…rimane
sola su quella terrazza
della Darsena, con gli occhi
desolatamente rivolti
all'immensità del mare.
Vilma Vargas
Costa Rica
Fabbrica di coscienze
Già non sarò chi ero.
Io tanto intera,
Sto con una crepa
D’anima e corpo.
Mi ripeto: è il sistema.
Non solo sbagliano gli amici.
Il mercato compra le sue coscienze,
Elabora false logorree
Il sistema fabbrica pseudo poeti,
Il mercato vende le sue coscienze.
Mi ripeto: è il sistema.
Ma già non sarò chi ero.
Ed io nella mia piccolezza confrontata.
E Dio che non mi considera.
Trad. Giovanna Mulas- Gabriel Impaglione
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Renzo Montagnoli
Italia
Ricordati di me
Quando nel buio della notte
Cercherai il sonno ristoratore.
Quando le ore sembreranno
Lunghe e interminabili.
Nelle giornate di guardia
Sotto il sole cocente.
Nelle latrine immonde
Solo con il tuo bisogno.
Davanti a una bottiglia
Di birra ghiacciata.
Mentre sfogli l’ultima
E sempre uguale rivista
Pornografica.
Quando ascolti il sermone
Domenicale in mezzo agli altri.
Quando, se ci riuscirai,
Tornerai al tuo paese per dire
A tutti “Io là c’ero”.
Ricordati di me,
Di quel bimbo
Disperato che urlava
Il suo dolore davanti
Alla madre e ai fratelli
Crivellati di colpi.
E tu ridevi, soldato yankee,
Ridevi e guardavi.
Non ho più lacrime,
Non ho più dolore,
Non ho più nulla.
Solo, come te,
Io con la memoria
Di un orrore senza fine,
Tu con il ricordo
Di quel giorno.
(Iraq – 2006)
Carlos Carbone
Argentina
Lo straniero
Chi vive nell’altro lato del fumo?
E’ suo quel linguagio che gioca
Coi limiti della comprensione?
In quell’estremo ci sono crepe
nella terra?
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Anche lì esistere è una tragedia?
Chi sogna nell’altro lato del mare?
Ci sono morti illustri sotto le bombe
e la complicità?
Ci sono uomini in mezzo al fastidio?
E’ assurdo il vento quando la vita
si nasconde?
Chi è straniero
Quando la tigre sale di ronda?
Si può guardare attraverso la finestra della saggezza
Quando tutto cade?
Chi vive nell’altro lato del fumo girando
Tra metafore di specchi.
Trad. Giovanna Mulas- Gabriel Impaglione
Franca Maria Bagnoli
Italia
Mia madre
Mia madre era quasi analfabeta. Aveva fatto solo la terza elementare.
Mia nonna considerava la cultura un inutile fardello, specialmente per le donne.
Del resto non aveva fatto studiare nemmeno i figli maschi.
Forse non avevano, lei e il nonno, risorse economiche sufficienti per farli studiare tutti. E, così, non
avevano voluto fare ingiustizie. Forse.
Con la sua scarsissima cultura, mia madre a vent'anni aveva trovato un posto di telefonista. La mia
ferrea nonna glielo fece rifiutare. "Le donne non lavorano -disse - specialmente in posti pubblici. E'
come andare sul marciapiede".
Mia madre, che aveva un carattere dolce e docile, si rassegnò. Sposò mio padre che era buono e
l'amava ma era un po' maschilista e non le lasciava grandi spazi. Ma quella donna fragile e docile,
quando era sicura che una cosa fosse giusta, scopriva un lato ferreo del suo carattere che forse aveva
ereditato dalla madre. Fu d'accordo con mio padre per farmi studiare, ma i loro obiettivi erano
diversi.
Mio padre, che faceva il durissimo lavoro di macchinista delle Ferrovie dello Stato, voleva per me
una condizione di vita diversa dalla sua. Sognava che diventassi una donna "di comando". Così
diceva. Che cosa dovessi comandare non si capiva bene. Mia madre aveva un obiettivo molto
concreto. "Studia - mi diceva - e poi trovati un lavoro. Creati un'indipendenza economica. Non
dovrai chiedere a tuo marito un paio di calze. E se non vorrai sposarti, potrai provvedere a te
stessa". Mio padre ha fatto molti sacrifici per farmi studiare, ma mia madre, che aveva il bellissimo
nome di Elena, ne ha fatti molti di più. Quando mi assaliva l'agorafobia e non riuscivo a muovermi
da casa, lei piantava tutto e mi accompagnava. Prima alle medie, poi al liceo e infine all'Università.
Aspettava che finissi di ascoltare una lezione o concludessi un esame, seduta sotto la statua della
Minerva, la dea della sapienza alla quale non aveva niente da invidiare: lei aveva la sapienza del
cuore. Appena laureata mi offrirono un posto di insegnante in un Istituto privato di S.Benedetto del
Tronto. Mio padre si oppose. Mia madre scoprì il lato ferreo del suo carattere e con un tono che non
ammetteva repliche, disse: "Lasciala andare". Con la stessa fermezza volle che prendessi la patente
di guida. Mio padre temeva che la mia fragilità psicologica mi facesse correre rischi.
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Ha avuto ragione lei. Ho guidato per più di 30 anni senza incidenti di rilievo.
Durante la guerra eravamo sfollati in casa di una mia zia, dove c'era una certa abbondanza
alimentare perché lo zio era gendarme in Vaticano.
Di tanto in tanto veniva a trovarci una parente poverissima. Quando non c'era la sorella, che non
aveva la sua stessa sapienza del cuore, mia madre rubava di tutto: pane, carne, zucchero, uova e
dava tutto alla sua parente. Una volta questa le disse: "Elenù, stai tranquilla. Ho detto al confessore
quello che fai. Ha detto che non è peccato". Mia madre la guardò con un sorriso strano, come a
dirle: "Quanto sei scema!" e disse: "Questo lo sapevo".
Quando mi sposai la vidi piangere come la classica fontana. Lei e mio padre venivano spesso a
trovarci e si godevano i miei figli che spesso gli affidavo.
Da mio padre hanno imparato la manualità, da mia madre l'amore. L'adoravano. Quando morì mio
padre, mamma dovette trasferirsi da me. Era vecchia e a Roma sarebbe stata sola. Da me stava
bene. Aveva il suo appartamentino sopra il mio e poteva essere felice. E invece non lo era. Credo
che il dolore di dover lasciare Roma dove era nata e dove aveva sempre vissuto, fosse pari a quello
per la morte di mio padre.
Quando divenne ancora più vecchia, la sistemai in casa mia. I miei figli avevano preso la loro
strada. C'era più spazio ed io ero più tranquilla. Quando io e mio marito andavamo in vacanza,
veniva con noi. Devo essere grata a mio marito che l'ha sempre accolta con affetto e generosità.
Quando litigavo con lei mio marito le dava sempre ragione. E' arrivata a 100 anni. Le
organizzammo una festa grandiosa.
Parenti e amici, tutti intorno a lei. Eravamo in 100, come i suoi anni. Subito dopo il suo fisico
cedette. Ha passato un anno a letto, con la mente annebbiata, gridando e chiamando in
continuazione. Non l'ho mandata né in un ospizio, né all'ospedale. Ma quante volte ho perso la
pazienza! Mamma, perdonami! Dovevo essere più paziente, più dolce. Qualche volta lo ero, ma è
stato un anno stressante. Non ti è mancata l'assistenza, ma tua figlia doveva darti più amore, tutto
quello che meritavi.
Hai fatto una bella morte, come bella era stata la tua vita, non per la fortuna che non ti è stata molto
amica, ma per il tuo grande cuore. Una sera non gridavi, come era tuo solito, nell'annebbiamento
della mente che ormai vivevi. Chiamai il tuo geriatra. Mi disse che avevi poche ore. Chiamai il mio
amico prete e, insieme ad altre persone, pregammo accompagnandoti verso un destino di luce.
Eri serena. Respirasti per l'ultima volta, il volto composto.
Aspettami, mamma, voglio rivederti.
Carlos Garro Paviolo
Argentina
Immagine
Nella grande sala in penombra
Del ricordo, si sveglia la luce.
E lì stai: limpida, aliena,
Nuda.
Oh fulgore, lasciva castità,
alba inaccessibile.
Non mi duole la morte.
Tu mi duoli.
Del libro inédito,”Fervor del día, Aura de la Noche”
Trad. Giovanna Mulas- Gabriel Impaglione
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QUATTRO BARACCHE E UN GRAN FANGO
Cesare Pavese tra realismo e simbolismo
“l mio paese sono quattro baracche e un gran fango, ma lo attraversa lo stradone provinciale dove giocavo da
bambino. Siccome - ripeto - sono ambizioso, volevo girare per tutto il mondo e, giunto nei siti più lontani, voltarmi e
dire in presenza di tutti 'Non avete mai sentito nominare quei quattro tetti? Ebbene, io vengo di là'".
Tra realismo e simbolismo lirico si colloca l’opera di Cesare Pavese, per il quale la realtà delle natìe langhe e della
Torino della vita adulta diventa teatro delle proiezioni interiori, del profondo disagio esistenziale, dei miti immaginativi,
della ricerca di autenticità, delle ossessioni psichiche. Così le colline e la città vedono come protagonista più la
coscienza dell’autore che non la realtà esterna, ambientale e storica. Per questo va dissipato l’equivoco di un Pavese
padre del neorealismo post-bellico. Le componenti esistenziali hanno un cospicuo rilievo ed entrano direttamente come
materia di scrittura nell’opera di Pavese. L’aspetto forse più vistoso del suo appartenere al decadentismo è offerto dalla
crisi del rapporto tra arte e vita. E’ l’epoca della noluntas l’artista si lascia vivere, è pieno di contraddizioni e di
conflitti. Sua unica ricchezza è una sensibilità che non serve a nulla e agisce soltanto in senso negativo, corrodendo ogni
certezza sul destino del mondo, della storia, dell’individuo. C’è uno scompenso fondamentale tra il sentire, il capire e
l’agire, per cui il primo elemento determina una specie di paralisi degli altri due. L’artista decadente, smarrita assieme
ai valori tradizionali ogni volontà di agire, si trova nell’incapacità di affrontare l’esistenza, gravemente handicappato nei
rapporti umani, sempre a disagio in ogni situazione esistenziale, con grosse tare nevrotiche originate proprio da questa
situazione di inadeguatezza nei confronti della vita. Ecco allora che vivere diventa “mestiere” da apprendere con grande
pena e spesso senza risultati. In tale situazione di sradicamento l’arte appare come sostituto integrale dell’esistenza «Ho
imparato a scrivere, non a vivere», ma anche come unico rimedio, la sola possibilità di sentirsi vivi e, per un attimo,
persino felici «Quando scrivo sono normale, equilibrato, sereno», dice Pavese. Per la letteratura del Novecento, il grado
di autenticità poetica è determinato dalla misura di aderenza alla sconsolata visione dell’uomo, colto nel suo destino di
angoscia. Autenticità e morte diventano sinonimi, vivere è “essere per la morte”.
Cesare Pavese nasce il 9 settembre 1908 a Santo Stefano Belbo, un paesino delle Langhe in provincia di Cuneo, dove il
padre, cancelliere del tribunale di Torino, aveva un podere. Ben presto la famiglia si trasferisce a Torino, anche se le
colline del suo paese rimarranno per sempre impresse nella mente dello scrittore e si fonderanno pascolianamente con
l’idea mitica dell’infanzia e della nostalgia. Il padre di Cesare muore quasi subito: questo episodio inciderà molto
sull’indole del ragazzo, già di per sé scontroso e introverso.
Molti si sono occupati dell’adolescenza di Cesare, di questo ragazzo timido, amante dei libri, della natura e sempre
pronto ad isolarsi dagli altri, a nascondersi, a inseguire farfalle e uccelli, a sondare il mistero dei boschi.Davide Laiolo,
suo grande amico, in un libro intitolato Il vizio assurdo tende a evidenziare due elementi fondamentali: la morte del
padre e il conseguente irrigidirsi della madre che, con la sua freddezza e il suo riserbo, attuerà un sistema
educativo più da padre asciutto e aspro che non da madre affettuosa e dolce. L’altro elemento è la tendenza al
«vizio assurdo», la vocazione suicida. Ritroviamo infatti sempre un accenno alla mania suicida in tutte le lettere del
periodo liceale, soprattutto quelle dirette all’amico Mario Sturani.Questo mondo adolescente di Cesare, così difficile,
così traboccante di solitudine e di isolamento per Monti sarebbe invece il risultato della introversione tipica della
adolescenza, per Fernandez la risultante di traumi infantili (morte del padre e mondo femminile in cui viene allevato,
desiderio inconscio di autopunizione). Per altri ancora invece il dramma della impotenza sessuale, indimostrabile forse,
ma a momenti rintracciabile in alcune pagine de Il mestiere di vivere.Qualunque sia l’interpretazione che si vuole dare a
questi primi anni, non si può negare che si profila subito in essi la storia di un destino tragico e amaro, evidenziato da un
disperato bisogno d’amore, da una ricerca di apertura verso gli altri, verso il mondo, verso le relazioni interpersonali,
destino di solitudine, di amarezza, di disperata sconfitta. Una grande dicotomia tra l’attrazione per la solitudine e il
bisogno di non essere solo.Dibattuto tra gli estremi di una orgogliosa affermazione di sé e della constatazione di una sua
inadattabilità alla vita, Pavese sceglie fin da ragazzo la letteratura «come schermo metaforico della sua condizione
esistenziale» (Venturi), in essa cercando la risoluzione dei suoi conflitti interiori.Studia nell’Istituto Sociale dei Gesuiti
e nel Ginnasio moderno, quindi passa al Liceo D’Azeglio, dove avrà come professore un maestro d’umanità, Augusto
Monti, al quale molti intellettuali torinesi di quegli anni devono tanto. L’ingresso al liceo D’Azeglio è di somma
importanza per la vita di Cesare, il quale tra il 1923 e il 1926 partecipa a quel rinnovamento delle coscienze che non
solo esercitava l’azione educatrice di Monti ma che trovava concretezza e palpabilità nell’opera di Gramsci e Gobetti.
Dapprima Pavese è assai riluttante a impegnarsi attivamente nella lotta politica, verso la quale egli non nutre
grande interesse, anche perché tende a fondere sempre il motivo politico con quello più propriamente letterario. È però
attratto dai giovani che seguono Monti: Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Tullio Pinelli, Massimo Mila, i quali non
aderiscono né al movimento di Strapaese (legato al fascismo) né a quello di Stracittà (movimento apparentemente
progressivo ma in realtà anch’esso trincerato dietro lo scudo fascista), in opposizione ai quali essi coniano la sigla
Strabarriera.Cesare trova gusto nelle discussioni, si trova a suo agio nelle trattorie, assieme agli operai, ai venditori
ambulanti, alla gente qualunque: molti di questi saranno un giorno protagonisti dei suoi romanzi. Ha la sensazione di
essere giovane, rinato e, negli ultimi anni dell’Università, nella sua vita privata entra colei che sarà al centro della sua
anima, «la donna dalla voce rauca». Cesare appare addirittura trasformato: per tutto il tempo durante il quale ha la
sensazione che questa donna gli sia vicina, diventa cordiale, umano, affettuoso, aperto al colloquio con gli altri. Quella
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donna gli riporta l’incanto dell’infanzia, il suo viso, quando non la sente sua non è più il mattino chiaro, è una nube, ma
una nube dolcissima e, anche se vive altrove, gli riflette sempre «lo sfondo antico». Quelle colline e quel cielo tornano
ancora umanissimi come il «dolce incavo della sua bocca».Nel 1930 (a soli ventidue anni) si laurea con una tesi Sulla
interpretazione della poesia di Walt Whitman e comincia a lavorare alla rivista «La cultura», insegnando in scuole serali
e private, dedicandosi alla traduzione della letteratura inglese e americana nella quale acquisisce ben presto fama e
notorietà. Gli anni del liceo e poi dell’università portano nella vita del ragazzo solitario il suggello dell’amicizia: tutto
contribuisce ad umanizzare le sue rabbiose letture: le dispute letterarie, l’eccitante accostamento al mondo vietato della
politica, i caffè concerto, i miti sfolgoranti dell’industria cinematografica, le marce in collina, le vogate sul Po che
rinvigoriscono il suo corpo, precocemente squassato dall’asma. In confronto al paese, la città si presenta come una
grande fiera, come una festa continua. Di giorno la vita è piena, i negozi sono tanti, i tram sferragliano e dovunque si
ascolta musica.Nel 1931 muore la madre, pochi mesi dopo la laurea: per l’ammirazione mai manifestata e per il rimorso
di non aver mai saputo dimostrare il suo affetto e la sua tenerezza per lei, la sua morte segna un altro solco amaro nella
vita dello scrittore. Rimasto solo, si trasferisce nell’abitazione della sorella Maria, presso la quale resterà fino alla
morte.Intanto sempre nel 1931 viene stampata a Firenze la sua prima traduzione: Il nostro signor Wrenn di Sinclair
Lewis. Il mestiere di traduttore ha tale importanza non solo nella vita di Pavese ma per tutta la cultura, da aprire uno
spiraglio a un periodo nuovo nella narrativa italiana. Con le sue traduzioni, egli dà la misura di quanto sia grande la sua
ansia di libertà, la sua esigenza di rompere lo schema delle retoriche nazionalistiche e aprire a sé e agli altri nuovi
orizzonti culturali, capaci di smuovere quelle incrostazioni vecchie e nuove che avevano fatto ammalare la società
italiana. Egli vuole presentare coscientemente «il gigantesco teatro dove, con maggior franchezza che altrove,
veniva recitato il dramma di tutti». Il fascismo negava ogni iniziativa alle grandi masse, condannava e impediva gli
scioperi, mentre in quei romanzi americani si leggeva la possibilità di creare nuovi rapporti sociali.Contro la monotonia
della prosa d’arte e diversamente dall’Ermetismo, Pavese dimostrava come il contatto con le grandi masse americane
attraverso quei romanzi vivificasse anche il linguaggio, con l’inserimento della parlata popolare, sì da renderlo
congeniale con i nuovi contenuti. Di tutti, quello che diventa la coscienza del suo destino è Peter Mathiessen (lo
scrittore della Natura: Il leopardo delle nevi, L’albero dove è nato l’uomo, Il silenzio africano NdR.), per la comune
ricerca del linguaggio, per il senso tragico e per il considerare inutile la vita, nonché per l’estremo gesto suicida.Nel
1933 sorge la casa editrice Einaudi al cui progetto Pavese partecipa con entusiasmo per l’amicizia che lo lega a Giulio
Einaudi: questi sono gli anni dei suoi momenti migliori con «la donna dalla voce rauca», una intellettuale laureata in
matematica e fortemente impegnata nella lotta antifascista: Cesare accetta di far giungere al proprio domicilio lettere
fortemente compromettenti sul piano politico: scoperto, non fa il nome della donna e il 15 maggio 1935 viene
condannato per sospetto antifascismo a tre anni di confino da scontare a Brancaleone Calabro. Tre anni che si
ridurranno poi a meno di uno, per richiesta di grazia: torna infatti dal confino nel marzo del 1936, ma questo ritorno
coincide con un’amara delusione: l’abbandono della donna e il matrimonio di lei con un altro. L’esperienza (che sarà il
soggetto del suo primo romanzo, Il carcere), e la delusione giocano insieme per farlo sprofondare in una crisi grave e
profonda, che per anni lo terrà avvinto alla tentazione dolorosa e sempre presente del suicidio.Si richiude in un
isolamento forse peggiore di quello adolescenziale ma ancora una volta a salvarlo è la letteratura, il suo «valere alla
penna».Nel 1936 compare a Firenze, per le edizioni Solaria, la prima raccolta di poesie Lavorare stanca che
comprendeva le poesie scritte dal 1931 al 1935 e che fu letta da pochi. Una seconda edizione, comprendente anche le
poesie scritte fino al 1940, fu pubblicata nel 1942 da Einaudi. In quegli anni scrive ancora racconti, romanzi brevi,
saggi. Esce nel 1941 la sua prima opera narrativa, Paesi tuoi, «ambiantata in quelle colline e vigne delle Langhe, che
accanto alla Torino dei viali e dei caffè, dei fiumi e delle osterie, costituisce l'altro grande luogo mitico della poetica
pavesiana» (Emilio Cecchi). Sembra aver riacquistato la fiducia in se stesso e nella vita e, soprattutto frequentando gli
intellettuali antifascisti della sua città, pare aver maturato anche una coscienza politica. Tuttavia non partecipa né alla
guerra né alla Resistenza: chiamato alle armi, viene dimesso perché malato di asma. Destinato a Roma per aprire una
sede della Einaudi, si trova isolato e in lui prevale la ripugnanza fisica per la violenza, per gli orrori che la guerra
comporta e si rifugia nel Monferrato presso la sorella, dove vivrà per due anni «recluso tra le colline» con un accenno di
crisi religiosa e soprattutto con la certezza di essere diverso, di non sapere partecipare alla vita, di non riuscire aessere
attivo e presente, di non essere capace di avere ideali concreti per vivere (motivi che ritorneranno nel Corrado de La
casa in collina e che in un certo senso riportano alla inettitudine sveviana e quindi al Decadentismo).Dopo la fine della
guerra si iscrive al Partito comunista ma anche questa scelta, come la crisi religiosa, altro non era se non un ennesimo
equivoco, una nuova maniera di prendere in giro se stesso, di illudersi di possedere quella capacità di aderenza alle
cose, alle scelte, all’impegno che invece gli mancavano. La sua probabilmente era una sorta di tentativo di
riparazione, di voglia di mettere a posto la coscienza e del resto ancora il suo impegno è sempre letterario: scrive
articoli e saggi di ispirazione etico-civile, riprende il suo lavoro editoriale, riorganizzando la casa editrice Einaudi, si
interessa di mitologia e di etnologia, elaborando la sua teoria sul mito, concretizzata nei Dialoghi con Leucò.Recatosi a
Roma per lavoro (dove soggiornerà per un periodo stabilmente, a parte qualche periodica evasione nelle Langhe)
conosce una giovane attrice: Constance Dowling. È di nuovo l’amore. La giovane con le sue efelidi rosse e forse in
qualche modo con una sincera ammirazione per un uomo ormai famoso e noto, ricco di intelletto e capace di una forte
emotività, accende ancora una volta Cesare, ma poi va via, lo abbandona. Costance torna in America e Pavese scrive
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi…A questo secondo abbandono, alle crisi politiche e religiose che riprendono a
sconvolgerlo, allo sgomento e all’angoscia che lo assalgono nonostante i successi letterari (nel 1938 Il compagno vince
il premio Salento; nel 1949 La bella estate ottiene il premio Strega; pubblica La luna e i falò, considerato il suo miglior
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racconto) alla nuova ondata di solitudine e di senso di vuoto non riesce più a reagire. Logorato, stanco, ma in fondo
perfettamente lucido, si toglie la vita in una camera dell' albergo Roma di Torino ingoiando una forte dose di
barbiturici. È il 27 agosto del 1950. Solo un'annotazione, sulla prima pagina dei Dialoghi con Leucò, sul comodino della
stanza «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.».
Aveva solo 42 anni.
“C'è una ragione perché sono tornato in questo paese, qui e non invece a Canelli, a Barbaresco o in Alba.”
Cesare Pavese, La luna e i falò
Fonti: http://www.letteratura.it - http: //www.italialibri.net
Isola Niedda
Dae sa Sardinia po su Mondu
cultura sarda in sas paraulas de s’omine-
Escribie a [email protected]
Eleonora Bellini
Italia
Il ponte di Mostar
Il ponte di Mostar, che vedo ora
per la prima volta filmato
da un cineamatore clandestino,
il ponte di Mostar resiste
alle dure granate e si propone
di morire a poco a poco,
così che la durata della fine
sia inversamente proporzionale
alle bocche di fuoco che gli rantolano
contro.
La sua agonia
crea effetti di suspence lesinando
avaramente il crollo delle pietre,
ad una ad una. Il moribondo
vetustissimo ponte
dinanzi all'obiettivo ora si spoglia
come una giovane entraineuse
nel cono rosso della scena. Al cospetto
di così grande grazia nel morire
tace persino il rombo dei cannoni.
Solo ronza sommesso il nastro anonimo
del cineamatore.
Volle un sultano
ancorarlo tra due opposte rive,
poi il tempo volse quella volontà
in quotidiano uso. Forse per questo
il ponte di Mostar muore lentamente,
come lentamente morirebbe un uomo:
perché a ciascun tonfo di pietra sia accordato
il giusto peso.
Traduzioni - Correzione di testi
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[email protected]
Nazim Hikmet
Turquia
Amo in te
l'avventura della nave che va verso il polo
amo in te
l'audacia dei giocatori delle grandi scoperte
amo in te le cose lontane
amo in te l'impossibile
entro nei tuoi occhi come in un bosco
pieno di sole
e sudato affamato infuriato
ho la passione del cacciatore
per mordere nella tua carne.
amo in te l'impossibile
ma non la disperazione.
Pepe Sánchez
Cuba
Se di influenze si tratta
Sono influente, dunque di influenze anno zero.
Nella caverna di Altamira lasciai un occhio
Attento ai bisonti che fecondano l’umidità.
E il mio fulgore fu più umano.
L’influenza è un sunto nostangico,
Di proprietà privata. Senza gestione.
Somma vetri essenziali nel tuo polmone.
A sapere.
La malinconia di Vallejo crebbe
Unita all’erbaccia tagliata dalla mia erba
Come una vicinanza, un referente acquoso.
E il mio fulgore fu più umano.
Ho camminato la Londra dei miei vent’anni
Con un pugno di versi di Dylan Thomas
E non c’è stata taverna capace di sopportarne i debiti,
Le esternazioni della paura che ci debbono.
A sapere.
Fui personaggio secondario in El siglo de la luces,
Hamlet nel mio Macondo di solitudine,
Ulisse per un’Itaca dove ardere l’oblìo;
León Tolstoi tomó dalla mia autobiografia
Per i finali ciclici di Guerra e Pace
È stato il Don Chisciotte,
I cani che latravano alla sua ombra;
T. S. Eliot mi prestò versi da La terra abbandonata
Per minare l’aridezza oscura della mia Città Irreale.
A sapere.
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Sono stato tanti, che non sono stato.
Nel patrocinio del verso
La mia voce si mescola impavida
Col suo eco angustiato e confuso,
Come un ossimoro allegorico.
A volte anche ho voluto essere banale,
M’affondai nella magia d’Estigia
Come la stranezza nel crepuscolo.
E il mio fulgore fu più umano.
Però ci sono tanti che non sono stato.
Nè sarò,
Dunque neppure della mia fonte sono proprietario.
Tanti sono stato e no,
A sapere,
Che già di influenze albeggio.
Trad. Giovanna Mulas- Gabriel Impaglione
La Posta d’ Isola Nera
La Posta d’ Isola Nera
La regione ha varato una direttiva di legge che ufficializza la Limba Sarda Comuna (LSC) come lingua sarda usata
dall’amministrazione “in bessida”, ovvero per esprimersi con il popolo e con il resto del mondo. Questo vuol dire che la
lingua sarda ufficiale della sardegna, che la regione ha scelto per rappresentarci tutti, è
proprio la LSC. Sta di fatto che la LSC NON ESISTE, è una lingua fatta a tavolino, da una manciata di persone che
evidentemente si sentono in grado di decidere sulle sorti della nostra lingua originaria, è un miscuglio tra campidanese e
logudorese, dove prevale il logudorese e dove tantissimi suoni, parole, espressioni delle effettive varianti della lingua
sarda vengono sacrificati senza un vero motivo. Sacrificati, si, perché è ovvio che questa specie di “esperanto sardo”
che non vive in nessuna realtà della nostra isola e che non rappresenta la nostra coscienza, prima o poi verrà inserito
nelle scuole, negli offici.La nostra identità linguistica e non solo è a rischio, tutte le varietà linguistiche parlate da secoli
in sardegna verrebbero perse. E questo processo sta già partendo, con una legge varata persino in modo antidemocratico, senza votazione, con delibera partita direttamente dal Governatore.
Sebbene si possano o no condividere le scelte politiche del presidente della Regione Soru, questa scelta ingiusta e priva
di un fondamento culturale dovrebbe essere rifiutata da ogni sardo.Se vuoi saperne di più vai direttamente nel sito della
regione sardegna http://www.regione.sardegna.it e leggi il regolamento della limba sarda comuna, qualsiasi profano
della lingua sarda potrà comprendere quanto questa decisione sia stata veramente assurda. E se sei contrario manda il
tuo dissenso al presidente della regione via e-mail, in sardo o in italiano, o in qualsiasi altra lingua, perché la difesa
della varietà linguistica ed indentitaria di un popolo
dovrebbe interessare tutta l’umanità: [email protected]
Lucio Mura
Gloria Gaud
Argentina
Bizantino
Dove sarà Lui?
Quando gli alberi ululano
Annunciando la notte?
Il dolore è un bel fermaglio Bizantino
Chiedendo al mio cuore il suo sangue grigio
Non so che consolazione potrebbe dare ai miei sogni
Nella pendenza di un orizzonte che si staglia.
Trad. Giovanna Mulas- Gabriel Impaglione
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Ilha Negra
Rivista di letteratura in portoguese
Diretta da Amelia Pais (Portogallo)- Gabriel Impaglione (Italia).
Mail: [email protected]
Bruno Candéas
Campina Grande/PB- Brasile
Ingranaggio
Poesia
Non si modella
Si trasforma.
Non si copia
Si crea.
Ha dita
Nei piedi
Per camminare
Nella striscia
Senza squilibrarsi.
Poesia è macchina
E pulsazione.
Luciano Somma
Italia
Guardando dietro una porta socchiusa
Nostalgia
d'un passato
ch'e' gia' presente
nel futuro.
Attimo
riflessione
frase
vela al vento
nel mare tempestoso
dell'incomprensione
conquista ribellione
odio amore
tutto
nella tristezza
d'una rinuncia
guardando te
impudicamente
scoperta
dietro ad una porta socchiusa.
Luis Marcelo Pérez
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Uruguay
3
Sopra il tuo corpo
Sotto il mio
presi
da fuori, da dentro
più corpo i corpi
i nostri.
De Poesia en estado natural.
Trad. Giovanna Mulas- Gabriel Impaglione
Memorie
Tengo una lettera per nu cumpare nipote
(dal film Miseria e Nobiltà, 1954)- Regia : Mario Mattoli- Soggetto : dalla omonima commedia di
Eduardo Scarpetta
TOTÒ - Una lettera?
CAFONE- Una lettera de carta, sa...
TOTÒ - E perché, le lettere si scrivono di porcellana?
CAFONE- Eh, non si può sape'...
TOTÒ - Dunque. Lei è ignorante?
CAFONE -Io? Si.
TOTÒ - Bravo, bravo. Viva l'ignoranza! Tutti così dovrebbero essere...
CAFONE -Eh...
TOTÒ - E se ha dei figliuoli, non li mandi a scuola, per carità!
CAFONE -No, io figli nun tengo...
TOTÒ - Li faccia sguazzare nell'ignoranza...
CAFONE -No, io tengo nu cumpare nipote: proprio per lui devo scrivere la lettera, sai...
TOTÒ - Bravo. A lui? (Prende un pacco di lettere nella scrivania). Quanti anni ha questo compare?
CAFONE -Tiene quarantacinque anni...
TOTÒ - Quarantacinque? (Fruga tra le lettere e ne estrae una). Eccola qua. Questa va benissimo.
CAFONE- E cos'è questa?
TOTÒ - No, vede: noi le lettere le scriviamo prima, di modo che, quando viene la persona...
CAFONE -None! Tu non sai che debbo scrivere qui dentro!
TOTÒ - Va be', non vuol dire: guadagnamo tempo.
CAFONE -E che sai, li fatti miei?
TOTÒ - Ma scusi: lei m'ha detto che suo nipote compare ha quarantacinque anni...
CAFONE -Eh, quarantacinque anni...
TOTÒ - Questa lettera io l'ho scritta tre anni fa per un signore che ne aveva quarantadue.
CAFONE -E 'stu signore che è? Lu cumpare mio?
TOTÒ - Non vuol dire! Ma gli va bene...
CAFONE -No, paisa', non me piace...
TOTÒ - Ma gli andrà bene...
CAFONE -Ma no!
TOTÒ - La vuole da capo?
CAFONE -Proprio da capo.
TOTÒ - Scriviamola da capo. Lo facevo per lei: lei con questa lettera economizzava...La vuole nuova?
Facciamola nuova!
CAFONE -Bravo.
TOTÒ - Siamo qui apposta... Dunque. Vuol dettare, per cortesia?
CAFONE -Scriva.
TOTÒ - Si...
CAFONE -Napole...
TOTÒ - Eh... (Mette la penna nel calamaio e spruzza d'inchíostro il cafone). Avanti. Napoli... eccetera
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eccetera eccetera... Sissignore.
CAFONE -(inizia a dettare) Caro Giuseppe cumpare nipote...
TOTÒ -Beh... caro Giuseppe...
CAFONE -E mio cumpare e mio nipote.
TOTÒ - Va be', vuole che... Beh... Caro...
CAFONE -Caro...
TOTÒ - ... Giuseppe...
CAFONE -... cumpare...
TOTÒ - ... compare nipote... sì... sì... (Lo spruzza ancora d'inchiostro).
CAFONE (-asciugandosi) A Napole... a Napole stocio facendo la vita de lu signore
TOTÒ - A Napoli...
CAFONE -Stocio facendo...
TOTÒ - (s'interrompe riflettendo)) Stocio... Stocio... Io stocio, tu stoci... Non esiste questo.
CAFONE -Non te piace stocio?
TOTÒ - Sto! Io sto! Che me fai scrivere?
CAFONE -E più corto, eh...
TOTÒ - Me fai scrivere stocio... (Cancella con una mano,e spruzza di nuovo d'inchiostro il cafone)). Ah,
santo Iddio, come se fa... come se fa... (Lo spruzza ancora)
CAFONE- (asciugandosi il vestito) Paisa', chistu lu vestito l'hai cumprato io, eh...
TOTÒ - Ah, bravo... bravo... Paga sempre lei: bravo! (Ad alta voce rivolto a Peppiniello) Peppiniello! Quelle
pizze diventano due! (Al cafone) Dica, dica...
CAFONE -Alla sera me ne vaco a lu tabbarene...
TOTÒ - Bene. Alla sera me ne vado...
CAFONE -... me ne vaco a lu tabbarene...
TOTÒ - Me ne vado...
CAFONE -... e me ne esco quanti chiode...
TOTÒ - Quanti chiodi? (Gli spruzza l'ínchiostro in un occhio).
CAFONE -Quanti chiode. Ma che, sta chiovenno ignostro, paisa'?
TOTÒ - Quanto chiodo?...
CAFONE -Chiodo, si: chiodono li porte, va...
TOTÒ - Ah. quando chiude!
CAFONE -Finisci! Finisci!
TOTÒ - Eh, dice chiodo... Chiude, chiude!
CAFONE - E per questo...
TOTÒ - E per questo...
CAFONE -... mandame...
TOTÒ ... mandami...
CAFONE -... nu poco de soldi...
TOTÒ - ... per questo mandami un po' di so... (rimane di sasso)
CAFONE -... perché nun tengo nemmeno li soldi per pagare la lettera a lu scrivano che me sta scrivendo la
lettera presente...
TOTÒ - (smette di scrivere) E poi?
CAFONE - E poi... Mettece li saluti... Ponto.
TOTÒ - Ma ch'e saluti e saluti!? (Si alza e straccia la lettera).
CAFONE -(si alza anche lui, spaventato) E che?
TOTÒ - Ma che saluti e saluti!? Vai via, mascalzone! Vai via!
CAFONE- ...
TOTÒ - (lo minaccia col calamaio) E ringrazia Dio che non tiro il calamaio perché mi serve
CAFONE- E che... (Allontanandosi).
TOTÒ - (fra sè) Chiodo... ponto... stace... Mi fa perdere del tempo inutilmente
PEPPINIELLO -(Che arriva tutto contento) Papà, le pizze sono pronte: dammi i soldi.
TOTÒ - E che soldi e soldi? E che pizze e pizze? M'è passato l'appetito... Non voglio mangia' più (Torna a
sedersi, amareggiato).
Fonte: http://www.antoniodecurtis.com
Norberto Antonio
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Rosario- Argentina
1
Accettarsi non fugace è la consegna
di viltà infettare le giornate
che non meritan di viversi
riconoscere il sapore dalla forma della frutta
separare lo strato (como capa) dallo spessore
e con tre fischiettate poi, fare una desolazione
per dopo non sforzarsi
di non cantare nei cimiteri
assieme a loro che del tutto non moriron
e poi, poi,
brucciar lo scritto
come se ni non viver si trattasse.
Traduccion: Tomàs Rucci.
Franco Santamaria
Italia
Antico steccato
Ho tanto sognato di volare nei cieli dell'anima
a spiegarmi perché mondi irrequieti, disumani,
a spiegarmi perché
insistentemente
il vento svena le pietre del sud
e un cupo suono di tuba scopre
note rotondità in fiamme - in ogni direzione.
Solo conosco il gioco scivolante dei ghiacciai
e l'eco che s’intreccia in brulicanti santuari,
la morbida essenzialità del ritorno dei germogli.
Solo conosco il linguaggio di ciò che non è umano,
se la tomba
scavata nella rena si dilava in rito dissacrante,
se l'antico steccato imprigiona disarmonie
volute e accettate.
Salvatore Armando Santoro
Italia
Santiago
Impotente il vecchio Giorgio*
s’agita convulso sotto la lapide
che gli oscura il sole della sua Firenze.
Il pellegrin che s’avvicina al suo avello
ascolta il suo pianto e mesto tace!
Giacciono i morti
ancora incomposti,
con le unghie seviziate
e i genitali ustionati
26
dalle scariche inflitte
dai gorilla di Pinochet.
E Santiago, città di dolore,
deve sopportare ancora
l’insulto umiliante
del ritorno d’un tiranno impunito.
Urla di rabbia si accompagnano,
per le strade della città martoriata,
alla gioia delle folli ubriache
che ignorano il dramma
dei tanti “spariti” nel nulla,
che hanno dato la vita
anche per questo popolo ingrato.
Per loro non alberghi di lusso
ma squallide prigioni,
non dorati soggiorni
ma la violenza inconsulta di sadici guardiani
d’un potere asservito
ai luridi interessi di multinazionali
senza dignità e ne storia.
Piange Santiago,
incapace di rendere giustizia
ai martiri d’una libertà
ancora una volta offesa e vinta.
* Giorgio La Pira
Emilse Zorzut
Argentina
Sin vida
Senza vita
Los engranajes
son signos no humanos,
matan utopías
Gli ingranaggi
sono segni non umani,
uccidonoo le utopie
Condenan leyes
de armonía cósmica,
labran rutinas.
Condannano le leggi
di armonia cosmica,
creano la rutina
Ruidosos giros,
roen cerebros, frenan
vuelos, búsquedas.
Rumorosi giri,
rodono i cervelli, frenano
i voli, le ricerche.
La niebla crece,
evuelve seres vivos
hasta tragarlos.
La nebbia cresce,
avvolge gli esseri vivi
fino ad ingoiarli.
Antonio Miranda
27
Brasile
Perversi
I
Come confrontare
viso a viso
— verso a verso — Ferlinghetti
col suo compagno Evtushenko?
Come accostare la coda ardente
e la furia nera di Aimé Cesaire?
La bocca maledetta di Gregorio de Matos?
Dove-chiedo — dove — Ginsberg
fumerebbe oppio in carcere con Ho Chi Min?
Ezra Pound scenderebbe dal suo castello
spalla a spalla con Garcìa Lorca
in difesa della Spagna?
Traduzioni di Linda Schettini
Robert Gurney
Inglaterra
La libellula
Una delle prime cose
che ricordo
è la libellula
che sempre ritornava
vibrando
sopra gl’iris bianchi
nello stagno
del giardino
alla riva del fiume.
mai piegava le ali
neppure quando si posava.
Trad. Giovanna Mulas- Gabriel Impaglione
Carlos Dariel
Argentina
Ancora
“Le ferite sono nidi di fiore.”
Antonio Porchia.
Devi cercare bene giù
E in profondità
più
e più dentro
lì dove
unicamente
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è possibile l’origine
Trad. Giovanna Mulas- Gabriel Impaglione
Graciela Wencelblat
Argentina
Le valli dei suoi fianchi
Si burlano degli angeli.
Disfano cammini
Attraversano filari
Di piastrelle
Dove il bue di seta
invita al silenzio.
C’è una tristezza che
ovula nel prato
tuono che nell’ombra
rode sogni
Soffoca un pugno di polvere
bloccato.
Affligge
lo scarso del tempo.
Trad. Giovanna Mulas- Gabriel Impaglione
María Montero
Costa Rica
Regole del gioco
Tutti concordano nell’avermi amato.
Tutti concordano nell’essersene andati.
Trad. Giovanna Mulas- Gabriel Impaglione
Alicia Giordanino
Argentina
Gli specchi
Gli specchi sempre la chiamano la convocano
A cerimonie di fantasie
Duplicare la specie
Ancora
In mezzo di un vetro che respira
Trad. Giovanna Mulas- Gabriel Impaglione
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Santiago Azar
Chile
Vecchi cracks
Quando il tempo si fermò definitivamnete
Sopra le gambe di quelli che furono ragazzi
Sopra le teste di quelli che furono idoli,
Sopra l’abilità che oggi è avida
Non restò più a questi uomini fedeli
Che unirsi settimana dopo settimana nel campo di terra,
Con tutti i loro nipoti nelle gallerie,
Con le loro mogli grasse, ma sfidanti,
Per calciare rigori liberi alle canne,
Per vedere se da lontano sorprendevano la morte.
Trad. Giovanna Mulas- Gabriel Impaglione
Isola Nera
Casa di Poesia e Lettere
Per l’invio di materiale letterario:
Via Caprera 6 – 08045- Lanusei. Italia
Casa di poesia e letteratura. La prima in Sardegna; in Italia,
aperta alla creazione letteraria degli autori italiani e di autori
in lingua italiana. Il progetto Isola Nera riguarda la prossima
pubblicazione in formato cartaceo. Isola Nera merita degli
sponsors in grado di valorizzare l’iniziativa e dalla quale
vengano valorizzati. Si accettano e vagliano proposte.
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hasta la pròxima…
al prossimo numero
Ringraziamo calorosamente tutti i lettori che hanno inviato commenti , auguri, critiche in merito alla
Nomination al Nobel per la Letteratura 2006 e l’adesione alla Legge Bacchelli pro Giovanna Mulas.
www.villanovastrisaili.com
ai cani sciolti della letteratura consigliamo vivamente
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di Rina Brundu. Salotto letterario, Narrativa, Poesia
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