Isola Nera 1/33 Maggio 2006
Transcript
Isola Nera 1/33 Maggio 2006
Isola Nera 1/34 Casa di poesia e letteratura. La prima in Sardegna, in Italia, aperta alla creazione letteraria degli autori italiani e di autori in lingua italiana. Isola Nera è uno spazio di libertà e di bellezza per un mondo di libertà e bellezza che si costruisce in una cultura di pace. Direzione Giovanna Mulas. Coordinazione Gabriel Impaglione. [email protected] - giugno 2006 - Lanusei, Sardegna Pubblicazione Patrocinio UNESCO. Inserita nella categoria Riviste (italia) http://www.unesco.org/poetry/ . Gabriel Impaglione Argentina Tratto da Carte di Sardinia Nell’immensità delle pianure del sale cercarono le reti il pesce d’oro, i porti dove ancoravano la prima aurora, il bacio dell’ultima sirena, la casa stabilita del pane caldo. Furono le navi l’origine delle moltitudini. Negli umidi corridoi dove nacquero speranze, figli morti, garofani nelle mani uno dietro l’altro in lunga fila di silenzi resero le loro lingue le valigie sovraccariche di domande. Allora subirono nella terra nuova le scarpe rotte alle impalcature costruirono la volontà del pranzo. Si guastarono la pelle fino a denudare la piaga dove il dolore pulsa il suo primo grido, li bruciò la calce, la macchina gli tolse una mano, l’olfatto, li morsicò la luce, ogni paga giornaliera fu una spugna d’aceto. Nei rioni dove il muschio d’orina non ha potuto con la rosa, aprirono un vuoto nel freddo per cullare i figli. La terra li chiamò seme e il seme padre, e fondarono l’esplosione del cereale. E così la ruota avanzò dove nulla fu e nulla successe se non il vento. Il cammino si fece stenditoio di cranii e papaveri, stracci, nomi perduti, guerre che morsicavano la memoria, lunghe traversie 1 cercando l’origine che non era se non la nuova direzione. Il ritorno coperto nelle cartoline a volte trepidò come un passero ferito. Riempirono i nuovi orizzonti di olive, chitarre, strutture, viti, punti di partenza, e sollevarono la casa che li vide nascere, partire e tornare ogni domenica il meglio dei sogni. Molto dopo nelle pianure del sale i figli rientrarono per il pesce d’oro il palmo d’aria il possibile di spalle all’humus carbonizzato dalla tristezza. Allora i paesi di strade strette, dove già nessuno aspettava notizie d’oltre mare, dove restavano molto lontane le nuove dimensioni del mondo. En la inmensidad de las llanuras del salitre buscaron las redes el pez de oro, los puertos donde anclaban la primera aurora, el beso de la última sirena, la casa establecida del pan caliente. Fueron los barcos el origen de las multitudes. En los húmedos corredores donde nacían esperanzas, hijos muertos, claveles en las manos uno detrás de otro en larga fila de silencios rindieron sus lenguas las valijas abarrotadas de preguntas. Entonces subieron en la tierra nueva los zapatos rotos a los andamios construyeron la voluntad del almuerzo. Se gastaron la piel hasta desnudar la llaga donde el dolor pulsa su primer grito, los quemó la cal, la máquina les llevó una mano, el olfato, les mordió la luz, cada jornal fue un esponja con vinagre. En los arrabales donde el musgo del orín no pudo con la rosa, abrieron un hueco en el frío para acunar los hijos. La tierra los llamó semilla y la semilla padre, y fundaron el estallido del cereal. Y así la rueda avanzó donde nada hubo y nada sucedía sino viento. El camino se hizo tendedero de cráneos y amapolas, harapos, nombres extraviados, guerras que mordían la memoria, largas travesías en busca del origen que no era sino la nueva singladura. El regreso cobijado en las postales a veces tembló como un pájaro herido. Llenaron los nuevos horizontes de aceitunas, 2 guitarras, estructuras, vides, puntos de partida, y levantaron la casa que vio nacer, partir y regresar cada domingo lo mejor de los sueños. Muy después a las llanuras del salitre los hijos regresaron por el pez de oro el palmo de aire lo posible de espaldas al humus carbonizado por la pena. Entonces los pueblos de calles estrechas, donde ya nadie esperaba noticias de ultramar, donde quedaban muy lejos las nuevas dimensiones del mundo. Il vento è un fiume perduto Scorre notturno la sua multitudine minuta. C’è un’ora fragile, luna di pane lontana da un bambino. Nelle gemme la tua carezza lenta e marzo nell’isola. Tu vieni come il giorno che nasce a parlarmi della vita e marzo nella patria lontana. Là le ferite sono calli in tumulto e il vento, donna mia, marcia in silenzio, tristemente… corteo di volti e parole. Persistente ondeggìo di memorie. Mai Più nel suo eco ingovernabile. El viento es un río extraviado. Escurre nocturno su muchedumbre diminuta. Hay una hora frágil, luna de pan lejos de un niño. En los brotes tu caricia lenta y marzo en la isla. Tu vienes como el día que nace a hablarme de vida y marzo en la patria lejana. Allá las heridas son cauces bravíos y el viento, mujer, marcha callado, apesadumbradamente... 3 cortejo de rostros y palabras. Persistente oleaje de memorias. Nunca Más en su eco ingobernable. è in distribuzione Carte di Sardinia di Gabriel Impaglione Poesia, spagnolo / italiano UNI-Service Editrice Italiana Prenotazioni e ordinazioni : Via Verdi 9/A, 38100 Trento www.uni-service.it / [email protected] Pablo Neruda Cile Se non fosse perché Se non fosse perché i tuoi occhi hanno color di luna, di giorno con argilla, con lavoro, con fuoco, e tieni imprigionata l'agilità dell'aria, se non fosse perché sei una settimana d'ambra, se non fosse perché sei il momento giallo in cui l'autunno sale su pei rampicanti e anche sei il pane che la luna fragrante elabora passeggiando la sua farina pel cielo, oh, adorata, io non t'amerei! Nel tuo abbraccio io abbraccio ciò ch'esiste, l'arena, il tempo, l'albero della pioggia, e tutto vive perché io viva: senz'andare sì lungi posso veder tutto: vedo nella tua vita tutto ciò che vive. Dino Campana Italia Viaggio a Montevideo Io vidi dal ponte della nave I colli di Spagna Svanire, nel verde Dentro il crepuscolo d'oro la bruna terra celando Come una melodia: D'ignota scena fanciulla sola Come una melodia Blu, su la riva dei colli ancora tremare una viola... Illanguidiva la sera celeste sul mare: Pure i dorati silenzii ad ora ad ora dell'ale 4 Varcaron lentamente in un azzurreggiare: ... Lontani tinti dei varii colori Dai più lontani silenzii Ne la ceste sera varcaron gli uccelli d'oro: la nave Già cieca varcando battendo la tenebra Coi nostri naufraghi cuori Battendo la tenebra l'ale celeste sul mare. Ma un giorno Salirono sopra la nave le gravi matrone di Spagna Da gli occhi torbidi e angelici Dai seni gravidi di vertigine. Quando In una baia profonda di un'isola equatoriale In una baia tranquilla e profonda assai più del cielo notturno Noi vedemmo sorgere nella luce incantata Una bianca città addormentata Ai piedi dei picchi altissimi dei vulcani spenti Nel soffio torbido dell'equatore: finché Dopo molte grida e molte ombre di un paese ignoto, Dopo molto cigolìo di catene e molto acceso fervore Noi lasciammo la città equatoriale Verso l'inquieto mare notturno. Andavamo andavamo, per giorni e per giorni: le navi gravi di vele molli di caldi soffi incontro passavano lente: Sì presso di sul cassero a noi ne appariva bronzina Una fanciulla della razza nuova, Occhi lucenti e le vesti al vento! ed ecco: selvaggia a la fine di un giorno che apparve La riva selvaggia là giù sopra la sconfinata marina: E vidi come cavalle Vertiginose che si scioglievano le dune Verso la prateria senza fine Deserta senza le case umane E noi volgemmo fuggendo le dune che apparve Su un mare giallo de la portentosa dovizia del fiume, Del continente nuovo la capitale marina. Limpido fresco ed elettrico era il lume Della sera e là le alte case parevan deserte Laggiù sul mar del pirata De la città abbandonata Tra il mare giallo e le dune... Uno spazio Libero!!! Il blog di Isla Negra http://isla_negra.zoomblog.com 5 Bartolo Cattafi Barcellona Pozzo di Gotto, Messina 1922-1979 Italia Capanno Vorrei mettere in ordine e a piombo questa materia grezza malta fango mattoni fami il capanno degli attrezzi che poi sono quei quattro gatti di sentimenti e stilemi due remi per la barca e una candida dea seminuda con pochissime idee per la mente. Teódulo López Meléndez Venezuela Paura Sembrano coltelli carnefici qui nella solitudine della sera i becchi delle ombre. Traggo dal tuo armadio foulard che volano. Un po´di luce ti siluetta nela mia gola. Tratto da BIFFA: Traduzione dello spagnolo: Daniela Baldassari Francesco Guccini Italia Signora Bovary Ma che cosa c'è in fondo a quest' oggi di mezza festa e di quasi male, di coppie che passano sfilacciate come garze stese contro il secco cielo autunnale, di gente che si frantuma in un fiato senza soffrire, senza capire e i tuoi pensieri sono solo uno iato tra addormentarsi e morire... Ma che cosa c'è in fondo a questa notte, quando l' ora del lupo guaisce e il nuovo giorno non arriva mai, mai e il buio è un fischio lontano che non finisce 6 di minuti lunghi come il sudore, di ore che tagliano come falci e i tuoi pensieri solo un cane in chiesa che tutti prendono a calci... Ma cosa c'è, cosa c'è... atrii a piastrelle di stazioni secondarie, strade più strade di avventure solitarie, clown nella notte, valigie vuote, piene di trucchi per tragedie immaginarie... ...telecomandi per i quotidiani inferni, battute argute di architetti postmoderni, amanti andate, piaceri a rate, pallottolieri per contare estati e inverni... Ma che cosa c'è proprio in fondo in fondo, quando bene o male faremo due conti, e i giorni goccioleranno come i rubinetti nel buio e diremo "...un momento, aspetti..." per non essere mai pronti, signora Bovary, coraggio, pure tra gli assassini e gli avventurieri, in fondo a quest' oggi c'è ancora la notte, in fondo alla notte c'è ancora, c'è ancora.... Gladys Sica Argentina Ciò che mi resta Atavico appartarsi fra ombre tese. Partirò, questa volta, più lontano dove vedrò la grande onda nuda. Perché vivere e morire? Per un piccolo fulgore, un’implacabile tristezza. Dove va tutto l'amore non dato? Dove vanno i sacri sogni? Dove andrà tutto questo tempo? Di nero si è riempito il quadro: irrefrenabile uragano a raffiche mutevoli. Silenzio su silenzio, come coltelli, polverizzano l'insalvabile futuro. Soccombono labbra e braccia. Non mi resta una parola 7 da donarti né un rosso, né un bianco. Nel fuoco del silenzio -i l viaggio- Poesia Edizioni "Archivi del '900", MI, 2005 Giancarlo Micheli. Italia Prima della pioggia Al patrilineare richiamo dei passeri Nell’aria catafratta d’azzurro Sotto asili di embrici e pergole Si risvegliarono E un’odorosa brezza sentiva Le labbra delle finestre schiudersi Dentro era tutta una febbre di corpi A spogliarsi di settimane e di mesi In un’ombra cortese sedevano Tra le ringhiere ed i muri sbreccati Dove giocavano il sole e la pietra E si dicevano in gran segreto Di voler far crescere l’erba Dal cortile all’eternità. "Che": Un rivoluzionario scomodo di Giuliano Naria <L'odio come fattore di lotta, l'odio intransigente per il nemico, che spinge l'essere umano oltre i limiti naturali e lo trasforma in un'efficace, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere. I nostri soldati devono essere così; un popolo senza odio non può trionfare su un nemico brutale>. (Ernesto "Che" Guevara: "Creare due, tre, molti Vietnam") . Quando era vivo, lo chiamavano "rivoluzionario da farmacia", "avventuriero", dopo la sua morte lo hanno rivalutato per trasformarlo nel rivoluzionario buono da contrapporre a quelli cattivi, cioè a quelli che, come lui, hanno provato a fare la rivoluzione. Improvvisamente, qualche anno fa, lo hanno tirato fuori dal limbo della storia, in cui lo avevano collocato, per trasformarlo in un mito da consumare e da sfruttare, adattandolo al gusto di ogni palato. Ne è venuto fuori quanto di più surreale si potesse immaginare: "un James Dean" latino-americano, un "beat" senza chitarra, "una Teresa di Calcutta" di sinistra, un "rivenditore di motociclette usate" senza patente, un "esistenzialista" un po' romantico, e, peggio del peggio: "un Bertinotti giovane". Stimati falsi intellettuali hanno potuto pubblicare le loro cazzate, e persino farci i soldi, rincorrendo e alimentando questa moda. Ridicoli voltagabbana più o meno telegenici, per agguantare un pizzico di notorietà, hanno urlato insulse asinate contando su di un ascolto garantito e, spesso, complice. Ci si sarebbe aspettati che qualcuno dei "guevaristi" più accesi, che bazzicano i "Centri sociali" e le sezioni di "Rifondazione comunista" si fosse pronunciato contro questo scempio, ma erano occupati a chiedere "marijuana libera" o a discutere sull'ultima giacca del loro segretario e hanno preferito tacere. Infine, sull'onda di un contraddittorio penoso tra l'ex-rivoluzionario Regis Debray e una delle figlie del "Che" riguardante " ciò che non siamo mai stati e comunque non siamo più", finalmente Rossana Rossanda ha preso la penna in mano e con il suo classico stile di dire e non dire, ha oscuramente accennato ad una verità che gente come lei avrebbe il dovere, ma non ha fatto, di rivelare ai giovani. Questa verità, la Rossanda, non ha poi rivelato, lasciandoci tutti, giovani e non giovani, in spasmodica attesa. Nel suo articolo sul Manifesto, però, adombra un fattaccio: forse il "Che" non era democratico, forse il "Che" non era neppure un pacifista, un ecologista, un femminista o un gay. Forse non era un dissociato, un pentito, un voltagabbana e, oggi come oggi, non avrebbe votato "Ulivo" e letto Liberazione nella sala d'attesa di una organizzazione umanitaria. Forse era uno di quei cattivi comunisti da cui la creazione del suo mito "usa e getta" ci avrebbe dovuto proteggere e immunizzare. O forse la banda degli "intelligenti" che ha messo in pedi il teatro si è accorta di stare esagerando, se qualcuno leggesse veramente le opere del "Che", non quelle degli 8 illustri biografi, magari potrebbe cominciare a dubitare e poi indignarsi, e poi ancora pensare di trasformare il mondo con il mitra in mano. Chissà! L'irritazione della Rossanda ha contribuito a demitizzare il "Che", a farlo ritornare quello scomodo rivoluzionario che è sempre stato. E pertanto bisogna ringraziarla. Ora, fuori dal mito e fuori dai denti, forse sarà possibile riprendere i testi di Guevara, leggere la sua strategia e imparare a confrontarsi con la sua azione. Il pensiero del "Che", una volta compiuta la rivoluzione cubana, strategicamente si articola su due livelli: la rivoluzione latino-americana e la lotta dei popoli contro l'imperialismo. Occorre ricordare che Guevara è stato essenzialmente un comandante guerrigliero e che il suo maggiore contributo al marxismo-leninismo è stato quello di aver sviluppato la teoria della "guerra rivoluzionaria". Ci dispiace sottolinearlo, il "Che" non ha mai scritto poesie o canzoni, ma si e soffermato soprattutto sulle tecniche guerrigliere e sulle motivazioni che spingono un uomo a trasformarsi in un soldato e a combattere. La "teoria del foco", cioè del focolaio guerrigliero, a suo tempo fece discutere e ricevette numerose critiche ma anche altrettante adesioni. Almeno due generazioni di latino-americani hanno sentito come supremo dovere non quello di girare il continente in motocicletta, ma quello di dare inizio ad una lotta armata che si trasformasse in una guerra di liberazione. E molti di questi sono morti dopo aver imbracciato il fucile. L'esempio del "Che" ha portato uomini e donne anche in Occidente non a dedicarsi alla riproduzione delle magliette con il volto barbuto del comandante, ma a cercare di creare le condizioni per impiantare una guerra popolare nei loro paesi. Possono aver commesso errori, ma non certo quello di aver tentato di aprire un processo rivoluzionario nel cuore del dominio imperialista. Il "Che" dunque ci ha rimesso tre lasciti (oltre a quello, enorme, di aver partecipato come dirigente politico-militare alla rivoluzione cubana e alla costruzione del socialismo a Cuba): l'esempio, la teoria, la strategia. L’ esempio: non basta parlare, bisogna agire in prima persona, prendere le armi e combattere. La teoria del "foco": non occorre aspettare all'infinito le cosiddette condizioni rivoluzionarie, bisogna contribuire a crearle e l'organizzazione di una banda guerrigliera è il più importante contributo che ciascuno di noi può dare. E la strategia che lui stesso condensò in una frase: "creare due, tre, molti Vietnam". Credo che un "guevarista", e anche un non guevarista, debba riflettere su questi lasciti, piuttosto che dedicarsi ad organizzare insulse tavole rotonde, in attesa che cominci il concerto, in cui gli ipocriti, i traditori, e tutti coloro che quando ebbero l'opportunità di seguire l'esempio del "Che" non lo fecero, tengano banco tra gli applausi ingenui dei fumatori di marijuana e degli estimatori di giacche. Torniamo un attimo alla strategia. Dice il "Che" (ma, se non l'avete ancora fatto, andatevelo a leggere che è meglio!) che la rivoluzione nel continente latino-americano ( la "Patria Grande"), pur mantenendo una specificità paese per paese, è un unico processo dato che i tratti comuni sono e restano forti e presenti. Unico è il dominio dettato dall'imperialismo statunitense e dai loro servi che occupano posizioni di potere nelle varie nazioni. Comune è il passato coloniale, le forme di sfruttamento e di oppressione. Comune è, in larga parte, la lingua, la cultura, i valori, la fame e la sofferenza. Come comune fu, in larga parte, la lotta di indipendenza dal dominio coloniale, e ora l'ansia di rivolta e di riscatto. Comune è il senso di appartenenza, ontologico si potrebbe quasi dire, tra i vari popoli e individui che abitano questo grande continente. Questo progetto, per il quale il "Che" morì in Bolivia, è ancora attuale, a mio giudizio, e ciò che più importa, inquadrato in una differente concezione, ancora in corso. "Creare due, tre, molti Vietnam", ovvero la seconda lama della forbice della strategia guevarista, è una provocazione (in senso intellettuale) che conserva, a mio parere, tutto il suo significato euristico. Contro l'equivoco umanitarismo delle associazioni, contro il pacifismo ipocrita, contro la solidarietà fasulla, conviene ricordare che l'internazionalismo proletario consiste nell'individuazione del nemico comune, che oggi è sempre lo stesso di ieri: l'imperialismo, in primo luogo nordamericano, e nella lotta mortale contro di esso. Occorre perciò che ciascuno trasformi il proprio paese in un Vietnam per non trovarci ad ogni nuova situazione a dire: "che fare per gli hutu? ... E per i bosniaci?... ; Dobbiamo manifestare contro i Talibani o sostenere il Papa?" In questo momento di atroce confusione, occorre fare chiarezza e occorre che tutti facciano chiarezza. La politica deve tornare al posto di comando. Inseguire, belando, i disastri provocati dall'imperialismo e dalla logica del dominio e del profitto comporta che, a un certo punto, senza saperlo uno si trovi a combattere sullo stesso fronte insieme al... nemico! E' quello che sta succedendo. Alcuni l'hanno capito e se lo tengono per sé: anche loro sono il nemico. L'aridità intellettuale, l'eterna ingenuità, la mancanza di curiosità portano all'egemonia dei mostri, al regno dell'idiozia. Alimentando un processo di svilimento della ragione. Alcuni semplici paragoni tratti dalla fenomenologia del quotidiano ci aiutano a capire. E' come coloro che credono di fare del bene perché danno mille lire al povero bambino albanese trovato al semaforo e non sanno, o fanno finta di non sapere, che quel bambino è schiavo di una mafia di farabutti e le mille lire finiscono in mano ai farabutti perpetuando la schiavitù dei bambini. E' come coloro che si credono pacifisti ed ecologisti perché vogliono mettere al bando le mine antiuomo senza aver messo al bando prima le bombe atomiche e i missili intelligenti, privando i poveri di una delle poche armi alla loro portata. O quelli che chiedono l'abolizione del servizio militare in favore di un esercito professionale, in modo che il popolo sia espropriato anche del diritto simbolico di difendere la propria libertà. Gli esempi sono infiniti e aumentano con lo scorrere del tempo. Dunque: creare due, tre, molti Vietnam. La liberazione di noi stessi non può essere opera che di noi stessi. 9 <<Ogni nostra azione è un grido di guerra contro l'imperialismo, è un appello vibrante all'unità dei popoli contro il grande nemico dei popoli: gli Stati Uniti d'America. In qualunque luogo ci sorprenda la morte, che sia la benvenuta, purché il nostro grido di guerra giunga a un orecchio ricettivo, e purché un'altra mano si tenda per impugnare le nostre armi e altri uomini si apprestino a intonare canti di morte con il crepitio delle mitragliatrici e nuove grida di guerra e di vittoria> ( Ernesto "Che" Guevara: "Creare due, tre, molti Vietnam" ). Tratto dal mensile di politica e cultura comunista Nuova Unità, del febbraio '97. Fonte unica: http://www.ecn.org - N/ Isola Nera. Ernesto Guevara scrivi varii poesie, cualche di queste hanno sito publicate i Isola Nera e Isla Negra, anche nel blog isla Negra (http://isla_negra.zoomblog.com) Francisco Azuela Messico Las manos del Che Poema Sinfónico- Inédito Con la mia amicizia nel tempo, per la poetessa Giovanna Mulas e il poeta Gabriel Impaglione. Canto Primo Non sono arrivato tardi comandante Per salutare il tuo nome Di storia grande in America Nella quale tutti entriamo. Vivo nella casa vicina Dove sono state nascoste le tue mani in Bolivia, Tutte le mattine Metto le mie mani quella parete di pietra e mattoni Per salutarti. Nella notte stellata di ottobre Vedo il volo luminoso di un condor rosso Sopra la Cordigliera reale delle Ande, Sotto la Croce andina, Vedo volare sopra il tempo Le tue mani e la tua maschera. Ti accompagnano dal Cañon di Ñancahuazú I tuoi combattenti e comandanti Quelli che sentirono la terra Della sierra di Incahuasi, e bevvero nel fiume della quebrada de Yacunday, lo spessore del bosco. I sotterrati in Choreti Dietro i forni di mattone, I persi in Alto Seco e Río San Lorenzo dove deambula solitaria Tania. Alle 13.30 di quella domenica nera Dell’ 8 ottobre 1967 Nella quale si ascoltò la tua voce “Mi arrendo! Non mi ammazzate! Sono il Che! 10 valgo più vivo che morto!” Canto Secondo Quelli che ti assasinarono, Quelli che ti tagliarono, Quelli che viaggiano nel lato oscuro della storia Meritano d’essere dimenticati. Lasciarono seminati nella Valle Grande E nella Quebrada del Yuro Il sangue di quelli che diedero luce alla nostra storia. Canto Terzo Comandante d’ America, ala triste nei venti dell’alba, il sole incrocia il tuo orizzonte il tuo sangue non è stato invano tuttavia penso a questo barattolo di formol che trascende una pioggia di speranze. Qui ti fecero eroe, Ti fecero patria Tu hai seminato il cammino di stelle, Tu sei patria, La patria americana. Suolo di spine Di quebradas e sentieri oscuri Dove s’aprirono alla vita I tuoi ricordi. Comandante Anche oggi ti do il mio saluto E il mio abbraccio fraterno, Tu già trionfasti E con te abbiamo trionfato tutti. Le tue mani hanno viaggiato al rincontro Del resto delle membra Del tuo corpo addolorato, Ferito nelle sue vene Monumento vivo d’America “Che” Comandante compañero del tempo e dell’ aurora dove appare cicatrizzata la tua anima. La Paz, Bolivia, 14 de mayo de 2006. Tratto del libro inédito: CORDILLERA REAL DE LOS ANDES Trad. Giovanna Mulas- Gabriel Impaglione Isla Negra revista en español de poesía y narrativa breve per abbonarsi: [email protected] 11 Li Po China Un addio Veleggiando distante oltre il fiume Ch'ing-men, aggirando la terra di Ch'u,veniamo dove le file dei monti hanno fine nell'incolta pianura e il fiume avanza in un vasto spazio deserto. Sotto la luna sussulta lo specchio del cielo, le nuvole si alzano dense come torri sul mare. Ancora sento di amarle queste acque del mio vecchio paese, verrei con te per diecimila lì, sulla barca, lontano! José Emilio Pacheco Messico, 1939 Cuento de espantos Violò la cripta a mezzanotte. Trovò il suo cadavere nel sarcofago. Trad. Giovanna Mulas- Gabriel Impaglione Giacomo Leopardi Italia C.XXXVIII (frammento dell’elegia II) Io qui vagando al limitare intorno, invan la pioggia invoco e la tempesta, acció che la ritenga al mio soggiorno. Pure il vento muggia nella foresta, e muggia tra le nubi il tuono errante, pria che l’aurora in ciel fosse ridesta. O care nubi, o cielo, o terra, o piante, parte la donna mia: pietá, se trova pietá nel mondo un infelice amante. O turbine, or ti sveglia,or fate prova di sommergermi, o nembi, insino a tanto che il sole ad altre terre il dí rinnova. S’apre il ciel, cade il soffio, in ogni canto posan l’ere e le frondi, e m’abbarbaglia le luci il crudo Sol pregne di pianto. Eleonora Ruffo Giordani Italia Sara 2 (diario in poesia) Non era soltanto bella. Sara, spaziava nell' immensità del sublime. Dal volto chiaro 12 organza diafana traspariva amabilità. Teneva le gote di rosati colori. Labbra sorridenti impronte di armonia. Giocava con i fiori e con i colori. Cantava al cielo lodava l'Infinito. Un segreto nel cuore ripiegava foglio di diario. Occhi neri e grandi ornati di stille nuotavano nel desiderio della dedizione... Amarezza… I pensieri profumavano di fiori nel tramonto del sole quando la lasciarono per volare in cielo. Nell'incantevole seno del mare di Ortigia laddove la luna stendeva la sua nostalgica luce le finestre dell'anima si aprivano al canto e alla poesia. Al calare delle ombre della sera: mesta, romantica, raccolta nella preghiera vespertina, si preparava alla compieta e sognava sognava l'amore mai vissuto …scriveva le sue fiabe. Appassionata,ardente, entusiasta trovava magia ineffabile nella silenziosa contemplazione dei luoghi che amò dove visse felice. Nessun uomo riuscì a disturbare i suoi voli ed i sogni custoditi nell'anima All'improvviso tutte le luci 13 si spensero le voci ed i canti cessarono l'oscurità e il silenzio invasero la sua beatitudine. Nella camera nuziale lo Sposo non c'era… Sentiva il cuore ghiacciarsi e un immane dolore l'affondò nella tristezza. Destino volgare, negazione di ogni poesia di ogni entusiasmo su quella croce senza fiori. Congiunge le mani in atto di preghiera col cuore chino mangia polvere e respira veleni Una voce nel vento la desta… …rimane sola su quella terrazza della Darsena, con gli occhi desolatamente rivolti all'immensità del mare. Vilma Vargas Costa Rica Fabbrica di coscienze Già non sarò chi ero. Io tanto intera, Sto con una crepa D’anima e corpo. Mi ripeto: è il sistema. Non solo sbagliano gli amici. Il mercato compra le sue coscienze, Elabora false logorree Il sistema fabbrica pseudo poeti, Il mercato vende le sue coscienze. Mi ripeto: è il sistema. Ma già non sarò chi ero. Ed io nella mia piccolezza confrontata. E Dio che non mi considera. Trad. Giovanna Mulas- Gabriel Impaglione 14 Renzo Montagnoli Italia Ricordati di me Quando nel buio della notte Cercherai il sonno ristoratore. Quando le ore sembreranno Lunghe e interminabili. Nelle giornate di guardia Sotto il sole cocente. Nelle latrine immonde Solo con il tuo bisogno. Davanti a una bottiglia Di birra ghiacciata. Mentre sfogli l’ultima E sempre uguale rivista Pornografica. Quando ascolti il sermone Domenicale in mezzo agli altri. Quando, se ci riuscirai, Tornerai al tuo paese per dire A tutti “Io là c’ero”. Ricordati di me, Di quel bimbo Disperato che urlava Il suo dolore davanti Alla madre e ai fratelli Crivellati di colpi. E tu ridevi, soldato yankee, Ridevi e guardavi. Non ho più lacrime, Non ho più dolore, Non ho più nulla. Solo, come te, Io con la memoria Di un orrore senza fine, Tu con il ricordo Di quel giorno. (Iraq – 2006) Carlos Carbone Argentina Lo straniero Chi vive nell’altro lato del fumo? E’ suo quel linguagio che gioca Coi limiti della comprensione? In quell’estremo ci sono crepe nella terra? 15 Anche lì esistere è una tragedia? Chi sogna nell’altro lato del mare? Ci sono morti illustri sotto le bombe e la complicità? Ci sono uomini in mezzo al fastidio? E’ assurdo il vento quando la vita si nasconde? Chi è straniero Quando la tigre sale di ronda? Si può guardare attraverso la finestra della saggezza Quando tutto cade? Chi vive nell’altro lato del fumo girando Tra metafore di specchi. Trad. Giovanna Mulas- Gabriel Impaglione Franca Maria Bagnoli Italia Mia madre Mia madre era quasi analfabeta. Aveva fatto solo la terza elementare. Mia nonna considerava la cultura un inutile fardello, specialmente per le donne. Del resto non aveva fatto studiare nemmeno i figli maschi. Forse non avevano, lei e il nonno, risorse economiche sufficienti per farli studiare tutti. E, così, non avevano voluto fare ingiustizie. Forse. Con la sua scarsissima cultura, mia madre a vent'anni aveva trovato un posto di telefonista. La mia ferrea nonna glielo fece rifiutare. "Le donne non lavorano -disse - specialmente in posti pubblici. E' come andare sul marciapiede". Mia madre, che aveva un carattere dolce e docile, si rassegnò. Sposò mio padre che era buono e l'amava ma era un po' maschilista e non le lasciava grandi spazi. Ma quella donna fragile e docile, quando era sicura che una cosa fosse giusta, scopriva un lato ferreo del suo carattere che forse aveva ereditato dalla madre. Fu d'accordo con mio padre per farmi studiare, ma i loro obiettivi erano diversi. Mio padre, che faceva il durissimo lavoro di macchinista delle Ferrovie dello Stato, voleva per me una condizione di vita diversa dalla sua. Sognava che diventassi una donna "di comando". Così diceva. Che cosa dovessi comandare non si capiva bene. Mia madre aveva un obiettivo molto concreto. "Studia - mi diceva - e poi trovati un lavoro. Creati un'indipendenza economica. Non dovrai chiedere a tuo marito un paio di calze. E se non vorrai sposarti, potrai provvedere a te stessa". Mio padre ha fatto molti sacrifici per farmi studiare, ma mia madre, che aveva il bellissimo nome di Elena, ne ha fatti molti di più. Quando mi assaliva l'agorafobia e non riuscivo a muovermi da casa, lei piantava tutto e mi accompagnava. Prima alle medie, poi al liceo e infine all'Università. Aspettava che finissi di ascoltare una lezione o concludessi un esame, seduta sotto la statua della Minerva, la dea della sapienza alla quale non aveva niente da invidiare: lei aveva la sapienza del cuore. Appena laureata mi offrirono un posto di insegnante in un Istituto privato di S.Benedetto del Tronto. Mio padre si oppose. Mia madre scoprì il lato ferreo del suo carattere e con un tono che non ammetteva repliche, disse: "Lasciala andare". Con la stessa fermezza volle che prendessi la patente di guida. Mio padre temeva che la mia fragilità psicologica mi facesse correre rischi. 16 Ha avuto ragione lei. Ho guidato per più di 30 anni senza incidenti di rilievo. Durante la guerra eravamo sfollati in casa di una mia zia, dove c'era una certa abbondanza alimentare perché lo zio era gendarme in Vaticano. Di tanto in tanto veniva a trovarci una parente poverissima. Quando non c'era la sorella, che non aveva la sua stessa sapienza del cuore, mia madre rubava di tutto: pane, carne, zucchero, uova e dava tutto alla sua parente. Una volta questa le disse: "Elenù, stai tranquilla. Ho detto al confessore quello che fai. Ha detto che non è peccato". Mia madre la guardò con un sorriso strano, come a dirle: "Quanto sei scema!" e disse: "Questo lo sapevo". Quando mi sposai la vidi piangere come la classica fontana. Lei e mio padre venivano spesso a trovarci e si godevano i miei figli che spesso gli affidavo. Da mio padre hanno imparato la manualità, da mia madre l'amore. L'adoravano. Quando morì mio padre, mamma dovette trasferirsi da me. Era vecchia e a Roma sarebbe stata sola. Da me stava bene. Aveva il suo appartamentino sopra il mio e poteva essere felice. E invece non lo era. Credo che il dolore di dover lasciare Roma dove era nata e dove aveva sempre vissuto, fosse pari a quello per la morte di mio padre. Quando divenne ancora più vecchia, la sistemai in casa mia. I miei figli avevano preso la loro strada. C'era più spazio ed io ero più tranquilla. Quando io e mio marito andavamo in vacanza, veniva con noi. Devo essere grata a mio marito che l'ha sempre accolta con affetto e generosità. Quando litigavo con lei mio marito le dava sempre ragione. E' arrivata a 100 anni. Le organizzammo una festa grandiosa. Parenti e amici, tutti intorno a lei. Eravamo in 100, come i suoi anni. Subito dopo il suo fisico cedette. Ha passato un anno a letto, con la mente annebbiata, gridando e chiamando in continuazione. Non l'ho mandata né in un ospizio, né all'ospedale. Ma quante volte ho perso la pazienza! Mamma, perdonami! Dovevo essere più paziente, più dolce. Qualche volta lo ero, ma è stato un anno stressante. Non ti è mancata l'assistenza, ma tua figlia doveva darti più amore, tutto quello che meritavi. Hai fatto una bella morte, come bella era stata la tua vita, non per la fortuna che non ti è stata molto amica, ma per il tuo grande cuore. Una sera non gridavi, come era tuo solito, nell'annebbiamento della mente che ormai vivevi. Chiamai il tuo geriatra. Mi disse che avevi poche ore. Chiamai il mio amico prete e, insieme ad altre persone, pregammo accompagnandoti verso un destino di luce. Eri serena. Respirasti per l'ultima volta, il volto composto. Aspettami, mamma, voglio rivederti. Carlos Garro Paviolo Argentina Immagine Nella grande sala in penombra Del ricordo, si sveglia la luce. E lì stai: limpida, aliena, Nuda. Oh fulgore, lasciva castità, alba inaccessibile. Non mi duole la morte. Tu mi duoli. Del libro inédito,”Fervor del día, Aura de la Noche” Trad. Giovanna Mulas- Gabriel Impaglione 17 QUATTRO BARACCHE E UN GRAN FANGO Cesare Pavese tra realismo e simbolismo “l mio paese sono quattro baracche e un gran fango, ma lo attraversa lo stradone provinciale dove giocavo da bambino. Siccome - ripeto - sono ambizioso, volevo girare per tutto il mondo e, giunto nei siti più lontani, voltarmi e dire in presenza di tutti 'Non avete mai sentito nominare quei quattro tetti? Ebbene, io vengo di là'". Tra realismo e simbolismo lirico si colloca l’opera di Cesare Pavese, per il quale la realtà delle natìe langhe e della Torino della vita adulta diventa teatro delle proiezioni interiori, del profondo disagio esistenziale, dei miti immaginativi, della ricerca di autenticità, delle ossessioni psichiche. Così le colline e la città vedono come protagonista più la coscienza dell’autore che non la realtà esterna, ambientale e storica. Per questo va dissipato l’equivoco di un Pavese padre del neorealismo post-bellico. Le componenti esistenziali hanno un cospicuo rilievo ed entrano direttamente come materia di scrittura nell’opera di Pavese. L’aspetto forse più vistoso del suo appartenere al decadentismo è offerto dalla crisi del rapporto tra arte e vita. E’ l’epoca della noluntas l’artista si lascia vivere, è pieno di contraddizioni e di conflitti. Sua unica ricchezza è una sensibilità che non serve a nulla e agisce soltanto in senso negativo, corrodendo ogni certezza sul destino del mondo, della storia, dell’individuo. C’è uno scompenso fondamentale tra il sentire, il capire e l’agire, per cui il primo elemento determina una specie di paralisi degli altri due. L’artista decadente, smarrita assieme ai valori tradizionali ogni volontà di agire, si trova nell’incapacità di affrontare l’esistenza, gravemente handicappato nei rapporti umani, sempre a disagio in ogni situazione esistenziale, con grosse tare nevrotiche originate proprio da questa situazione di inadeguatezza nei confronti della vita. Ecco allora che vivere diventa “mestiere” da apprendere con grande pena e spesso senza risultati. In tale situazione di sradicamento l’arte appare come sostituto integrale dell’esistenza «Ho imparato a scrivere, non a vivere», ma anche come unico rimedio, la sola possibilità di sentirsi vivi e, per un attimo, persino felici «Quando scrivo sono normale, equilibrato, sereno», dice Pavese. Per la letteratura del Novecento, il grado di autenticità poetica è determinato dalla misura di aderenza alla sconsolata visione dell’uomo, colto nel suo destino di angoscia. Autenticità e morte diventano sinonimi, vivere è “essere per la morte”. Cesare Pavese nasce il 9 settembre 1908 a Santo Stefano Belbo, un paesino delle Langhe in provincia di Cuneo, dove il padre, cancelliere del tribunale di Torino, aveva un podere. Ben presto la famiglia si trasferisce a Torino, anche se le colline del suo paese rimarranno per sempre impresse nella mente dello scrittore e si fonderanno pascolianamente con l’idea mitica dell’infanzia e della nostalgia. Il padre di Cesare muore quasi subito: questo episodio inciderà molto sull’indole del ragazzo, già di per sé scontroso e introverso. Molti si sono occupati dell’adolescenza di Cesare, di questo ragazzo timido, amante dei libri, della natura e sempre pronto ad isolarsi dagli altri, a nascondersi, a inseguire farfalle e uccelli, a sondare il mistero dei boschi.Davide Laiolo, suo grande amico, in un libro intitolato Il vizio assurdo tende a evidenziare due elementi fondamentali: la morte del padre e il conseguente irrigidirsi della madre che, con la sua freddezza e il suo riserbo, attuerà un sistema educativo più da padre asciutto e aspro che non da madre affettuosa e dolce. L’altro elemento è la tendenza al «vizio assurdo», la vocazione suicida. Ritroviamo infatti sempre un accenno alla mania suicida in tutte le lettere del periodo liceale, soprattutto quelle dirette all’amico Mario Sturani.Questo mondo adolescente di Cesare, così difficile, così traboccante di solitudine e di isolamento per Monti sarebbe invece il risultato della introversione tipica della adolescenza, per Fernandez la risultante di traumi infantili (morte del padre e mondo femminile in cui viene allevato, desiderio inconscio di autopunizione). Per altri ancora invece il dramma della impotenza sessuale, indimostrabile forse, ma a momenti rintracciabile in alcune pagine de Il mestiere di vivere.Qualunque sia l’interpretazione che si vuole dare a questi primi anni, non si può negare che si profila subito in essi la storia di un destino tragico e amaro, evidenziato da un disperato bisogno d’amore, da una ricerca di apertura verso gli altri, verso il mondo, verso le relazioni interpersonali, destino di solitudine, di amarezza, di disperata sconfitta. Una grande dicotomia tra l’attrazione per la solitudine e il bisogno di non essere solo.Dibattuto tra gli estremi di una orgogliosa affermazione di sé e della constatazione di una sua inadattabilità alla vita, Pavese sceglie fin da ragazzo la letteratura «come schermo metaforico della sua condizione esistenziale» (Venturi), in essa cercando la risoluzione dei suoi conflitti interiori.Studia nell’Istituto Sociale dei Gesuiti e nel Ginnasio moderno, quindi passa al Liceo D’Azeglio, dove avrà come professore un maestro d’umanità, Augusto Monti, al quale molti intellettuali torinesi di quegli anni devono tanto. L’ingresso al liceo D’Azeglio è di somma importanza per la vita di Cesare, il quale tra il 1923 e il 1926 partecipa a quel rinnovamento delle coscienze che non solo esercitava l’azione educatrice di Monti ma che trovava concretezza e palpabilità nell’opera di Gramsci e Gobetti. Dapprima Pavese è assai riluttante a impegnarsi attivamente nella lotta politica, verso la quale egli non nutre grande interesse, anche perché tende a fondere sempre il motivo politico con quello più propriamente letterario. È però attratto dai giovani che seguono Monti: Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Tullio Pinelli, Massimo Mila, i quali non aderiscono né al movimento di Strapaese (legato al fascismo) né a quello di Stracittà (movimento apparentemente progressivo ma in realtà anch’esso trincerato dietro lo scudo fascista), in opposizione ai quali essi coniano la sigla Strabarriera.Cesare trova gusto nelle discussioni, si trova a suo agio nelle trattorie, assieme agli operai, ai venditori ambulanti, alla gente qualunque: molti di questi saranno un giorno protagonisti dei suoi romanzi. Ha la sensazione di essere giovane, rinato e, negli ultimi anni dell’Università, nella sua vita privata entra colei che sarà al centro della sua anima, «la donna dalla voce rauca». Cesare appare addirittura trasformato: per tutto il tempo durante il quale ha la sensazione che questa donna gli sia vicina, diventa cordiale, umano, affettuoso, aperto al colloquio con gli altri. Quella 18 donna gli riporta l’incanto dell’infanzia, il suo viso, quando non la sente sua non è più il mattino chiaro, è una nube, ma una nube dolcissima e, anche se vive altrove, gli riflette sempre «lo sfondo antico». Quelle colline e quel cielo tornano ancora umanissimi come il «dolce incavo della sua bocca».Nel 1930 (a soli ventidue anni) si laurea con una tesi Sulla interpretazione della poesia di Walt Whitman e comincia a lavorare alla rivista «La cultura», insegnando in scuole serali e private, dedicandosi alla traduzione della letteratura inglese e americana nella quale acquisisce ben presto fama e notorietà. Gli anni del liceo e poi dell’università portano nella vita del ragazzo solitario il suggello dell’amicizia: tutto contribuisce ad umanizzare le sue rabbiose letture: le dispute letterarie, l’eccitante accostamento al mondo vietato della politica, i caffè concerto, i miti sfolgoranti dell’industria cinematografica, le marce in collina, le vogate sul Po che rinvigoriscono il suo corpo, precocemente squassato dall’asma. In confronto al paese, la città si presenta come una grande fiera, come una festa continua. Di giorno la vita è piena, i negozi sono tanti, i tram sferragliano e dovunque si ascolta musica.Nel 1931 muore la madre, pochi mesi dopo la laurea: per l’ammirazione mai manifestata e per il rimorso di non aver mai saputo dimostrare il suo affetto e la sua tenerezza per lei, la sua morte segna un altro solco amaro nella vita dello scrittore. Rimasto solo, si trasferisce nell’abitazione della sorella Maria, presso la quale resterà fino alla morte.Intanto sempre nel 1931 viene stampata a Firenze la sua prima traduzione: Il nostro signor Wrenn di Sinclair Lewis. Il mestiere di traduttore ha tale importanza non solo nella vita di Pavese ma per tutta la cultura, da aprire uno spiraglio a un periodo nuovo nella narrativa italiana. Con le sue traduzioni, egli dà la misura di quanto sia grande la sua ansia di libertà, la sua esigenza di rompere lo schema delle retoriche nazionalistiche e aprire a sé e agli altri nuovi orizzonti culturali, capaci di smuovere quelle incrostazioni vecchie e nuove che avevano fatto ammalare la società italiana. Egli vuole presentare coscientemente «il gigantesco teatro dove, con maggior franchezza che altrove, veniva recitato il dramma di tutti». Il fascismo negava ogni iniziativa alle grandi masse, condannava e impediva gli scioperi, mentre in quei romanzi americani si leggeva la possibilità di creare nuovi rapporti sociali.Contro la monotonia della prosa d’arte e diversamente dall’Ermetismo, Pavese dimostrava come il contatto con le grandi masse americane attraverso quei romanzi vivificasse anche il linguaggio, con l’inserimento della parlata popolare, sì da renderlo congeniale con i nuovi contenuti. Di tutti, quello che diventa la coscienza del suo destino è Peter Mathiessen (lo scrittore della Natura: Il leopardo delle nevi, L’albero dove è nato l’uomo, Il silenzio africano NdR.), per la comune ricerca del linguaggio, per il senso tragico e per il considerare inutile la vita, nonché per l’estremo gesto suicida.Nel 1933 sorge la casa editrice Einaudi al cui progetto Pavese partecipa con entusiasmo per l’amicizia che lo lega a Giulio Einaudi: questi sono gli anni dei suoi momenti migliori con «la donna dalla voce rauca», una intellettuale laureata in matematica e fortemente impegnata nella lotta antifascista: Cesare accetta di far giungere al proprio domicilio lettere fortemente compromettenti sul piano politico: scoperto, non fa il nome della donna e il 15 maggio 1935 viene condannato per sospetto antifascismo a tre anni di confino da scontare a Brancaleone Calabro. Tre anni che si ridurranno poi a meno di uno, per richiesta di grazia: torna infatti dal confino nel marzo del 1936, ma questo ritorno coincide con un’amara delusione: l’abbandono della donna e il matrimonio di lei con un altro. L’esperienza (che sarà il soggetto del suo primo romanzo, Il carcere), e la delusione giocano insieme per farlo sprofondare in una crisi grave e profonda, che per anni lo terrà avvinto alla tentazione dolorosa e sempre presente del suicidio.Si richiude in un isolamento forse peggiore di quello adolescenziale ma ancora una volta a salvarlo è la letteratura, il suo «valere alla penna».Nel 1936 compare a Firenze, per le edizioni Solaria, la prima raccolta di poesie Lavorare stanca che comprendeva le poesie scritte dal 1931 al 1935 e che fu letta da pochi. Una seconda edizione, comprendente anche le poesie scritte fino al 1940, fu pubblicata nel 1942 da Einaudi. In quegli anni scrive ancora racconti, romanzi brevi, saggi. Esce nel 1941 la sua prima opera narrativa, Paesi tuoi, «ambiantata in quelle colline e vigne delle Langhe, che accanto alla Torino dei viali e dei caffè, dei fiumi e delle osterie, costituisce l'altro grande luogo mitico della poetica pavesiana» (Emilio Cecchi). Sembra aver riacquistato la fiducia in se stesso e nella vita e, soprattutto frequentando gli intellettuali antifascisti della sua città, pare aver maturato anche una coscienza politica. Tuttavia non partecipa né alla guerra né alla Resistenza: chiamato alle armi, viene dimesso perché malato di asma. Destinato a Roma per aprire una sede della Einaudi, si trova isolato e in lui prevale la ripugnanza fisica per la violenza, per gli orrori che la guerra comporta e si rifugia nel Monferrato presso la sorella, dove vivrà per due anni «recluso tra le colline» con un accenno di crisi religiosa e soprattutto con la certezza di essere diverso, di non sapere partecipare alla vita, di non riuscire aessere attivo e presente, di non essere capace di avere ideali concreti per vivere (motivi che ritorneranno nel Corrado de La casa in collina e che in un certo senso riportano alla inettitudine sveviana e quindi al Decadentismo).Dopo la fine della guerra si iscrive al Partito comunista ma anche questa scelta, come la crisi religiosa, altro non era se non un ennesimo equivoco, una nuova maniera di prendere in giro se stesso, di illudersi di possedere quella capacità di aderenza alle cose, alle scelte, all’impegno che invece gli mancavano. La sua probabilmente era una sorta di tentativo di riparazione, di voglia di mettere a posto la coscienza e del resto ancora il suo impegno è sempre letterario: scrive articoli e saggi di ispirazione etico-civile, riprende il suo lavoro editoriale, riorganizzando la casa editrice Einaudi, si interessa di mitologia e di etnologia, elaborando la sua teoria sul mito, concretizzata nei Dialoghi con Leucò.Recatosi a Roma per lavoro (dove soggiornerà per un periodo stabilmente, a parte qualche periodica evasione nelle Langhe) conosce una giovane attrice: Constance Dowling. È di nuovo l’amore. La giovane con le sue efelidi rosse e forse in qualche modo con una sincera ammirazione per un uomo ormai famoso e noto, ricco di intelletto e capace di una forte emotività, accende ancora una volta Cesare, ma poi va via, lo abbandona. Costance torna in America e Pavese scrive Verrà la morte e avrà i tuoi occhi…A questo secondo abbandono, alle crisi politiche e religiose che riprendono a sconvolgerlo, allo sgomento e all’angoscia che lo assalgono nonostante i successi letterari (nel 1938 Il compagno vince il premio Salento; nel 1949 La bella estate ottiene il premio Strega; pubblica La luna e i falò, considerato il suo miglior 19 racconto) alla nuova ondata di solitudine e di senso di vuoto non riesce più a reagire. Logorato, stanco, ma in fondo perfettamente lucido, si toglie la vita in una camera dell' albergo Roma di Torino ingoiando una forte dose di barbiturici. È il 27 agosto del 1950. Solo un'annotazione, sulla prima pagina dei Dialoghi con Leucò, sul comodino della stanza «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.». Aveva solo 42 anni. “C'è una ragione perché sono tornato in questo paese, qui e non invece a Canelli, a Barbaresco o in Alba.” Cesare Pavese, La luna e i falò Fonti: http://www.letteratura.it - http: //www.italialibri.net Isola Niedda Dae sa Sardinia po su Mondu cultura sarda in sas paraulas de s’omine- Escribie a [email protected] Eleonora Bellini Italia Il ponte di Mostar Il ponte di Mostar, che vedo ora per la prima volta filmato da un cineamatore clandestino, il ponte di Mostar resiste alle dure granate e si propone di morire a poco a poco, così che la durata della fine sia inversamente proporzionale alle bocche di fuoco che gli rantolano contro. La sua agonia crea effetti di suspence lesinando avaramente il crollo delle pietre, ad una ad una. Il moribondo vetustissimo ponte dinanzi all'obiettivo ora si spoglia come una giovane entraineuse nel cono rosso della scena. Al cospetto di così grande grazia nel morire tace persino il rombo dei cannoni. Solo ronza sommesso il nastro anonimo del cineamatore. Volle un sultano ancorarlo tra due opposte rive, poi il tempo volse quella volontà in quotidiano uso. Forse per questo il ponte di Mostar muore lentamente, come lentamente morirebbe un uomo: perché a ciascun tonfo di pietra sia accordato il giusto peso. Traduzioni - Correzione di testi 20 [email protected] Nazim Hikmet Turquia Amo in te l'avventura della nave che va verso il polo amo in te l'audacia dei giocatori delle grandi scoperte amo in te le cose lontane amo in te l'impossibile entro nei tuoi occhi come in un bosco pieno di sole e sudato affamato infuriato ho la passione del cacciatore per mordere nella tua carne. amo in te l'impossibile ma non la disperazione. Pepe Sánchez Cuba Se di influenze si tratta Sono influente, dunque di influenze anno zero. Nella caverna di Altamira lasciai un occhio Attento ai bisonti che fecondano l’umidità. E il mio fulgore fu più umano. L’influenza è un sunto nostangico, Di proprietà privata. Senza gestione. Somma vetri essenziali nel tuo polmone. A sapere. La malinconia di Vallejo crebbe Unita all’erbaccia tagliata dalla mia erba Come una vicinanza, un referente acquoso. E il mio fulgore fu più umano. Ho camminato la Londra dei miei vent’anni Con un pugno di versi di Dylan Thomas E non c’è stata taverna capace di sopportarne i debiti, Le esternazioni della paura che ci debbono. A sapere. Fui personaggio secondario in El siglo de la luces, Hamlet nel mio Macondo di solitudine, Ulisse per un’Itaca dove ardere l’oblìo; León Tolstoi tomó dalla mia autobiografia Per i finali ciclici di Guerra e Pace È stato il Don Chisciotte, I cani che latravano alla sua ombra; T. S. Eliot mi prestò versi da La terra abbandonata Per minare l’aridezza oscura della mia Città Irreale. A sapere. 21 Sono stato tanti, che non sono stato. Nel patrocinio del verso La mia voce si mescola impavida Col suo eco angustiato e confuso, Come un ossimoro allegorico. A volte anche ho voluto essere banale, M’affondai nella magia d’Estigia Come la stranezza nel crepuscolo. E il mio fulgore fu più umano. Però ci sono tanti che non sono stato. Nè sarò, Dunque neppure della mia fonte sono proprietario. Tanti sono stato e no, A sapere, Che già di influenze albeggio. Trad. Giovanna Mulas- Gabriel Impaglione La Posta d’ Isola Nera La Posta d’ Isola Nera La regione ha varato una direttiva di legge che ufficializza la Limba Sarda Comuna (LSC) come lingua sarda usata dall’amministrazione “in bessida”, ovvero per esprimersi con il popolo e con il resto del mondo. Questo vuol dire che la lingua sarda ufficiale della sardegna, che la regione ha scelto per rappresentarci tutti, è proprio la LSC. Sta di fatto che la LSC NON ESISTE, è una lingua fatta a tavolino, da una manciata di persone che evidentemente si sentono in grado di decidere sulle sorti della nostra lingua originaria, è un miscuglio tra campidanese e logudorese, dove prevale il logudorese e dove tantissimi suoni, parole, espressioni delle effettive varianti della lingua sarda vengono sacrificati senza un vero motivo. Sacrificati, si, perché è ovvio che questa specie di “esperanto sardo” che non vive in nessuna realtà della nostra isola e che non rappresenta la nostra coscienza, prima o poi verrà inserito nelle scuole, negli offici.La nostra identità linguistica e non solo è a rischio, tutte le varietà linguistiche parlate da secoli in sardegna verrebbero perse. E questo processo sta già partendo, con una legge varata persino in modo antidemocratico, senza votazione, con delibera partita direttamente dal Governatore. Sebbene si possano o no condividere le scelte politiche del presidente della Regione Soru, questa scelta ingiusta e priva di un fondamento culturale dovrebbe essere rifiutata da ogni sardo.Se vuoi saperne di più vai direttamente nel sito della regione sardegna http://www.regione.sardegna.it e leggi il regolamento della limba sarda comuna, qualsiasi profano della lingua sarda potrà comprendere quanto questa decisione sia stata veramente assurda. E se sei contrario manda il tuo dissenso al presidente della regione via e-mail, in sardo o in italiano, o in qualsiasi altra lingua, perché la difesa della varietà linguistica ed indentitaria di un popolo dovrebbe interessare tutta l’umanità: [email protected] Lucio Mura Gloria Gaud Argentina Bizantino Dove sarà Lui? Quando gli alberi ululano Annunciando la notte? Il dolore è un bel fermaglio Bizantino Chiedendo al mio cuore il suo sangue grigio Non so che consolazione potrebbe dare ai miei sogni Nella pendenza di un orizzonte che si staglia. Trad. Giovanna Mulas- Gabriel Impaglione 22 Ilha Negra Rivista di letteratura in portoguese Diretta da Amelia Pais (Portogallo)- Gabriel Impaglione (Italia). Mail: [email protected] Bruno Candéas Campina Grande/PB- Brasile Ingranaggio Poesia Non si modella Si trasforma. Non si copia Si crea. Ha dita Nei piedi Per camminare Nella striscia Senza squilibrarsi. Poesia è macchina E pulsazione. Luciano Somma Italia Guardando dietro una porta socchiusa Nostalgia d'un passato ch'e' gia' presente nel futuro. Attimo riflessione frase vela al vento nel mare tempestoso dell'incomprensione conquista ribellione odio amore tutto nella tristezza d'una rinuncia guardando te impudicamente scoperta dietro ad una porta socchiusa. Luis Marcelo Pérez 23 Uruguay 3 Sopra il tuo corpo Sotto il mio presi da fuori, da dentro più corpo i corpi i nostri. De Poesia en estado natural. Trad. Giovanna Mulas- Gabriel Impaglione Memorie Tengo una lettera per nu cumpare nipote (dal film Miseria e Nobiltà, 1954)- Regia : Mario Mattoli- Soggetto : dalla omonima commedia di Eduardo Scarpetta TOTÒ - Una lettera? CAFONE- Una lettera de carta, sa... TOTÒ - E perché, le lettere si scrivono di porcellana? CAFONE- Eh, non si può sape'... TOTÒ - Dunque. Lei è ignorante? CAFONE -Io? Si. TOTÒ - Bravo, bravo. Viva l'ignoranza! Tutti così dovrebbero essere... CAFONE -Eh... TOTÒ - E se ha dei figliuoli, non li mandi a scuola, per carità! CAFONE -No, io figli nun tengo... TOTÒ - Li faccia sguazzare nell'ignoranza... CAFONE -No, io tengo nu cumpare nipote: proprio per lui devo scrivere la lettera, sai... TOTÒ - Bravo. A lui? (Prende un pacco di lettere nella scrivania). Quanti anni ha questo compare? CAFONE -Tiene quarantacinque anni... TOTÒ - Quarantacinque? (Fruga tra le lettere e ne estrae una). Eccola qua. Questa va benissimo. CAFONE- E cos'è questa? TOTÒ - No, vede: noi le lettere le scriviamo prima, di modo che, quando viene la persona... CAFONE -None! Tu non sai che debbo scrivere qui dentro! TOTÒ - Va be', non vuol dire: guadagnamo tempo. CAFONE -E che sai, li fatti miei? TOTÒ - Ma scusi: lei m'ha detto che suo nipote compare ha quarantacinque anni... CAFONE -Eh, quarantacinque anni... TOTÒ - Questa lettera io l'ho scritta tre anni fa per un signore che ne aveva quarantadue. CAFONE -E 'stu signore che è? Lu cumpare mio? TOTÒ - Non vuol dire! Ma gli va bene... CAFONE -No, paisa', non me piace... TOTÒ - Ma gli andrà bene... CAFONE -Ma no! TOTÒ - La vuole da capo? CAFONE -Proprio da capo. TOTÒ - Scriviamola da capo. Lo facevo per lei: lei con questa lettera economizzava...La vuole nuova? Facciamola nuova! CAFONE -Bravo. TOTÒ - Siamo qui apposta... Dunque. Vuol dettare, per cortesia? CAFONE -Scriva. TOTÒ - Si... CAFONE -Napole... TOTÒ - Eh... (Mette la penna nel calamaio e spruzza d'inchíostro il cafone). Avanti. Napoli... eccetera 24 eccetera eccetera... Sissignore. CAFONE -(inizia a dettare) Caro Giuseppe cumpare nipote... TOTÒ -Beh... caro Giuseppe... CAFONE -E mio cumpare e mio nipote. TOTÒ - Va be', vuole che... Beh... Caro... CAFONE -Caro... TOTÒ - ... Giuseppe... CAFONE -... cumpare... TOTÒ - ... compare nipote... sì... sì... (Lo spruzza ancora d'inchiostro). CAFONE (-asciugandosi) A Napole... a Napole stocio facendo la vita de lu signore TOTÒ - A Napoli... CAFONE -Stocio facendo... TOTÒ - (s'interrompe riflettendo)) Stocio... Stocio... Io stocio, tu stoci... Non esiste questo. CAFONE -Non te piace stocio? TOTÒ - Sto! Io sto! Che me fai scrivere? CAFONE -E più corto, eh... TOTÒ - Me fai scrivere stocio... (Cancella con una mano,e spruzza di nuovo d'inchiostro il cafone)). Ah, santo Iddio, come se fa... come se fa... (Lo spruzza ancora) CAFONE- (asciugandosi il vestito) Paisa', chistu lu vestito l'hai cumprato io, eh... TOTÒ - Ah, bravo... bravo... Paga sempre lei: bravo! (Ad alta voce rivolto a Peppiniello) Peppiniello! Quelle pizze diventano due! (Al cafone) Dica, dica... CAFONE -Alla sera me ne vaco a lu tabbarene... TOTÒ - Bene. Alla sera me ne vado... CAFONE -... me ne vaco a lu tabbarene... TOTÒ - Me ne vado... CAFONE -... e me ne esco quanti chiode... TOTÒ - Quanti chiodi? (Gli spruzza l'ínchiostro in un occhio). CAFONE -Quanti chiode. Ma che, sta chiovenno ignostro, paisa'? TOTÒ - Quanto chiodo?... CAFONE -Chiodo, si: chiodono li porte, va... TOTÒ - Ah. quando chiude! CAFONE -Finisci! Finisci! TOTÒ - Eh, dice chiodo... Chiude, chiude! CAFONE - E per questo... TOTÒ - E per questo... CAFONE -... mandame... TOTÒ ... mandami... CAFONE -... nu poco de soldi... TOTÒ - ... per questo mandami un po' di so... (rimane di sasso) CAFONE -... perché nun tengo nemmeno li soldi per pagare la lettera a lu scrivano che me sta scrivendo la lettera presente... TOTÒ - (smette di scrivere) E poi? CAFONE - E poi... Mettece li saluti... Ponto. TOTÒ - Ma ch'e saluti e saluti!? (Si alza e straccia la lettera). CAFONE -(si alza anche lui, spaventato) E che? TOTÒ - Ma che saluti e saluti!? Vai via, mascalzone! Vai via! CAFONE- ... TOTÒ - (lo minaccia col calamaio) E ringrazia Dio che non tiro il calamaio perché mi serve CAFONE- E che... (Allontanandosi). TOTÒ - (fra sè) Chiodo... ponto... stace... Mi fa perdere del tempo inutilmente PEPPINIELLO -(Che arriva tutto contento) Papà, le pizze sono pronte: dammi i soldi. TOTÒ - E che soldi e soldi? E che pizze e pizze? M'è passato l'appetito... Non voglio mangia' più (Torna a sedersi, amareggiato). Fonte: http://www.antoniodecurtis.com Norberto Antonio 25 Rosario- Argentina 1 Accettarsi non fugace è la consegna di viltà infettare le giornate che non meritan di viversi riconoscere il sapore dalla forma della frutta separare lo strato (como capa) dallo spessore e con tre fischiettate poi, fare una desolazione per dopo non sforzarsi di non cantare nei cimiteri assieme a loro che del tutto non moriron e poi, poi, brucciar lo scritto come se ni non viver si trattasse. Traduccion: Tomàs Rucci. Franco Santamaria Italia Antico steccato Ho tanto sognato di volare nei cieli dell'anima a spiegarmi perché mondi irrequieti, disumani, a spiegarmi perché insistentemente il vento svena le pietre del sud e un cupo suono di tuba scopre note rotondità in fiamme - in ogni direzione. Solo conosco il gioco scivolante dei ghiacciai e l'eco che s’intreccia in brulicanti santuari, la morbida essenzialità del ritorno dei germogli. Solo conosco il linguaggio di ciò che non è umano, se la tomba scavata nella rena si dilava in rito dissacrante, se l'antico steccato imprigiona disarmonie volute e accettate. Salvatore Armando Santoro Italia Santiago Impotente il vecchio Giorgio* s’agita convulso sotto la lapide che gli oscura il sole della sua Firenze. Il pellegrin che s’avvicina al suo avello ascolta il suo pianto e mesto tace! Giacciono i morti ancora incomposti, con le unghie seviziate e i genitali ustionati 26 dalle scariche inflitte dai gorilla di Pinochet. E Santiago, città di dolore, deve sopportare ancora l’insulto umiliante del ritorno d’un tiranno impunito. Urla di rabbia si accompagnano, per le strade della città martoriata, alla gioia delle folli ubriache che ignorano il dramma dei tanti “spariti” nel nulla, che hanno dato la vita anche per questo popolo ingrato. Per loro non alberghi di lusso ma squallide prigioni, non dorati soggiorni ma la violenza inconsulta di sadici guardiani d’un potere asservito ai luridi interessi di multinazionali senza dignità e ne storia. Piange Santiago, incapace di rendere giustizia ai martiri d’una libertà ancora una volta offesa e vinta. * Giorgio La Pira Emilse Zorzut Argentina Sin vida Senza vita Los engranajes son signos no humanos, matan utopías Gli ingranaggi sono segni non umani, uccidonoo le utopie Condenan leyes de armonía cósmica, labran rutinas. Condannano le leggi di armonia cosmica, creano la rutina Ruidosos giros, roen cerebros, frenan vuelos, búsquedas. Rumorosi giri, rodono i cervelli, frenano i voli, le ricerche. La niebla crece, evuelve seres vivos hasta tragarlos. La nebbia cresce, avvolge gli esseri vivi fino ad ingoiarli. Antonio Miranda 27 Brasile Perversi I Come confrontare viso a viso — verso a verso — Ferlinghetti col suo compagno Evtushenko? Come accostare la coda ardente e la furia nera di Aimé Cesaire? La bocca maledetta di Gregorio de Matos? Dove-chiedo — dove — Ginsberg fumerebbe oppio in carcere con Ho Chi Min? Ezra Pound scenderebbe dal suo castello spalla a spalla con Garcìa Lorca in difesa della Spagna? Traduzioni di Linda Schettini Robert Gurney Inglaterra La libellula Una delle prime cose che ricordo è la libellula che sempre ritornava vibrando sopra gl’iris bianchi nello stagno del giardino alla riva del fiume. mai piegava le ali neppure quando si posava. Trad. Giovanna Mulas- Gabriel Impaglione Carlos Dariel Argentina Ancora “Le ferite sono nidi di fiore.” Antonio Porchia. Devi cercare bene giù E in profondità più e più dentro lì dove unicamente 28 è possibile l’origine Trad. Giovanna Mulas- Gabriel Impaglione Graciela Wencelblat Argentina Le valli dei suoi fianchi Si burlano degli angeli. Disfano cammini Attraversano filari Di piastrelle Dove il bue di seta invita al silenzio. C’è una tristezza che ovula nel prato tuono che nell’ombra rode sogni Soffoca un pugno di polvere bloccato. Affligge lo scarso del tempo. Trad. Giovanna Mulas- Gabriel Impaglione María Montero Costa Rica Regole del gioco Tutti concordano nell’avermi amato. Tutti concordano nell’essersene andati. Trad. Giovanna Mulas- Gabriel Impaglione Alicia Giordanino Argentina Gli specchi Gli specchi sempre la chiamano la convocano A cerimonie di fantasie Duplicare la specie Ancora In mezzo di un vetro che respira Trad. Giovanna Mulas- Gabriel Impaglione 29 Santiago Azar Chile Vecchi cracks Quando il tempo si fermò definitivamnete Sopra le gambe di quelli che furono ragazzi Sopra le teste di quelli che furono idoli, Sopra l’abilità che oggi è avida Non restò più a questi uomini fedeli Che unirsi settimana dopo settimana nel campo di terra, Con tutti i loro nipoti nelle gallerie, Con le loro mogli grasse, ma sfidanti, Per calciare rigori liberi alle canne, Per vedere se da lontano sorprendevano la morte. Trad. Giovanna Mulas- Gabriel Impaglione Isola Nera Casa di Poesia e Lettere Per l’invio di materiale letterario: Via Caprera 6 – 08045- Lanusei. Italia Casa di poesia e letteratura. La prima in Sardegna; in Italia, aperta alla creazione letteraria degli autori italiani e di autori in lingua italiana. Il progetto Isola Nera riguarda la prossima pubblicazione in formato cartaceo. Isola Nera merita degli sponsors in grado di valorizzare l’iniziativa e dalla quale vengano valorizzati. Si accettano e vagliano proposte. 34 hasta la pròxima… al prossimo numero Ringraziamo calorosamente tutti i lettori che hanno inviato commenti , auguri, critiche in merito alla Nomination al Nobel per la Letteratura 2006 e l’adesione alla Legge Bacchelli pro Giovanna Mulas. www.villanovastrisaili.com ai cani sciolti della letteratura consigliamo vivamente www.villanovastrisaili.com www.villanovastrisaili.com www.villanovastrisaili.com di Rina Brundu. Salotto letterario, Narrativa, Poesia 30