31 scheda class anemy - Il cineforum "Il posto delle fragole"

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31 scheda class anemy - Il cineforum "Il posto delle fragole"
31° film “Cineforum
Il posto delle fragole”
21° edizione 2015
CLASS ENEMY Rok Bicek
Titolo originale: Razredni sovraznik/Class Enemy. Regia: Rok Bicek. Sceneggiatura: Nejc Gazvoda, Rok
Bicek, Janez Lapajne. Fotografia: Fabio Stoll. Montaggio: Janez Lapajne, Rok Bicek. Musica: Frédéric
Chopin. Scenografia: Danijel Modrej. Costumi: Bistra Borak. Interpreti: Igor Samobor (Robert), Natasa
Barbara Graner (Zdenka), Tjasa
Zelenik (Sasa), Masa Derganc
(Nusa), Robert Prebil (Matjat),
Voranc Boh (Luka), Jan Zupani
(Tadej), Dasa Cupevski (Sabina),
Doroteia Nadrah (Mojca), Spela
Novak (Spela), Pia Korbar
(Marusa), Dan David Mrevlie
Natlacen (Primoz), Jan Vrhovnik
(Nik), Kangjing Oiu (Chang),
Estera Dvornik (Sonja), Peter
Teichmeister (il bidello). Produzione: Aiken Veronika Prosenc, Janez Lapajne per Triglav Film/Slovenski
Filmski Center. Distribuzione: Tucker Film. Durata: 112’. Origine: Slovenia, 2013.
Autorità e libertà Rinaldo Vignati
Con una formula sintetica, si potrebbe definire Class Enemy come l’“anti-Attimo fuggente”. Non solo, e non tanto,
perché all’approccio passionale, ricco di sentimenti e di ardore romantico del film di Peter Weir si sostituisce in
quello di Bicek un approccio freddo e distaccato. A opporre i due film è il fatto che in L’attimo fuggente (Dead
Poets Society, 1989) – e nella sua copia al femminile, Mona Lisa Smile (id., 2003) di Mike Newell – vi è una chiara
dicotomia tra il “sistema” e l’individuo: il primo mira a generare conformismo, il secondo cerca di preservare gli
spazi della sua libertà e autonomia e il film mostra lo scontro che si produce quando un professore mette in
discussione la tradizione del sistema e ne infrange le regole. In quel caso è perciò chiaro quale sia la posizione
dell’autore e per chi, nella contesa, debba parteggiare lo spettatore.
In Class Enemy la chiarezza di questa dicotomia scompare. Il film lo dice in modo persino programmatico – un
paio di volte (prima dalla preside durante la riunione coi genitori, poi dal professore nel discorso finale) sentiamo
ripetere che le cose non sono solo bianche o solo nere. È vero che quella dicotomia sopravvive nell’interpretazione
che gli studenti usano per giustificare la loro ribellione: leggendo la situazione in quella chiave, interpretano la loro
opposizione ai metodi dell’insegnante e dell’intera scuola come una lotta per la libertà contro un “sistema” definito
autoritario, o nazista. Si risente nella lettura data dagli studenti l’eco di rappresentazioni radicali della dicotomia
ricordata in apertura, come quella che si trova negli incubi di Pink Floyd – The Wall (id., 1982) di Alan Parker, nella
quale la spinta conformistica del sistema non ha il volto suadente dei riti di college prestigiosi (come nei film di
Weir e Newell) ma si trasforma in un implacabile processo di spersonalizzazione, teso a cancellare l’individualità (la
maschera che ricopriva i volti degli studenti) così da rendere ognuno un perfetto ingranaggio della macchina.
La dissoluzione di queste due polarità emerge con chiarezza nella scena-simbolo della ribellione. Ne L’attimo
fuggente quando gli studenti salgono sui banchi a dare l’ultimo saluto a Keating, il professore che l’ha sostituito
intima loro di ritornare al posto, e alcuni studenti, timorosi delle punizioni o ligi ai valori della tradizione, rimangono
seduti: il momento delle ribellione separa in due campi distinti, quelli che stanno dalla parte del sistema e quelli che
stanno dalla parte della libertà. In Class Enemy, invece, quando gli studenti si presentano in classe con una maschera
(ribaltamento del significato che aveva in The Wall: qui la maschera non è segno di perdita di autonomia, ma ha un
valore opposto – assumendo l’identità di una “vittima del sistema” i suoi compagni affermano che, anziché essere
annullata, quell’identità si è moltiplicata), tutti – anche il professore e il primo della classe – la indossano. Si annulla
così la differenza, e la contrapposizione, tra il sistema e gli individui. La maschera cambia nuovamente di segno e
diventa semplice nascondimento del proprio volto, delle proprie reali intenzioni. Chi c’è dietro la maschera? A
questo punto diventa difficile per lo spettatore decidere da che parte stare, dato che ognuno nasconde il proprio
volto, e quindi le proprie intenzioni. Non si sa se, indossando quella maschera, stanno esternando il proprio dolore
per la scomparsa di Sabina o stanno usando la sua morte per altri interessi.
Le due polarità – sistema e individuo – intorno a cui sono costruiti i film citati si dissolvono. Da una parte, il
sistema si sgretola e si scopre pieno di conflitti interni (viene meno la tradizionale alleanza tra genitori e professori;
gli stessi professori si rivelano portatori di interessi divergenti piuttosto che di valori unanimemente condivisi).
Dall’altra, gli individui, privati della “forma” imposta dal “sistema”, invece di conquistare la “libertà”, non riescono
a costituirsi come soggetti indipendenti (1) e le loro relazioni, venute meno le restrizioni poste da un’autorità
riconosciuta, si risolvono in un permanente conflitto.
«Benvenuto nel ventunesimo secolo», viene detto al professore di Class Enemy, a
sottolineare il fatto che una volta erano gli studenti a temere i professori, oggi
avviene invece il contrario. I film citati in apertura si svolgono negli anni Cinquanta.
Class Enemy è invece ambientato ai nostri giorni, in un contesto radicalmente
mutato, nel quale l’istituzione scolastica è indebolita e, in particolare, come indicano
numerose ricerche sociologiche, gli insegnanti vivono una drastica perdita di status e
di considerazione sociale. Il film di Bicek parte dunque dalla medesima problematica
di La classe (Entre les murs, 2008) di Laurent Cantet – film che torna alla memoria
anche per l’ambientazione rinchiusa (quasi) interamente tra le mura scolastiche.
L’esterno, a parte il finale su un traghetto durante le vacanze in Grecia, viene evocato
solo dall’accecante luce bianca in cui si immerge Sabina al momento del suo suicidio
(la stessa luce che torna in alcuni momenti successivi a ricordare – assieme al
Preludio di Chopin – la presenza/assenza della ragazza e delle sue domande).
A differenza di Cantet, e dei suoi personaggi a tutto tondo, Bicek ricerca una
maggiore stilizzazione e fa di tutto per creare distanza tra lo spettatore e i
protagonisti, introducendo a momenti anche tratti che virano verso il caricaturale (le
impacciate avances della professoressa di ginnastica, l’assemblea dei genitori,
eccetera). Ma l’orizzonte sociale che rappresenta è lo stesso, quello di una scuola nella quale l’autorità e
l’autorevolezza dei professori viene messa in discussione (tanto dagli alunni quanto dai genitori) e che, in tal modo,
sembra aver indebolito il fondamento del proprio ruolo educativo e formativo. Qual è la posizione del giovane
regista sloveno di fronte a questa situazione?
Difficile a dirsi. Bicek ammanta i suoi personaggi di ambiguità. È evidente – e, del resto, ammessa dallo stesso
regista in varie interviste nelle quali ha citato in particolare Niente da nascondere (Caché, 2005) – l’influenza di
Michael Haneke, con la sua rappresentazione di una realtà fatta di conflitti sotterranei e lotte di potere e col suo
sguardo che evita empatia e partecipazione e mira a dissezionare le ambiguità e i moventi degli esseri umani con
entomologica precisione e “indifferenza”. L’impressione, peraltro, è che questa intenzione non si traduca sempre in
personaggi autenticamente complessi, costitutivamente doppi e opachi: talvolta questa complessità appare costruita
artificiosamente come somma algebrica di due semplificazioni di segno opposto: prima accentua tutti gli indizi che
fanno del professore una figura sinistra (esasperando i tratti che ne evidenziano una severità che appare gratuita o
mostrandolo incapace della più elementare cordialità coi colleghi), poi li ribalta, non solo mostrando come Robert
sminuisca gli attriti e lavori per trovare una soluzione accomodante ai conflitti, ma anche lasciando a lui il privilegio
di un lungo discorso finale che sembra trasformarlo in portavoce delle istanze dell’autore.
In realtà, il film sfugge fino alla fine al tentativo di incasellarlo in una tesi (nemmeno il professore, con le sue
certezze, aveva del resto saputo dare risposte alle domande di Sabina), dato che procede per contraddizioni e
depistamenti, tanto che nel lungo discorso si sarebbe tentati di vedere non tanto l’invocazione della necessità di
ristabilire un’autorità, quanto piuttosto – come in una sorta di Prova d’orchestra dove l’aula scolastica è il
microcosmo nel quale ritrovare gli indizi di una più ampia crisi e gli echi di conflitti e tensioni generati dal contesto
che lo circonda – l’ennesimo segno della beffarda ed enigmatica ambiguità che domina l’intera storia.
(1) Questa esigenza era stata posta da Sabine con le sue domande (in apertura col suo sguardo pensieroso e poco
dopo quando chiede al professore: «Ma allora perché viviamo?»), che restano però senza risposta. Il finale ci
propone Sabina che si aggira, non vista, tra gli studenti allegri durante la gita: nessuno le sente nemmeno più quelle
domande.
Prossimo film giovedì
11 giugno 2015 BIRDMAN di Alejandro Inarritu ULTIMO FILM