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Mito e contrappasso dantesco nell’Orlando Furioso:
l’episodio delle “femmine omicide”
di Caterina Lidano
Il motivo della pazzia amorosa1, e in particolare del furor femminile, sembra
essere centrale in molti degli episodi del poema ariostesco, come in quello
originale delle “femmine omicide” (XVIII-XXI), immaginaria attualizzazione di
quella commistione Amore-Follia che l’autore ha annunciato con convinzione nel
proemio2. Nella pluralità delle passioni umane rappresentate nell’Orlando
Furioso, l’esperienza amorosa, unica vera forza motrice dell’esistenza, è indagata
nel duplice aspetto dell’insania in cui il desiderio inappagato può degenerare, e
dell’infedeltà, che di tale frustrazione rappresenta la prima causa. Accanto all’eroe
eponimo, tutti i personaggi principali dell’opera, e lo stesso poeta, vengono
assaliti da un’accecante gelosia che fa compiere azioni straordinarie e orrende.
Come accadrà nei canti XXII-XXXVI a Bradamante, capostipite estense e
protagonista, insieme al futuro sposo Ruggiero, di uno dei due filoni principali del
poema accanto alle vicende del conte Orlando3, così le donne di Laiazzo sono
vittime dell’abbandono dei loro amanti, ricalcando un topos che già fu delle
antiche Medea, Didone e soprattutto di Arianna, esplicita fonte della vicenda4. Al
pari dell’inclita figlia di Amone, tuttavia, anche queste valorose figure dimostrano
nella riscrittura ariostesca la caparbietà di non lasciarsi cadere in rovina, non
riuscendo però a sottrarsi a un proposito di vendetta feroce che le accomunerà,
infine, alla crudele Clitemnestra.
In effetti, se la progenitrice del cardinale Ippolito, interprete solo per equivoco
del tradizionale archetipo femminile (giacché Ruggiero non l’ha mai
effettivamente tradita), riesce a rinsavire dall’«infernal peste» (XXXI, 4, 5) della
gelosia, recuperando con le proprie forze il ruolo positivo di eroe del motivo
encomiastico, il destino delle abitanti di Alessandretta ha anche e soprattutto lo
scopo, nonostante la volontà delle misere di dominare la pazzia scaturita
dall’assenza degli amati, di sovrapporsi e in qualche modo anticipare quello di
1
Per una trattazione completa del tema, si veda l’efficace contributo di Eduardo Saccone, Il
soggetto del Furioso e altri saggi tra quattro e cinquecento, Liguori, Napoli, 1974, pp. 89-96.
2
Cfr. Corrado Bologna, La macchina del «Furioso». Lettura dell’ «Orlando» e delle «Satire»,
Einaudi, Torino, 2001, p. 55.
3
Nell’intricato disegno di storie e avventure che si innestano a più riprese l’una nell’altra, «due
sono le principali trame che vengono a posarsi, […], sull’impalcatura costituita dalle vicende
belliche: esse riguardano Orlando e Ruggiero [...]». Cesare Segre, Introduzione all’edizione critica
e commentata di Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, Mondadori, Milano, 2009, p. XXIV.
4
Il rimando ai miti di Arianna e Teseo, delle donne di Lemno, delle Amazzoni, e al più vicino
episodio della città di Saliscaglia del Pulci, Morg., XXII, 156 sgg., in ivi, p. 1342; e in Lanfranco
Caretti, Introduzione all’edizione commentata di Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, Einaudi,
Torino, 1992, p. 575.
1
Orlando5. Pur con esiti differenti, infatti, la sequenza delle “femmine omicide”
rappresenta l’equivalente donnesco del furor che colpisce il paladino della
Cristianità, come suggeriscono i numerosi parallelismi tra le due vicende, e
innanzitutto la circostanza per cui entrambe si concludono con l’intervento di
Astolfo e delle sue armi fatate6, unico e proporzionale rimedio a una passione che
sconvolge, fino a superarle, le possibilità dell’intelletto umano.
Iniziato alla fine del canto XVIII, il racconto dei naviganti cui toccherà per
«errore o ria fortuna» (XIX, 55, 8) di approdare nella città brutale riprende in XIX
42, incrociandosi con quello della partenza di Angelica e Medoro per l’Oriente.
Come Marfisa, Astolfo, Sansonetto, Grifone e Aquilante hanno pensato bene di
dirigersi da Damasco verso il porto di Tripoli per trovare una nave diretta a
Ponente7, così i due sposi novelli, congedatisi con gratitudine dal pastore che ha
albergato il loro amore, stabiliscono di raggiungere Valenza o Barcellona, per
imbarcarsi su «alcuna nave buona/ che per Levante apparecchiasse a sciorsi»
(XIX, 41, 3-4). Lungo il cammino, tuttavia, varcati i Pirenei e costeggiato il
sinistro lido spagnolo, non giungono in città prima di imbattersi nella profetica
figura di un uomo pazzo, che ridotto all’inquietante condizione di bruto, alla
maniera di un animale sguazza nella sabbia «in su l’estreme arene» (XIX, 42, 2).
Il bestiale personaggio, anticipazione di quanto accadrà a Orlando nel canto
XXIII, assale Angelica e Medoro come farebbe un cane rabbioso con qualunque
forestiero gli si presentasse davanti. Nell’apparizione prolettica, l’impossibilità del
lettore di riconoscere il cavaliere eponimo precorre quella di Angelica nel canto
XXIX, quando la scena dell’incontro verrà ripresa e al pubblico, ma non alla
principessa del Catai, verrà rivelato che il matto che ha tentato di ucciderla è
proprio l’eroe che tanto l’aveva amata: «Che fosse Orlando, nulla le soviene:/
troppo è diverso da quel ch’esser suole» (XXIX, 59, 1-2).
Mentre la reazione dei due amanti di fronte a tanta mostruosità è differita ad
altro luogo8, il poeta torna agli affanni marittimi dei gurrieri che viaggiano in
direzione opposta. Salpata dalla città libanese di Tripoli, la ciurma si lascia presto
alle spalle la prima tappa del viaggio, «l’isola sacra all’amorosa dea» (XVIII, 136,
1). Qui, nel distretto di Pafo, nota per il santuario dedicato ad Afrodite, i viandanti
hanno avuto modo di crogiolarsi un poco nella «terra d’amor piena e di piacere»
(XVIII, 137, 8), idillico contrappunto, come l’amore dei due giovani pagani per la
5
Sul rapporto analogico tra la pazzia di orlando e quella degli altri personaggi, si vedano le pagine
di Georges Güntert, Strategie narrative e discorsive del Furioso: le prefigurazioni dei primi canti,
i ritratti femminili e il centro tematico del poema, in «Esperienze letterarie», XXX (2005), 3-4, pp.
69-78.
6
L’intero episodio è sapientemente analizzato e commentato nel recente contributo di Giorgio
Bárberi Squarotti, Le donne al potere e altre interpretazioni. Boccaccio e Ariosto, Manni, San
Cesareo di Lecce, 2011, pp. 7-48.
7
Cfr. Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, a cura di Remo Cesarani, UTET, Torino, 1962, p. 631.
8
Per un’indagine puntuale sul tema dello smisurato e del deforme nel poema ariostesco e sul
parallelismo che si instaura tra il disordine della natura e quello dell’uomo, si veda il volume di
Cristiana Lardo, I mostri dell’Orlando Furioso, specchi della natura umana, Le Lettere, Firenze,
2010.
2
pazzia di Orlando, alla città delle femmine omicide, dove di lì a poco
sbarcheranno. Simili nell’impostazione architettonica, i due luoghi, entrambi
arroccati su un’altura che domina il mare, nascondono ornamenti assai diversi.
Ricca di vegetazione lussureggiante e di fecondi ruscelli l’una, che «dal mar sei
miglia o sette, a poco a poco/ si va salendo inverso il colle ameno» (XVIII, 138,
1-2); geometricamente delineata in piazze e contrade simmetriche l’altra, la cui
baia «gira più di quattro miglia intorno» (XIX, 64, 2), e che a cerchio «verso il
poggio ascende» (XIX, 64, 8). Se Cipro è l’emblema del godimento della natura e
dell’amore, dove «ogni donna affatto, ogni donzella/ piacevol più ch’altrove sia
nel mondo» (XVIII, 139, 5-6), e nella quale Venere ha fatto in modo che «tutte
ardon d’amore,/ giovani e vecchie, infino all’ultime ore» (XVIII, 139, 7-8);
Alessandretta, nonostante l’apparente organizzazione razionale, rappresenta il
livore più cieco, in cui Diana, già evocata nel porto fatto «a sembianza d’una
luna» (XIX, 64, 1), permette che le giovani dedite alle armi siano sottoposte
all’autorevolezza di anziane rancorose e dimentiche di qualsiasi appetito.
L’antinomia territoriale è sancita dall’incombere sui venti favorevoli della
tempesta, che al pari delle guerriere di Laiazzo «sempre più superba e più
arrogante» (XIX, 43, 5) rinnova con violenza il proprio sdegno, «né di placarsi
ancor mostrava segno» (XIX, 43, 8).
Che il golfo sia sacro ad Artemide è tema manifesto, oltre che dal tempio quivi
dedicatole (XX, 35, 6)9, anche dalla particolare provenienza del capitano della
caracca che conduce Marfisa e gli altri nel luogo, e che non casualmente «era da
Luna» (XVIII, 135, 5). L’antica città toscana di Luni10, oltre a sorgere a poca
distanza dalla località costiera di Porto Venere, anch’essa non lontana dal
territorio della Garfagnana11, era nota per essere consacrata a Diana, l’allora porto
cittadino aveva infatti forma di falce, e per ospitare un magnifico anfiteatro. Da
ciò, la possibilità che lo stesso riferimento geografico, che ricorda l’efferata baia
distesa «a guisa di teatro» (XIX, 64, 7) e che trova un precedente letterario nella
Commedia dantesca (Par. XVI, 73-79), già evocasse nei lettori del tempo la
contrapposizione tra un luogo dedicato ad Afrodite e un altro votato alla divinità
sorella di Apollo, sovrapponendo regioni fantastiche a siti reali e noti al pubblico.
Come per Angelica e Medoro che si imbattono nella figura del bruto, anche per
questi pellegrini la parentesi amorosa è interrotta bruscamente da forze terrestri
che superano la propria misura, infrangendo i consueti confini naturali. L’ordine
degli elementi è sconvolto12, e mentre il vento molesta le acque, «sul mare intanto,
9
Cfr. Cesare Segre, cit., p. 1344.
Cfr. Lanfranco Caretti, cit., p. 516; e Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, a cura di Remo
Cesarani, cit., p. 680.
11
Qui il poeta dovette soggiornare come commissario ducale per tre anni (1522-1525), a causa di
problemi economici legati a dissidi sull’eredità di famiglia e sulla possibilità di godere di modesti
benefici ecclesiastici. Cfr. Ludovico Ariosto, Satire, Prefazione di Ermanno Cavazzoni, BUR,
Milano, 2009, p. 9. L’esperienza è ricordata da Ariosto nella quarta satira, in cui, a un anno dalla
partenza, lamenta di essere capitato in luogo dove è impossibile dedicarsi alla poesia. Cfr. Ibid.,
pp. 79-97.
12
Sulla descrizione ariostesca della tempesta nell’episodio in oggetto, cfr. Giorgio Bárberi
10
3
e spesso al ciel vicino/ l’afflitto e conquassato legno toma» (XIX, 48, 5-6).
Personificata come un’amante furiosa, che sprezza e squarcia e strepita la propria
rabbia, l’immagine della bufera diviene correlativo delle passioni umane, con
riferimento alla tempesta che condusse Enea sulle coste di Didone, e soprattutto
alla «bufera infernal, che mai non resta,/ mena li spirti con la sua rapina;/ voltando
e percotendo li molesta» (Inf. V, 31-33)13.
Dallo stravolgimento del mondo terreno, nessuno può dirsi sollevato, «ma tutti
ugual timor preme e sgomenta» (XIX, 46, 8). Nemmeno Marfisa, la più impavida
e coraggiosa tra i compagni14, che se «già fu tanto sicura, non negò che quel
giorno ebbe paura» (XIX, 47, 7-8), emblema della condizione di chi, pur
scegliendo l’epica verginità della Camilla virgiliana, forse immune da un
personale tormento amoroso, lungi dall’essere al riparo dagli effetti nefandi dei
furori altrui. Proprio la guerriera, infatti, è il personaggio più coinvolto in tutto
l’episodio delle femmine omicide, significativamente introdotto e concluso (prima
con la burrasca, poi con il corno suonato da Astolfo) nell’immagine sbigottita e
disorientata di colei che invano ha tentato di sottrarsi al crudele gioco amoroso15.
Non a caso, dopo simile avventura, la donna è ancora protagonista, per destino o
per equivoco, di un duello provocato dal tradimento di qualcun altro. Nella
sequenza che vede Bradamante furiosa (XXX-XXXVI), ingiustamente colei che si
fregia della fenice16 è condotta di nuovo al paragone contro una fanciulla
abbandonata, scambiata questa volta, se non per un cavaliere come a Laiazzo, per
l’amante di un fraudolento uomo.
Se nessuno dei naviganti è in grado di sottrarsi al movimento impetuoso della
tormenta, tuttavia, tutti si adoperano coralmente per cercare di contenerne gli
effetti. Con prontezza si tenta di opporre all’impeto della natura ciò che più di
ogni altra virtù nobilita l’uomo al rango di essere dotato di intelletto: l’arte, la
tecnica:
I naviganti a dimostrare effetto
vanno de l’arte in che lodati sono:
Squarotti, cit., pp. 10-14.
13
Dante Alighieri, La Divina Commedia. Inferno, Introduzione e commento a cura di Anna Maria
Chiavacci Leonardi, Mondadori, Milano, 1991, pp. 141-142.
14
Così, nell’interpretazione di Segre: «L’atteggiamento di Marfisa sembra un corollario delle
riflessioni del Boiardo, Inn., III, IV, I, sull’impossibilità, anche per i più coraggiosi, di scampare
alla paura durante le burrasche». Cesare Segre, cit., p. 1340. Ugualmente Squarotti, con
riferimento ai guerrieri ariosteschi: «Hanno vinto duelli, combattuto sempre con assoluto coraggio,
non hanno mai temuto la morte in guerra, eppure di fronte alla violenza del vento e del mare hanno
paura, perfino Marfisa, la più audace, la più forte, la più intrepida». Giorgio Bárberi Squarotti, cit.
p. 15.
15
Squarotti si sofferma in particolare sulla componente ironica della circostanza: «la rivelazione
che perfino Marfisa ha paura della tempesta inserisce nella narrazione un che di beffardo per
antifrasi proprio a spesa della donna audacissima e gloriosa (e fuggirà pure, terrorizzata, quando
suonerà il corno Astolfo alla conclusione della vicenda delle donne omicide, poco dopo,
ugualmente in modo un poco comico)». Ivi, p. 16.
16
Cfr. XXV, 97, 5-6.
4
chi discorre fischiando col fraschetto,
e quanto han gli altri a far, mostra col suono;
chi l’ancore apparechia da rispetto,
e chi al mainare e chi alla scotta è buono;
chi ‘l timone, chi l’arbore assicura,
chi la coperta di sgombrare ha cura. (XVIII, 143)
Nella relazione cronachistica del viaggio, il poeta offre un esempio di perfetta
organizzazione umana. Seppure i marinai non hanno ancora stabilito con certezza
la propria collocazione geografica, ciò nonostante, essi sono sapientemente «a
consiglio dal padron ridutti» (XIX, 45, 8). Il capitano dà prova di saper mantenere
con destrezza la calma tra i suoi uomini, e forse il momento assembleare può
portare consiglio. Tutti si dirigono ai propri posti con sollecitudine: chi prende la
bussola, chi l’orologio, chi la lanterna e la carta nautica:
È la variazione rispetto soprattutto alla descrizione della tempesta nell’Eneide: siamo in un
tempo della ragione, e gli dèi antichi più non ci sono a suscitare le tempeste e a parteggiare con gli
uni o con gli altri eroi o a perpetrare odi, gelosie e vendette. […] nella narrazione apocalittica della
tempesta di mare, c’è ancora l’altro e originale aspetto, e sono la ragionevolezza, la misura, la
sapienza, la tecnologia dei marinai e del capitano 17.
Eppure, nonostante la rapidità delle disposizioni e l’impiego degli ottimi
strumenti della scienza, la ciurma non può ristabilire il controllo sull’onda nemica.
Di fronte al «mar tanto possente» (XIX, 52, 1), a nulla sembra valere l’ingegno
umano. Alla compagnia sgomenta, che come il più misero degli amanti «sospira e
piagne» (XIX, 46, 6), non resta che rimettersi alla provvidenza divina. Ancora la
speranza nella fede, venuta meno quella nei valori terreni, si accende in coloro che
sembrano peccatori danteschi travolti nell’eterno vortice della sfrenatezza
amorosa18. In fretta si invoca ogni sorta di santo poiché il terrore non ammette
raffinatezze nella preghiera: che la salvezza sia ricompensa di un qualsivoglia
pellegrinaggio: al monte Sinai, in Galizia, a Cipro o a Roma. Ed ecco allora
prospettarsi il popolano miracolo.
Al quarto giorno, i marinai avvistano le tanto desiderate luci di Sant’Elmo,
considerate di buon auspicio19. La visione prodigiosa torna ad alimentare
l’aspettativa; in ginocchio i miseri «domandaro il mar tranquillo e pace/ con umidi
occhi e con voci tremanti» (XIX, 51, 3-4). Il divino sembra aver avuto
compassione del loro travaglio, mentre l’atmosfera «caliginosa e più scura
ch’inferno» (XVIII, 144, 2), che ricorda minacciosamente «quel loco d’ogne luce
muto,/ che mugghia come fa mar per tempesta,/ se da contrari venti è combattuto»
(Inf., V, 28-30)20, appare improvvisamente diradarsi:
La tempesta crudel, che pertinace
17
Giorgio Bárberi Squarotti, cit., p. 12-13.
Cfr. Anna Maria Chiavacci Leonardi, cit., p. 142.
19
Cfr. Cesare Segre, cit., p. 1340.
20
Dante Alighieri, cit., p. 141.
18
5
fu sin allora, non andò più inanti:
Maestro e Traversia più non molesta,
e sol del mar tiràn Libecchio resta. (XIX, 51, 5-8)
L’eco di quella infernale «tempesta» (Inf., V, 28), «che mai non resta» (Inf., V,
31), e che «voltando e percotendo li molesta» (Inf., V, 33)21, non sembra tuttavia
essersi del tutto rarefatta, perché se pure nella ripresa ariostesca le tre parole-rima
vengono mutate nell’ordine e nell’intensità, tanto che il nordico Maestrale «più
non molesta», tuttavia, a tormentare ancora l’afflitto legno «resta» un nuovo vento
che spira da mezzogiorno. La luce salvifica di Sant’Elmo, apparsa un po’
goffamente sulla sommità di una vela di riserva22 a significare forse il
contrappasso verso un sentimento religioso non proprio di primo ordine, si rivela
una fulminea illusione. Libeccio, personificato nelle vesti di un oscuro tiranno23,
esala il proprio fiato da una «negra bocca» (XIX, 52, 2), riportando ancora una
volta le tenebre.
Il nuovo adombrarsi del cielo trascina i naviganti al patimento della prima
bufera, «che non cessa e non si placa, e più furore/ mostra nel giorno, se pur
giorno è questo,/ che si conosce per al numerar de l’ore,/ non che per lume già sia
manifesto» (XVIII, 145, 1-4), a sancire la definitiva insufficienza dell’intelletto
umano, grazie al quale non rimane altro che l’impotente consapevolezza di quanto
accade. Come le lanterne dei marinai, così i lumi di qualche santo non sono bastati
a rasserenare la rovinosa navigazione. Il viaggio verso Ponente torna a connotarsi
di buio, richiamando, «con timor del nocchier ch’al fin del mondo/ non lo
trasporti, o rompa, o cacci al fondo» (XIX, 52, 7-8), quello infernale che già
percorse il pur abile Ulisse24.
Le circostanze tornano allora a ripetersi: come accaduto il giorno prima,
quando il capitano «e colli e casse e ciò che v’è di grave/ gitta da prora a da poppe
e da sponde;/ e fa tutte sgombrar camere e giave,/ e dar le ricche merci all’avide
onde» (XIX, 49, 1-4) per opporsi alle correnti, nuovamente egli «commanda gittar
per poppa spere;/ e caluma la gomona, e fa pruova/ di due terzi del corso ritenere»
(XIX, 53, 2-4). Nel movimento oscillante della narrazione, che ad ogni pericolo
restituisce una speranza, la ciurma crede ancora una volta di aver dominato i flussi
che forse25 l’avrebbero condotta al disastro. Il controllo viene ristabilito: grazie
all’esperienza e soprattutto alle preghiere, il legno può tornare a correre sicuro «in
alto mar» (XIX, 53, 8).
Ma proprio nel momento in cui la difficoltà più grande sembra essere superata,
la rotta si rivela improvvisamente catastrofica: se in quattro giri vorticanti Ulisse e
21
Ivi, pp. 141-142.
Cfr. Giorgio Barberi Squarotti, cit., p. 16; e Cesare Segre, cit., p. 1340.
23
Cfr. Ibid.
24
Cfr. Giorgio Bárberi Squarotti, cit., pp. 12-17.
25
Tutto l’episodio è improntato su una generale incertezza e sull’impossibilità di valutare in modo
univoco gli eventi, tratto che accomunerebbe il poema ariostesco alle Metamorfosi di Ovidio
secondo Maria Cristina Cabani, Ovidio e Ariosto: leggerezza e disincanto, in «Italianistica»,
XXXVII (2008), 3, pp. 15-21.
22
6
i suoi marinai furono inghiottiti dagli abissi dopo aver intravisto la montagna del
Purgatorio, al quarto giorno di navigazione l’equipaggio ariostesco, illusosi della
propria salvezza, approda nell’orrido golfo di Laiazzo. Nel repentino sgomento
del capitano, l’eco di quanto di sé e dei suoi compagni già raccontò il re di Itaca:
«Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto» (Inf., XXVI, 136)26:
Come il padron s’accorse de la via
che fatto avea, ritornò in viso smorto;
che né porto pigliar quivi volea,
né stare in alto, né fuggir potea. (XIX, 54, 5-8)
La cognizione di essere giunto nel porto di Alessandretta getta il nocchiero nel
più profondo sconforto. Impossibilitati a fuggire a causa dei danni subiti nella
tormenta, convinti che «’l pigliar porto era un voler morire/ o perpetuo legarsi in
servitute» (XIX, 55, 5-6) ma che lo stesso «stare in dubbio era con gran periglio/
che non salisser genti de la terra» (XIX, 56, 1-2), i marinai e «il padron» che «non
sa pigliar consiglio» (XIX, 56, 5) realizzano di essere perduti. Il fallimento delle
loro capacità organizzative ne preannuncia un altro di maggior gravità: quello
dell’impostazione statale delle femmine omicide27. Il paragone tra i due gruppi è
istituito direttamente da Ariosto che, sull’esempio di quanto già narrato dell’uno,
descrive la perfetta strategia militare dell’altro:
Già, quando prima s’erano alla vista
de la città crudel sul mar scoperti,
veduto aveano una galea provista
di molta ciurma e di nochieri esperti
venire al dritto a ritrovar la trista
nave, confusa di consigli incerti;
che, l’alta prora alle sua poppe basse
legando, fuor de l’empio mar la trasse. (XIX, 62)
Entrar nel porto remorchiando, e a forza
di remi più che per favor di vele;
però che l’alternar di poggia e d’orza
avea levato il vento lor crudele.
Intanto ripigliar la dura scorza
i cavallieri e il brando lor fedele;
ed al padrone ed a ciascun che teme
non cessan dar con lor conforti speme. (XIX, 63)
Di fronte alla difformità di donne esperte nella navigazione e nelle armi, il
carattere razionale delle disposizioni è subito tradito dal ricordo della figura
disumana che, come un cane rabbioso, ha assalito Angelica e Medoro sul lido
26
Dante Alighieri, cit., p. 792.
In tale impostazione Squarotti vede la «descrizione di una ‘città ideale’; e ugualmente perfetto è
il metodo del governo dello Stato a misura delle donne, affinché esse possano avere sempre
garantito il potere». Giorgio Bárberi Squarotti, cit., p. 19.
27
7
spagnolo. Stanziatesi come quello su un estremo luogo costiero, anche le brutali
guerriere di Laiazzo circuiscono qualsiasi forestiero si imbatta in loro, senza
negoziazione o parola. Con rapidità ed efficienza i viandanti sono
immediatamente sottoposti alle arcaiche leggi della baia. Un’anziana abitante
annuncia che per avere salva la vita uno di loro dovrà battersi con dieci cavalieri e
giacere con altrettante donzelle.
Ma a testimoniare l’inadeguatezza dell’ordinamento che lo stuolo ha scelto per
autogovernarsi non è solo la risata in cui scoppia il duca inglese quando apprende
«de la vicina terra il rito strano» (XIX, 59, 2), poiché la leggerezza bonaria28 con
cui Ariosto-Astolfo esorcizza in prima battuta l’atroce usanza è seguita
dall’imprevista prova di Marfisa. Al pari dei suoi compagni, infatti, la donna
intende essere sorteggiata per lo scontro, nonostante il dubbio lecito su come ella
possa proporsi, tutti «stimando che trovar dovesse inciampo/ ne la seconda giostra
della sera;/ ch’ad averne vittoria abil non era» (XIX, 73, 6-8). L’allusione erotica
continua a velarsi quando la guerriera sfodera la spada come pegno della sua
gagliardia, agitando l’oggetto maliziosamente fallico con cui ella è sicura di
supplire là «dove non l’aitasse la natura» (XIX, 69, 7). Nonostante la costituzione
del luogo chiami a duello l’uomo che fra tutti i nuovi arrivati sia il più animoso e
il più forte, il caso capriccioso fa sì che tra i tanti venga estratta la sorella di
Ruggiero, la quale, inorgoglita, promette solennemente di liberare tutti i
prigionieri della città.
Ella «non vuo’ mai più che forestier si lagni/ di questa terra, fin che ‘l mondo
dura» (XIX, 75, 1-2), innalzando con il proprio proposito gli sviluppi
dell’episodio a maggior serietà. Come le Ginevre, le Angeliche e le Olimpie del
poema sono state salvate da inique leggi per merito di cavalieri cortesi, allo stesso
modo, sarà un’intrepida donzella a sottrarre dalla bestialità di Alessandretta gli
uomini che qui sono ridotti in schiavitù. Nel duello contro il nobile guerriero nero,
il cui «vestito voleva dir che, come manco/ del chiaro era l’oscuro, era altrettanto/
il riso in lui verso l’oscuro pianto» (XIX, 79, 6-8), Marfisa dà prova di saper
distinguersi al pari del suo nemico per abilità militare29. Grande ammirazione
nasce tra i due contendenti al discoprirsi degli elmi: «si maraviglia la donzella,
come/ in arme tanto un giovinetto vaglia;/ si maraviglia l’altro, ch’alle chiome/
s’avede con chi avea fatto battaglia» (XIX, 108, 1-4). Il valore e la cortesia di cui
entrambi si adornano, al di là di ogni altra differenza, li conducono presto
28
Sulla levità che contraddistingue il personaggio di Astolfo, cfr. Walter Moretti, L’Ariosto di
Mario Santoro, in «Esperienze letterarie», XXX (2005), 3-4, pp. 84-85; e Gennaro Savarese, Il
Furioso e la cultura del Rinascimento, Bulzoni, Roma, 1984, pp. 71-89.
29
L’equiparazione tra i due guerrieri, funzionale a mettere in risalto le errate convinzioni delle pur
apparentemente razionali cittadine della baia, è sancita, in particolare, attraverso numerose spie
testuali: «dei duo campioni» (XIX, 93, 4); «le lancie ambe» (XIX, 94, 1); «parimente parve» (XIX,
94, 5); «cadero ambi ugualmente» (XIX, 94, 7); «Ben la misura ugual l’un da l’altro have» (XIX,
97, 3); «due fiere audaci anime brave» (XIX, 97, 3); «dei duo miglior guerrier» (XIX, 98, 5);
«dicea Marfisa:/ - Buon fu per me, che costui non si mosse» (XIX, 99, 1-2) «- Buon fu per me
(dicea quell’altro ancora),/ che riposar costui non ho lasciato» (XIX, 100, 1-2); «né l’un né
l’altro»(XIX, 101, 3); «con ugual fortuna» (XIX, 101, 7).
8
all’amicizia solidale.
Contrariamente a quanto le dissennate donne della baia avrebbero potuto
prevedere, una fanciulla rischia di divenire principe della loro città. Ma la distanza
del poeta «sopra alla spietata legge/ del sesso feminil che ‘l loco regge» (XIX,
102, 7-8) passa anche dalla partenza precipitosa su cui egli decide risolutivamente
di chiudere l’episodio. La giostra tra Guidon Selvaggio e la sua sfidante, interrotta
per il sopraggiungere della notte, non avrà luogo, poiché i due nobili cavalieri
comprendono come l’unica soluzione a questa terra di follia sia nient’altro che la
fuga.
Nel successivo canto XX, Ariosto, dopo aver esordito con un convinto elogio
del gentil sesso ed un’aperta condanna contro coloro che per invidia e ignoranza
ne oscurarono la grandezza, riprende la narrazione delle gesta della guerriera
saracena, avendo cura di introdurre, però, prima di lasciare la città, le cause che
spinsero le femmine di Laiazzo a istituire un così crudo ordinamento.
A raccontare ai cavalieri e ai lettori l’origine dell’orrendo costume è Guidon
Selvaggio, avversario di Marfisa e reggente del golfo contro ogni suo volere30. La
parentesi eziologica è preceduta dal tradizionale motivo dell’agnizione, in cui il
giovane personaggio è riconosciuto come fratello di Rinaldo per parte di padre:
«al duca Amone, il qual già peregrino/ vi capitò, la madre mia mi fece:/ e l’anno è
ormai ch’io la lasciai dolente,/ per gire in Francia a ritrovar mia gente» (XX, 6, 58).
Poiché una tale discendenza è invenzione tutta ariostesca, perché Guidone
«altrove è sempre figlio di Rinaldo e di Costanza, pagana della Dacia»31, si deve
immaginare che il poeta abbia voluto far approdare nel luogo una figura adulterina
connotata da caratterizzazioni particolari: un originario abbandono paterno ad
opera di un uomo vecchio, di Amone anziché di Rinaldo, il protagonismo di un
ulteriore allontanamento. In chiaroscuro, la figura della madre, lasciata dolente
prima da colui con il quale è giaciuta, poi dal figlio.
La vicenda di Guidon Selvaggio non sembra tanto dissimile da quella che egli
si accinge a raccontare. Dopo gli abbracci, il guerriero dà avvio a una lunghissima
sequenza (XX, 10-64), nella quale si ritrovano ancora i motivi della prole
illegittima e dell’esodo dalla terra natia. Fonte principale dell’episodio è la
leggenda di Falanto, collocata nella riscrittura ariostesca non al tempo delle
battaglie messeniche ma di quelle omeriche32. Nella consueta tensione tra passato
e presente33, come è già accaduto per Rinaldo ed Amone, l’autore retrocede i
comportamenti più crudi a un’epoca lontana, quasi mitica, con la prospettiva di
30
Per la fittissima presenza di narratori interni nel poema ariostesco, si veda il contributo di
Annalisa Izzo, Il racconto di secondo grado nel Furioso, in «Italianistica», XXXVII (2008), 3, pp.
77-85.
31
Cfr. Lanfranco Caretti, cit., p. 569.
32
Cfr. Ivi, pp. 570-571; e Cesare Segre, cit., p. 1342.
33
In particolare, Ariosto mostra di volersi allontanare dagli usi del passato soprattutto riguardo agli
ordinamenti che regolano il rapporto tra i due sessi e alla diffusa misoginia dei tempi antichi. Cfr.
Andrea Gareffi, Passato e presente nel ‘Furioso’. Ariosto trionfato dalle donne, in «Rinascimento
meridionale», I (2010), pp. 71-84.
9
indicarne un più efficace distacco.
Durante la guerra di Troia, le donne greche, assenti i mariti da più di venti anni,
consolarono il proprio amore con giovani amanti. Tornati nelle proprie case, gli
Achei, di comune accordo, decisero di perdonare il tradimento subìto, ben
consapevoli che le mogli «tanto non potean viver digiune» (XX, 11, 4). Le
obbligarono, tuttavia, ad allontanare i figli nati dalle illecite relazioni, non
tollerando «che più alle spese lor sieno notriti» (XX, 11, 8).
Il racconto di Guidone introduce un’ulteriore variante al mito originale. In
esso, le mogli spartane si erano rese protagoniste di rapporti eXtraconiugali non
per loro volontà, ma per decisione dei mariti in guerra, preoccupati di non avere
discendenti da educare alle armi a causa della prolungata assenza. Ariosto, al
contrario, pur nella velata allusione alla volubilità femminile, inserisce nella
vicenda il tema tutto umanistico della centralità del bisogno amoroso34,
ricalcando, anche nella licenziosa ironia, scenari e situazioni tipici soprattutto
delle novelle decameroniane.
Nonostante l’avara sentenza, alcune madri riuscirono a salvare la propria prole
accudendola di nascosto, ma la maggior parte dei giovani dovette partire. Tra
questi, Falanto, figlio nella riscrittura ariostesca della feroce Clitemnestra,
organizzò una truppa di cento compagni per depredare le coste della Grecia.
Assoldati a Creta come mercenari, durante la loro permanenza sull’isola, gli
Elleni ne sedussero tutte le donne, fino a divenire «signor de le lor case» (XX, 15,
8) e a esserne amati «sopra ogn’altro ben» (XX, 16, 8). Al termine della guerra,
tuttavia, non trovando più alcuna fonte di guadagno, decisero di abbandonare
quella terra felice con tutte le sue abitanti. Poiché nessuna preghiera, nessuna
supplica valse per distoglierli dalla partenza, le fanciulle, innamorate, non
poterono fare altro che seguirli. Allora di nascosto fuggirono dai propri «padri e
figli e frati» (XX, 18, 4), portandosi dietro un ricco bottino di gemme e di oro.
Dieci giorni durò il loro idillio amoroso, perché, «come spesso avvien che
l’abondanza/ seco in cor giovenil fastidio mena» (XX, 20, 3-4), in breve tempo gli
uomini crudeli, «che di guadagno e di rapine/ eran bramosi e di stipendio parchi»
(XX, 21, 1-2), si stancarono delle amanti e soprattutto dell’incombenza di doverle
mantenere. Come un tempo i patrigni greci li avevano allontanati per non
rimanerne gravati, così i mercenari decisero all’unisono di perpetuare quella
stessa crudeltà sulle concubine, abbandonandole e derubandole di ogni ricchezza.
Nel descrivere l’innamoramento delle fanciulle, il poeta pone nuovamente
34
Sulla nuova immagine rinascimentale dell’uomo e sulla matrice umanistica di ideali ariosteschi
quali l’umana virtù, la dignità terrena, l’imprescindibilità dell’amore si insiste in particolare in
Walter Moretti, cit., pp. 83-84. Nel periodo rinascimentale, quando gli umanisti teorizzano nel
neoplatonismo la centralità e la dignità dell’uomo, la tematica amorosa, e con essa la presenza
delle donne, acquista una grande importanza nell’opera degli scrittori, non solo nella lirica, ma
anche nella trattatistica e nel poema cavalleresco. Tra le ragioni culturali e sociali che pongono le
premesse del ricco dibattito cinquecentesco sviluppatosi intorno all’amore, è necessario appunto
annoverare, oltre alla diffusione della filosofia platonica, la nuova influenza che assume la donna
nella vita della corte. Cfr. Romano Luperini, Pietro Cataldi, Lidia Marchiani, Valentina Tinacci,
La scrittura e l’Interpretazione, vol. I, tomo II, G. B. Palumbo, Firenze, 2004, p. 223.
10
l’accento sulla naturale e necessaria attrazione che legò le «belle donne» (XX, 16,
3) dell’isola a quei «giovani tutti e belli» (XX, 16, 1), aggiungendo come oltre al
piacevole aspetto, i nuovi arrivati soprattutto «si dimostrâr buoni e gagliardi al
letto» (XX, 16, 6). Lungi da qualsiasi atteggiamento di condanna morale nei
confronti della libido femminile, l’ironica precisazione sottolinea, al contrario,
come già per gli adultèri delle mogli achee, la centralità anche per il gentil sesso
dei piaceri del corpo, gli stessi che le femmine di Laiazzo hanno dissennatamente
tentato di abolire dal proprio costume. Del resto, nell’incipit del canto X, quando
Ariosto, prima di continuare a narrare le sventure di Olimpia, si rivolge alle sue
care donne affinché nessuna «mai più non sia,/ ch’a parole d’amante abbia a dar
fede» (X, 6, 3-4), egli stesso ha premura di ribadire che, nonostante il falso amore
di molti uomini e soprattutto di quelli giovani, «che presto nasce in loro e presto
muore,/ quasi un foco di paglia ogni appetito» (X, 7, 3-4), in nessun caso le donne
devono rinunciare all’appagamento amoroso:
Non vi vieto per questo (ch’avrei torto)
che vi lasciate amar; che senza amante
sareste come inculta vite in orto,
che non ha palo ove s’appoggi o piante.
Sol la prima lanugine vi esorto
tutta a fuggir, volubile e incostante,
e corre i frutti non acerbi e duri,
ma che non sien però troppo maturi. (X, 9)
Al di là degli innegabili vantaggi che il maturo poeta avrebbe potuto trarre
dall’insolito appello, quelle esortazioni non si erano affatto esaurite nella battuta
faceta, ed anzi avevano costituito il punto più alto di una vera e propria lezione
sull’arte di amare. Da questo punto di vista, il richiamo alle «ardite femmine
spietate» (Inf., XVIII, 88) di Lemno35, sedotte e abbandonate dagli Argonauti, e la
riscrittura che nell’episodio si elabora del loro mito costituiscono l’ulteriore
occasione per prendere le distanze dalla tradizione misogina del passato.
Alla notizia del proposito degli amanti di lasciare Creta, il narratore-Guidone
afferma che le fanciulle caddero in «maggior lutto/ […] che se i lor padri avesson
morti avanti» (XX, 17, 8), alludendo senza più ambiguità alla strage di uomini di
cui nel mito antico si macchiarono le donne della città egea per vendicarsi dei
mariti resi impotenti da un sortilegio di Venere. Accecate dall’ira, infatti, queste
non risparmiarono dal massacro nemmeno i padri, i figli e i fratelli. Fece
eccezione la principessa Isifile, che riuscì a salvare il proprio genitore fingendo di
fronte alle altre di averlo ucciso.36 Fu solo in seguito a simile scempio, che il
luogo ospitò gli Elleni guidati da Giasone.
Nonostante i numerosi richiami tra il mito di Lemno e la vicenda delle
femmine omicide, una prima e fondamentale differenza deve essere rintracciata
35
Dante Alighieri, cit., p. 552. Per il parallelismo tra questa e la vicenda delle donne di Lemno, cfr.
Cesare Segre, cit., p. 1344; Lanfranco Caretti, cit., p. 575; Giorgio Bárberi Squarotti, cit. p. 19.
36
Cfr. Anna Maria Chiavacci Leonardi, cit., p. 552.
11
soprattutto nelle cause che spinsero il gentil sesso a compiere un così efferato
gesto. Se l’ira delle donne della classicità fu scatenata dall’assenza
dell’appagamento erotico, diversamente le figure del Furioso, che per seguire i
propri amanti derubarono ma non uccisero i familiari, istituirono in seguito il
crudo costume omicida in risposta a una violenza che fu già degli ingrati uomini.
A differenza delle prime, inoltre, quasi del tutto assente nella versione ariostesca
la connotazione peccaminosa delle fanciulle cretesi, le quali, al di là della
benevola ironia, non tutte vissero con i viandanti storie extraconiugali. Nel poema,
infatti, il feroce proposito di vendetta viene ordito proprio, a volerlo attenuare,
dalla giovinetta che più di tutte poté dirsi innocente, e per la quale l’inganno dei
greci si configurò, similmente a quello di Giasone nei confronti di Isifile, come
colpa massimamente oltraggiosa.
Dopo aver lasciato le case e le famiglie ed essersi spinte fino alla rapina dei
propri congiunti, «le donne, che si videro tradite/ dai loro amanti in che più fede
aveano,/ restâr per alcun dì sì sbigottite, che statue immote in lito al mar pareano»
(XX, 22, 1-4)37.
È a questo punto che Ariosto, nel sovrapporre i miti di Falanto, di Arianna,
delle donne di Lemno e delle guerriere Amazzoni38, sviluppa una propria e
originalissima continuazione della storia, dando vita a un mondo immaginario che
somiglia a tutti gli effetti alle terre infernali del contrappasso dantesco.
Assumendo il ruolo archetipico della donna abbandonata, il poeta vagheggia
quella che potrebbe essere l’apocalittica vendetta femminile contro la crudeltà
degli uomini ingrati. Viator d’eccezione, come per gli altri episodi che si
richiamano alla Commedia, è Astolfo, già trasformato in mirto nella lontana isola
di Alcina, e futuro protagonista della fatidica discesa agli Inferi.
Tessute le lodi del gentil sesso con la condanna di tutti gli scrittori del passato
che ne tramandarono un’immagine diffamatoria, presentata una nuova e personale
versione sulle ragioni che scatenarono gesta femminili tanto orrende, il poeta del
Furioso prosegue la narrazione, raccontando al proprio pubblico cosa fecero le
donne tradite per opporsi allo spietato calcolo degli amanti.
Rimaste in un primo tempo impietrite dalla fuga insospettata, le fanciulle
37
Il motivo dell’abbandono così descritto riprende il modello dell’Arianna catulliana, ritratta, dopo
la fuga di Teseo, come statua sul lido deserto. Cfr. Cesare Segre, cit., pp. 1294, 1342. Altri
precedenti si ritrovano all’interno dello stesso poema nelle figure di Olimpia e di Alcina, entrambe
rifuggite dai propri amanti nel canto X. In particolare, per Olimpia: «Or si ferma s’un sasso, e
guarda il mare;/ né men d’un vero sasso, un sasso pare» (X, 34, 7-8), cfr. Lanfranco Caretti, cit., p.
233. Per un approfondimento sulla presenza e la riscrittura di tale archetipo nel poema ariostesco,
si veda Marino Alberto Balducci, Il destino di Olimpia e il motivo della “donna abbandonata”, in
«Italica», LXX (1993), 3, pp. 303-328.
38
Cfr. Cesare Segre, cit., p. 1342. A proposito del riferimento alle Amazzoni, è interessante notare
il richiamo di Ariosto ai fatti storici della propria contemporaneità. Durante i viaggi nelle
Americhe, infatti, si narra che gli esploratori europei si imbatterono in tribù di donne guerriere
molto simili a quelle del mito greco. Allo stesso modo, Astolfo, dopo aver ricevuto da Logistilla
una nave, e ascoltato da Andronica la profezia dei viaggi di Colombo e di Vasco di Gama, inizia
un pellegrinaggio avventuroso nel favoloso Oriente, giungendo, tra le tante tappe, alla città di
Alessandretta.
12
trascorsero alcuni giorni nello sconvolgimento dalle tradizionali grida, isterie e
maledizioni. In modo inedito, tuttavia, ben presto cominciarono anch’elle a
salvaguardare i propri interessi. Poiché si accorsero che «alcun profitto non
traeano» (XX, 22, 6) dal considerarsi perdute, non volendosi esaurire nelle
«infinite lacrime» (XX, 22, 5) degli esempi della classicità, decisero di sostenersi
a vicenda «e ad aver cura/ come aiutarsi in tanta lor sciagura» (XX, 22, 8).
Riunitesi in assemblea secondo la consuetudine degli uomini, ognuna di loro
propose alle compagne la propria soluzione. Qualcuna suggerì di tornare alle case
paterne e rimettersi al giudizio di coloro che avevano tradito; altre erano
rassegnate a vagabondare come mendicanti o come prostitute; altre perfino a
morire: «questi e simil partiti le infelici/ si proponean, ciascun più duro e grave»
(XX, 24, 5-6).
Tra tutte, si distinse la giovane Orontea, amante di Falanto e discendente del
saggio e severissimo Minosse. Decisa a rifuggire la sorte che già fu della figlia del
re cretese, la fanciulla diede prova di essere una più degna erede del mitico
legislatore. Grazie alla propria sapienza e al proprio acume, ella fu capace di
mostrare alle compagne la possibilità di un virtuoso riscatto dall’abbandono,
fondando una nuova prospettiva sull’indipendenza dall’uomo e sulla forte
solidarietà con le altre donne. Allora, il luogo dei «deserti liti e boschi fieri/ di
disagio e di fame […]» (XX, 23, 5-6), così come lo avevano percepito le
sventurate39, divenne terra dalla quale:
[…] a lei non parve torsi,
che conobbe feconda e d’aria sana,
e di limpidi fiumi aver discorsi,
di selve opaca, e la più parte piana;
con porti e foci, ove dal mar ricorsi
per ria fortuna avea la gente estrana,
ch’or d’Africa portava, ora d’Egitto
cose diverse e necessarie al vitto. (XX, 26)
Con spirito di iniziativa e grande intelletto, le parole di Orontea sembrano
indirizzare le donne cretesi verso la guarigione dal furor che le ha investite dopo il
tradimento. Fuori dalla cerchia di Didone e di coloro «che la ragion sommettono
al talento» (Inf., V, 39)40, la schiera femminile appare intenta a riorganizzare in
modo più ragionato e puntuale le proprie esistenze, un tempo sconvolte dai
tormenti amorosi. La connotazione tutta positiva del territorio, che da selvaggio e
fiero è riconosciuto in modo inedito come fertile e ospitale, è però subitamente
tradita dal particolare che rivela come solo una fortuna che sia «ria» possa
condurre dei forestieri a trovarvi rifugio.
Il racconto di Guidone torna, così, a quella ambientazione feroce apparsa
39
Similmente, Olimpia, dopo la fuga di Bireno, si era ritrovata in un luogo selvaggio e inospitale:
«Di disagio morrò; né che mi cuopra/ gli occhi sarà, né chi sepolcro dia,/ se forse in ventre lor non
me lo danno/ i lupi, ohimé, ch’in queste selve stanno» (X, 28, 5-8).
40
Dante Alighieri, cit., p. 143.
13
all’inizio dell’episodio. Da quel momento, infatti, la baia, da luogo di sventura
amorosa quale fu per le fanciulle di Dictea, diviene approdo di altrettanto martirio
per chiunque vi giunga. Se l’arrivo di viaggiatori stranieri è per le abitanti avvento
prospero di merci e vettovaglie, quello stesso attracco diventa per i nuovi
approdati l’inizio di una sentenza di morte. Poiché oltre che saggi, i propositi di
Orontea si scoprono essere anche infaustamente demoniaci, mostruosi come quelli
dell’antico Minosse. Al pari del quesitor virgiliano trasfigurato nella Commedia,
la cui prima apparizione rimanda al cerchio dei lussuriosi, anche la nobildonna
cretese, resa inumana dall’ira, «essamina […]/ giudica e manda» (Inf., V, 4-6)41 la
scelleratezza dei greci, vagliandone la gravità, stabilendone la colpa e
ordinandone la condanna42:
Qui parve a lei fermarsi, e far vendetta
del viril sesso che le avea sì offese:
vuol ch’ogni nave, che da venti astretta
a pigliar venga porto in suo paese,
a sacco, a sangue, a fuoco al fin si metta;
né de la vita a un sol si sia cortese.
Così fu detto e così fu concluso,
e fu fatta la legge e messa in uso. (XX, 27)
Incarnazione del leggendario legislatore, l’implacabile Orontea, «che diè lor
legge e si fe’ lor regina» (XX, 28, 4), delibera il contrappasso all’errore degli
amanti. Superato il furor amoroso, le femmine di Laiazzo solo apparentemente
mostrano di aver recuperato il proprio senno, giacché se giudizioso è il proposito
di salvarsi dalla rovina, efferata e contro natura è la vendetta ordita ai danni degli
uomini. Il primo segno dell’analogia tra la colpa dei giovani Elleni e la pena
infertagli sta nel progetto di fondare un nuovo stato femminile all’insegna del
tormento del viril sesso: come quelli, bramosi «di guadagno e di rapine» (XX, 21,
1) le oltraggiarono, «e se n’andar di lor ricchezze carchi/ là dove in Puglia in ripa
al mar poi sento/ ch’edificâr la terra di Tarento» (XX, 21, 6-8), così esse decidono
di costituire una città dove «faceano incendi orribili e rapina,/ uom non lasciando
vivo, che novella/ dar ne potesse o in questa parte o in quella» (XX, 28, 6-8).
Dal momento che le leggi della natura impediscono di perpetuare a pena
infernale la propria costituzione, che «di farla eterna era il disegno» (XX, 29, 8),
le donne sono costrette a riconoscere che sulla terra l’essere «aspre nimiche del
sesso virile» (XX, 29, 2) significa necessariamente procurarsi «’l proprio danno»
(XX, 29, 3). Se esse vorranno incarnare il desiderio di avere una discendenza,
infatti, saranno obbligate a relazionarsi con coloro che soli hanno la virtù di
assicurarla. Il bisogno di conservare lo statuto che sono riuscite a darsi le induce
allora ad accettare nella baia anche la presenza maschile. La misura del
contrappasso, tuttavia, continua a manifestarsi in tutta la sua mostruosità: affinché
41
42
Ivi, p. 138
Cfr. Anna Maria Chiavacci Leonardi, cit., p. 138.
14
siano certe di mantenere la supremazia del luogo, «esse in tutto eran cento; e
statuito/ ad ogni lor decina fu un marito» (XX, 30, 7-8).
La malvagia proporzione modifica il naturale rapporto dell’uno a uno,
sancendo che dieci uomini debbano sconfiggere in guerra cento donne, cento
come il numero iniziale delle fanciulle cretesi e dei rispettivi amanti, e che un solo
marito basti a soddisfare dieci mogli, dieci come quell’infelice amore che ebbe
solo «per dieci giorni stanza» (XX, 20, 1), e che infine le condusse alla follia. Nel
golfo di Alessandretta, ad abbattersi sul genere maschile non è l’odio irrazionale
che fu già della Medea incantatrice, ma un calcolo puntuale e ancor più feroce di
quello di cui si macchiarono i giovani greci. Una capacità di discernimento che,
smarrita la naturale reciprocità dei due sessi a causa dello strazio amoroso,
conduce le abitanti non al rinsavimento, ma alla piena cognizione della frode
ricevuta e alla furiosa vendetta.
La legge biblica del taglione punisce allo stesso modo in cui si è peccato43, per
questo le femmine del golfo riservano agli uomini l’iniquo trattamento che altrove
è assegnato loro. Dopo lo sbarco, Astolfo, Marfisa e gli altri iniziano
l’esplorazione del territorio:
E quindi van per mezzo la cittade,
e vi ritruovan le donzelle altiere,
succinte cavalcar per le contrade,
ed in piazza armeggiar come guerriere.
Né calciar quivi spron, né cinger spade,
né cosa d’arme puoi gli uomini avere,
se non dieci alla volta, per rispetto
de l’antiqua costuma ch’io v’ho detto. (XIX, 71)
Tutti gli altri alla spola, all’aco, al fuso,
al pettine ed all’aspo sono intenti,
con vesti feminil che vanno giuso
insin al piè, che gli fa molli e lenti.
Si tengono in catena alcuni ad uso
d’arar la terra o di guardar gli armenti.
Son pochi i maschi, e non son ben, per mille
femine, cento, fra cittadi e ville. (XIX, 72)
Nell’universo del Furioso, Laiazzo si configura come il corrispettivo
femminile dei tanti ordinamenti misogini che si incontrano lungo il poema, primo
tra tutti quello di Marganorre44. Del resto, è lo stesso Ariosto a suggerire l’idea di
quella che è stata definita come «utopia all’inverso»45, attraverso gli interrogativi
dei personaggi che si ritrovano per la prima volta di fronte allo strano spettacolo:
43
Cfr. Ivi, p. 854.
Cfr. Giorgio Barberi Squarotti, cit., pp. 49-80.
45
Marie-Françoise Piéjus, Le pays des femmes homicides: utopie et monde a l’envers, in
AleXandre Doroslaï, Jose Guidi, Marie-Françoise Piéjus, André Rochon, Espaces réels et espaces
imaginaires dans le Roland Furieux, Université de la Sorbonne nouvelle, Paris, 1991, pp. 87-127.
44
15
I cavallier domandano a Guidone,
com’ha sì pochi maschi il tenitoro;
e s’alle moglie hanno suggezione,
come esse l’han negli altri lochi a loro. (XX, 9, 1-4)
Già in occasione di quegli «altri lochi», inoltre, il poeta aveva sottolineato
come la sopraffazione tra i due sessi fosse affare tutto umano, non comune alle
altre creature della terra, e certamente frutto di una perversione quasi infernale46:
Tutti gli altri animai che sono in terra,/ o che vivon quieti e stanno in pace,/ o se vengono a
rissa e si fan guerra,/ alla femina il maschio non la face:/ l’orsa con l’orso al bosco sicura erra,/ la
leonessa appresso il leon giace;/ col lupo vive la lupa sicura,/ né la iuvenca ha del torel paura./
Ch’abominevol peste, che Megera/ è venuta a turbar gli umani petti?/ che si sente il marito e la
mogliera/ sempre garrir d’ingiuriosi detti,/ stracciar la faccia e far livida e nera,/ bagnar di pianto i
geniali letti;/ e non di pianto sol, ma alcuna volta/ di sangue gli ha bagnati l’ira stolta./ Parmi non
sol gran mal, ma che l’uom faccia/ contra natura e sia di Dio ribello,/ che s’induce a percuotere la
faccia/ di bella donna, o romperle un capello:/ ma chi le dà veneno, o chi le caccia/ l’alma del
corpo con laccio o coltello,/ ch’uomo sia quel non crederò in eterno,/ ma in vista umana uno spirto
de l’inferno. (V, 1-3)
Altrettanto mostruose di coloro la cui violenza non li rende degni di
appartenere al genere umano sono le femmine omicide. La loro folle ratio non si
arresta alla sottomissione dei forestieri che giungono nel luogo, poiché «acciò il
sesso viril non le soggioghi,/ uno ogni madre vuol la legge orrenda,/ che tenga
seco; gli altri, o li suffoghi,/ o fuor del regno li permuti o venda» (XX, 33, 1-4).
La diabolica disposizione47, orrenda come la «gran follia, sì orrenda» (XXIII, 133,
7) che sconvolgerà nel canto XXIII l’eroe eponimo, sovverte il naturale
sentimento che lega le madri ai figli, costituendosi come l’esatta perpetuazione
dell’antica violenza che fu già dei guerrieri di Troia, i quali costrinsero le proprie
mogli ad abbandonare la prole illegittima, considerata di minor valore di quanto
necessario per mantenerla. In ciò, la memoria di quanto accadde alla feroce
Clitemnestra, sposa di Agamennone e madre di Falanto nella leggenda di Ariosto,
archetipo femminile del rancore per l’allontanamento dai figli e per l’abbandono
dell’uomo.
La disumana legge, le cui più accanite sostenitrici si ritrovano ironicamente in
chi «d’anni alla Cumea d’Apollo/ potè uguagliarsi e alla madre d’Ettorre» (XIX,
66, 1-2), è fatta discendere da un remotissimo tempo antico, per il quale il poeta,
almeno in materia di donne, mostra di non provare nostalgia48. Come testimonia
Guidone, «appresso a due mila anni il costume empio/ si è mantenuto, e si
mantiene ancora» (XX, 60, 1-2). Da allora, le femmine di Laiazzo barattano come
merce i propri discendenti e «gli altri condannan con ugual sentenza» (XX, 34, 5),
46
Cfr. Andrea Gareffi, cit., p. 75.
Il costume di giacere con gli uomini una sola volta all’anno e di affogare i propri figli era già
delle Amazzoni. Cfr. Lanfranco Caretti, cit., p. 576.
48
Cfr. Andrea Gareffi, cit., p. 73.
47
16
decretandone ciecamente la morte a prescindere dalla loro colpevolezza. Tuttavia,
nel presente del poema, è proprio il richiamo all’arcaicità omerica a sancire, con
l’arrivo di Astolfo e degli altri cavalieri, la fine del macabro ordinamento e il
distacco dell’epoca moderna da un tempo di contrapposizione tra il maschile e il
femminile.
Nel lungo racconto del figlio illegittimo di Amone, Ariosto trova l’occasione
per inserire un elemento di modifica ai crudeli regolamenti della baia.
Protagonista dell’episodio è il giovane Elbanio, «la cui stirpe scendea dal buono
Alcide» (XX, 36, 3), ovvero dal valoroso Ercole, la cui leggenda si lega
all’impresa contro la regina delle Amazzoni Ippolita, e alla vendetta della sposa
Deianira per un sospettato tradimento.
La bellezza del fanciullo e le sue maniere colpiscono a tal punto Alessandra,
figlia dell’anziana Orontea, che la guerriera non sa difendersi dagli attacchi di
Amore, «e al fin dal suo prigion si trova presa» (XX, 39, 8). Nel richiamarsi alla
metafora bellica di ascendenza trobadorica, l’autore sottolinea ironicamente che il
giovinetto approda nel golfo quando la seconda generazione di donne è nel pieno
delle proprie forze, e imponendo la magra costituzione una sola «lima» per «diece
fucine» (XX, 38, 5-6), è costretta spesso a fare astinenza e a star «serrata».
Appellandosi alla pietà della bella principessa, il cortese cavaliere prega,
nonostante «fuor d’ogni ragion qui sono/ privi d’umanitade i cori umani» (XX,
41, 1-2), di poter morire combattendo, «e non come dannato per giudicio,/ o come
animal bruto in sacrificio» (XX, 41, 7-8).
Di fronte alle parole che più volte insistono sul carattere demoniaco del luogo,
Alessandra tenta con fierezza di difendere il proprio popolo, non permettendo
«che qui Medea/ ogni femina sia» (XX, 42, 5-6), così come Elbanio vorrebbe
descriverla. Ciò nonostante, in breve tempo ella finisce per arrendersi al suo
interlocutore, promettendo di intercedere per lui presso la madre. «Ma ben sarei di
tigre più arrabbiata», confessa all’amato, «e più duro avre’ il cor che di diamante,/
se non m’avesse tolto ogni durezza/ tua beltà, tuo valor, tua gentilezza» (XX, 43,
5-8). Il naturale bisogno amoroso avvia la città alla guarigione, così come l’affetto
genitoriale, negato nei confronti della prole maschile, ma ancor vivo verso le
figlie. Alla richiesta della principessa di salvare il prigioniero facendolo
combattere contro dieci uomini, la vecchia regina risponde con accondiscendenza,
sottoponendo la proposta alle compagne. Nel consueto momento assembleare,
tuttavia, «de le più antique una rispose» (XX, 49, 8).
Nella sequenza del discorso di Artemia (XX, 50-53), perfetto esempio di
compiutezza oratoria49, lo scontro tra passato e presente giunge all’acme. Se
l’anziana femmina, strenua fautrice dell’arcaico ordinamento e devota fedele
anche nello stesso nome alla dea protettrice della città50, dimostra con puntuali
49
Cfr. Giorgio Bárberi Squarotti, cit., pp. 34-36.
È lo stesso Ariosto a insistere sul significativo nome della vecchia cittadina, sottolineando alla
fine del discorso che «fu d’Artemia crudel questo il parere/ (così avea nome); e non mancò per lei
di far nel tempio Elbanio rimanere/ scannato inanzi agli spietatati déi» (XX, 54, 1-4). Artemia è
nome femminile di origine greca che veniva dato in onore della dea Artemide, alla quale vengono
50
17
argomentazioni l’inadeguatezza di una simile innovazione, le donne più giovani
non sembrano restie al cambiamento. A Orontea, «che compiacere/ volse alla
figlia» (XX, 54, 5-6) e che per questo presenta la prova di Elbanio come un
vantaggio per la sicurezza del golfo, la vecchia ricorda con orgoglio che le
capacità militari delle donne le hanno rese perfettamente autonome nella difesa
del luogo, aggiungendo: «così senza sapessimo far anco/ che non venisse il
propagarci a manco!» (XX, 50, 7-8). La proporzione di uno a dieci, infatti, è
l’unica secondo Artemia a consentire di non essere sottomesse dagli uomini,
garantendo nello stesso tempo la procreazione e facendo sì che «la lor prodezza
sol ne vaglia in questo,/ e sieno ignavi e inutili nel resto» (XX, 51, 7-8). Infatti,
sentenzia saggiamente la veterana: «Non è la via di dominar, se vuoi/ por l’arme
in mano a chi può più di noi» (XX, 52, 7-8). L’intervento si conclude con
un’ultima provocazione: se pure un solo guerriero fosse tanto forte da
sconfiggerne dieci, non solo rappresenterebbe un pericolo per la comunità, ma
certamente non potrebbe giacere con le corrispettive cento donne. Che Elbanio,
dunque, rimanga «scannato inanzi agli spietati dèi» (XX, 54, 4).
Nonostante il ragionamento impeccabile e le dimostrazioni numeriche, la
logica sottesa all’esposizione della femmina appassita si palesa di delirio contro
natura già nel vagheggiamento d’esordio, quando ella fantastica una riproduzione
tutta al femminile. A determinare la sua sconfitta, del resto, è soprattutto
l’insufficienza di ciò che nel discorso si è presentato come necessità politica51.
L’infertile rapporto matematico, infatti, non solo pecca nel calcolo
dell’appagamento fisico delle cittadine, cadute in una inevitabile astinenza, ma si
dimostra errato anche nella valutazione delle capacità militari delle donne, in
grado di fronteggiare, come palesa la figura di Marfisa, un numero ben superiore a
quello di dieci a cento. Un fatale cortocircuito avvia allora in poche ottave
l’episodio alla conclusione.
Racconta Guidone-Ariosto «che ‘l parer de le vecchie andò da canto» (XX, 55,
5), non tanto per l’insufficienza oratoria di Orontea, quanto soprattutto per la
speranza delle giovani di poter giacere con il bellissimo Elbanio. Questo, del
resto, contro le aspettative di coloro che lo avrebbero voluto morto, si dimostra
all’altezza della propria fama sia nella prova contro i cavalieri, sia nell’attesissima
nottata con le dieci concubine, questo il numero infine stabilito delle fortunate
prescelte.
Un boccaccesco desiderio amoroso, una naturale disposizione all’alterità
finisce per mettere in crisi il dissennato tentativo di isolare i due sessi. La morale
che chiude l’episodio appare vicina a quella dell’apologo raccontato in prima
persona dall’autore del Decameron, quando egli per difendere il favore accordato
sacrificati gli uomini «nel tempio orrendo ch’Orontea avea fatto,/ dove un altare alla Vendetta
eresse» (XX, 35, 5-6). Cfr. Cesare Segre, cit., p. 1344.
51
Così, nell’interpretazione di Squarotti, secondo il quale «Il discorso di Artemia precisa
ulteriormente la ragione di fondo dell’episodio dello Stato delle donne: la politica non ha nulla a
che fare con la morale e tanto meno con i sentimenti e neppure con il piacere sessuale». Giorgio
Bárberi Squarotti, cit., p. 34.
18
alle sue amatissime donne narra del vano tentativo di Filippo Balducci,
ugualmente straziato dalla propria esperienza sentimentale, di allontanare il
figlioletto dalle attraenti «papere»52. D’altra parte, nella riproposizione ariostesca
di quel furor amoroso già tratteggiato nell’Inferno dei lussuriosi, sono coloro che
dimostrano di rifuggire il piacere carnale a essere rappresentati, infine, al
contrario dei peccatori danteschi, come quelli «che la ragion sommettono al
talento» (Inf., V, 39)53.
L’epilogo definitivo della vicenda delle femmine omicide vede Marfisa e i suoi
compagni trascinati in una caotica fuga. Pur nei sui sviluppi cronologici, infatti,
l’arcaico ordinamento conserva ancora l’originaria ferocia, tanto che Guidone,
odierno vincitore della prova di Elbanio, preferirebbe la morte alla permanenza
nel golfo. Nel regnare sulla città e nel godere delle sue abitanti egli è certo di
rimanere comunque un eterno prigioniero:
che piaceri amorosi e riso e gioco,
che suole amar ciascun de la mia etade,
le purpure e le gemme e l’aver loco
inanzi agli altri ne la sua cittade,
potuto hanno, per Dio, mai giovar poco
all’uom che privo sia di libertade:
e ‘l non poter mai più di qui levarmi,
servitù grave e intolerabil parmi. (XX, 62)
Il lungo racconto del cavaliere si conclude nella commozione degli astanti. Se
di fronte all’iniziale ragguaglio del capitano, «non poté udire Astolfo senza risa/
de la vicina terra il rito strano» (XIX, 59, 1-2), le parole del cugino riconducono
l’episodio alle sue più dolorose implicazioni. Nella consueta alternanza di accordi,
i toni si fanno ora più gravi. Guidone sa bene che la follia omicida della baia non
ammette eccezioni: «se vive sa ch’Astolfo schiavo resta,/ né il termine è più là che
‘l dì seguente;/ se fia libero Astolfo, ne more esso:/ sì che ‘l ben d’uno è il mal de
l’altro espresso» (XX, 66, 5-8). All’ironica leggerezza d’esordio si contrappone la
pesante prigionia del presente, mentre le «risa» del duca divengono antinomiche
«lagrime»: «[…] – Io sono il duca inglese,/ il tuo cugino Astolfo; - et
abbracciollo,/ e con atto amorevole e cortese,/ non senza sparger lagrime,
baciollo» (XX, 66, 1-4). Come un tempo la cruda legge venne fiaccata dalla pietà
di «Alessandra gentil» (XX, 42, 1), pronta a sacrificare la sua stessa vita per la
«beltà», il «valor» e la «gentilezza» di Elbanio, allo stesso modo «[…] avea
l’acerba etade,/ la cortesia e il valor del giovinetto/ d’amore intenerito e di
pietade/ tanto a Marfisa et ai compagni il petto,/ che, con morte di lui lor
libertade/ esser dovendo, avean quasi a dispetto» (XX, 69, 1-6).
Nell’universo ariostesco la gentilezza e la pietà non sono virtù solamente
donnesche, così come l’ardore militare non contraddistingue solo il viril sesso. Di
fronte all’infernale condanna, Marfisa incita i compagni alla ribellione, e se il
52
53
Giovanni Boccaccio, Decameron, a cura di Vittore Branca, Einaudi, Torino, 2009, pp. 465.
Dante Alighieri, cit., p. 144.
19
perduto Guidone le ripete dantescamente: «lascia ogni speme/ di mai più uscirne»
(XX, 70, 3-4), la magnanima guerriera riconduce i presenti verso prospettive più
terrestri, soggiungendo: «- il mio cor mai non teme/ di non dar fine a cosa che
cominci» (XX, 70, 5-6).
È il valore umano, secondo la gemella di Ruggiero, la forza che può liberare i
cavalieri dal luogo dannato, fossero pure le femmine di Laiazzo in numero
maggiore di qualunque schiera mortale si menzioni nella storia o addirittura
nell’eterno aldilà: «– E molto più sieno elle/ degli uomini che Serse ebbe già
intorno,/ e sieno più de l’anime ribelle/ ch’uscir del ciel con lor perpetuo scorno»
(XX, 73, 1-4). Di fronte alla nuova sfida, Marfisa si dimostra ancora impavida e
temeraria. A renderla tale è soprattutto l’onore di combattere accanto al cavaliere
che le scellerate abitanti le hanno imposto come nemico, e che ella, al contrario,
ha riconosciuto come figura di grande abilità: «s’io son teco», gli assicura la
donzella, «ardisco ad ogn’impresa» (XX, 71, 2), ribadendo quanto per ella la
cortesia e l’audacia siano virtù universali al di là di qualsiasi distinzione di sesso:
S’io ci fossi per donna conosciuta,
so ch’avrei da le donne onore e pregio;
e volentieri io ci sarei tenuta
e tra le prime forse del collegio:
ma con costoro essendoci venuta,
non ci vo’ d’essi aver più privilegio.
Troppo error fôra ch’io mi stessi o andassi
libera, e gli altri in servitù lasciassi. (XX, 78)
Tuttavia, ancora una volta, le capacità personali non sembrano sufficienti a
fronteggiare le mostruosità che eccedono l’ordine naturale del mondo. La follia
numerica che contraddistingue la città, la stessa che condanna
indiscriminatamente tutti i forestieri ma che non volendo che «secondo il primerio
uso/ le femine gli uccidano in confuso» (XX, 34, 7-8) impone la perversa ratio di
eliminarne uno al giorno, fa sì che l’eroismo di pochi sia comunque impotente di
fronte alle migliaia di guerriere che popolano il luogo. Per fuggire dal golfo,
assicura il figlio di Amone, è necessario innanzitutto ricorrere all’aiuto di una
delle femmine che lo abitano. Aleria, moglie del prigioniero, è pronta a tradire le
compagne per sottrarsi, nuova Isifile contro il furor di Lemno, all’orrenda
disposizione. Se, dunque, Marfisa rifiuta di avvalersi della frode, «vo’ uscir di
giorno, e sol per forza d’arme;/ che per ogn’altro modo obbrobrio parme» (XX,
77, 7-8), è la difformità del luogo a imporle presto di ravvedersi.
All’alba, quando «dal duro volto de la terra il sole/ non tollea ancora il velo
oscuro e atro» (XX, 82, 1-2), la disumana turba, sacra alla dea sorella di Apollo, si
riversa nel teatro per assistere al duello rimasto in sospeso. Tuttavia, non appena il
piano dei forestieri è intuito, esplode lo scompiglio. Seppure i cavalieri «e sopra
tutti lor Marfisa forte,/ al menar de le man non furon tardi» (XX, 86, 2-3), la
sproporzione del numero è tale da non permettere che l’impresa sia portata a
termine. È a questo punto che, nella zuffa convulsa, Astolfo pensa bene di
20
risolvere la situazione con l’ausilio del corno incantato. Al folle costume delle
femmine omicide l’intelletto umano può contrapporre, come accadrà per la pazzia
di Orlando, solo il miracolo della magia. L’orribile suono emesso da colui che
«aiutar ne le fortune estreme/ sempre si suol» (XX, 88, 1-2) esaurisce l’episodio
nella fuga confusa54. Donne e cavalieri corrono all’impazzata senza meta,
tentando di allontanarsi dal tremendo rumore. L’erranza del loro movimento si
sparge in ogni direzione: «di qua di là, di su di giù smarrita/ surge la turba, e di
fuggir procaccia» (XX, 90, 1-2).
Anche Marfisa, Guidon Selvaggio e i due figli di Oliviero «in fuga or se ne van
senza coraggio,/ come conigli, o timidi colombi/ a cui vicino alto rumor
rimbombi» (XX, 92, 6-8). Nella frenetica evasione verso il mare, i quattro
cavalieri raggiungono il legno fatto preparare da Aleria, nuova Arianna che
conduce l’amato all’uscita dalla propria ingegnosa e labirintica città: «quindi, poi
ch’in gran fretta li raccolse,/ diè i remi all’acqua et ogni vela sciolse» (XX, 95, 78).
I versi conclusivi evocano con efficacia il ritmo precipitoso con cui termina lo
sfortunato incontro, fino allo sciogliersi liberatorio delle vele: l’impossibilità di
lasciare le simmetriche quanto mostruose contrade del golfo percorrendo il filo
dell’intricato ordinamento delle donne cretesi risolve l’enigma nel prodigio del
volo. L’ironia leggera torna ad allentare la trama, e mentre il duca inglese «leva
più gli occhi, e in alto a vele piene/ da sé lontani andar li vede a volo»55 (XX, 97,
5-6), i guerrieri, con lo sguardo basso dalla vergogna, prendono il largo «da la
crudele e sanguinosa spiaggia» (XX, 99, 2).
Seppur senza eroismo, la singolare vicenda di Alessandretta è ormai alle spalle.
«Con propizio et immutabil vento» (XX, 100, 5), il nocchiero, rivolgendo un
pensiero alle forze soprannaturali che governano l’esistenza degli uomini, «Dio
ringraziando che ‘l pelago corse/ senza più danno, il noto lito piglia» (XX, 101, 34). La nave è condotta dal poeta verso lidi più sicuri, riportata sulle natie coste
della Francia. Il nuovo approdo trova luogo a Marsiglia, feudo felice governato da
Bradamante. Se in quel momento la guerriera cortese vi abitasse, contrariamente
alle femmine feroci, ella, benigna, offrirebbe ospitalità nella sua terra.
Se lo spirito artistico è ciò che eleva l’uomo dalla condizione di bruto, allora
simile disposizione intellettiva diventa anche la via al ricongiungimento dei due
sessi. Nel canto quarantaduesimo, gli interni del palazzo del Nappo ne
concretizzano l’idea in un tripudio creativo che è insieme poetico, scultoreo e
54
Il rapido caos in cui degenera la situazione è evocato, in particolare, dalla ripetizione incalzante
del verbo fuggire, fino al cessare del suono spaventoso: «fuga» (XX, 88, 6 ); «fuggia» (XX, 89, 8);
«fuggir» (XX, 90, 2); «in fuga» (XX, 91, 4); «in fuga» (XX, 92, 6); «fuggon»(XX, 93, 4);
«fuggendo»(XX, 93, 5); «fuggir»(XX, 94, 4); «fuggiano»(XX, 95, 3); «fuggiano»(XX, 95, 4);
«fugge»(XX, 96, 4).
55
La leggerezza di cui ancora una volta si caratterizza Astolfo è efficacemente condensata nei
termini numerosi che, in soli due versi, comunicano la sensazione di un innalzamento dalla
pesantezza terrestre: «leva», «in alto», «vele piene», «lontani», «a volo». Come il duca inglese,
anche i lettori, superato l’inestricabile episodio, sono indotti a seguire con lo sguardo i personaggi
che si allontanano liberi.
21
della pittura. La scena è illuminata da valletti che accorrono con torchi accesi e
fanno «intorno chiaro» (XLII, 73, 4). Mentre le abitanti di Laiazzo, abbrutite
dall’odio, non sanno più apprezzare alcuna forma d’arte, in quel loro teatro che
sorge nella piazza centrale e «che solamente a giostre, a simil guerra,/ a caccie, a
lotte, e non ad altro s’usa» (XIX, 76, 3-4)56, sullo sfondo di oro e zaffiri che
incornicia la magnifica fonte di un «mastro diligente e dotto» (XLII, 79, 1), il
quale certamente si ispirò a quella che «fe’ il cavallo alato uscir del monte,/ non
so se di Parnasso o d’Elicona» (XLII, 91, 3-4), le statue dei più illustri poeti della
modernità, quali il Bembo, il Castiglione, il Tebaldeo, offrono sostegno alle icone
di altrettanto celebri nobildonne del tempo, come Lucrezia Borgia, Isabella
d’Este, Elisabetta Gonzaga, alle quali lo scultore ha affidato il fondamentale
compito di sorreggere la volta del cielo57. Ignoti pilastri del padiglione marmoreo
appaiono anche una sublime donna vestita in nero e un individuo solitario
dall’umile atteggiamento.
Nel consueto sdoppiamento del poeta tra l’essere demiurgo e il farsi
personaggio della sua stessa finzione, Ariosto si ricongiunge all’amata, che pure
lo ha fatto quasi impazzire, portando a compimento il monumento poetico che
rappresenta quanto egli a lungo ha auspicato per le sue care donne: «se le carte sin
qui state e gl’inchiostri/ per voi non sono, or sono a tempi nostri» (XXXVII, 7, 78).
56
Il desolante scenario richiama certo per contrasto l’attività teatrale della Ferrara ariostesca:
«Ariosto ha avuto un’educazione teatrale molto ricca. I festival plautini di Ferrara, tutte quelle
rappresentazioni che ogni anno, specialmente di carnevale, infervoravano la corte […]. Ferrara,
[…], era la miglior scuola per vedere e fare teatro. E in questo Ariosto compì i suoi primi e ultimi
prodigi lungo il corso di tutta la sua vita. Il teatro lo accompagnò anche prima che fosse pensato il
Furioso […]». A. Gareffi, Introduzione a L. Ariosto, Commedie, UTET, Torino, 2007, pp. 16-17.
57
«Che il libro sia dedicato alle Donne, alle donne cortesi, e in primo luogo ad Isabella (d’Este), lo
dice la posizione incipitaria del vocabolo, il quale riemerge in molte e variate occorrenze,
frequentemente associate ai “cavalieri” o alle “armi”, e altrettanto spesso invocate in apertura di
canto». Corrado Bologna, cit., p. 193.
22
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24