relazione gioco in chiave metacognitiva

Transcript

relazione gioco in chiave metacognitiva
IL GIOCO IN CHIAVE META COGNITIVA
Sticca Marina ([email protected])
Sistema Multiproposta
E’ lecito domandarsi quali possano essere le chiavi di lettura di due elementi, il gioco e la
metacognizione che, nel pensiero comune, sembrano non avere nulla da condividere. Il gioco,
inteso come momento di svago, liberatorio, spensierato, gioioso; la metacognizione, un approccio
cognitivo, riflessivo, serioso, programmato, rigido.
Invece sono proprio questi aspetti i punti di forza che valorizzano questo connubio: il modo
spontaneo, la motivazione, la gioiosità con cui il bambino si accosta al gioco danno alla
metacognizione una valenza di fruibilità e quotidianità nuova e forniscono un terreno fertile per un
intervento educativo, così come una lettura metacognitiva del gioco riconosce a questa attività un
diverso valore come strumento di apprendimento.
Attori di questo incontro gioco/metacognizione sono il bambino e l'insegnante. Il bambino,
all'interno di questa relazione educativa, è libero da preoccupazioni di prestazione e valutazione e
l'insegnante ha un ruolo diverso, di mediatore tra il bambino e l'attività per rendere "visibili" quegli
elementi e quei percorsi mentali funzionali allo svolgimento del gioco.
Prima di addentrarsi nella descrizione degli aspetti metodologici è importate soffermarsi
sull’atteggiamento dell’adulto. La pratica metacognitiva educa l’adulto ancor prima del bambino, lo
porta a riflettere sulla natura dell’apprendimento e a “capire” cosa andrà a insegnare.
Quindi, nel proporre un gioco, compito dell’insegnante sarà analizzare quel gioco, ricercarne e
individuarne la “logica”, la struttura cognitiva, solo così potrà guidare il bambino “dentro” quella
logica e far emergere i giusti processi.
Spesso l’adulto, soprattutto per quel riguarda i giochi, si affida alla propria esperienza, che è una
buona maestra, ma non è sufficiente quando si lavora con la mente del bambino, in un momento
evolutivo così importante e con obiettivi alti. Inoltre, i giochi, soprattutto quelli in commercio, sono
ingannevoli per l’adulto nell’indicare il contenuto di apprendimento e confusivi per il bambino per
la molteplicità degli stimoli che propongono.
Se analizziamo dei giochi, vediamo che ogni gioco è diverso da un altro perché ha una propria
dinamica, richiede particolari azioni e ragionamenti che ne sostengono e identificano lo
svolgimento. Individuando e potenziando questi processi si “insegna” a giocare.
Se osserviamo i comportamenti dei bambini mentre giocano possiamo comprendere che spesso
partecipano allo stesso gioco pur con livelli di competenza diversi.
Analizziamo ad esempio un gioco di società strutturato come il “Memory” che ha come richiesta
quella di trovare due immagini uguali tra tante capovolte. A questo gioco si può partecipare
semplicemente confrontando le immagini per trovare quelle uguali, aspettando il proprio turno,
riconoscendo la fine e l’inizio del gioco e associando la vittoria alla quantità di tesserine vinte. In
questo modo il bambino esercita si, delle funzioni cognitive e dimostra di possedere delle
competenze procedurali, ma il suo è un apprendimento di tipo associativo, addizionale, più legato
agli aspetti figurativi e superficiali dell’informazione. La motivazione è centrata nella finalità di
ogni singola azione e la partecipazione emotiva va di pari passo col procedere del gioco.
Ben diversa è la partecipazione quando il confronto avviene per immagini mentali, confrontando ad
esempio tesserine non percettivamente presenti e quando, in base all’evoluzione del gioco e del
confronto, vengono messe in atto una serie di funzioni cognitive: indirizzare la memoria e
l’attenzione per ricordare il posto delle tesserine girate dagli altri, modificare le ipotesi in base alle
mosse dei compagni, ri-pianificare le azioni abbandonando strategie precedenti, prefigurarsi il gioco
prevedendo le probabilità di vittoria. In questo caso è presente un processo di astrazione che mette
in relazione stimoli e azioni di risposta e c’è una concettualizzazione delle procedure e una
trasformazione delle rappresentazioni precedenti: vi è una visione complessiva e strutturale del
gioco e la comprensione della logica diventa strumento di indagine. La motivazione nasce
dall’interesse per il gioco e dalla consapevolezza del controllo esecutivo.
La logica non è presente solo nei giochi più concettuali, come gli scacchi, i giochi di ruolo, i giochi
di società, i giochi di carte, ma anche in quelli appartenenti alla cultura popolare, sino ai giochi
mimati dei più piccini.
Se si sta giocando a "Regina reginella", un conto è sapere la canzone, rispettare i turni, saper dire un
numero di passi per arrivare al castello, ben diverso è dire una "quantità" di passi "pensati" in base
alla lunghezza dei passi di ciascun animale mimato dai bambini e valutarne le diverse distanze dal
castello, saper "capire" i diversi gradi di coinvolgimento dei compagni e modularne la
partecipazione per mantenere l'equilibrio del gioco e poi, a volte, riuscire a far vincere il proprio
amico.
Un conto è conoscere le regole, un conto è "capirle". Capire le regole significa comprendere la
logica del gioco, il "perché" esistono quelle regole, e “come” utilizzarle. Le regole si possono
imparare anche per imitazione, la logica, invece, prevede processi di pensiero più profondi e
complessi.
Prendiamo ancora ad esempio, "Salta salta coniglietto", un gioco mimato che richiede di indovinare
in quale, tra le due mani chiuse a pugno, il compagno ha nascosto il "tesoro". Quanta "teoria della
mente" si può individuare nelle strategie messe in atto nel porgere le mani per ingannare il
compagno e non fargli trovare il tesoro! O viceversa per capire in quale mano si trova il “tesoro” e
diventare re!
La partecipazione, il piacere di giocare è legato al livello di comprensione del gioco, questo vale sia
per l’adulto che per il bambino. Chi “non sa” giocare, si stanca presto e abbandona il gioco, chi
“sa“ giocare non lascia il gioco, anche se perde, perché ne ha compreso la logica, sa dominarlo, trae
piacere dalla propria competenza, comprende che la vincita è conseguente non tanto alla fortuna
(motivazione estrinseca), quanto alla capacità di giocare (motivazione intrinseca) e sa che può
vincere, che ha gli strumenti per farlo. Mette in atto una sfida prima di tutto con se stesso.
Questi esempi di diverso approccio al gioco mi paiono utili per ancorare un discorso di didattica
metacognitiva ad esperienze che abbiamo tutti noi quotidianamente sotto i nostri occhi.
E’importante valorizzare l’esperienza ludica perché il giocare permette al bambino di vivere delle
esperienze percettive, concrete, attraverso cui conosce la realtà e riflette sulla logica che sta dentro
l’azione compiuta. Dunque bisogna giocare per poter esplicitare l’azione che si sta facendo, per
comprenderne le logica e poter esporre le regole. Il gioco non va “insegnato” prima di iniziare a
giocare (quante volte a noi stessi è capitato di arrenderci alle spiegazioni e dire “proviamo a
giocare”), ma va “giocato”.
Quindi, è attraverso il fare, il manipolare, il giocare, che il bambino passa da procedure di azioni a
procedure di pensiero, e questo lo fa verbalizzando: la verbalizzazione è il veicolo con il quale il
bambino si decentra dal suo agire e si rappresenta la procedura da seguire per fare quel gioco.
Questo passaggio non è spontaneo; il ruolo dell’adulto sarà proprio quello di aiutare il bambino a
passare da un livello procedurale implicito a uno esplicito, concettuale e decontestualizzato.
Durante lo svolgimento del gioco è compito dell’adulto mediare, guidare il bambino a soffermarsi
sulle proprie azioni concrete e mentali, fare verbalizzare quelle più significative per un
ragionamento efficace, far connettere un pensiero con l’altro, un’azione con l’altra, dandone
giustificazione.
La mediazione tra il gioco e il bambino avviene con una modalità induttiva: l’insegnante si pone
proprio in una posizione “di mezzo” tra il soggetto e l’oggetto della conoscenza e attraverso “buone
domande” sostiene l’osservazione, la ricerca sistematica delle informazioni, la precisione del
linguaggio, l’uso di conoscenze pregresse, il confronto di idee, fa esplicitare i processi, le
operazioni mentali, le ipotesi, fa giustificare le affermazioni, le scelte, guida all’astrazione delle
regole, alla consapevolezza dei concetti.
Durante il gioco, che per la sua carica emotiva, porta all’impulsività, al voler arrivare alla fine, al
traguardo, è quindi compito del mediatore favorire il linguaggio per cercare di rallentare
l’impulsività, l’azione immediata, la risposta più evidente e indurre il bambino a pensare all’azione,
ai suoi effetti, alle relazioni. Il bambino, verbalizzando, aumenta la sua riflessività, impara a mettere
in atto procedure di verifica, a controllare le proprie azioni e se stesso.
Sostenere l’esplicitazione aiuta a sviluppare un linguaggio interno (riflessione), che è strumento
essenziale per l’autoregolazione, poiché, per mezzo di un graduale processo di interiorizzazione
delle funzioni metacognitive necessarie all’apprendimento, il bambino diventerà autonomo,
prendendo progressivamente in carico il suo funzionamento cognitivo.
.
Spero che le riflessioni sin qui fatte diano delle indicazioni su come si può interpretare il gioco in
chiave metacognitiva e sulle modalità e sui contenuti di un percorso metodologico.
Si comprende come la mediazione metacognitiva sia contemporanea allo svolgersi del gioco stesso
e come vi sia un’alternanza tra attività e riflessioni metacognitive con lo scopo di stimolare nel
bambino la costruzione del proprio sapere, in modo consapevole, dal basso verso l’alto e di
trasformare le nuove conoscenze in apprendimento stabili e generalizzabili.
Quindi l’approccio metacognitivo al gioco va oltre l'apprendimento del "saper giocare", ma
sviluppa nel bambino un atteggiamento di conoscenza attivo, autonomo e riflessivo e insegna a
generalizzare i comportamenti cognitivi e a dirigerli ai fini della conoscenza sino a raggiungere
un’autoregolazione comportamentale e cognitiva.
Per concludere possiamo dire che il gioco è una particolare forma di apprendimento, una particolare
modalità di comprensione e rielaborazione della realtà e che tutti i giochi possono essere considerati
un contesto educativo grazie al coinvolgimento emotivo e cognitivo del bambino e che il loro valore
e la loro efficacia pedagogica derivano dal modo in cui vengono utilizzati.