Modalità provvisoria

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Modalità provvisoria
Maria Laura Antonini
MODALITÀ
PROVVISORIA
Edizioni Helicon
In copertina opera di
Vanessa Municchi
“Ad Andrea,
per il bene,
per la pazienza
e perché un giorno
scriveremo insieme un bestseller!”
© Copyright
Stampato in Italia / Printed in Italy
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MODALITÀ
PROVVISORIA
L’ASCENSORE
L’ascensore! Ci vorrebbe l’ascensore in quest’appartamento in cima al mondo, ma c’è un fronte compatto e ostinato degli altri inquilini che continua a votare
no, no e basta, no senza appello.
Anche la macchina va cambiata o per lo meno vanno sistemate le sospensioni e poi le ruote, sostituite
con quelle termiche ché si avvicina l’inverno, manca
l’inchiostro per la stampante, devo ancora pagare l’affitto.
Sveglio, e sono quasi le tre del mattino. L’angoscia
mi fa compagnia, un gigante scomodo dentro di me
che finirà per schiacciarmi, Paola mi dorme accanto tranquilla, lei, il gigante, non riesce a vederlo, non
sente il peso del suo respiro, l’aria fredda che sposta
con la sua mole quando si avvicina e diventa il padrone delle mie notti. Meglio così. Lei, il gigante, non lo
conosce, forse non conosce neanche me.
Faticosamente raggiungo l’alba, doccia, barba, caffè
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Maria Laura Antonini
L’ASCENSORE
mi sembra vada un po’ meglio anche se il nodo allo
stomaco resta e faccio fatica a respirare.
L’incontro è fissato per le nove e trenta al complesso residenziale “Le Ali”.
Un insieme di case a forma di ali come a voler spiccare il volo… ho appuntamento con l’assicuratore,
isola G, palazzina A, IV piano. L’ascensore è lì che mi
aspetta. In un’altra occasione mi sarebbe sembrato un
buon presagio, stamattina no, stamattina mi gira male.
Qualcuno deve essere salito dal piano interrato.
Entro senza guardare, senza salutare, ho fretta,
sono di cattivo umore, non ho chiuso occhio e so
di avere un aspetto orribile. Mi nascondo dietro gli
occhiali, chino appena il capo, facendomi scudo dei
miei pensieri e meccanicamente digito 4. L’ascensore
riparte dopo un tempo interminabile ma io non alzo
gli occhi da terra.
Per me stamattina è vuoto, vuoto come la mia testa,
vuoto come i miei pensieri. Rumore di corde in azione, il sibilo del motore che riparte poi all’improvviso
stop. Buio silenzio.
Si è spenta la luce centrale, c’è solo il vago alone di
una lampada di emergenza, troppo fioca per lasciarti
vedere qualcosa. Sono costretto a girarmi, sono costretto a dire qualcosa, “Cazzo” penso e dalla mente
velocemente la parola affiora alle labbra ma percepisco che con me, a pochi centimetri da me, c’è una
donna e ricaccio indietro a fatica l’unica esclamazione
possibile.
Peccato. L’alternativa a “Cazzo” è solo il silenzio,
veramente non riesco a dire o a pensare altro.
È sabato mattina, sono intrappolato in un metro
quadrato con una persona sconosciuta e vorrei essere
solo lontano da qui, lontano da tutti, soprattutto lontano da me.
Torna a galla il malessere della notte passata. La
doccia, il caffè, l’odore del mare mi avevano distratto,
ma adesso il buio improvviso, il silenzio mi hanno
riportato indietro di ore. Penso: “Che ci faccio qui?”
Adesso mi giro e la guardo. La lampada di emergenza si deve essere scaldata o semplicemente i miei occhi si sono abituati all’oscurità, meglio, mi sono tolto
gli occhiali da sole, comunque riesco a vederla.
Anche lei non parla, non sembra averne nessuna
voglia.
È magra, molto, non mi sono mai piaciute le donne
così sottili, m’inquietano, sembrano al tempo stesso fragili e indistruttibili, hai paura a sfiorarle ma sai
che potrebbero resistere ad un naufragio nutrendosi
di nulla e rimanere lucide. Indifese, qualsiasi persona
di media corporatura potrebbe avere la meglio su di
loro, ma con la forza di chi sa fare a meno di quasi
tutto. Non mi piacciono le donne magre.
Mi piace Paola, i suoi occhi rotondi, i fianchi mor-
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bidi e materni, il modo tenero che ha di prendersi
cura di me anche quando non la rendo felice, ora vorrei guardarla mentre si sveglia e dirle che andrà tutto
bene, ma sono qui chiuso in ascensore con un’anoressica sconosciuta e silenziosa.
Meglio che non parli, avrà una voce orrenda, magra
come le sue gambe.
Questa luce ci rende pallidi o forse lo siamo davvero. Ci guardiamo smarriti, i miei occhi non stanno fermi e girano come gira una giostra, sempre più
frenetici in cerca di una fuga, di una parola. Metto le
mani in tasca… il telefonino! È in macchina!
“Scusi ha un telefono? Chiamiamo il numero verde dell’assistenza, qui accanto ai pulsanti c’è il numero…” è qualcun altro a parlarle, non sono io, io non
sono qui e non ho niente di intelligente, di razionale
o di opportuno da dire, lei non risponde, mi guarda
soltanto, due occhi grandi sotto una cascata di capelli.
La vedo meglio, ha un abito di seta leggera che le
scopre il ginocchio e le lascia nude le spalle, magre
pure loro, una borsa a tracolla colorata, enorme, sembra che non riesca a reggerne il peso.
Che necessità avranno le donne di borse così grandi, cosa dovranno infilarci dentro? Una casa, un pezzo di vita?
C’è qualcosa di nomade in quegli occhi di zingara,
in quella borsa da trasloco definitivo. Ha le mani lun-
ghissime nude, troppo grandi per lei, come e più della
borsa.
C’è una nota stonata e armonica insieme in quella
figura, come se le proporzioni non tornassero eppure
fosse perfetta così.
“Mi sente? Le stavo chiedendo se ha un telefono…”
ancora una volta questa voce che non mi appartiene,
la ascolto come se provenisse da un altro posto, da
altre labbra.
Forse è per questo che non risponde e si ostina a
guardarmi, ha capito che non è la mia voce e che io
non sono qui, forse non la sente nemmeno, la sento
solo io che sto diventando pazzo.
I capelli: la nascondono, la proteggono, inclina leggermente il busto verso di me e si avvicina un emisfero di troppo. Ha un buon odore, di pelle baciata
dal sole, di pane fresco e spremuta d’arancia, eppure
non profuma di niente, è il suo odore e quelli sono i
suoi occhi.
Non c’è niente da fare, non ho un telefono, forse
non ce l’ha neanche lei, ormai lo avrebbe tirato fuori da quel transatlantico che si porta a tracolla, due
ponti di legno tirati a lucido e le cabine con gli oblò
e le sdraie a strisce bianche e blu per prendere il sole
ma anche un casinò galleggiante e una plancia di comando e la sala macchine più grande che abbia mai
visto. Sono sicuro che c’è tutto questo e molto altro
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in quella borsa, eppure non è capace di tirare fuori un
telefonino, questa stronza.
Lo dico tra me e me “Stronza” me lo ripeto per
convincermene ma non lo penso, non penso che sia
una stronza, forse non è neanche così magra oppure
no, è magra, ma, all’improvviso, ho cambiato idea e
le magre mi piacciono, lei mi piace, mi sembra giusta
per questo spazio piccolo, per i miei pensieri in disordine, per la mia casa senza ascensore, per la mia vita
che sta andando a pezzi.
Sottile come un giunco e senza voce, il suo silenzio
vale un tranquillante, una benzodiazepina a rilascio
lento, sento salire un caldo placido dallo stomaco fino
al viso, alla fronte, alla punta dei capelli, mi sta facendo effetto, lentamente mi sto calmando.
Da piccolo soffrivo di attacchi di panico, una situazione simile mi avrebbe mandato fuori di cervello, il
respiro che accelera, le tempie che pulsano, la paura
che diventa un gigante capace di inghiottirsi me, l’ascensore, questa sconosciuta, il complesso residenziale “Le Ali”, la città intera.
Mia madre mi portava da un terapeuta, diceva così
per paura di chiamarlo psichiatra o strizzacervelli o
medico dei pazzi, diceva dottor e subito dopo, velocemente, il nome dello specialista, per non dar modo
di capire di cosa si occupasse, nemmeno a me che ero
solo un bambino.
La provincia non da scampo, ti protegge o ti marchia per sempre, mamma voleva evitare che mi catalogassero prima che io stesso potessi scoprire chi ero.
Aveva paura delle definizioni ciniche e veloci che ti
danno un posto stretto da occupare per il resto della vita. Uno scaffale dal quale sarebbe stato difficile
muoversi.
Era allegra mia madre in quegli anni, colori e collane il viso sereno, eppure a tratti il suo sguardo celava
una punta di inquietudine, l’ombra di un timore inespresso, di una paura mai detta.
Mi guardava correre e andare in bici e suonare il pianoforte e imparare tutto velocemente ma anche guardare il televisore per ore a testa in giù e nascondermi
negli scatoloni in soffitta pomeriggi interi e perdere il
controllo e coprirmi di sudore se la porta del bagno
non si apriva o restavo incastrato tra le porte girevoli
di un albergo.
Ci ho messo anni per imparare a salire in ascensore,
anni. Ormai non ci pensavo quasi più, salivo e basta,
il pulsante schiacciato in automatico, gli occhi in aria
il tempo di arrivare al piano.
Stamattina però era diverso, avrei dovuto sentirlo
che stamattina era diverso o forse l’ho sentito ma non
ho fatto niente per modificare il corso degli eventi, mi
sono ostinato a fare cose normali, in un giorno che
non era normale, io da solo, che normale non sono
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stato mai.
“Marco”, mi chiamo “Marco”, adesso la voce è la
mia, la riconosco mi è familiare. La riconosce anche
lei: “Eleonora” risponde con un suono più dolce di
quello che immaginavo. Vedo la sua schiena scivolare lungo le pareti dell’ascensore fino a sedersi a terra
come un segnale di resa, distensivo e naturale. “Eleonora”, sono io, di fronte, che ripeto il suo nome e il
suo stesso movimento. Occhi negli occhi. Il ritmo del
mio respiro che si calma come il forsennato fluire dei
miei pensieri.
Potrei morire oggi in quest’ascensore, con la malinconia di questo sguardo che mi accarezza le spalle,
le braccia, i polsi, che ha fermato le rapide della mia
ansia e spazzato via dieci anni di analisi, potrei morire
mentre le sue mani mi chiudono gli occhi. Potrei morire oggi e sarebbe il giorno più bello.
È seduta, per terra di fronte a me, si stringe le ginocchia con le mani, non tenta di coprirsi le gambe
abbronzate, non se ne vergogna, non le ostenta, sembra che stia bene così con il vestito leggero che le
arriva appena sotto i fianchi.
Tendo le braccia quel poco che basta a ridurre ancora un po’ la distanza e le stringo le mani. Le sue,
quelle nude lunghissime fuori misura di venti minuti
fa che ora mi sembrano le mie, quelle di mia madre, di
mio fratello, di Guido che non sento da un secolo ma
con il quale ho diviso ogni scorribanda, ogni ciottolo
del paese, ogni partita di pallone, ogni palpito dell’adolescenza. Le sue mani che si fondono con le mie
come un groviglio di rami d’albero, di un solo larice,
forte e sereno a guardia del bosco.
Sono fredde e tremanti anche se fuori saranno trenta gradi e siamo chiusi qui da un tempo incalcolabile,
è lei che sta tremando anche se lo sguardo conserva
quella pacata compostezza con la quale mi ha accolto
in ascensore, anche se guardandomi ha spento ogni
malessere, è lei che trema tra le mie dita. Le sue mani,
che sono corde per risalire la cima e strade che portano lontano e scia di un aereo capace di cambiare il
destino. Le stringo ancora di più e le sorrido.
Chiudo gli occhi, mi viene in mente la melodia della
Boheme quando Rodolfo prende le mani di Mimì! E
canto sottovoce le parole di quella musica meravigliosa “Che gelida manina se la lasci riscaldar cercar non
giova nel buio non si trova don don don don…”
Anche questa volta la voce è la mia, mia come la
musica, mia come questa donna sconosciuta, mia
come la vita che voglio riconquistare.
Si aprono le porte dell’ascensore… è uno squarcio
di luce che interrompe un sogno, una scarica elettrica per allontanare la pazzia, una doccia fredda e improvvisa su due corpi tiepidi di sole. Ci solleviamo
insieme, le mani contro le mani per darci una leggera
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spinta e insieme, in fretta, usciamo.
Mi gira un po’ la testa, mi sono alzato troppo velocemente. Sono costretto a risedermi, sulle scale del
pianerottolo questa volta, inondate di sole che è più
sole che mai. Eleonora mi siede accanto. Guardo il
fascicolo dell’assicurazione e in mente tornano tutte
le cose da fare.
Non ne ho voglia: non ho voglia... non ho voglia di
ritirare il vestito di Paola dalla sarta, non ho voglia di
andare a pranzo con Carlo, non ho voglia di giocare a
tennis, non ho voglia di dover avere voglia.
Lentamente Eleonora si alza, ondeggia un poco
sopra i sandali di cuoio e pietre colorate, la borsa a
tracolla la sbilancia leggermente in avanti, mi guarda come se non ci fosse nient’altro, come se non ci
fossero le scale e il pianerottolo e i muri del palazzo
e le porte tutte uguali di questi appartamenti costruiti
da un killer seriale. Mi guarda e io resto a mezz’aria,
come qualche minuto prima nell’ascensore sospeso
nel vuoto, mi guarda, ed io non sono più seduto su
un gradino, ma su una stella che sta per esplodere
nell’universo, diventare un buco nero e non tornare a
splendere mai più.
Inizia a scendere, se ne sta andando senza una parola, non so niente di lei soltanto il suo nome, il vestito
segue il movimento delle sue gambe magre, della sua
andatura incerta. Non riesco a fermarla ma sento che
la sto perdendo ed ora ho paura sul serio, puro panico che non ha bisogno di sintomi, né di diagnosi
o di psicoanalisi, la sto perdendo e insieme a lei se
ne sta andando la persona che ero o che avrei voluto
diventare.
Mi alzo in piedi e mi costa la fatica di una vetta conquistata a mani nude, però sono in piedi, scendo con
lei, vorrei fermarla prenderla per un braccio ma è così
fragile, ho paura di farle male, ho paura che scompaia,
ho paura di essermi immaginato tutto e che questa
donna, questa mattina, non siano mai esistite.
Siamo all’ingresso, è vuoto e pulito, ci sono piante
che nessuno cura ma che crescono verdi e rigogliose
forse per dispetto, forse per la dolcezza del clima.
Eleonora alza gli occhi e guarda l’orologio appeso
alla parete, è il suo sguardo ora a cambiare, ha una
luce diversa, ora è lei ad avere paura. Succede tutto
in un attimo, la macchina della polizia, con i lampeggianti accesi davanti al portone, arriva quasi in silenzio. Portiere che sbattono, escono due tipi in divisa,
stanno controllando i nomi sul citofono oltre la porta
a vetri, poi ci vedono, ci guardano, guardano lei con
insistenza, la conoscono, la riconoscono, entrano.
“Ancora questa storia? Ma allora non hai capito
niente? Tu qui non ci puoi stare e non puoi uscire di
casa e non puoi prendere l’ascensore, non in questi
orari, mi hai sentito?”
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