Modalità provvisoria
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Modalità provvisoria
Maria Laura Antonini MODALITÀ PROVVISORIA Edizioni Helicon In copertina opera di Vanessa Municchi “Ad Andrea, per il bene, per la pazienza e perché un giorno scriveremo insieme un bestseller!” © Copyright Stampato in Italia / Printed in Italy Tutti i diritti riservati Edizioni Helicon s.a.s. Sede legale: Via Madonna del Prato, 119 - 52100 Arezzo Sede operativa: Via Roma, 172 - 52014 Poppi (Ar) Tel. / Fax 0575 520496 www.edizionihelicon.it [email protected] MODALITÀ PROVVISORIA L’ASCENSORE L’ascensore! Ci vorrebbe l’ascensore in quest’appartamento in cima al mondo, ma c’è un fronte compatto e ostinato degli altri inquilini che continua a votare no, no e basta, no senza appello. Anche la macchina va cambiata o per lo meno vanno sistemate le sospensioni e poi le ruote, sostituite con quelle termiche ché si avvicina l’inverno, manca l’inchiostro per la stampante, devo ancora pagare l’affitto. Sveglio, e sono quasi le tre del mattino. L’angoscia mi fa compagnia, un gigante scomodo dentro di me che finirà per schiacciarmi, Paola mi dorme accanto tranquilla, lei, il gigante, non riesce a vederlo, non sente il peso del suo respiro, l’aria fredda che sposta con la sua mole quando si avvicina e diventa il padrone delle mie notti. Meglio così. Lei, il gigante, non lo conosce, forse non conosce neanche me. Faticosamente raggiungo l’alba, doccia, barba, caffè -9- Maria Laura Antonini L’ASCENSORE mi sembra vada un po’ meglio anche se il nodo allo stomaco resta e faccio fatica a respirare. L’incontro è fissato per le nove e trenta al complesso residenziale “Le Ali”. Un insieme di case a forma di ali come a voler spiccare il volo… ho appuntamento con l’assicuratore, isola G, palazzina A, IV piano. L’ascensore è lì che mi aspetta. In un’altra occasione mi sarebbe sembrato un buon presagio, stamattina no, stamattina mi gira male. Qualcuno deve essere salito dal piano interrato. Entro senza guardare, senza salutare, ho fretta, sono di cattivo umore, non ho chiuso occhio e so di avere un aspetto orribile. Mi nascondo dietro gli occhiali, chino appena il capo, facendomi scudo dei miei pensieri e meccanicamente digito 4. L’ascensore riparte dopo un tempo interminabile ma io non alzo gli occhi da terra. Per me stamattina è vuoto, vuoto come la mia testa, vuoto come i miei pensieri. Rumore di corde in azione, il sibilo del motore che riparte poi all’improvviso stop. Buio silenzio. Si è spenta la luce centrale, c’è solo il vago alone di una lampada di emergenza, troppo fioca per lasciarti vedere qualcosa. Sono costretto a girarmi, sono costretto a dire qualcosa, “Cazzo” penso e dalla mente velocemente la parola affiora alle labbra ma percepisco che con me, a pochi centimetri da me, c’è una donna e ricaccio indietro a fatica l’unica esclamazione possibile. Peccato. L’alternativa a “Cazzo” è solo il silenzio, veramente non riesco a dire o a pensare altro. È sabato mattina, sono intrappolato in un metro quadrato con una persona sconosciuta e vorrei essere solo lontano da qui, lontano da tutti, soprattutto lontano da me. Torna a galla il malessere della notte passata. La doccia, il caffè, l’odore del mare mi avevano distratto, ma adesso il buio improvviso, il silenzio mi hanno riportato indietro di ore. Penso: “Che ci faccio qui?” Adesso mi giro e la guardo. La lampada di emergenza si deve essere scaldata o semplicemente i miei occhi si sono abituati all’oscurità, meglio, mi sono tolto gli occhiali da sole, comunque riesco a vederla. Anche lei non parla, non sembra averne nessuna voglia. È magra, molto, non mi sono mai piaciute le donne così sottili, m’inquietano, sembrano al tempo stesso fragili e indistruttibili, hai paura a sfiorarle ma sai che potrebbero resistere ad un naufragio nutrendosi di nulla e rimanere lucide. Indifese, qualsiasi persona di media corporatura potrebbe avere la meglio su di loro, ma con la forza di chi sa fare a meno di quasi tutto. Non mi piacciono le donne magre. Mi piace Paola, i suoi occhi rotondi, i fianchi mor- - 10 - - 11 - Maria Laura Antonini L’ASCENSORE bidi e materni, il modo tenero che ha di prendersi cura di me anche quando non la rendo felice, ora vorrei guardarla mentre si sveglia e dirle che andrà tutto bene, ma sono qui chiuso in ascensore con un’anoressica sconosciuta e silenziosa. Meglio che non parli, avrà una voce orrenda, magra come le sue gambe. Questa luce ci rende pallidi o forse lo siamo davvero. Ci guardiamo smarriti, i miei occhi non stanno fermi e girano come gira una giostra, sempre più frenetici in cerca di una fuga, di una parola. Metto le mani in tasca… il telefonino! È in macchina! “Scusi ha un telefono? Chiamiamo il numero verde dell’assistenza, qui accanto ai pulsanti c’è il numero…” è qualcun altro a parlarle, non sono io, io non sono qui e non ho niente di intelligente, di razionale o di opportuno da dire, lei non risponde, mi guarda soltanto, due occhi grandi sotto una cascata di capelli. La vedo meglio, ha un abito di seta leggera che le scopre il ginocchio e le lascia nude le spalle, magre pure loro, una borsa a tracolla colorata, enorme, sembra che non riesca a reggerne il peso. Che necessità avranno le donne di borse così grandi, cosa dovranno infilarci dentro? Una casa, un pezzo di vita? C’è qualcosa di nomade in quegli occhi di zingara, in quella borsa da trasloco definitivo. Ha le mani lun- ghissime nude, troppo grandi per lei, come e più della borsa. C’è una nota stonata e armonica insieme in quella figura, come se le proporzioni non tornassero eppure fosse perfetta così. “Mi sente? Le stavo chiedendo se ha un telefono…” ancora una volta questa voce che non mi appartiene, la ascolto come se provenisse da un altro posto, da altre labbra. Forse è per questo che non risponde e si ostina a guardarmi, ha capito che non è la mia voce e che io non sono qui, forse non la sente nemmeno, la sento solo io che sto diventando pazzo. I capelli: la nascondono, la proteggono, inclina leggermente il busto verso di me e si avvicina un emisfero di troppo. Ha un buon odore, di pelle baciata dal sole, di pane fresco e spremuta d’arancia, eppure non profuma di niente, è il suo odore e quelli sono i suoi occhi. Non c’è niente da fare, non ho un telefono, forse non ce l’ha neanche lei, ormai lo avrebbe tirato fuori da quel transatlantico che si porta a tracolla, due ponti di legno tirati a lucido e le cabine con gli oblò e le sdraie a strisce bianche e blu per prendere il sole ma anche un casinò galleggiante e una plancia di comando e la sala macchine più grande che abbia mai visto. Sono sicuro che c’è tutto questo e molto altro - 12 - - 13 - Maria Laura Antonini L’ASCENSORE in quella borsa, eppure non è capace di tirare fuori un telefonino, questa stronza. Lo dico tra me e me “Stronza” me lo ripeto per convincermene ma non lo penso, non penso che sia una stronza, forse non è neanche così magra oppure no, è magra, ma, all’improvviso, ho cambiato idea e le magre mi piacciono, lei mi piace, mi sembra giusta per questo spazio piccolo, per i miei pensieri in disordine, per la mia casa senza ascensore, per la mia vita che sta andando a pezzi. Sottile come un giunco e senza voce, il suo silenzio vale un tranquillante, una benzodiazepina a rilascio lento, sento salire un caldo placido dallo stomaco fino al viso, alla fronte, alla punta dei capelli, mi sta facendo effetto, lentamente mi sto calmando. Da piccolo soffrivo di attacchi di panico, una situazione simile mi avrebbe mandato fuori di cervello, il respiro che accelera, le tempie che pulsano, la paura che diventa un gigante capace di inghiottirsi me, l’ascensore, questa sconosciuta, il complesso residenziale “Le Ali”, la città intera. Mia madre mi portava da un terapeuta, diceva così per paura di chiamarlo psichiatra o strizzacervelli o medico dei pazzi, diceva dottor e subito dopo, velocemente, il nome dello specialista, per non dar modo di capire di cosa si occupasse, nemmeno a me che ero solo un bambino. La provincia non da scampo, ti protegge o ti marchia per sempre, mamma voleva evitare che mi catalogassero prima che io stesso potessi scoprire chi ero. Aveva paura delle definizioni ciniche e veloci che ti danno un posto stretto da occupare per il resto della vita. Uno scaffale dal quale sarebbe stato difficile muoversi. Era allegra mia madre in quegli anni, colori e collane il viso sereno, eppure a tratti il suo sguardo celava una punta di inquietudine, l’ombra di un timore inespresso, di una paura mai detta. Mi guardava correre e andare in bici e suonare il pianoforte e imparare tutto velocemente ma anche guardare il televisore per ore a testa in giù e nascondermi negli scatoloni in soffitta pomeriggi interi e perdere il controllo e coprirmi di sudore se la porta del bagno non si apriva o restavo incastrato tra le porte girevoli di un albergo. Ci ho messo anni per imparare a salire in ascensore, anni. Ormai non ci pensavo quasi più, salivo e basta, il pulsante schiacciato in automatico, gli occhi in aria il tempo di arrivare al piano. Stamattina però era diverso, avrei dovuto sentirlo che stamattina era diverso o forse l’ho sentito ma non ho fatto niente per modificare il corso degli eventi, mi sono ostinato a fare cose normali, in un giorno che non era normale, io da solo, che normale non sono - 14 - - 15 - Maria Laura Antonini L’ASCENSORE stato mai. “Marco”, mi chiamo “Marco”, adesso la voce è la mia, la riconosco mi è familiare. La riconosce anche lei: “Eleonora” risponde con un suono più dolce di quello che immaginavo. Vedo la sua schiena scivolare lungo le pareti dell’ascensore fino a sedersi a terra come un segnale di resa, distensivo e naturale. “Eleonora”, sono io, di fronte, che ripeto il suo nome e il suo stesso movimento. Occhi negli occhi. Il ritmo del mio respiro che si calma come il forsennato fluire dei miei pensieri. Potrei morire oggi in quest’ascensore, con la malinconia di questo sguardo che mi accarezza le spalle, le braccia, i polsi, che ha fermato le rapide della mia ansia e spazzato via dieci anni di analisi, potrei morire mentre le sue mani mi chiudono gli occhi. Potrei morire oggi e sarebbe il giorno più bello. È seduta, per terra di fronte a me, si stringe le ginocchia con le mani, non tenta di coprirsi le gambe abbronzate, non se ne vergogna, non le ostenta, sembra che stia bene così con il vestito leggero che le arriva appena sotto i fianchi. Tendo le braccia quel poco che basta a ridurre ancora un po’ la distanza e le stringo le mani. Le sue, quelle nude lunghissime fuori misura di venti minuti fa che ora mi sembrano le mie, quelle di mia madre, di mio fratello, di Guido che non sento da un secolo ma con il quale ho diviso ogni scorribanda, ogni ciottolo del paese, ogni partita di pallone, ogni palpito dell’adolescenza. Le sue mani che si fondono con le mie come un groviglio di rami d’albero, di un solo larice, forte e sereno a guardia del bosco. Sono fredde e tremanti anche se fuori saranno trenta gradi e siamo chiusi qui da un tempo incalcolabile, è lei che sta tremando anche se lo sguardo conserva quella pacata compostezza con la quale mi ha accolto in ascensore, anche se guardandomi ha spento ogni malessere, è lei che trema tra le mie dita. Le sue mani, che sono corde per risalire la cima e strade che portano lontano e scia di un aereo capace di cambiare il destino. Le stringo ancora di più e le sorrido. Chiudo gli occhi, mi viene in mente la melodia della Boheme quando Rodolfo prende le mani di Mimì! E canto sottovoce le parole di quella musica meravigliosa “Che gelida manina se la lasci riscaldar cercar non giova nel buio non si trova don don don don…” Anche questa volta la voce è la mia, mia come la musica, mia come questa donna sconosciuta, mia come la vita che voglio riconquistare. Si aprono le porte dell’ascensore… è uno squarcio di luce che interrompe un sogno, una scarica elettrica per allontanare la pazzia, una doccia fredda e improvvisa su due corpi tiepidi di sole. Ci solleviamo insieme, le mani contro le mani per darci una leggera - 16 - - 17 - Maria Laura Antonini L’ASCENSORE spinta e insieme, in fretta, usciamo. Mi gira un po’ la testa, mi sono alzato troppo velocemente. Sono costretto a risedermi, sulle scale del pianerottolo questa volta, inondate di sole che è più sole che mai. Eleonora mi siede accanto. Guardo il fascicolo dell’assicurazione e in mente tornano tutte le cose da fare. Non ne ho voglia: non ho voglia... non ho voglia di ritirare il vestito di Paola dalla sarta, non ho voglia di andare a pranzo con Carlo, non ho voglia di giocare a tennis, non ho voglia di dover avere voglia. Lentamente Eleonora si alza, ondeggia un poco sopra i sandali di cuoio e pietre colorate, la borsa a tracolla la sbilancia leggermente in avanti, mi guarda come se non ci fosse nient’altro, come se non ci fossero le scale e il pianerottolo e i muri del palazzo e le porte tutte uguali di questi appartamenti costruiti da un killer seriale. Mi guarda e io resto a mezz’aria, come qualche minuto prima nell’ascensore sospeso nel vuoto, mi guarda, ed io non sono più seduto su un gradino, ma su una stella che sta per esplodere nell’universo, diventare un buco nero e non tornare a splendere mai più. Inizia a scendere, se ne sta andando senza una parola, non so niente di lei soltanto il suo nome, il vestito segue il movimento delle sue gambe magre, della sua andatura incerta. Non riesco a fermarla ma sento che la sto perdendo ed ora ho paura sul serio, puro panico che non ha bisogno di sintomi, né di diagnosi o di psicoanalisi, la sto perdendo e insieme a lei se ne sta andando la persona che ero o che avrei voluto diventare. Mi alzo in piedi e mi costa la fatica di una vetta conquistata a mani nude, però sono in piedi, scendo con lei, vorrei fermarla prenderla per un braccio ma è così fragile, ho paura di farle male, ho paura che scompaia, ho paura di essermi immaginato tutto e che questa donna, questa mattina, non siano mai esistite. Siamo all’ingresso, è vuoto e pulito, ci sono piante che nessuno cura ma che crescono verdi e rigogliose forse per dispetto, forse per la dolcezza del clima. Eleonora alza gli occhi e guarda l’orologio appeso alla parete, è il suo sguardo ora a cambiare, ha una luce diversa, ora è lei ad avere paura. Succede tutto in un attimo, la macchina della polizia, con i lampeggianti accesi davanti al portone, arriva quasi in silenzio. Portiere che sbattono, escono due tipi in divisa, stanno controllando i nomi sul citofono oltre la porta a vetri, poi ci vedono, ci guardano, guardano lei con insistenza, la conoscono, la riconoscono, entrano. “Ancora questa storia? Ma allora non hai capito niente? Tu qui non ci puoi stare e non puoi uscire di casa e non puoi prendere l’ascensore, non in questi orari, mi hai sentito?” - 18 - - 19 -