UNA PASSEGGIATA NELL`ORTO LAPIDARIO DEL MUSEO DI

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UNA PASSEGGIATA NELL`ORTO LAPIDARIO DEL MUSEO DI
UNA PASSEGGIATA NELL'ORTO LAPIDARIO DEL MUSEO DI AQUILEIA. LE ISCRIZIONI FUNEBRI.
A. R. TERMINI
Molti pensano che un “orto lapidario” sia un posto freddo e muffoso. Chi visita il Museo Archeologico di
Aquileia spesso non si accorge dell'esistenza di questa sezione, oppure la salta di proposito, specie
d'inverno. In effetti non è comoda come un sala di Museo. In effetti per il lapidario ci vuole qualcosa di più:
per lo meno bisogna riuscire a decifrare qualcosa delle iscrizioni, che a prima vista sembrano testi illeggibili,
una serie di abbreviazioni senza senso.
Con la conversazione di oggi cercherò di mostrare che una passeggiata epigrafica può essere piacevole ma
soprattutto è utile nella didattica delle materie classiche. Fino a qualche anno fa concludevo la quinta
ginnasio con una gita epigrafica. Di solito è sufficiente qualche lezione preparatoria, perché gli studenti siano
in grado di leggere con una certa autonomia le iscrizioni, ricopiarle e disegnare il monumento.
Prima di entrare nel Lapidario e mostrarvi alcune iscrizioni funebri, alcune informazioni.
Guardiamo una carta dell'impero romano. E' pieno di strade, città, di empori, di porti, di teatri, di piazze, di
giardini, di case di piacere, di terme e di necropoli. In ognuno di questi luoghi c'è un numero enorme di
iscrizioni e ho nominato le case di piacere perché anche di quelle si occupa l'epigrafia, visto che quelle case
erano piene di iscrizioni graffite. Il nostro territorio, come sapete, è la X Regio.
Le iscrizioni diffondevano informazioni le più diverse. Roma, rispetto alle altre civiltà, ha concepito l'epigrafia
in senso pervasivo: strumento a un tempo pubblico e privato, in grado di raggiungere il maggior numero
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possibile di persone e realizzare una rete di relazioni . Oggi restano centinaia di migliaia di iscrizioni. Solo
ad Aquileia se ne sono studiate diverse migliaia. E ogni anno questo patrimonio aumenta, con nuove
scoperte e nuove edizioni. Anche se sono in netta prevalenza, le iscrizioni funebri sono solo una parte del
patrimonio epigrafico.
LEGGERE UN'ISCRIZIONE
Per i romani leggere un'iscrizione non era un'operazione banale. Per approfondire questo aspetto, consiglio
agli studenti un saggio di Giancarlo Susini, “Compitare per via. Antropologia del lettore antico”, che troverete
in bibliografia. In questo articolo memorabile Susini ripercorre l'esperienza del lettore antico, che si ferma e,
compitando, scioglie le abbreviazioni, capisce il testo e ne ricava l'appagamento che deriva da
un'operazione che abbia messo alla prova le nostre capacità. Come succede anche a voi quando traducete
una versione.
Il linguaggio epigrafico è estremamente sintetico e si serve di un gran numero di abbreviazioni, che è
indispensabile saper sciogliere. Ma, per fortuna, per questo ci sono dei comodi manuali. Inoltre, dobbiamo
avere qualche nozione di onomastica latina e di storia sociale.
Nel mondo romano ognuno ha il nome che può permettersi. La scelta non è affidata al caso o al capriccio
(nessuno si chiama Chanel o JR, per capirci).
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Il cittadino romano di nascita libera (ingenuus) ha generalmente tre nomi (tria nomina) .
Un praenomen (sempre abbreviato) scelto tra un numero assai ristretto, come, p. es. P(ublius) o M(arcus).
Segue il nomen, il gentilizio, che indica la gens di appartenenza, come, p. es., M(arcus) Tullius Cicero.
Infine, dall'età augustea, si comincia a trovare comodo l'uso di un cognomen, che spesso deriva da una
caratteristica fisica, come Longus, p. es.
Dopo il cognomen c'è la c.d. filiazione, cioè il praenomen del padre seguito dalla lettera F, p. es. M(arci)
F(ilius).
In alcuni casi può esserci l'indicazione della tribù di provenienza; quella degli aquileiesi è la Velina
(abbreviato VEL).
La donna romana di nascita libera ha diritto quasi sempre al solo gentilizio del padre. Se in una famiglia ci
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sono più figlie, le si distingue con un pratico aggettivo come Prima, Secunda ecc.
Il liberto (cioè lo schiavo che è stato manomesso, liberato dal suo padrone) assume il praenomen e il
nomen e poi anche il cognomen dell'ex padrone (diventato ormai patronus) seguito dal praenomen dell'ex
padrone e da un'importante lettera L che significa L(ibertus). Il liberto poi eventualmente colloca al terzo
1 BERSANI p. 9
2 La dichiarazione dei tria nomina è considerata obbligatoria per le operazioni del censimento previsto dalla
Lex Iulia municipalis del 46 a.C.
3 Se una donna, priva di praenomen com'è, ha un liberto si ricorre a questo espediente: la sigla L è
preceduta dal segno >, reso nello scioglimento come Gaiae o mulieris. Il medesimo segno vale anche
come abbreviazione di “centurione”.
posto il suo nome personale, che spesso rivela una provenienza lontana. Es. L(ucius) Aiacius P(ubli)
l(ibertus) Dama
Gli schiavi, almeno in antico, non hanno diritto a un nome, vengono identificati come “schiavo di”, p. es.,
Marpor (Marci puer). Poi, anche perché aumentavano di numero, cominciano a indicare anche il loro nome,
seguito dal praenomen del padrone al genitivo e da s(ervus) non sempre espresso.
Detto questo, vediamo cosa possiamo aspettarci di trovare in un'iscrizione funebre.
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nome del defunto (al nominativo, al genitivo o in dativo)
sua condizione sociale (eventualmente cursus honorum, oppure carriera militare)
età della morte
formule (oggi vedrete soprattutto D(is) M(anibus), che significa “Agli Dei Mani) ed è una formula
deprecatoria che si diffonde solo dal I sec. d.C.
eventualmente: il nome di chi ha commissionato l'opera (se invece l'ha fatta fare il defunto,
troveremo l'indicazione VF v(ivus) f(ecit: quest'ultima indicazione è diffusa tra i ceti emergenti e
rivela la volontà di esibire i propri mezzi economici; non è un caso se ad Aquileia la formula VF si
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trova quasi esclusivamente nelle iscrizioni dei liberti
eventualmente: disposizioni relative al sepolcro (per esempio, se il defunto vuole escludere gli eredi
usa la formula H(oc) M(onumentum) H(eredem) N(on) S(equetur).
eventualmente: maledizioni contro i violatori della tomba
eventualmente: considerazioni sulla morte
eventualmente: appelli al lettore
Oggi ci concentreremo sulle iscrizioni, ma dobbiamo tenere presente che un'iscrizione si legge sempre
anche in relazione al supporto che la ospita. Può trattarsi di una semplice urna come di un monumento
elaborato. Le botteghe aquileiesi offrivano molti prodotti, ma si specializzarono soprattutto nella produzione
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di grandi are con rilievi. Tutto dipendeva dalle risorse finanziarie del defunto o degli eredi o comunque dei
dedicanti, dalle mode che venivano importate, dai gusti dell'artigiano.
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L'orto lapidario di Aquileia è stato creato negli anni '50 nel giardino del Museo , a sua volta istituito
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ZACCARIA 1987, p. 132
5 Are con rilievi: aspetto più caratteristico della produzione funeraria aquileiese dall'età claudia a quella
tardo-flavia (ZACCARIA, 1989, p. 134)
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Secondo una ricognizione di 10 anni fa nel lapidario di Aquileia sono conservate 470 epigrafi
lapidee databili tra il II sec. a.C. e il IV sec. d. C. La disposizione è ancora quella curata negli anni '50 del
secolo scorso da Silvio Panciera e segue in parte l'ordine seguito dai Corpora epigrafici (sacre, onorarie,
ecc). Alla fine del secolo scorso, grazie anche al contributo fondamentale del Prof. Maurizio Buora, si è giunti
finalmente alla pubblicazione del corpus delle iscrizioni aquileiesi, così come era stato concepito fin dall'inizio
del secolo dal Brusin, che non riuscì tuttavia a vedere la pubblicazione dell'opera. Nel 2003 Gianni Lettich ha
curato un testo (Itinerari epigrafici aquileiesi) che rappresenta uno strumento necessario per effettuare una
visita consapevole del lapidario. In ogni caso, anche senza la guida di Lettich, da qualche tempo è diventato
più agevole portare gli studenti a visitare il lapidario, dal momento che ogni epigrafe è corredata da una
chiara didascalia, che riporta il testo latino (o greco) dell'iscrizione e la relativa traduzione. Di moltissime
iscrizioni del lapidario e del Museo non sappiamo l'esatta provenienza. Questa sfortunata circostanza
dipende da molteplici fattori che derivano sia dalla storia degli scavi aquileiesi, sia dal fatto che molti
monumenti, sottratti nelle epoche più diverse e per gli scopi più diversi, sono stati recuperati altrove. Per
approfondire un punto di partenza può essere L. Bertacchi, “I monumenti sepolcrali lungo le strade di
Aquileia”, in AAAd, XLIII, 1997, pp. 149-167.
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Il museo, istituito nel 1882 come "Imperial-regio Museo dello stato" con il patrocinio dell'imperatore
Francesco Giuseppe, ha sede nella Villa Cassis Faraone, costruita tra il 1812 e il 1825; esso accoglie le
collezioni storiche, ricevute in dono o acquistate dalle più illustri famiglie aquileiesi, integrate dai risultati delle
ricerche condotte fra ‘800 e ‘900 soprattutto ad opera dei suoi direttori storici, Enrico Maionica, Giovanni
Battista Brusin e Luisa Bertacchi.
L'ordinamento dell'esposizione, articolata fin dall'origine secondo temi, risale nella sua attuale disposizione
agli anni '50 del secolo scorso: i materiali sono scanditi per classi, a partire dalla statuaria (ritratti, funeraria,
sacra), per passare alla ceramica, ai metalli, ai vetri, alle gemme, agli oggetti di ornamento (in particolare
ambre), che rispecchiano le attività economiche e la vita quotidiana della città. Le gallerie lapidarie, avviate
negli anni '30 e ampliate negli anni '50 del ‘900, ospitano iscrizioni e monumenti pubblici e funerari e preziosi
mosaici. Nuovi spazi espositivi sono stati ricavati nei magazzini, con le sale dedicate alla via Annia, mentre
una sezione ospita l'imbarcazione rinvenuta a Monfalcone nell'area del Lacus Timavi.
dall'Austria nel 1882 nella villa appartenuta al conte Antonio Cassis Faraone, geniale imprenditore
settecentesco di origine levantina, mecenate e proprietario di innumerevoli beni in Friuli e soprattutto a
Trieste: fu lui, per esempio, a far costruire il Teatro Verdi.
Cominciamo da questa stele (IA 738), che risale al II d.C.
Lo stato è frammentario e riusciamo a leggere solo:
L(ocus) m(onumenti) in fr(onte) p(edum) XVI (sedecim) in agr(um) p(edum) XXXII (duo et triginta)
Area sepolcrale di 16 piedi sulla fronte e di 32 piedi verso la campagna
Notiamo la R di agrum inserita nella G.
E' molto frequente trovare nell'iscrizione funebre anche le misure dell'area sepolcrale. I morti venivano
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seppelliti fuori dalla città, in necropoli che si sviluppavano lungo le strade principali. Alla fine della repubblica
le aree sepolcrali sono a pianta quadrata. Successivamente tendono a essere rettangolari, di misura varia,
ma la standard è di 16 piedi sulla fronte (1 piede=29,6 cm.) (fronte=lato che dà sulla strada) e di 32 verso la
campagna, come nel nostro caso. Dell'iscrizione resta dunque solo questo; non conosciamo il nome del
defunto né il mestiere: si discute se gli strumenti illustrati (un compasso a destra, una ruota a sinistra, uno
strumento di misurazione in alto) possano essere quelli di un agrimensore o piuttosto di un mastro carraio.
Esiste anche uno schizzo della stele (privo dell'iscrizione) fatto da Gian Domenico Bertoli, il grande pioniere
degli scavi ad Aquileia, inserito nel suo manoscritto “Delle antichità d'Aquileja”. Dagli appunti par di capire
che Bertoli, fosse molto interessato a capire la parte figurativa della stele e specialmente lo strumento
raffigurato in alto.
Questa piccola tavola in calcare (IA 75) (23,5x41x18), risalente al I a. C., come si capisce anche dagli
aspetti paleografici, presenta per noi almeno due motivi d'interesse. Il defunto, un liberto di nome Dama, che
si è fatto preparare da vivo l'iscrizione (come testimonia la formula v(ivus) f(ecit), si definisce Iudaeus e
portor.
L(ucius) Aiacius/ P(ubli) l(ibertus) Dama/ Iudaeus por/tor v(ivus) s(ibi) f(ecit)
L'iscrizione è forse la prima menzione di un giudeo ad Aquileia. Quanto al nome, Dama è un nome tipico
della Siria e della Palestina, per cui potrebbe trattarsi di “uno di quei tanti giudei che furono fatti emigrare in
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Italia a seguito delle vittorie di Pompeo in Oriente (66-63 a .C.)” Per quanto riguarda portor ci sono due
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ipotesi: potrebbe significare “doganiere” oppure “battelliere” . In entrambi i casi la parola è connessa a
portorium, ii, che significa sia “tassa su una merce che viaggia”, sia genericamente “dazio”, “gabella”, sia
“prezzo del traghetto”. Il fatto che il defunto porti un prenome diverso dal padrone ci porta nel I a.C. Il nome
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Dama è testimoniato ad Aquileia per due liberti
Questa tavola in calcare (CIL V 1180) (59x74,4x14) è tra le mie preferite, con quel suo elegante vuoto al
centro.
C(aius) Cossutius M(arci) f(ilius)/ T(itus) (Cossutius) M(arci) f(ilius)/fieri iussit
Si tratta di un'iscrizione assai antica, risalente al primo periodo dell'epigrafia funeraria di Aquileia, che
menziona due Cossuttii, un gentilizio particolarmente diffuso ad Aquileia. La cosa curiosa è che il gentilizio
viene scritto solo la prima volta e viene sostituito la volta successiva da uno spazio bianco. Questo tipo di
riempimento, caratterizzato dallo spazio libero, è stato definito “omissione dei gentilizi” o “risparmio dei
nomina”. Il fenomeno è stato studiato alla fine del secolo scorso da Claudio Zaccaria, che ha cercato
confronti nel resto d'Italia. Iscrizioni simili sono state osservate soprattutto nei territori del Lazio, del Sannio e
dell'Umbria. Zaccaria concluse, anche sulla base delle conoscenze sulla popolazione aquileiese, che
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tipologie come questa dovevano provenire da quei territori, piuttosto che da Roma . I primi coloni aquileiesi
quindi portarono nella patria di elezione una moda che si era affermata nelle terre di origine.
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Nel corso del II sec. d. C. l'inumazione prevale progressivamente sulla cremazione.
9 PIUSSI p. 9
10 PANCIERA 1957 p.3
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(CIL V 1450 e 8355)
12 ZACCARIA 1989
Questa tavola in calcare (IA 69) (110x59x15), risalente all'età repubblicana, come mostrano chiaramente le
lettere e l'esecuzione sommaria, è probabilmente la tomba di una liberta che faceva la filatrice di lana
ambulante.
Trosia P(ubli) Hermonis/ l(iberta) Hilara, lanifica/ circlatrixs/ v(iva) f(ecit)
Sotto troviamo le consuete disposizioni relative all'area del sepolcro:
L(ocus) p(edum) q(uadratorum) XVI [m2 8, 76]
Libertis libertabu(s)
Notate che il dativo plurale di liberta appare sempre in questa forma arcaica nel latino epigrafico. Lanifica
significa “filatrice di lana”; quanto a circlatrixs (=circulatrix) si è immaginato che dovesse trattarsi di una
filatrice di lana che prestava la sua opera a giornata, recandosi a casa dei clienti. Di recente la presenza
della donna nella vita economica dell'impero romano è stata studiata anche grazie al fondamentale apporto
dell'epigrafia. Nel 2002, per esempio, si è tenuto il primo convegno dedicato specificamente alle
testimonianze epigrafiche relative alle donne lavoratrici. Si è scoperto che la dimensione femminile non si
esauriva del tutto tra le pareti di casa: c'erano pedagoghe, artigiane del laterizio (ben un terzo dei produttori
di laterizi erano donne), vetraie, tessitrici e filatrici, come la nostra Trosia. Secondo questi studi il caso di
Trosia sarebbe esemplare: non era certo una matrona del tipo domum servavit, lanam fecit e nemmeno una
,
modesta sartina a domicilio, come pensavano gli epigrafisti del secolo scorso bensì la titolare di una piccola
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impresa tessile, che da viva fece predisporre con orgoglio la sepoltura per sé e per i suoi liberti.
Alla stele di Trosia possiamo abbinarne un'altra, sempre attribuita all'età repubblicana (IA 3412). Nella parte
inferiore si vedono in bassorilievo delle cesoie (a sinistra) e un pettine. I due strumenti potrebbero indicare il
mestiere del defunto, cardatore di lana.
Questo cippo, datato al I sec. d. C., (IA 718) (si noti la lettera T che sovrasta le altre lettere), ricorda un
commerciante di perle originario di Roma:
L(ucius) Valerius/Primus/negotiator/margaritar(ius)/ab Roma
Margaritarius era chiamato a Roma il commerciante di perle; la parola si trova su iscrizioni funerarie dalla
fine della Repubblica fino al III-IV sec. d. C.
Le perle furono un oggetto tipico del lusso romano: se ne adoperavano soprattutto per gioielli femminili e
maschili e per ricami di vestiti. Non è strano che ad Aquileia, città in cui circolavano moltissimi generi di
lusso, si trovassero anche perle e pietre preziose.
13 BERSANI p. 215
Questa stele in calcare (IA 70) (103x39x25), che viene attribuita all'età augustea, mostra un'evidente
simbologia funeraria. Quella che vediamo è la porta definitiva, la ianua Ditis, la porta degli inferi, i cui battenti
si chiudono per sempre dietro al defunto che scende all'Ade. Si tratta di una porta molto semplice, a 4
pannelli, nuda, priva di maniglie e di altri elementi decorativi. Questa tipologia funebre risulta diffusa anche
sulla costa dalmata e ve ne sono esempi nei musei di Spalato e Zara.
La professione del defunto è certa: si tratta di un medico.
Meno chiara la parte onomastica: qualcuno legge:
Hagiai/medici
(sepolcro) di Agia, medico
in seguito è stato proposto di leggere invece :
Hagi Ai (servus)/medici
(sepolcro) di Agio, (schiavo) di Aio, medico
Inserisco tra i mestieri anche questo pezzo Bertacchi 1994, pp.176 ss., fig.3). Si tratta di una stele figurata
con rappresentazione di gladiatore. (Rinvenuta fine anni '70 del secolo scorso e datata al II d. C.)
D(is) M(anibus) / Q(uinti) Sossi / Albi / myrmillonis / Sossia Iusta / li(erta) patron(o) / benemerenti
Abbiamo dunque una liberta che dedica al patrono Quinto Sossio Albio (o Albo), che faceva il gladiatore.
Generalmente i gladiatori erano di condizione servile e combattevano perché costretti; mentre un uomo
libero scendeva nell'arena solo per scelta. Ora, il nostro gladiatore si segnala proprio perché sembra essere
di condizione libera (due soli casi nell'Italia settentrionale), come indica la presenza dei tria nomina. La stele
è interessante anche per un altro motivo: nonostante Aquileia avesse un anfiteatro, si conoscono solo due
iscrizioni di gladiatori, una è questa. In alto, nei due acroteri circolari, sono le lettere DM (Dis Manibus). Il
nostro mirmillone ha elmo crestato, maschera forata, scudo cilindrico umbonato, brandisce spata, braccio
destro protetto, schiniere sulla gamba sinistra, perizoma fissato da una banda di cuoio.
Queste dunque erano tombe di persone che ad Aquileia esercitavano un'attività che vollero ricordare ai
superstiti. Due parole allora su quanto sappiamo dei mestieri nella nostra città romana. Per quanto riguarda
l'aspetto epigrafico, nel lapidario abbiamo medici, negotiatores (meno di quanti ce ne aspetteremmo in un
emporio come questo), gioiellieri, come il margaritarius che abbiamo visto, filatrici, tessitori di lino, tintori, e
soprattutto fabri, termine intraducibile perché riferito a tipi diversi di artigiani (fabbri, falegnami ecc). Nel
lapidario è conservata anche la celebre l'iscrizione greca dedicata a un'attrice, morta durante la tournée ad
Aquileia.
I lavoratori si riunivano in collegia, associazioni libere e private durante la repubblica, sottoposte invece al
controllo dello stato durante l'impero. Molto interessante l'associazione dei fabri (collegium fabrum) che
provvedeva anche allo spegnimento degli incendi e per questo era molto prestigiosa.
Uno dei compiti del collegium, che aveva sempre alla base un culto specifico, era offrire una sepoltura
decorosa ai soci ed esistevano appositi collegi funeratizi, dove bastava versare una modesta quota, per
assicurarsi un funerale dignitoso.
Fermiamoci un momento per vedere quale sia l'importanza delle iscrizioni e di quelle funerarie in particolare.
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Secondo una stima approssimativa queste ultime costituiscono il 75% del totale delle iscrizioni edite. Se
consideriamo che dalle fonti letterarie è ben raro ricavare notizie sulla vita economica e sociale nelle città
romane, e questo vale anche per Aquileia, appare evidente che le fonti epigrafiche rappresentano uno
strumento fondamentale di ricostruzione storica.
Ad Aquileia grazie agli studi epigrafici è stato possibile, per esempio, ricostruire l'importanza che in questa
città assunse il ceto dei liberti, che costituivano una percentuale rilevante della popolazione, com'è naturale,
dato che Aquileia era un grande centro portuale.
I liberti, esclusi dalle cariche pubbliche, usarono (molto più degli altri ceti) il sepolcro come mezzo di
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affermazione della propria dignità sociale. Per questo ceto emergente il monumento funerario diventa
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“surrogato di quello onorario, riservato comunemente ai ceti superiori”
Inoltre è stato possibile
comprendere meglio il rapporto che veniva a crearsi dopo la manomissione tra il liberto e il suo patrono e
quali fossero le attività economiche cui i liberti si dedicavano.
Nonostante ci volesse un certo censo per permettersi la spesa di un monumento funerario, anche modesto,
il desiderio di assicurarsi una tomba, di lasciare un ricordo di sé doveva essere molto forte e vi era da parte
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ZACCARIA 1997, p.67
15 BOLAFFIO 1999 p.23
16 ZACCARIA 1997, p.75
degli antichi “un cosciente impiego del medium epigrafico, come strumento di valorizzazione di fortune e
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memorie personali e familiari”. In questo senso i liberti e i veterani, pur provenendo da ceti umili, potevano
aspirare a una buona condizione economica e sociale e potevano permettersi una tomba adeguata.
All'interno del ceto libertino esiste anche un'élite, che è rappresentata dai seviri, di cui avremo modo di
parlare.
Vi mostro adesso il testo di un'iscrizione (CIL V, 1039; IA 473) che si trova su di un' ara in calcare
(74,5x34x19,5), datata al III sec. d. C. Un certo massaggiatore (unctor) di nome Eliodoro dedica il
monumento funebre a un certo Filagripno, schiavo, morto all'età di 22 anni 8 mesi e 25 giorni. Notiamo la
consueta apertura con D(is) M(anibus) e notiamo anche l'indicazione precisa della durata della vita, ma
incuriosisce soprattutto il nome del defunto. Infatti Philagrypnus in greco significa “amico della veglia”, quindi,
forse, “sveglio”.
L'allusione al Caput Africae si spiega col fatto che in questa zona di Roma sorgeva un pedagogium, sorta di
collegio dove venivano educati gli schiavi imperiali, come nel caso del nostro Philagrypnus. Quanto alla
lingua, possiamo notare il genitivo Africaes, per Africae, che appartiene all'uso popolare ed è attestato nel
latino epigrafico.
Ho scelto le prossime due iscrizioni perchè nominano una curiosa categoria di schiavi che vanno sotto il
suggestivo nome di delicati.
Nella prima (un dado di ara funeraria I-II d.C.) (CIL V, 1176; IA 1037) leggiamo:
Al liberto Lucio Cornelio Epigono, a Plecte ed Ecleto, delicati, a Flacco e Didimo.
Dunque i primi due schiavi Plecte ed Ecleto sono definiti delicati. Si tratta di una definizione tecnica, anche
se non sappiamo esattamente cosa significasse essere uno schiavo delicatus. Nel secolo scorso si pensava
che si trattasse di schiavi bambini o adolescenti, destinati, per la loro bellezza, a rallegrare il padrone in
senso prevalentemente erotico. Tuttavia questa interpretazione era basata in larga parte solo sulle
testimonianze letterarie. Studi epigrafici recenti, condotti sui delicati testimoniati nella Gallia Cisalpina, hanno
smentito questa ipotesi. Si è visto che si trattava di schiavi prediletti, che i padroni consideravano parte della
famiglia. Diverse iscrizioni di Aquileia ricordano delicati. E ce ne sono due in particolare, morti a 7 e 4 anni, il
che ha fatto pensare che forse la qualifica di delicati venisse attribuita in tenerissima età. Nelle iscrizioni
aquileiesi e in altre della Cisalpina i delicati vengono addirittura anteposti ai figli.
In questa iscrizione, posta su una tabella ansata ricavata sulla fronte di un sarcofago (CIL V, 1013) (II d. C.),
Lucio Vallio Aucto, figlio di seviro, dedica alla moglie Fruttuosa, liberta di Marziale e a Didime, delicata di 15
anni.
Delicata a parte, ho scelto questa iscrizione anche perché mostra un piccolo trucco del dedicante, destinato
a trarre in inganno antichi e moderni. Se leggiamo attentamente risulta che Lucio Vallio Auctio non era seviro
ma figlio di un seviro; ma la posizione centrale e dominante della parola seviro unita all'astuta circostanza
che il nome del padre non viene nominato, determina nel lettore frettoloso l'impressione che il dedicante
fosse seviro. Evidentemente è messo “in bella evidenza quello che doveva essere l'unico elemento di
distinzione sociale a lui attribuibile, e cioè la dignità di sevir ricoperta dal padre” Un caso, tra i tanti, di
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“mimetismo onomastico” nelle famiglie di origine libertina ad Aquileia .
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Il sevirato era una magistratura minore, sorta con il principato, di carattere prevalentemente onorifico.
Questa magistratura, accanto ai cosiddetti ornamenta (assegnazione delle insegne esteriori proprie di una
carica pubblica senza che questo significhi l'effettiva elezione) fu una delle cariche più ambite dai liberti, per
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il suo valore sociale e perché sanciva l'acquisto di prestigio . Secondo alcuni i seviri, che erano un'élite del
ceto libertino, “grazie ai legami con gentes importanti o con la casa imperiale” “costituivano una sorta di base
di reclutamento per l'ordo decurionum delle città, e in effetti i loro figli frequentemente avevano accesso alle
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magistrature municipali, e in qualche (raro) caso accedevano all' ordo equestre”
Ad Aquileia esistevano naturalmente cariche più importanti, ve ne parlerò magari l'anno prossimo, grazie
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alle iscrizioni onorarie.
17 ZACCARIA 1987, p. 129
18 ZACCARIA 1987 p. 137
19 Per i problemi posti da seviri nominati in iscrizioni che sembrano repubblicane vedi ZACCARIA 1989, p.
137.
20 BOLAFFIO 1999, p.28
21 BERSANI p. 184
22 Aquileia è fondata nel 181 a.C. Come colonia latina. I coloni non godono di cittadinanza romana ma della
Le urne cinerarie sono oggetti veramente graziosi, destinati a contenere le ceneri e talvolta le ossa del
defunto. Si va dai modelli semplicissimi, come questo (IA 1112) attribuito al II-III d. C., dove si leggono solo
le lettere FL, che possono essere sciolte sia come F(lavus) sia come Fl(accus). Misura h 30,5 diam. 39
(grosso modo le urne che mostrerò hanno tutte queste dimensioni)
Più elaborata questa (IA 936), rinvenuta nel 1892, risalente al I-II d. C., arricchita da un'iscrizione ospitata in
in una tabella ansata, a sua volta completata da motivo a rosette. Ossa di Gaio Cecina Alcimo. Potete notare
i nessi tra le lettere A ed E nel dittongo. I nessi sono un fenomeno frequente nella scrittura epigrafica,
consentono un certo risparmio di spazio e sono eleganti.
Notevole questa urna (Bertacchi 1982, cc. 217-228), rinvenuta alla fine degli anni '70 del secolo scorso e
pubblicata per la prima volta nel 1982 dall'infaticabile Prof.ssa Luisa Bertacchi, a lungo direttrice del Museo.
L'urna, che risale al I-II d. C., imita un cestino di vimini ed è sormontata da una bella e colossale pigna. Si
tratta di una sepoltura già forzata in tempi antichi, visto che al momento del ritrovamento mancavano le
grappe di chiusura. L'iscrizione, posta in tabella ansata decorata con rosette, reca purtroppo:
Amianto di anni cinque, si tratta quindi di un bambino morto in tenera età. Merita un accenno il modello che
imita il cesto di vimini. Questa tipologia andrebbe spiegata per Bertacchi “con la rinnovata adesione del
mondo romano [in età augustea] alle pratiche d'iniziazione eleusina”, e con la ripresa del culto degli Dei
Mani, un motivo presente anche nelle fonti letterarie come in Virgilio e in Ovidio”. La ripresa del culto
eleusino ha in questo periodo una connotazione soprattutto funeraria: “per prepararsi alla morte, bisogna
iniziarsi ai misteri e la cista dei misteri eleusini è il simbolo di un'offerta umile, fatta agli Dei Mani, che si
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accontentano di poco” . Quanto alla pigna sul coperchio, ricordo che nelle tombe aquileiesi è un simbolo
frequentissimo, legato tanto alla morte, evidentemente, quanto alla speranza dell'immortalità dell'anima.
Talvolta sul coperchio delle urne (o delle pseudourne, una categoria speciale che è stata studiata da
Maurizio Buora nel 1982) troviamo a far la guardia un cane o un leone. Il cane, forse lo ricorderete, è
animale sacro agli Inferi, ed è anche simbolo di fedeltà. Anche il leone rimanda alla morte, forse nel senso
che come quella è un divoratore. In queste immagini, tuttavia, vediamo che lo scalpellino ha rappresentato il
leone come un bonario gattone ronfante, piuttosto che come una fiera spietata.
Le figure utilizzate per accompagnare l'ultimo viaggio e connesse con l'idea dell'ineluttabilità della morte
sono tantissime: ad Aquileia vediamo putti, grifi, uccellini, talora stipati tutti insieme nella figurazione.
Non può mancare qualche esempio di sepoltura di militare, anche perché ad Aquileia i militari erano
moltissimi, data l'importanza strategica della città, dall'età repubblicana fino a tutto il Basso Impero.
Le legioni più rappresentate sono l'VIII Augusta (stabilmente accampata a Poetovio, odierna Ptuj in
Slovenia), la XIII Gemina e la XV Apollinaris (stanziata a Carnuntum e E di Vienna). Tra i legionari morti ad
Aquileia prevalgono i veterani, che si formarono una famiglia in loco ed entrarono nell'aristocrazia
municipale, raggiungendo talora anche il quattuovirato. Nel periodo tetrarchico ricordiamo soprattutto i
soldati della XI Claudia. Insolitamente numerosi ad Aquileia i pretoriani, per la maggior parte non aquileiesi,
come testimonia l'indicazione della tribù di appartenenza (diversa da Velina). Sono una traccia del frequente
passaggio di imperatori, visto che Aquileia era una tappa obbligata del viaggio da Roma verso il Norico o la
Pannonia. Inoltre nel porto di Aquileia stazionavano (almeno nel I d.C.) unità della flotta di Ravenna, tra le
quali è ricordata una trireme dal simpatico nome “Coccodrillo”.
In questo dado di ara funeraria (IA 2793) (datata I d. C.) è ricordato un veterano della XV Apollinaris.
Quinto Dellio Supero, figlio di Quinto, della tribù Pollia, veterano della XV legione Apollinare, Quinto Dellio
Clemente, figlio, Dellia Falerna, moglie, Albano, liberto, Pusilla, liberta. [Salute] anche a te.
Il defunto è ricordato dal figlio, dalla moglie e da due liberti. Affascinante l'allocuzione finale ET TU, che non
è rara nelle iscrizioni funebri e che intende essere una specie di risposta al saluto del passante. Dettagli
come questo aiutano anche noi a ricordare che nel messaggio epigrafico è sempre prevista un'interazione
c.d. Latinitas, condizione comunque privilegiata che consente l'autogoverno tramite un senato, costituito
da 100 decuriones che costituiscono l'ordo più elevato della città), e da magistrati elettivi: duoviri, aediles,
quaestores. Nell' 89 a.C. è attribuito ad Aquileia lo status municipale: ai duoviri si sostituiscono i
quattruoviri, che ogni 5 anni procedono al censimento. Nei primi tempi del principato Aquileia diventa
colonia romana. Vedi U. Laffi in AAAd, 30, 1987.
23 BERTACCHI 1982 col. 224
forte con il lettore.
Vediamo adesso un paio di monumenti dedicati a militari di età più tarda. Vi accorgerete a prima vista che
l'eleganza degli esemplari precedenti è svanita. Siamo ormai in epoca tetrarchica. Ecco una stele (CIL V,
940; IA 2778) (144x64x25) con timpano; defunto, scudiero e cavallo sono in bassorilievo. Datata al III-IV d.
C.
Valerio Auluscezio, della legione XI Claudia. Prestò servizio come soldato semplice 14 anni e come
centurione 3 anni. Visse 40 anni e 5 mesi. Il fratello fece il monumento sepolcrale.
Il cavaliere ha una tenue barbetta, tunica manicata e mantellina con frange, fermata sulla spalla da una spilla
a rosetta. Nella destra tiene un bastoncino (o bastone a fungo, simbolo del grado) nella sinistra un rotolo.
Alle spalle il cavallo in atto di muoversi verso destra; il servo (calo) tiene le briglie, indossa tunica e cinturone
e tiene la lancia del padrone nella sinistra. La stele non è stata trovata ad Aquileia. Fu asportata (come
moltissimi altri reperti) dalla città romana nel XVIII secolo per finire a decorare la villa di un notabile di
Fagagna. Rinvenuta nel 1933 tra le macerie della villa di Vanni degli Onesti, fu riportata nello stesso anno ad
Aquileia. Non solamente i tombaroli ma anche molti nobiluomini depredavano i reperti aquileiesi e se li
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portavano a casa, come facevano, per esempio, i conti Di Toppo a Buttrio.
Molto simile alla precedente è questa stele (CIL V, 914) dove il defunto è ritratto con il figlio, lo scudiero e il
cavallo. Anche questa risale agli inizi del IV secolo. Tralascio la lettura del testo, che è molto lungo, per
soffermarmi solo su qualche elemento. Intanto è notevole il puntiglio con cui sono riportati i dati anagrafici: ci
dice che il centurione Flavius Augustalis prestò servizio nella legione I Italica (costituita da Nerone nel 68)
per “10 anni, 6 mesi, 12 giorni, 4 ore”, che visse “41 anni, 7 mesi, 15 giorni, 4 ore”, che fu sposato a
Castorina “per 9 anni, 3 mesi, 6 giorni e 4 ore” e che il figlio Stercorio “visse 3 anni, 7 mesi, 10 giorni e 6
ore”. Inoltre c'informa che il padre gli sopravvisse 47 giorni. Solitamente una tale precisione è riservata alla
durata della vita, ma in questo caso è stata estesa a tutte le altre informazioni, così che in un'unica iscrizione
abbiamo anche l'intero stato di famiglia.
Notevole anche il nome del figlio, Stercorius, che deriva da una precisa volontà religiosa. Infatti come altri
cristiani di quest'epoca Flavio e la moglie hanno dato al figlio un cosiddetto cognomen di umiltà, un nome
mortificante, Stercorius appunto, circostanza che oggi può stupire, ma che va intesa sotto il profilo del
fervore religioso.
Gli idionimi Stercorius/-a sono finora noti ad Aquileia in tre epigrafi cristiane (CIL, V 8596 e IA 3080 e 3186)
ed in generale risultano diffusi soprattutto nell'ambito della documentazione epigrafica di epoca
paleocristiana.
Negli acroteri la consueta DM. Sulla destra Flavio, al centro il figlio, a sinistra lo scudiero. Indossano tutti una
tunica manicata con cintura; tutti in visione frontale, meno il cavallo che è di profilo. Anche Flavio si appoggia
a un bastone a fungo, come il soldato della stele precedente. Calza un berretto cilindrico di foggia pannonica
e scarpe pesanti. Lo scudiero porta sulle spalle lo scudo del padrone. Le figure sono piuttosto massicce.
Poco riuscito il mantello, che si appoggia rigido al braccio di Flavio, lasciando intravvedere una mano
scheletrita.
Stele del III-IV d.C. (CIL V, 900; IA 2775)
Aurelio Sud[...]zio soldato della XI legione Claudia
Come vedete la perdita del lato destro inferiore della stele cancella una parte dell'iscrizione. In questi casi
l'epigrafista, come un filologo, tenta un'integrazione e l'operazione può risultare ardua. Qui è stato proposto
di leggere Sudecenzio. Notate che l'editore ha inserito un (sic) dopo la parola milex (ci aspetteremmo
miles). Con il sic l'editore segnala quelle forme che non sono corrette, ma che non possiamo certo
correggere noi, perché diversamente altereremmo il documento. Negli acroteri le solite lettere DM.
Questo soldato, un fante, indossa una tunica manicata, fermata alla vita da una cintura. Sopra un mantello
ornato di nappine agli angoli (vedi in basso a sinistra). L'armamento consiste in 2 pila, un grande scudo
ovale umbonato e la spatha a lama larga e due tagli. Scudo e pila escono letteralmente dalla nicchia e nel
complesso la figura è realizzata in modo rozzo, mentre la testa è invece resa con accuratezza.
Stele a edicola con ritratti di coniugi in altorilievo (CIL V, 8299; IA 619) (107X76x29), I d.C. Rinvenuta nel
1830.
Non è per nulla raro che la tomba romana contenga e commemori una coppia di coniugi. Niente a che
vedere con i meravigliosi sarcofagi etruschi, su cui i coniugi appaiono distesi e rilassati nell'abbraccio
definitivo. Le coppie romane hanno sempre un'aria molto seria, come questi due.
24 Aquileia romana nella collezione di Francesco di Toppo, a cura di M. Buora, Milano, 1995
Qui abbiamo un
Quinto Tizio Fausto seviro (tre volte?), fece da vivo per sé, per la moglie Culcina Procula, per i liberti e le
liberte
Sotto la nicchia che contiene la coppia, su un rotolo di papiro aperto si legge IIIIIIvir (seviro) la carica che il
defunto.
Non sempre siamo in grado di decifrare i simboli del linguaggio epigrafico. Osserviamo, per esempio, le
tabelle che recano i numeri I, II e III.
Questo dettaglio è stato interpretato nei modi più diversi: alcuni pensano che le tabelle si riferiscano al
numero di volte che Quinto fu seviro, cioè tre, per Mommsen, invece, indicavano l'area del sepolcro, per altri
indicavano il capitale posseduto dal defunto, analogamente alle tessere che che si apponevano ai sacchi di
denaro con una cordicella, oppure alludevano al compito specifico del seviro, che sarebbe stato un
tesoriere).
CONCLUSIONI
Con questa piccola rassegna spero di essere riuscita nel mio intento e spero di aver invogliato qualcuno di
voi a passare qualche ora nel Lapidario di Aquileia da solo o con gli studenti. Le nostre colleghe Comuzzo,
Delfabro e Rigatti negli ultimi anni hanno praticato interventi analoghi. Per visitare il Lapidario c'è una guida
fondamentale, approntata da Gianni Lettich nel 2003 e inoltre c'è l'opera del Brusin (Inscriptiones Aquileiae)
che, concepita all'inizio del '900, è uscita postuma nel 1991 a cura di Maurizio Buora. Fondamentali anche i
numerosi studi condotti dagli studiosi dell'Università di Trieste, come Luisa Bertacchi, Gino Bandelli, Claudio
Zaccaria.
Penso che l'epigrafia (come l'archeologia) dovrebbe entrare tra le discipline insegnate in questa scuola.
Sono certa che il Liceo Classico, dato periodicamente per spacciato, sopravviverà comunque, ma sarà
ancora migliore, se valorizzerà le sue discipline specifiche, invece di appiattirsi, come vorrebbe qualcuno, sui
programmi degli altri corsi di studi. Vi raccomando di non mancare alla conferenza finale di questo ciclo,
quando la Prof. Botteri parlerà di una delle iscrizioni più importanti al mondo, le Res Gestae divi Augusti.
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