Rassegna Stampa - Università degli Studi di Roma "Foro Italico"

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Rassegna Stampa - Università degli Studi di Roma "Foro Italico"
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI ROMA
“FORO ITALICO”
Ufficio Stampa
Rassegna Stampa
Roma – 21 luglio 2016
Argomento
Testata
Università
Scuola24
Rio 2016
Tuttosport
Sport e donna Repubblica.it
Titolo
Accordo tra Viminale e rettori: pronte 100 borse di studio per gli studenti
rifugiati
Noi, i rifugiati Il sesto cerchio olimpico
Perché lo sport non ama le donne
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Università degli Studi di Roma
“FORO ITALICO”
Accordo tra Viminale e rettori: pronte 100 borse di studio per gli
studenti rifugiati
«Costruire ponti lì dove altri innalzano muri». Da questo intento parte il protocollo d'intesa firmato
ieri al Viminale, tra la Conferenza dei Rettori (Crui) e il ministero dell’Interno, per il diritto allo
studio di giovani studenti titolari di protezione internazionale. L’accordo prevede il finanziamento
da parte degli atenei (tramite fondi erogati dal ministero) di 100 borse di studio per altrettanti
rifugiati e studenti meritevoli, per la frequenza a un corso di laurea triennale, magistrale o dottorato
di ricerca.
L’accordo
Lo stanziamento da parte del Viminale - circa 4.300 euro per studente - sarà finalizzato a concorrere
ai costi di vitto e alloggio dei ragazzi stranieri che frequenteranno l’università. Gli atenei dal canto
loro, partecipano all’azione di sostegno con l’esonero totale delle tasse universitarie e l'accesso alle
biblioteche e agli altri servizi. L’accordo ha validità dall’anno accademico 2016-2017, per cui a
breve verrà istiutuito un bando apposito, e potrà essere rinnovato per i prossimi anni. L’iniziativa va
a inquadrarsi in una strategia complessiva che ha portato alla definizione di un protocollo analogo
con la Pontificia università lateranense. Questi provvedimenti hanno come obiettivo quello di
accogliere l’invito del Parlamento europeo a creare Corridoi educativi nelle università in favore
degli studenti provenienti da Paesi in conflitto. L’invito è scaturito da un appello
dell’europarlamentare Silvia Costa, che a novembre 2015 sollecitò il Parlamento in questo senso.
Manfredi (Crui): «Così li integriamo»
«Sono molto felice che la mia proposta in Europa diventi una realtà in Italia, grazie all’iniziativa
lanciata dal Miur e ora concretizzata del ministero degli Interni, d'intesa con la Conferenza dei
rettori italiani”, ha detto Costa presente alla firma del protocollo insieme al viceministro
dell'Interno, Filippo Bubbico e al presidente della Crui, Gaetano Manfredi.
“Un grazie speciale - aggiunge l'europarlamentare - va anche a quelle Università che già
spontaneamente avevano risposto al mio appello per l'attivazione di corridoi educativi. Ricordo che
il Politecnico di Torino, Ca’ Foscari e Iuav di Venezia hanno da poco siglato un accordo che
consentira' a cinquanta studenti di Paesi in conflitto un percorso integrato di alta formazione sulla
tutela del patrimonio culturale, come bene universale. Un ringraziamento a Costa per il suo
interessamento arriva anche dal viceministro Bubbico, che ha sottolineato «l’esigenza di
trasformare quella che allo stato attuale delle cose è una criticità, in opportunità». Per questo, ha
concluso Bubbico, «stiamo piantando dei semi che in futuro ci daranno i loro frutti». Di concreta
opportunità parla anche il presidente della Crui e rettore della Federico II di Napoli, Gaetano
Manfredi, secondo cui «inserire i migranti nel percorso universitario significa integrarli» ma anche
«inserire dei giovani talenti nel nostro sistema». Per far questo, «ci vuole un percorso condiviso ed è
quello che stiamo facendo con il ministero». Un’esperienza che, inoltre, vede gli atenei del
meridione in prima linea: «Le università del Sud- ha aggiunto Manfredi - sono quelle che per motivi
anche geografici risentono maggiormente dell'impatto dell'immigrazione e di questi giovani che
voglio proseguire i loro studi, spesso interrotti nei loro Paesi di origine».
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Perché lo sport non ama le donne
Trattate economicamente peggio dei maschi, poco rappresentate ai vertici delle federazioni,
inseguite dai soliti stereotipi e pregiudizi. La carriera delle sportive italiane è tutta in salita e
anche le "star" del nuoto, del tennis o della pallavolo sono costrette a fare i conti con un vecchia
legge che impedisce loro di essere professioniste. E poi c'è lo scandalo delle clausole
antimaternità: "Molte sono costrette a sottoscrivere scritture private in cui si vieta esplicitamente
di rimanere incinta"
di ARIANNA DI CORI e ALICE GUSSONI
Non si salvano neppure le campionesse
di ALICE GUSSONI
ROMA – La fotografia che immortala il paradosso forse meglio di qualsiasi altra è quella datata 12
settembre 2015. A conclusione della finale degli Usa Open Flavia Pennetta e Roberta Vinci si abbracciano
attraverso la rete del campo di Flushing Meadows. Il mondo del tennis applaude la bravura delle due atlete
italiane, ma forse non sa di inchinarsi al cospetto di due dilettanti. Sì, perch se è vero che il conto in banca
delle due campionesse non è certo quello di un qualsiasi sportivo amatoriale, formalmente sia Pennetta
che Vinci non sono delle professioniste. Colpa di una legge che di fatto vieta alle donne, anche alle più
brave e apprezzate dal pubblico, una carriera nello sport.
Josefa Idem, ex canoista e campionessa olimpica, ora senatrice e per brevissimo tempo anche a capo del
Dipartimento allo sport della presidenza del Consiglio, la spiega così. "Non importa se ti alleni per una o
dieci ore al giorno per preparare una gara, la fatica è la stessa dei nostri colleghi uomini ma a differenza di
loro restiamo solo delle dilettanti". Secondo la legge 91/81 infatti, che in Italia regola il professionismo
sportivo, esclusivamente chi pratica calcio, golf, pallacanestro, motociclismo, pugilato e ciclismo viene
riconosciuto - e tutelato - come professionista. Ma interessa solo gli uomini, perché nessuna di queste
discipline ha una categoria femminile. Non solo, ora anche federazioni di motociclismo e pugilato hanno
abolito la categoria "pro".
Spesso si attribuisce questa mancanza all'assenza di grandi numeri. Ma non è sempre così. Se
consideriamo sport come la pallavolo, dove una categoria pro non esiste affatto, le donne tesserate sono
molte più degli uomini: 279.893 contro gli 88.050 maschi (dato Legavolley 2014). Il caso è esemplare. Il
campionato femminile infatti è diventato un appuntamento fisso sui canali tematici, con un largo seguito di
pubblico: la serie A1 è trasmessa su Rai Sport e la media di audience nella stagione 2014-15 è stata pari a
146mila spettatori, con punte di 240mila in occasione delle finali scudetto. Mentre la semifinale Italia-Cina
(Mondiali 2014), trasmessa su Rai 2, registrò addirittura 4 milioni 436mila spettatori, pari al 17,88% di
share. Eppure ancora non si parla di professioniste.
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"Dalla Federbasket premi dimezzati per le squadre femminili"
Nel nuoto il numero di tesserati uomini e donne è quasi pari (su 149.411 atleti il 45% sono donne, dati Fin
2016) senza contare il successo mediatico raggiunto da alcune star come Federica Pellegrini o Tania
Cagnotto. Caso a sé, invece, quello della Ginnastica dove su 117mila tesserati l'89% sono donne, anche se
qui la storia insegna che non bastano gli ori per guadagnarsi un passaggio in televisione – chi ricorda la
vittoria ai World Cup di Pesaro tenutasi questo aprile che ha qualificato ben 12 delle nostre atlete azzurre a
Rio 2016? Per gli sport considerati più maschili i numeri sono ancora, ovviamente, favore degli uomini, ma
davvero basta? Consideriamo la situazione del calcio in Italia, dove la presenza di giocatrici è esigua: solo
22.564 contro 1.087.244 uomini (dati Figc 2016). Ma dal 2010 il numero delle donne tesserate è in costante
crescita, +5% annuo, contro il crescente disamore del dilettantismo maschile, che negli ultimi 6 anni ha perso
circa il 17%. "Da quando ho iniziato a lavorare non è cambiato molto e le disparità sono rimaste le stesse",
conferma Donatella Scarnati, voce storica della Rai che dal 1978 segue il calcio per la tv pubblica. Nella sua
lunga carriera che l'ha portata ai vertici di Rai Sport, dove ora è vice direttore, ha dovuto affrontare spesso la
questione del dilettantismo: "Il problema è più ampio direi. Sui campi da calcio, come nelle cabine di regia,
le donne sono ancora viste come mosche bianche. Se c'è maschilismo? Purtroppo sì, ma questo è un
problema che riguarda un po' tutto il mondo del lavoro".
"Quanto sei bella", i pregiudizi della Tv che racconta le sportive
Secondo la senatrice Idem, firmataria di un disegno di legge presentato in Senato per modificare l'attuale
91/81, per superare almeno in parte questa disparità basterebbe aggiungere una parola: "Nel
testo si dovrebbe fare riferimento ad atleti ed 'atlete', per aprire la possibilità anche alle donne di accedere
alle categorie pro". Una possibilità che finora rimane esclusa. Mancanza attribuibile forse anche al fatto che
il governo dello sport nazionale è saldamente in mani maschili. Nonostante negli anni sia cresciuto il numero
di campionesse sui podi internazionali, ai vertici delle varie federazioni non si trova traccia di quote rosa. Su
45 sigle infatti non c'è n'è una che sia presieduta da una donna. L'Italia è messa male insomma, ma una volta
tanto non è molto distante dal resto del mondo. All'estero la situazione migliora infatti solo leggermente:
attualmente il 17% dei dirigenti Cio sono donne, mentre in media su 70 federazioni sportive internazionali
sono meno del 10% (dati Uisp 2016). Secondo Evelina Christillin, manager che ha avuto l'onore di
presiedere il Comitato Olimpico di Torino 2006, la questione si potrebbe superare proprio attraverso
l'inserimento delle famigerate quote rosa: "Posto che non sono il mio ideale, resta il fatto che le federazioni
quando si tratta di votare scelgono sempre il criterio della cooptazione. Mentre guarda caso quando si tratta
di decidere chi porti avanti un progetto bene e in fretta, come è stato per Torino o adesso per il Comitato
Olimpico di Roma, allora si sceglie una donna". Il tema quote rosa al momento non trova però grandi
consensi. "Non metto in dubbio la necessità di introdurre dei cambiamenti - spiega il presidente del Coni
Giovanni Malagò - ma fino ad oggi le candidature delle donne nei consigli federali sono state pochissime. In
ogni caso non siamo noi che legiferiamo. Possiamo solo dare delle indicazioni e in questi anni ci sono state
delle evoluzioni, soprattutto in materia di tutela della maternità. Purtroppo c'è ancora molta strada da fare".
Lo scandalo delle clausole anti-mamma
di ALICE GUSSONI
ROMA - In questa vicenda, quello della maternità è in realtà un nervo scoperto, visto che la pratica di
pretendere dalle atlete la firma di "clausole anti-gravidanza" non è stata ancora debellata. "Non sono poche le
denunce delle atlete a riguardo - dice Luisa Rizzitelli di Assist, il sindacato delle sportive - In molte sono
costrette a sottoscrivere scritture private in cui si vieta esplicitamente di rimanere incinta, pena l'espulsione
immediata dalla società e il rischio non poter più tornare a gareggiare".
Sullo stesso chiodo batte anche la Idem: "Esiste tutto un sommerso di cui veniamo a conoscenza solo quando
la gravidanza viene portata avanti. Io ho fatto le Olimpiadi incinta e da puerpera e per non saltare le gare ho
messo in piedi un'organizzazione molto articolata, perché c'è un vuoto di norme. Il Coni dà delle direttive per
quanto riguarda la maternità delle atlete, ma solo poche federazioni le hanno recepite, ad esempio
congelando il ranking nel periodo in cui un'atleta è ferma per gravidanza o maternità". Il caso di cronaca più
recente è quello di Nikoleta Stefanova, campionessa italiana di tennis tavolo, che per essersi assentata dai
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ritiri previsti dalla Federazione italiana tennis tavolo in seguito alla maternità ha subito l'esclusione dalle
Olimpiadi di Rio. Con il risultato che l'Italia non avrà atleti in gara per questa disciplina.
Risolvere il problema non si presenta però affatto facile. Sono in molti a credere che il sistema sportivo, per
come è oggi strutturato, non avrebbe le risorse necessarie per garantire un contratto per tutti. Il
professionismo porta con sé oneri a volte insostenibili per le piccole società sportive, che però al momento
sono aggirati con pagamenti fuori busta, spesso spacciati per rimborsi spesa.
Secondo Luisa Rizzitelli il nodo è proprio quello del non considerare lavoro quello che invece lo è di fatto:
"Pagare o meno i contributi non è una questione di genere femminile o maschile. Questo vale per tutti e non
può essere lasciato a discrezione di chi gestisce le società".
Compensi "in nero" e inferiori ai maschi
di ALICE GUSSONI
ROMA - Una questione di genere è invece quella dei compensi. Mediamente i guadagni delle atlete sono
inferiori di circa il 30% rispetto a quelli dei loro colleghi uomini. Situazione che non riguarda solo il
movimento di base, ma anche l'elite: nella classifica di Forbes fra i cento atleti più pagati al mondo si
trovano solo due donne (Serena Williams 28,9 milioni di dollari, 40° posto, e Maria Sharapova, 21,9, 88°
posto).
Discriminazione favorita spesso da regole federali obsolete. Per il calcio, ad esempio, il tetto massimo per il
dilettantismo è di 22mila 500 euro annui. Il che significa che tutte le donne che giocano a calcio, anche in
serie A1, non possono guadagnare di più. Resta comunque difficile quantificare gli stipendi medi delle
giocatrici, soprattutto perché non trattandosi di una lega professionistica i club non sono tenuti a depositare i
contratti e l'abitudine ai pagamenti in nero è nota anche nei corridoi della Figc. L'unica alternativa è quindi
quella di trovare degli sponsor, ma per quelli non basta la bravura. "A parità di carriera sportiva alla fine
quello che conta è la bellezza", afferma Josefa Idem.
Dal calcio alla pallacanestro, il quadro non cambia. "La passione per lo sport si paga cara", dice Silvia
Gottardi, ex nazionale di basket femminile: "E pensare che in Turchia la pallacanestro arriva a stipendiare le
giocatrici con cifre a sei zeri". All'estero le donne sembrano godere di maggior fortuna. Nel calcio made in
Usa la loro carriera sportiva in serie A porta a guadagni oltre i 150mila dollari a stagione. Stesso trattamento
in Francia, dove il record lo stabilisce Marta Vieira da Silva, considerata la miglior giocatrice di sempre, con
un ingaggio di 220mila euro. Katia Sera, ex campionessa di calcio ora commentatrice di Rai Sport, non usa
mezzi termini: "Io sono diventata più famosa ora che lavoro come commentatrice che per le mie 25 presenze
in Nazionale e ancora oggi si guarda con sospetto a una donna che parli di calcio. Addirittura è successo che
mi dessero deliberatamente le formazioni delle squadre sbagliate per mettermi in difficoltà. La frustrazione
deriva da questo continuo essere messe alla prova: si deve lavorare il doppio per avere la metà dei
riconoscimenti e comunque non basta mai".
Se iniziare è difficile, smettere è pericoloso
di ARIANNA DI CORI
ROMA - Breve ma intensa. La carriera sportiva agonistica è imprescindibilmente legata a questi due aspetti
e per qualsiasi atleta arriva, molto prima che nelle altre categorie professionali, il momento del ritiro.
Certamente appendere gli scarpini al chiodo non sarà stato così traumatizzante per David Beckam, secondo
solo a Michael Jordan nella classifica di Forbes degli atleti "in pensione" più pagati del 2016:
rispettivamente 65 milioni e 110 milioni di dollari tra sponsor e business a loro legati. Anche in Italia basta
accendere la televisione per ritrovare volti noti dello sport prestarsi a spot pubblicitari di ogni tipo, con una
netta predominanza di uomini.
Ma tolte le eccezioni, il problema legato alle tutele previdenziali per gli atleti e, soprattutto, per le atlete, non
è da poco. "Quando si è giovani si pensa solo ad allenarsi e a vincere, nessuno pensa alla pensione", spiega
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Manuela Di Centa, ex campionessa olimpica di sci di fondo, una delle prime donne a spiccare con la maglia
azzurra in uno sport considerato "maschile" ed ex parlamentare del Pdl (dal 2008 al 2013) oltre che membro
onorario del Cio.
Che il problema esista e sia di una certa rilevanza lo conferma anche la recente presa di posizione del
presidente dell'Inps, Tito Boeri, che ha parlato della necessità di estendere il contributo previdenziale
obbligatorio a tutti gli sport. La proposta di Boeri muove soprattutto dal caso calcio e dalla piaga dei
pagamenti in nero in LegaPro "Il 75% dei calciatori della Lega Pro ha retribuzioni nette di 30.000 euro
l’anno e carriere brevi con una durata di circa 12 anni - ha sottolineato Boeri - questo dà diritto a una
pensione di vecchiaia di 10.000 euro". Di certo non sono pensioni d'oro. Ma il calcio, ammette Boeri, è il
male minore. "Ci sono tantissimi altri sportivi per cui non esistono forme di contribuzione obbligatoria, come
nella pallavolo".
La pallavolo, come già detto, non rientra tra i sei sport per cui esiste la categoria del professionismo e il
conseguente obbligo per le società a versare contributi. Come fanno dunque tutti gli altri sportivi e,
soprattutto, il vasto oceano di atlete che, a prescindere dal livello e dai successi raggiunti, restano
formalmente delle dilettanti e potrebbero dover anticipare la fine della carriera da un'eventuale maternità?
"La risposta è molto semplice: ad oggi non ci sono soluzioni", taglia corto la Di Centa.
Le alternative dunque non sono molte: o gli sportivi sono dipendenti pubblici, ad esem Le alternative dunque
non sono molte: o gli sportivi sono dipendenti pubblici, ad esempio coloro che fanno parte di un corpo
militare, e dunque hanno diritto ad una copertura previdenziale indipendentemente dalla carriera sportiva,
oppure continuano a lavorare in qualità di tecnici (ma questo sbocco per le donne è fortemente osteggiato).
L'ultima opzione, infine, è quella di riciclarsi completamente, trovando un lavoro del tutto diverso. Scelta
non facile però di cui dal 2001 si occupa l'Athlete Career Programme, un’iniziativa di carattere
internazionale per aiutare gli atleti ritirati nel reinserimento lavorativo. Per tutti gli altri si spalancano invece
le porte della povertà.
Di sportivi un tempo celebrati e oggi indigenti ne esistono tantissimi. La legge 86 del 15 aprile 2003 ha
istituito il fondo "Giulio Onesti", che porta il nome del primo presidente Coni e che rappresenta la
"Bacchelli" dello sport. Ogni anno a massimo viene assegnato un vitalizio che si aggira tra i 7 e i 17mila euro
ad un massimo di 5 tra gli "sportivi italiani che nel corso della loro carriera agonistica hanno onorato la
Patria, anche conseguendo un titolo di rilevanza internazionale in ambito dilettantistico o professionistico
[...] qualora sia comprovato che versino in condizioni di grave disagio economico". Dal 2003 su 29
beneficiari solo due donne compaiono nella lista: Nidia Pausich, ex cestista, 136 gare con la Nazionale
Italiana, e Bina Colomba Guiducci, campionessa del mondo di tiro al piattello nel 1969, e prima donna a
vincere un titolo mondiale.
Ma chi dovrebbe farsi carico di queste atlete e atleti? Lo sport è sotto il Dipartimento degli Affari Regionali,
in delega dal 2014 al 2015 a Graziano Delrio. Ma oggi non è il ministro Enrico Costa ad occuparsene, bensì
il capo dipartimento Antonio Naddeo, un funzionario. A detta di fonti interne al dipartimento "è una
situazione nebulosa, perché non si sta facendo politica dello sport". Lo Stato, aggiungono "può fare poco o
niente". Fino alla riforma Fornero i contributi degli sportivi professionisti confluivano nelle casse
dell'Enpals, dunque sportivi e lavoratori dello spettacolo ricevevano lo stesso trattamento. "Ma certo un
attore può lavorare fino agli 80 anni, la situazione per noi sportivi che lavoriamo con il nostro corpo è molto
diversa", conclude Di Centa
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Il modello francese e le proposte italiane
di ARIANNA DI CORI
ROMA - Come avviene in molti altri campi, anche il ritardo italiano nelle "pari opportunità sportive" può
essere misurato sulle indicazioni che arrivano dall'Europa. Risale infatti al lontano 2003 una risoluzione con
cui il Parlamento di Strasburgo chiedeva agli Stati membri; di assicurare alle donne pari accesso alla pratica
sportiva; sostenere lo sport femminile, sollecitando a sopprimere la distinzione fra pratiche maschili e
femminili nelle discipline ad alto livello; di garantire, da parte delle federazioni sportive nazionali, gli stessi
diritti in termini di reddito, di condizioni di supporto e di allenamento, di accesso alle competizioni, di
protezione sociale e di formazione professionale, nonché di reinserimento sociale attivo al termine delle
carriere sportive. Gli Stati membri e le autorità di tutela venivano sollecitate infine a condizionare la propria
autorizzazione e il sovvenzionamento delle associazioni sportive a disposizioni statutarie che garantiscano
una rappresentanza equilibrata delle donne e degli uomini a tutti i livelli e per tutte le cariche decisionali.
Parole al vento, come abbiamo visto, ma una volta tanto siamo in buona compagnia. Tra i pochi paesi che
hanno preso queste raccomandazioni alla lettera c'è la Francia, dove riservare posti per le donne nel sistema
dirigenziale dello sport è un sistema consolidato. Le quote sono stabilite nelle regole federali (federazioni,
leghe, società sportive), mentre a livello nazionale il numero delle donne nei comitati esecutivi deve essere
proporzionale al numero di donne tesserate. Altro modello positivo, stavolta extra Ue, è quello della
Norvegia. Nello Stato scandinavo la regolazione sulle pari opportunità di genere dichiara che ogni sesso deve
essere rappresentato con almeno il 40% quando un organismo pubblico elegge comitati, direttivi, consigli, ed
entrambi i sessi devono essere presenti in comitati sopra le due persone. In Italia siamo fermi invece ad un
lungo elenco di proposte di legge bloccate da anni in Parlamento. La più recente è quella presentata nel
novembre 2014 dalla deputata del Pd Laura Coccia per modificare gli articoli 2 e 10 della legge 91 del 1981
in materia di applicazione del principio di parità tra i sessi nel settore sportivo professionistico. Prima di lei a
cambiare le cose ci aveva provato nel 2011 la collega Manuela Di Centa del Pdl, con la proposta di istituire
un contributo obbligatorio per creare una cassa previdenziale dello sport, in grado, tra le altre cose, di
tutelare le atlete in maternità.
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