Salute mentale e stress da lavoro

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Salute mentale e stress da lavoro
■ Rubrica: Lavoro e salute
Salute mentale e stress da lavoro
Irene Figà-Talamanca*
Premessa
L’Organizzazione Mondiale della Sanità già nel 1986 ha definito la salute come uno
stato di benessere fisico, mentale e sociale, e non la mera assenza di malattia. Questa
definizione che vede gli esseri umani in una prospettiva olistica non è nuova nella civiltà occidentale: già nella Grecia antica il legame tra salute del corpo e della mente
era espresso nel noto detto, ripreso dal greco, che in latino suona «mens sana in corpore sano». Eppure quando parliamo di salute, spesso ci riferiamo alla salute fisica. Anche la medicina moderna e la ricerca scientifica, nonostante i passi da gigante nella
diagnosi e nella cura delle malattie del corpo, ha ancora molta strada da fare nel campo delle malattie mentali.
La salute mentale
Cosa si intende per «salute mentale»? Certo nessuno può dire di avere una «perfetta» salute mentale. Infatti, lo stato di salute mentale è soggettivo, variabile e influenzato costantemente da fattori interni ed esterni all’individuo. Il lavoro è sicuramente uno dei principali determinanti dello stato di salute mentale. Infatti, la
«buona» salute mentale, implica che l’individuo abbia l’opportunità di realizzare le
sue aspettative e capacità, di lavorare in modo produttivo e soddisfacente e di contribuire alla sua comunità. In mancanza di queste condizioni, ed in mancanza di sostegno, l’individuo può perdere progressivamente la capacità di affrontare lo stress e
le difficoltà della vita e può sviluppare sintomi di sofferenza mentale. Quindi non esiste uno stato chiaramente «positivo» o «negativo» di salute mentale, ma piuttosto uno
spettro che varia dal massimo «benessere» al massimo «malessere», fino a manifestazioni chiaramente patologiche.
La prevalenza di disturbi mentali è molto elevata e in continuo aumento. Nell’ultimo documento dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, in occasione della
«Giornata Mondiale della Salute Mentale» (10 ottobre 2012), è stimato che le persone sofferenti di disturbi mentali nel mondo sono oggi oltre 350 milioni. Nel 2020
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la malattia mentale diventerà la seconda più importante causa di disabilità. Studi recenti condotti in Italia hanno mostrato che la prevalenza di disturbi mentali nella popolazione adulta è, come minimo, vicino al 8%. Solo il 17% di questi pazienti si rivolgono ad un servizio sanitario, principalmente per motivi di disinformazione. I dati,
inoltre, mostrano che gli anziani, le donne, i disoccupati e i disabili hanno un maggiore rischio di soffrire di disturbi psichici.
Le malattie mentali hanno un altissimo costo sociale. Oltre il carico di sofferenza
per il malato stesso e per la sua famiglia, esse determinano spesso disabilità permanenti, ricoveri ripetuti in ospedale o in strutture protette, reclusione in penitenziari,
uso di sostanze, con enormi conseguenze sociali, e morte prematura per suicidio o per
altre cause correlate (es. alcolismo, incidenti, violenza). A questi costi si devono aggiungere i costi economici. Ad esempio, in Italia, nel periodo dal 2000 al 2011, le dosi prescritte e distribuite di antidepressivi sono aumentate del 340%.
Eppure le risorse per la cura e la prevenzione di queste malattie sono estremamente
limitate, specialmente nei paesi più poveri, in due terzi dei quali non esiste nessun tipo di previdenza per i malati mentali. Nei paesi occidentali è stato calcolato che la
spesa per la diagnosi e la cura di queste malattie è alta: gli Usa, per esempio, spendono
16 mld di dollari annui per le cure, di cui la maggior parte psicofarmaci. In Europa,
si stima che il costo sia diretto (diagnosi, cura, riabilitazione), che indiretto (perdita
di giorni lavorativi, pensioni ecc.), della depressione e della demenza ammonti a 100
mld l’anno. In Italia, questa spesa è vicina a 14 mld l’anno.
In tutti i paesi europei si osserva, negli ultimi anni, un aumento di assenteismo,
di perdita del lavoro e di disabilità causata problemi mentali. Nel Regno Unito, per
esempio, nel 2007 il 40% delle pensioni di disabilità erano associate a malattie mentali. In alcuni paesi dell’Unione Europea, la frequenza della depressione ha superato
quella delle malattie occupazionali muscolo-scheletriche. Questo indica anche il fatto che la depressione stia diventando la prima causa di assenteismo, di abbandono del
lavoro e di pensionamento anticipato.
Tra i fattori che, probabilmente, contribuiscono a questo aumento di problemi legati alla salute mentale, ci sono i recenti cambiamenti del mercato del lavoro (contratti precari e facili licenziamenti) e l’incremento dei carichi di lavoro. Anche l’invecchiamento e la femminilizzazione della forza lavoro contribuiscono ad aumentare
la frequenza di disturbi mentali nella popolazione lavorativa. Infatti, è noto che questi disturbi aumentino con l’età e che siano più comuni tra le donne.
Qual è il rapporto tra stress lavorativo e salute mentale?
Dai dati sopra citati si deduce che le malattie mentali incidono molto sulla produttività e sul costo del lavoro, ma il discorso deve anche essere rovesciato: quale è il
Ricerche recenti nei paesi della Comunità Europea mettono in evidenza come lo
stress legato alla attività lavorativa sia un problema di salute largamente diffuso fino
ad occupare il secondo posto fra quelli più indicati dai lavoratori. Secondo queste ricerche, la condizione di stress interessa circa il 22% dei lavoratori in Europa. In Italia, secondo l’«European Foundation for the Improvement of Living and Working
Condition», il valore si attesta al 27%, poco al di sopra della media europea.
In una recente ricerca nel settore dell’industria agroalimentare, condotta dalla Fondazione Metes, è emerso che quasi la metà delle lavoratrici ha accusato disturbi dovuti allo stress lavorativo causato da ripetitività, ritmi elevati e problemi organizzativi del lavoro. In molte delle ricerche risulta che lo stress lavorativo è molto più sentito
dalle donne che dagli uomini e questo è attribuito sia al doppio carico (lavoro e famiglia) che grava sulle donne sia al fatto che le donne spesso sono addette ai compiti meno qualificati, più monotoni e ripetitivi e quindi più stressanti.
Per queste ragioni, i rischi psicosociali e, più specificatamente, lo stress lavorativo
devono essere considerati a tutti gli effetti rischi lavorativi che vanno rilevati e valutati insieme agli altri rischi quando si effettua la valutazione degli ambienti di lavoro. Infatti, la normativa sulla tutela della salute dei lavoratori, anche in Italia, dal 2008
prevede la valutazione del rischio psicosociale, in particolare lo stress lavorativo.
La Comunità Europea, attraverso l’Osha (Occupational Safety and Health Agency),
considera la promozione della salute mentale nei luoghi di lavoro una priorità. Infatti,
nel 2009 l’Osha ha condotto una campagna di ricognizione della situazione dello stress
lavorativo e della sua prevenzione nei paesi membri. Sono state così raccolte una serie di buone pratiche messe in atto da varie aziende che hanno cercato di ridurre lo
stress lavorativo e di promuovere la salute mentale.
Alcune di queste esperienze, riportate in un rapporto dell’Eu/Osha, sono particolarmente innovative: un’azienda danese per esempio, aveva come obiettivo quello di
creare La fabbrica da sogno per creare un’atmosfera amichevole per tutti i lavoratori,
senza distinzione di età, genere, religione e mansione e dove ai reclutati erano asse-
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ruolo del lavoro sulla salute mentale? Senza nessun dubbio l’ambiente di lavoro (fisico e, soprattutto, psicologico e sociale) ricopre un ruolo di grande importanza per
il mantenimento e la promozione della salute mentale. Il lavoro in sé è benefico per
la salute mentale perché aumenta la stima di sé, il senso di appartenenza, lo status dell’individuo e la sua autonomia. Ma il lavoro può anche esporre a rischi psicologici e
sociali come lo stress da troppa responsabilità, da troppo carico, da conflitti con i superiori e/o colleghi, da insicurezza (ecc.), causando ansietà, depressione, disaffezione
e «burnout». In questo modo si istaura un circolo vizioso che porta all’aumento dell’assenteismo, alla riduzione della produttività, a errori, alla perdita di motivazione e
di interesse e a tensioni nelle relazioni interpersonali.
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gnati compiti adatti ad ognuno di loro secondo le caratteristiche personali, attitudini e mentalità: cioè adattando il compito al lavoratore, piuttosto che il lavoratore al
compito.
Altre strategie innovative censite dall’Osha erano quelle di offrire alcuni servizi (anche finanziari) ai famigliari dei dipendenti, di formazione permanente nell’orario del
lavoro, di rimborso parziale per le spese di cura e assistenza ai figli dei dipendenti,
la promozione degli interessi culturali e sportivi dei lavoratori, dell’assegnazione di
un «tutor» ai lavoratori nuovi, di controlli medici e di programmi di promozione della salute per ridurre i rischi da stili di vita errati (fumo, alcool, alimentazione), ecc.
Alcune di queste esperienze «innovative», ricordano esperienze simili vissute in Italia negli anni ’70 ispirate e attuate dal movimento sindacale di quell’epoca che aveva messo la salute al centro delle sue lotte. Esempi erano la diretta partecipazione dei
lavoratori alla valutazione dei rischi lavorativi attraverso i «gruppi omogenei», il diritto di informazione e formazione (ad esempio le 150 ore contrattuali), gli asili nido aziendali, la tutela della donna in gravidanza, ecc. Alcune di queste conquiste sono poi state incorporate nella legislazione italiana (vedi lo Statuto dei Lavoratori).
Passato tuttavia l’entusiasmo del movimento sindacale e con l’arrivo di successive crisi economiche, molte di queste «innovazioni» di allora sono state applicate sempre
più raramente. In compenso, il nuovo quadro legislativo della tutela della salute dei
lavoratori, entrato in vigore nel 1994, fornisce una completa struttura normativa e
organizzativa che, almeno teoricamente, consente di applicare le regole e gli standard
necessari per tutelare la salute dei lavoratori, compresa la salute mentale.
Valutazione e prevenzione dello stress lavorativo
per la promozione della salute mentale
L’attuale normativa, che segue la normativa Eu, concerne specificatamente lo stress
lavorativo: il Decreto Legislativo 81/2008, nel suo articolo 28, prevede la valutazione e gestione dello stress lavoro-correlato. Inoltre, lo stress lavorativo è menzionato
in altri articoli per la tutela specifica delle donne, anziani e lavoratori stranieri, soggetti più vulnerabili allo stress. Il Governo ha successivamente emanato le linee guida per l’applicazione pratica della legge che attualmente è in vigore.
La valutazione dello stress lavorativo richiede metodi e strumenti diversi dai tradizionali mezzi di rilevazione finora usati per gli ambienti di lavoro (es. misurazione
degli inquinanti, controllo impianti, ecc.).
Nella prassi attuale il rischio «stress lavorativo», quando rilevato segue il seguente
schema:
1. Un’analisi documentale per acquisire notizie dell’organizzazione del lavoro (organigramma, flussi produttivi, flussi comunicativi, gestione risorse umane, ecc.).
La corretta attuazione di questa procedura richiede ovviamente, prima di tutto, la
formazione di tutti gli attori coinvolti: tecnici, dirigenti aziendali, addetti alla sicurezza, e lavoratori. Per ora, l’applicazione della normativa sulla valutazione dello stress
è stata applicata a poche realtà lavorative. Il rischio da evitare, data la difficoltà di seguire la procedura valutativa correttamente e le carenze formative (anche dei tecnici
e degli altri addetti al lavoro), è che la valutazione del rischio finisca per essere una
formalità da sbrigare con qualche annotazione frettolosa e superficiale. D’altronde,
l’introduzione della obbligatorietà di questo tipo di valutazione ha il grande merito
di aver sollevato un interesse e una discussione su un rischio lavorativo finora trascurato, con alti costi individuali e collettivi.
È da augurarsi che, con il tempo e con la crescita della cultura della sicurezza sul
lavoro, la valutazione e, soprattutto, la prevenzione dello stress lavorativo, facciano sempre più parte integrante delle buone pratiche del lavoro.
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2. La raccolta di indicatori aziendali di stress lavoro-correlabili (assenze per malattia, infortuni, turn-over, richieste cambio mansione, ecc.) e informazioni sulla gestione della salute e sicurezza (verbali riunioni, visite periodiche, piani di intervento
annuali/pluriennali, relazioni biostatistiche annuali).
3. Valutazione oggettiva tramite metodi di osservazione diretta del lavoro o/e attraverso check-list o altri strumenti adatti. L’analisi oggettiva permetterà anche di identificare gruppi omogenei di lavoratori ovvero partizioni organizzative aventi caratteristiche comuni in merito ai fattori di rischio organizzativo.
4. Valutazione soggettiva tramite l’analisi della percezione dei lavoratori dello stress
lavoro-correlato sui gruppi omogenei, attraverso strumenti di valutazione delle dimensioni lavorative critiche percepite, delle risorse individuali/di gruppo fruibili e
dei disturbi psicofisici stress lavoro-correlati (disturbi psichici, disturbi somatici).
5. Una relazione conclusiva con l’analisi dei dati e la definizione dei livelli di rischio
a cui collegare gli interventi preventivi/protettivi sullo stress lavoro-correlato, che
diventa parte integrante del documento generale di valutazione dei rischi. Quindi, sulla base dei dati raccolti, e sulla base dell’analisi degli stessi si identificheranno
indicatori sintetici di livello di rischio (del tipo basso-medio-alto) a livello aziendale o per partizione o di gruppo omogeneo.
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