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Giorgio Celli
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Ecoalfabeto
Collana diretta da Marcello Baraghini e Stefano Carnazzi
Coordinatore della collana: Edgar Meyer
© 2011 Giorgio Celli
© 2011 Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri
ISBN 978-88-6222-169-6
www.stampalternativa.it
email: [email protected]
progetto grafico: Anyone!
impaginazione: Roberta Rossi
Questo libro è rilasciato con la licenza Creative Commons “Attribution-NonCommercial-NoDerivs 2.5”, consultabile all’indirizzo
http://creativecommons.org. Pertanto questo libro è libero, e può
essere riprodotto e distribuito, con ogni mezzo fisico, meccanico o elettronico, a condizione che la riproduzione del testo avvenga integralmente e senza modifiche, a fini non
commerciali e con attribuzione della paternità dell’opera.
Ecoalfabeto – i libri di Gaia
Per leggere la natura, diffondere nuove idee, spunti inediti e
originali. Spiegare in modo accattivante, convincente. Offrire
stimoli per la crescita personale. Trattare i temi della consapevolezza, dell’educazione, della tutela della salute, del nuovo rapporto con gli animali e l’ambiente.
I LIBRI DI
GAIA ANIMALI & AMBIENTE
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La tigre
C’è chi pensa che la natura sia buona
e finisce nelle fauci della tigre
c’è chi pensa che la natura sia malvagia
e abbatte a colpi di fucile la tigre
c’è chi pensa che la natura sia bella
e mette nella gabbia dello zoo la tigre
c’è chi pensa che la natura sia utile
e si fa una pelliccia con la tigre
c’è chi pensa che la natura pensi
e seziona il cervello della tigre
c’è chi pensa che la natura sia in pericolo
e fa un’oasi di protezione per la tigre
c’è chi pensa che la natura sia Dio
e trova l’uomo nella tigre
c’è chi pensa che la natura sia opera di Dio
e dissocia l’uomo dalla tigre
c’è chi pensa che la natura sia natura
e diventa parente della tigre
c’è chi pensa che la tigre sia la tigre
e lascia in pace la tigre.
Giorgio Celli
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Introduzione
Sono circa 8 milioni i gatti e oltre 7 milioni i cani (per
non parlare di pesci, uccelli, roditori vari, furetti, conigli ecc.) che vivono nelle nostre case. Sono, a tutti gli
effetti, membri delle nostre famiglie. Ci fanno compagnia, ci osservano, cercano di capirci.
Tutti noi poi, nessuno escluso, abbiamo a che fare con
migliaia di altri animali che, volenti o nolenti, conducono le loro vite accanto alle nostre. Come gli insetti,
dalle formiche alle api. Spesso non si sa come “trattarli”, molti ne hanno addirittura paura. Succede anche
perché non si ha dimestichezza con l’“altro”.
Con Giorgio Celli si impara a conoscerli divertendosi.
Raccontando del cane simulatore, del gatto allo specchio, dell’ape farmacista, della formica robot, del piccione mistico, e così via, l’autore ci accompagna in un
mondo a noi vicinissimo ma non sempre altrettanto
noto.
Nel Medioevo i bestiari erano componimenti in prosa
e in versi nei quali si descrivevano gli animali, anche
favolosi, con l’aggiunta di spiegazioni moralizzanti e
riferimenti alla Bibbia.
Il Nuovo bestiario postmoderno di Celli, è ovvio, è altra
cosa. Qui si tratta di aneddoti, storie vere, racconti, osservazioni e riflessioni del grande etologo che, nello
stile didattico e divulgativo che gli è proprio, svelano
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al lettore i segreti del comportamento degli animali,
dei loro linguaggi, della loro etologia. Ci aiutano a
comprendere il mondo che ci sta intorno. E, forse, ci
fanno conoscere qualcosa in più anche su di noi.
Giorgio Celli, studioso e scienziato, coordina da molti
anni gruppi di ricerca per ridurre i danni ambientali. Etologo, entomologo e divulgatore scientifico tra i
più noti in Italia soprattutto per la sua ampia produzione saggistica e televisiva, già parlamentare europeo e consigliere comunale a Bologna, dove vive, ha affiancato al lavoro scientifico una parallela attività letteraria. È notoriamente un “gattaro” (qualcuno, me
compreso, lo considera “il re dei gattolici”) e tiene, in
tutta Italia, conferenze seguitissime sul tema del rapporto uomo-altri animali.
Non stupisce che siano affollate. L’abilitità narrativa e
divulgativa dell’autore è nota. La sua attitudine affabulatoria, il fascino che è capace di mettere in ogni suo
racconto – sempre descritto con brevi ma incisive pennellate – la semplicità di scrittura, uniti al rigore
scientifico, sono un mix unico.
Ha scritto Celli: “Talora, mentre pianto un chiodo nel
muro di casa mia per appendere un quadro, o quando, forse ancor più raramente, faccio un po’ di ginnastica da camera gridando hop! hop!, allorché, insomma, mi comporto in maniera inconsueta, scopro che il
gatto mi osserva. Sta lì, sul divano, con gli occhi sgranati e una espressione, lasciatemi dir così, tra la me6
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raviglia e la curiosità. Mi viene il dubbio, allora, che
da sempre ci siano nell’appartamento due etologi a
confronto: un uomo che cerca di capire un gatto… e viceversa”.
Lo sguardo è sempre divertito. E divertente.
Edgar Meyer
presidente Gaia Animali & Ambiente Onlus
www.gaiaitalia.it
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Il bestiario
vivente
Se andate nella Nuova Galles meridionale,
vedrete i marsupiali saltellare nelle campagne.
E se andate negli antipodi della mente auto-cosciente,
incontrerete ogni specie di creature strane
almeno quanto i canguri.
Non si inventano queste creature
più di quanto si inventino i marsupiali.
Esse vivono la propria vita in completa indipendenza
e l’uomo non può controllarle.
A. Huxley, Paradiso e inferno
La filologia, affermava un mio professore di greco, che se
ne intendeva e che adorava la maldicenza e i paradossi, è
un po’ come l’occhio: vede bene le cose solo se le mette “a
fuoco”, in parole povere se le pone a una certa distanza. Ma
questa restituzione delle cose alla loro distanza storica, al
loro paesaggio di origine, questo dare a Cesare quel che è
di Cesare, non è privo di rischi; può succedere, per esem9
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pio, che si espropri il presente, e che si operi una sorta di
rimozione culturale.
I bestiari vengono considerati, per lo più, delle opere
“datate”, dei fossili letterari da imbalsamare e da porre, tra
codici alluminati e Bibbie miniate, nelle teche di cristallo
delle biblioteche e dei musei. Dal mio punto di vista mi
sembra, invece, che lo “spirito” di questi libri sentenziali,
niente affatto tramontato, sia solo in parziale eclissi o in incognito. Esclusi dai trattati di zoologia, i bestiari sono divenuti luoghi comuni o modi di pensare; dati come morti,
hanno acquistato l’invisibile potere dei fantasmi. Perché,
volenti o nolenti, noi continuiamo a confrontarci con gli
animali, onirici o reali, che frequentano il nostro mondo o
quello parallelo, e speculare, dei nostri sogni. E non parlo
mica delle faune fantastiche di Borges! Parlo dei bestiari
che governano ancora la nostra vita quotidiana, degli animali “altri” che seguitiamo, imperterriti, a invocare.
Un ricordo, che mi folgora: sono all’aeroporto del Cairo,
con gli uomini della FAO. Tre boeing di differenti airlines
atterrano, in una sequenza armoniosa, come obbedendo ai
ritmi di una misteriosa peripezia zodiacale, sulle lunghe piste abbacinate dal sole allo zenith. Sugli alettoni e sulle fusoliere dei tre aviogetti, delle tre chimere tecnologiche,
scopro, dipinte a fuoco, delle figure di animali, reali o mitologici. Il reattore egiziano esibisce la testa di uccello di
Orus, l’antico dio d’epoca faraonica, adorato da Edfu, mentre il boeing australiano mette in bella mostra l’immagine
stilizzata, e un po’ buffa, di un canguro in atto di saltare, e,
infine, sul DC 9 neozelandese intravedo la sagomina di un
kiwi, uccello inetto al volo, e minacciato di estinzione, che
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vive nelle zone più impervie e segrete dell’isola. L’uomo del
ventesimo secolo, mi dico, stenta a restare un proprio contemporaneo. La sua mente abita ancora in compagnia degli animali magici, ed esemplari, delle origini. Espugni pure, astronauta o pilota dell’impossibile, l’alta atmosfera,
l’uomo resta tributario del passato, e per questo pone ancora sotto la protezione delle antiche parentele totemiche
la sua esistenza. Il cacciatore paleolitico, che affrescava il
soffitto della grotta di Altamira, a diventare, per forza di
magia, il “signore dei bisonti”, siede ancora, sempre lo stesso e figlio di sé stesso, nell’abitacolo del boeing, confortato
da tutti i doni della tecnologia e dall’immagine dell’animale del suo clan. La nostra convinzione di essere stati emancipati dal progresso è messa ogni momento in discussione.
Diamo un calcione all’automobile che si “ostina” – pensiamo proprio così! – a non partire? Gli aborigeni australiani
consentirebbero al nostro gesto: quale migliore testimonianza di animismo? Un gatto nero ci attraversa, fulmineo,
la strada, e noi indietreggiamo, un po’ sgomenti, e facciamo gli scongiuri? Precipitiamo in pieno pensiero magico,
regrediamo al “prima” di Galileo, e della nascita della scienza, a officiare il sabba, o il potlatch. Ma sono anche, e forse sopra tutto, i discorsi di ogni giorno che tradiscono il
“bestiario vivente” che abita in noi. Non dichiariamo, forse,
al mattino, di “aver dormito come un ghiro”? O non esclamiamo, tra l’ammirazione e lo spavento, che quella donna
è “furba come una volpe”? Oppure che è “una vipera”, perché perfida, o ancora economa – e ce ne vorrebbero! – “come una formica”? Questo linguaggio, che si vale di similitudini animali, è lo stesso che parla nel Fisiologo o nel Teso11
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retto, il dettato di una mentalità peculiare delle origini, ingenua e proiettiva a un tempo.
Rileggevo, l’altro ieri, le Antimémoires di André Malraux.
Che libro retorico, mi dicevo, questi “grandi uomini”, da
Nehru a Mao, che sembrano giocare a fare il verso a sé
stessi sono intollerabili! D’un tratto incontro un “punto”
formidabile: Malraux racconta l’escursione etnologica di
Gustav Jung nel Nuovo Messico. Nel corso di una riunione,
gli indios domandano allo psicoanalista svizzero quale sia
l’animale del suo clan, e lui nega di averne uno. Più tardi,
finito l’incontro, tutti scendono una scala di legno, gli indios alla loro maniera, volgendo le spalle ai pioli, e Jung,
più prudente, con la faccia al muro d’appoggio, per meglio
aiutarsi con le mani. “Dal basso” scrive Malraux “il capo indica in silenzio l’orso di Berna ricamato sulla casacca del
suo ospite: l’orso è il solo animale che scenda con il muso
all’albero, o alla scala…”. Questo aneddoto, in cui Jung, come Castaneda, va “a scuola dallo stregone”, che rivela allo
scopritore degli archetipi per l’appunto un archetipo animale, che egli aveva misconosciuto, dilata il suo significato, e si fa antropologo. L’uomo moderno è antico, ha scritto Günther Anders.
Va bene, lo “spirito” del bestiario è il “grande trasparente”:
esercita su di noi i poteri di una eminenza grigia, e funziona un po’ alla stregua di un complesso, che si esprime per
simboli – il kiwi sulla fusoliera, o la similitudine animale nel
discorso – ; ma per quel che concerne la scienza? Thorndike si pose il problema della “scientificità” dei bestiari e
concluse affermando che erano gli ascendenti diretti dei
trattati di zoologia veri e propri. La querelle scienza/no,
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scienza/sì, è simile a quella sollevata dalle opere alchemiche: erano dei protomanuali di chimica, oppure tutt’altra
cosa? Cominciamo col dire che, nate dalla funzione fabulatrice, alcune figure dei bestiari si incontrano, nell’autunno
del Medioevo, con il presagio dell’avvento di una nuova
mentalità, con la scienza nascente o per lo meno gestante
ed esprimono, allora, un certo distaccato disincanto. Si veda, come il più esemplare, il caso delle sirene. Per Omero
questo mostro di natura era un collage di donna e di uccello, e così ce le descrive nell’Odissea.
Più tardi, Orazio allude alle sirene ma come innesto, ben
più noto, di una donna e di un pesce. Nel Fisiologo, opera
scritta nei primi secoli dell’era cristiana, la sirena ha per
metà corpo muliebre e per metà corpo d’oca. Qualche secolo più tardi, all’ombra del Mille, in un altro bestiario, Liber monstruorum, la “coda” della sirena subisce un’altra
metamorfosi zoologica, e torna a farsi squama, e pinna natante. Tutte chirurgie, e trapianti, fantastici, che dimostrano l’instabilità dell’immagine mentale, incerta tra il pesce e
l’uccello. Forse, per praticare un poco di “psicoanalisi selvaggia”, esiste una singolare ambiguità e reversibilità inconscia tra queste due forme zoologiche, se Sant’Ambrogio, nel suo Esamerone, scrive che i pesci pre-figurano,
nella serie degli esseri, e nella continuità della creazione,
gli uccelli; sarà, forse, a chiasmo, perché questi nuotano
nell’aria, come quelli volano nell’acqua? Alle soglie dell’Umanesimo e del Rinascimento, in cui matura e giunge al
suo punto di fusione il pensiero scientifico, l’immagine prodigiosa della sirena perde l’aura, e in qualche modo si razionalizza. Nel Tesoro, scritto nella seconda metà del Mil13
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leduecento, Brunetto Latini, dopo aver descritto le sirene
secondo l’iconologia ormai consolidata della donna/pesce,
aggiunge questa diagnosi strabiliante, che traduco alla
buona: “Ma, a dir la verità, le sirene erano tre prostitute
che facevano cadere in trappola tutti i passanti, e li riducevano in povertà”.
Subito dopo, tuttavia, tornando alla retorica comparativo/simbolica del bestiario canonico, aggiunge: “Se la Storia
riporta che esse avevano delle ali e degli artigli, è per dire
dell’Amore, che vola e che ferisce; e se esse dimorano nell’acqua è perché la lussuria è nata dall’umidità”.
Ma per enucleare i rapporti produttivi, o genetici, tra bestiari e scienze naturali, non sarà molto proficuo prendere
in esame – caso per caso, animale per animale – se l’antico
compilatore abbia “visto giusto”, o se “abbia travisato”, oppure se la nozione riportata derivi da una osservazione, o
da una invenzione; meglio sarà entrare criticamente nel
cuore stesso di queste opere, a “smontare” il significato e
la retorica. Scrive Gabriel Bianciotto che, nei bestiari, “la
struttura degli articoli, classificati con grande fantasia apparente, è binaria: enunciazione di una natura dell’animale
considerato; significato religioso o morale di questa natura”. Questa natura “doppia” – A: descrizione della natura;
B: confronto con la natura umana – sembra distinguere
nettamente il bestiario dal trattato di zoologia quale noi lo
intendiamo. La scienza, ha scritto Gillespie, ha il suo punto di partenza nella natura, e non nella mente. Lo scienziato confronta le osservazioni esposte in A, non con B ma, in
parte, con la letteratura esistente e, sopra tutto, con il
mondo dei fenomeni. Frequenta, cioè, l’interfaccia tra os14
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servazione e notizia, tra fatto e verifica. Al contrario il compilatore dei bestiari si confrontava, sì, un poco, con il mondo, e molto di più con tutti gli ipse dixit dei testi ma, fondamentalmente, l’operazione più propria del suo metodo
era cercare la convalida di A in B, nel senso che il dettato
animalistico doveva possedere, per venire accettato, una
sua piena pregnanza teologica e morale. Al punto che,
mentre allo scienziato non è consentito interpolare la creazione con l’immagine, e trattare come reale l’animale fantastico perché, in prima e ultima istanza, “non esiste”, il bestiologo non conosceva queste restrizioni: ogni mostro, o
prodigio, che servisse a illustrare esattamente una qualità,
o una virtù, dell’uomo, era legittimato a reclamare diritto di
esistenza, e trovava il suo posto tra le creature “vere”. Nel
bestiario di Pierre de Beauvais, che risale ai primi anni del
Milleduecento, leggiamo che lo struzzo, in conformità con
quanto scrive di lui Il Fisiologo, ha le ali, ma non vola, e si
prende gran cura dei suoi piccoli. Però, c’è un momento in
cui l’animale entra in trance: alza gli occhi al cielo, immemore di tutto, e quindi anche della sua discendenza, e resta intento a fruire i beni celesti. Ecco due verità incommensurabili a confronto: la prima, inettitudine al volo e cure parentali, che è esatta, è derivata da una osservazione e,
volendo, può trovare nell’osservazione la sua verifica e la
sua falsificazione. La seconda verità si fonda sulla congruità teologica del fenomeno. Infatti, non ha detto l’apostolo:
“Dimentico i beni di questo mondo, e mi sforzo di penetrare i luoghi supremi cui siamo chiamati”? E Cristo non afferma, forse, nel Vangelo: “Chi ama il padre, la madre, o i figli
più di me, non è degno di me”? Ergo, lo struzzo entra in
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estasi. “Ogni lettura del mondo” scrive ancora Bianciotto
“non può che tendere a fare apparire dei segni; la realtà
sensibile è la lettera di cui è necessario interpretare lo spirito; da ciò lo stabilirsi di una relazione metaforica costante tra il mondo e quello che gli conferisce ai nostri occhi un
senso: i due Testamenti, insieme di significati allegorici che
fanno luce sulla natura divina e sulla condizione dell’uomo.
La descrizione delle nature animali si integra con certe
prospettive escatologiche in cui, come dice Sant’Agostino,
quel che importa è il significato di un fatto, e non la sua autenticità: la veracità delle nature descritte non è quindi affatto necessaria: è possibile inventarle, o evocare delle nature mitiche nella misura in cui ci consentono di comprendere delle verità di tutt’altra portata che, in loro stesse,
non sono suscettibili di contestazioni”. Il comportamento,
descritto dal Vangelo, dell’anima assetata di Dio, convalida
il comportamento dello struzzo, immemore della sua discendenza, o per meglio dire conferisce al fatto una valenza metaforica che, in un universo concepito come una “forêt de Symboles”, equivale a uno statuto di esistenza.
Ma torniamo un poco sui nostri passi. Risponde proprio a verità quello che abbiamo affermato, e cioè che lo scienziato
compari A con il mondo, e che trascuri il rimando, tipico del
bestiario, a B, non attivando per nulla il corto circuito uomo/animale? L’antropomorfismo, norma del bestiario, quel
fenomeno di proiezione in forza del quale noi attribuiamo
agli animali i nostri sentimenti, e diciamo che il gatto è infuriato, o che il cane ci ama, è stato proprio estromesso del
tutto, come scientificamente fuorviante, dai libri della zoologia moderna? La cosa esige un qualche ripensamento.
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Perché l’antropomorfismo, in primo luogo, è una malattia
costituzionale del linguaggio. L’uomo ha “inventato” il linguaggio per parlare con l’uomo, e dell’uomo. Quando sconfina semanticamente è fatale che conservi nel discorso, vizio d’origine, gli echi di continue allusioni antropomorfe. Si
ha un bello sforzarsi: il cane che scodinzola ci par proprio
“felice”! La prova del nove di questa coazione all’antropocentrismo linguistico ce l’hanno fornita, in negativo, quegli
psicologi che, alla fine del XIX secolo, tentarono di “depurare” le proposizioni scientifiche elaborando una nuova nomenclatura obiettiva, di ascendenza fisiologica. Per loro,
non bisognava più parlare di sensazioni o di percezioni,
ma di recezioni. Per cui, non si dica il cane adocchia una
bistecca, o riconosce qualcuno, ma che ha una fotorecezione del cibo, o una icono-recezione del padrone. Con il risultato che, per essere coerenti, invece di dichiarare che il
nostro gatto “ha fame” dovremmo dire che “i suoi propriocettori gastrici, in ritmica contrazione, inviano impulsi al
centro ipotalamico”. Che fatica di Sisifo essere obiettivi!
Troppa, perché la scienza mira, in primo luogo, all’economia dei mezzi, anche espressivi…
Tra l’altro, dopo Darwin, un certo grado di antropomorfismo è diventato scientificamente legittimo. Lo scienziato
inglese è uno dei numi tutelari, possiamo ben dirlo, del bestiario vivente che ancora ci governa. Dopo tutto, come ha
scritto Vandel, il linguaggio antropomorfo “rappresenta la
proiezione dell’umano sul piano degli esseri che hanno presieduto alla sua genesi”. Ragione per cui sarà più “scientifico”, comparando, dire che uno scimpanzé è infelice, invece che attribuire questo stato d’animo a una rana. Lo scim17
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panzé è, difatti, a tutti gli effetti, un nostro fratello minore,
magari un po’ impedito.
Ma non basta: a ben leggere i bestiari si può accertare facilmente come la funzione che in essi si assegna all’animale sia
a due valenze. Ora la bestia, reale o immaginaria, raffigura i
vizi e le perversioni dell’uomo e ora è, al contrario, lo specchio vivente delle sue virtù o degli ammaestramenti della
Chiesa. In parole povere, il pigro deve avere come esempio
la formica, o il probo misconoscersi nella donnola, perché
l’una scevra il grano dall’orzo, e pone “il suo frumento nei
granai celesti”, mentre l’altra “che concepisce con la bocca
e partorisce con le orecchie” è come quegli uomini che, dopo aver mangiato il pane degli angeli in chiesa, estromettono la parola divina per via auricolare. Il bello è che questo
duplice modo di porre a confronto l’uomo e l’animale, norma nel bestiario e nelle favole, è presente, in modo più o
meno esplicito, nei libri di etologia e di sociobiologia. Non ci
credete? Quando, per esempio, Konrad Lorenz ha preso in
esame il tema scottante dell’aggressività ha parlato in modo
esplicito, per gli animali, di fenomeni atti a far diminuire la
pericolosità degli scontri. I cervi maschi, quando si battono
per le femmine, o i lupi quando confliggono per la gerarchia, per il comando del branco, compiono delle sorte di
giostre, di tornei naturali, atti a far desistere l’avversario
senza versare il suo sangue. Il lupo egemone, per esempio,
non azzanna a morte la gola che l’antagonista sconfitto gli
porge in atto di sottomissione. La soddisfazione di aver vinto gli basta, per cui dona cavallerescamente la vita al contendente che si proclama suo vassallo. È fatale che la cosa
attivi una comparazione uomo/animale. Non è affatto vero,
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allora, proclamiamo contriti, che il lupo è cattivo; siamo noi
le creature più crudeli del pianeta, noi che abbiamo praticato la guerra totale e il genocidio. Lorenz, lo voglia o no, ci
propone così una pastorale per l’uomo contemporaneo; il
“lupo buono” è l’equivalente, post-Darwin, del “buon selvaggio” di Rousseau, e per l’etologia il paradiso terrestre è
un luogo che è potuto divenir tale solo dopo la cacciata di
Adamo. Tutte le guerre della preistoria e della storia testimoniano contro di noi a favore degli animali che risultano,
alla fine, “edificanti”.
“Se si considera il numero di assassinii commessi per migliaia di individui all’anno” scrive Wilson “gli esseri umani
occupano livelli molto bassi nella graduatoria degli organismi violentemente aggressivi”. E più avanti riporta, come
esempio di “nature” ben più malvagie di noi, quel che ha
veduto Hans Knut a proposito della lotta tra delle iene per
il possesso di una carcassa di gnu. Riportiamo per esteso la
descrizione di un vero e proprio linciaggio belluino:
“I due gruppi si mischiarono in un frastuono di richiami,
ma subito dopo si separarono nuovamente e le iene di
Mungi corsero via inseguite per breve tratto dalle iene della Scratching Rock, che poi ritornarono alla carcassa. Una
dozzina di iene della Scratching Rock però riuscirono a
bloccare un maschio di Mungi e cominciarono a morderlo
dove potevano – specialmente sull’addome, sulle zampe e
sulle orecchie. La vittima fu completamente sopraffatta dai
suoi assalitori, che continuarono a maltrattarla per una decina di minuti, mentre il resto del loro branco stava divorando lo gnu. Il maschio di Mungi fu letteralmente sbrana19
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to e quando più tardi studiai le ferite più da vicino potei
constatare che le sue orecchie erano state mozzate e così
le sue zampe e i testicoli, l’animale era paralizzato da un
trauma alla colonna vertebrale, aveva estese ferite a livello
delle zampe posteriori e del ventre, emorragie sottocutanee un po’ dappertutto... Il mattino seguente trovai una iena che stava divorando la carcassa e constatai che anche
altre avevano partecipato al banchetto; circa un terzo degli organi interni e della muscolatura era stato divorato.
Cannibali!”.
La “specularità” e la scrittura binaria del bestiario rivivono
in modo più o meno esplicito: il lupo, che funge da esempio morale da seguire, ha come rovescio della medaglia la
iena cannibale che funge, invece, da ammonimento a non
imitarla. Insomma, come Il Fisiologo, l’etologo si serve
dell’animale per proporci uno specchio ai nostri vizi e alle
nostre virtù e propinarci un sermone: uomo sii pio come il
lupo, e non empio come la iena.
Per un solo verso queste opere sentenziali sono completamente differenti dal trattato di zoologia: praticano il rifiuto
di ogni tassonomia. L’universo dei viventi è stato ordinato
da Linneo in una complessa mappa di relazioni, in cui la topologia reciproca dei vari organismi dipende dalla loro somiglianza. Dopo Darwin, si dà per scontato che questa somiglianza equivalga al grado di parentela, alla comunanza
delle origini. Tipo, classe, ordine, famiglia, genere, specie,
un lungo viaggio dalla molteplicità all’unità, dalla diversità
all’identità.
Per Linneo, fissista e creazionista, il vuoto tra specie e specie era espressione della volontà divina, per cui la sua tas20
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sonomia era “discreta”. Darwin, con il concetto di evoluzione, opera un rammendo teorico e introduce una tassonomia virtualmente continua. Tra specie e specie non ci sono
lacune, ma soltanto anelli mancanti.
Il bestiario è assolutamente antidarwiniano. Più radicale di
Linneo, nega ogni ordine possibile. Se una somiglianza o un
grado di parentela possono, alla lunga, venire quantificati –
numero degli stami, dei petali ecc. – e tradotti in indici numerici, il bestiario opta per una non-sistematica eteroclita
e qualitativa. Ogni “natura” è unica e incomparabile. Per
cui gli articoli si susseguono senza un legame “necessario”:
il leone, la lucertola, il pellicano sono “animali pretesto”,
metafore metafisiche dei vizi e delle virtù dell’uomo e costituiscono, alla fine, una ineffabile e assoluta zoologia del
paradiso e dell’inferno.
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Le mie api
e qualche formica
L’ape e l’uomo
Jacob von Uexküll è stato uno dei biologi più interessanti
dei primi decenni del secolo scorso. Studioso del comportamento animale, può venire annoverato, senza tema di
smentite, tra i fondatori dell’etologia. Purtroppo, la filosofia vitalista che professava apertis verbis ha fatto cadere
su di lui un certo discredito, e difatti lo troviamo citato raramente. Più fecondo è stato il suo rapporto con la filosofia kantiana, che gli ha suggerito la concezione dei “mondi
invisibili”.
Gli animali che sembrano convivere nello stesso mondo, afferma von Uexküll, abitano, in realtà, in tanti universi
paralleli “ritagliati” dalle capacità del loro sistema sensoriale. Mi spiego meglio: io e un’ape stiamo attraversando il
medesimo prato. Per me, che ho due occhi “a camera” abilitati a vedere il rosso, ma non l’ultravioletto, l’erba è verde; per l’ape, che ha occhi composti ciechi al rosso ma sensibili all’ultravioletto, è grigia. Quel fiore di senape, che a
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me appare giallo, assume per l’ape un misterioso colore di
porpora.
Ma abbandoniamo questa sfera sensoriale. Per quel che riguarda le capacità olfattive, l’uomo e l’ape sembra siano
abbastanza simili anche se, in generale, l’insetto ha possibilità più sottili per quanto concerne il profumo dei fiori.
Ma ci sono delle eccezioni: l’ape non è sensibile al profumo
dei fiori di mirtillo e lo è molto meno di noi all’odore del rosmarino, che pure l’insetto frequenta attivamente. Anche
nell’ambito del senso del gusto noi e l’alchimista del miele
abitiamo due universi non sovrapposti del tutto, e questa
circostanza ha avuto perfino una ricaduta pratica.
Si sa che una delle operazioni dell’apicoltura consiste nel
nutrire artificialmente l’alveare con dello zucchero per
consentirgli di far fronte a periodi di emergenza. Come
vendere questo zucchero a un prezzo inferiore, avendo la
certezza che l’apicoltore lo somministri alle sue api e non
ne faccia oggetto di speculazione commerciale? È necessario, come per l’alcool d’uso sanitario, denaturare lo zucchero, rendendolo incommestibile. Karl von Frisch scoprì molti anni fa che esistono certe sostanze che per l’ape non
hanno sapore e che per l’uomo risultano amarissime. Si addizionino, dunque, allo “zucchero per api” e il gioco è fatto. A ciascuno il suo mondo. E il suo zucchero.
L’ape e il diavolo
Al tempo in cui Berta filava si credeva seriamente alla generazione diabolica. Si pensava, in altre parole, che il dia23
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volo fosse abilitato a ingravidare delle donne, per esempio
le streghe, che mettevano al mondo una prole di ascendenza satanica. I teologi però, pur dando per vero il fenomeno,
si domandavano ansiosi come potesse una creatura incorporea come il demonio aver figli in carne e ossa, finché risolsero il problema in maniera davvero singolare.
Il diavolo, decisero, non ci mette niente di suo. Si limita a
trasportare lo sperma, prelevato da un uomo immerso nel
sonno, nelle vie genitali della strega diletta, conseguendo
egregiamente lo scopo. Si comportava, dunque, come quei
ginecologi nostri contemporanei che, diavolo a parte, praticano la cosiddetta fecondazione artificiale, ricorrendo addirittura, in certi casi, a vere e proprie banche dello sperma, “rilasciato” magari da premi Nobel.
Risulta, quindi, subito chiaro perché i benpensanti denuncino tutte queste manipolazioni della riproduzione come
opera di Satana, e anche molti teologi, ora come allora, sono pronti ad avallare questa opinione. Per loro sfortuna, la
strategia di prelievo e di trasporto del seme maschile non
è solo un’invenzione medioevale, vera ancora oggi per chi
ha fede nel demonio, o una pratica di laboratorio messa in
atto da nuovi Frankenstein in camice bianco: è anche una
procedura biologica molto comune in natura. Per esempio,
le api si comportano nei riguardi delle piante superiori come il diavolo con le streghe, e lo notava con arguzia in una
sua noterella lo scrittore Alfredo Panzini. Difatti, l’ape vola sulle corolle per raccogliere del cibo, nettare o polline, e
ciò facendo si imbratta il corpo, per altro peloso, di una miriade di granuli pollinici. Li porta, così, di fiore in fiore,
consentendo alla pianta, per sua natura immobile, di supe24
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rare la barriera della consanguineità e di inviare in giro la
propria informazione genetica.
Charles Darwin ha dimostrato per primo che l’impollinazione incrociata favorisce in un gran numero di casi la
fecondità e la produttività di moltissime specie botaniche
spontanee e coltivate. Dunque, il diavolo, l’ape, il ginecologo...
L’ape femminista
Una delle leggende più misteriose è sicuramente quella
dell’esistenza, nella Grecia arcaica, di una società, per certi versi terribile, di matriarche.
Le Amazzoni avrebbero dato origine a un popolo di sole
donne che, esperte nel tiro dell’arco (si mutilavano un seno per tirare fino in fondo la corda!) e in tutte le arti marziali, escludevano gli uomini, salvo ricorrere loro come
“stalloni” nel momento propizio alla riproduzione, scacciandoli o uccidendoli subito dopo la “prestazione”.
Quando un’Amazzone troppo romantica cadeva in preda a
una funesta passione per qualche uomo-oggetto, doveva
subire l’ostracismo del clan, a meno che non si facesse giustizia da sé, sbranando a baci, come Pentesilea invaghita di
Achille, l’uomo che l’aveva fatta tralignare dalle leggi, e lavando con il sangue (dell’altro!) la propria iniquità.
Ma se tra gli uomini, per fortuna, questi usi cruenti sono
soltanto leggendari, tra le api, che vivono in società “femministe” per eccellenza, la cosa è di ordinaria amministrazione. I poveri maschi, i cosiddetti fuchi, hanno il destino
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biologico di morire nell’atto, se raggiungono e fecondano la
regina durante il volo nuziale, e di venire sterminati in
massa se, superstiti, (e quindi “vergini”) rientrano nell’alveare illusi, per dir così, d’essere ancora graditi.
La loro triste sorte, già intuita e osservata dal conte René
Antoine de Réaumur, è stata descritta con dovizia di particolari da F. Huber, che è stato uno dei più celebri studiosi
delle api del Settecento. Il massacro si verificò il 4 luglio
del 1787 e Huber si valse, per averne contezza, di un’arnia
speciale, con il fondo di vetro trasparente.
Strisciando bocconi sotto l’alveare si poteva seguire da vicino tutto quello che avveniva all’interno. Che non era affatto piacevole! Le api operaie, armate di un aculeo avvelenato, furono viste avventarsi sui fuchi, disarmati e inetti,
per bistrattarli in vario modo e per pugnalarli più volte all’addome. Ebbre di strage, le virago si precipitarono anche
sulle cellette che ospitavano le larve dei fuchi, strappandole dal loro abitacolo, sventrandole, e talune delle assassine
si misero a leccare avidamente il liquore che sgorgava dalle ferite, in un pasto cannibalistico, degno coronamento di
una strage in piena regola. Una società femminile dai modi
ben poco femminili! O forse sì?
L’ape Robinson
Tutti, da ragazzi, abbiamo letto il romanzo di Daniel Defoe
che narra le prodigiose vicissitudini di Robinson Crusoe, il
naufrago letterario più famoso del mondo. Questo marinaio gettato dalla tempesta sulle spiagge di un’isola deserta,
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e che vive per molti anni separato dal consorzio civile in
compagnia di sé stesso e della propria inventiva, è una delle più compiute allegorie dell’uomo che sfida e vince le avversità della natura, e suggerisce che ogni uomo, nella sua
individualità, è in qualche modo il compendio del genere
umano. Per questo, se adulto, può vivere a lungo in solitudine, e gli eremiti della Tebaide, Robinson della metafisica,
o molti speleologi o astronauti, Robinson della scienza,
hanno dimostrato che si può abolire per molto tempo ogni
interazione sociale senza che il soggetto comprometta la
propria vita.
Per l’ape le cose sembrano andare diversamente e gli etologi hanno osservato una circostanza davvero curiosa. Fatti i conti, e le dovute comparazioni, se si isola un’ape adulta, questa si nutre regolarmente e sembra godere di ottima
salute ma, ahimè, muore in breve tempo. Più celermente
delle altre, che vivono in comunità. Due api campano il
doppio di un’ape sola, e si è scoperto che un’ape viva, posta insieme a una morta, è più longeva. Il fenomeno sembra dipendere dalla struttura estremamente solidale delle
società degli insetti, che sono state spesso paragonate a
dei superorganismi, in cui gli individui assolverebbero la
funzione di organi o di supercellule.
In realtà, per tutto l’alveare, in forma volatile o passate in
complesse operazioni bocca-a-bocca tra gli individui, circolano delle sostanze particolari, dette feromoni, che regolano, come le secrezioni endocrine all’interno dei corpi, le
più importanti funzioni del complesso sociale.
Le api parlano tra loro in molte maniere, con la danza, con
il movimento delle antenne e mediante un linguaggio mo27
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lecolare, responsabile principale della coesione sociale,
che assolve i compiti un tempo assegnati da Maurice Maeterlink al fantomatico “spirito dell’alveare”. Per qualche
tempo un’ape morta emette dei feromoni, in altre parole
continua a colloquiare chimicamente con l’ape viva, e contribuisce così a rendere meno letale la sua solitudine.
L’ape farmacista
Chi frequenta i negozi dell’Esculapio selvaggio, in cui si spacciano le “medicine naturali”, o una farmacia evoluta, con
qualche vocazione omeopatica, avrà notato, da un po’ di tempo, tra i sacchetti d’erbe odorose e i balsami vegetali, dei flaconcini con tappo contagocce, pieni di un liquido giallo cupo.
Il farmaco, che di questo si tratta, consigliato come cicatrizzante, ottimo per le ferite del cavo orale, sembra funzionare
come antibatterico e come antimicotico. Il principio attivo è
una sostanza dal nome grecizzante: la propoli. Le sue origini sono per lo meno singolari: viene elaborata negli alambicchi misteriosi di quella piccola fabbrica biotecnologica che è
l’alveare. Dopo il boom del miele, del polline, della pappa
reale, riscoperti come apportatori di benessere fisico, la propoli è salita, in questi ultimi anni, alla ribalta della celebrità.
Viene ormai prescritta anche da medici solo un po’ eclettici
e i farmacologi ufficiali di tutto il mondo la stanno studiando
per mettere in formule le sue proprietà.
Per le api la propoli è, tanto per cominciare, una sorta di
superstucco. Ne raccolgono il materiale di base sulle gemme di certe essenze legnose, e nei loro laboratori fisiologi28
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ci lo manipolano mediante enzimi e secrezioni, impiegando
il prodotto finale come calcina duttile per chiudere le fessure dell’alveare, o per alzare degli ostacoli, dei cavalli di
Frisia a misura degli invasori, sull’entrata dell’arnia (da cui
il nome propoli, ovvero “davanti alla città”). Si pensa, e
certo a ragione, che la sostanza non serva solo a cementare e a stuccare, ma che sia responsabile della salute del popolo delle api, che vive in un ricovero umido, e a forte densità, condizioni favorevoli alle epidemie.
Questa funzione primordiale e sanitaria della propoli darebbe ragione delle sue qualità terapeutiche, che qualcuno spergiura di aver scoperto oggi! Diamine, se anche Plinio il Vecchio ne parlava... I legionari romani non partivano mai per le
loro gloriose campagne senza avere in saccoccia un grumo
della benefica propoli, toccasana per le ferite. In un’epoca più
recente, all’inizio del XX secolo, durante la guerra dei Boeri,
prima che venissero scoperti gli antibiotici, è stato un distillato della propoli, la propolisina, a salvare dalle infezioni e
dalla morte migliaia di soldati feriti in battaglia.
Viva la propoli, dunque, ma non si esagerino al di là del lecito le sue virtù. C’è chi afferma che la propoli sarebbe perfino un insetticida ecologico. Ragioniamo un po’: come potrebbe? L’ape, che la fabbrica, non è un insetto?
L’ape guerrafondaia
L’uomo, quando fa l’amore, e non la guerra, è davvero banale: si comporta come la maggior parte degli esseri viventi. Quando fa la guerra è molto più originale, perché se è
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già difficile in natura osservare quell’aggressività virulenta
tra individui della stessa specie di cui diamo prova ogni
giorno per le vie di New York, è ancor più arduo trovare degli animali che si scontrino in massa – topi contro topi, leoni contro leoni – in epiche battaglie campali, simili a quelle che la nostra storia tramanda con i nomi di Salamina o di
Verdun.
Voglio dire, insomma, che la guerra è, in gran parte, una
nostra invenzione e che solo pochissime specie compiono
imprese analoghe alle campagne napoleoniche.
Il bello è che questi rari animali che condividono con noi la
triste nomea d’essere dei guerrafondai ci somigliano non
solo nei mezzi, ma nei fini, e danno ragione a Carlo Marx
agitando il fantasma di un movente economico. Per loro,
come per noi, la guerra coincide con l’esproprio violento
dei beni altrui. Già Gaston Bothoul, il fondatore della polemologia moderna, considerava certi comportamenti delle
api come guerre in miniatura.
Verso la fine dell’estate, quando per i fiori e il nettare è cominciata l’età della penuria, il bravo apicoltore sta bene attento a non spargere davanti a un alveare, o sulla mensolina di accesso, residui di sostanze zuccherine o miele. Ahimè, per la folla di api che vagano affamate nei dintorni,
quel poco cibo funziona, difatti, come un invito alla guerra
e al saccheggio.
Le api assalgono in massa le sentinelle dell’alveare sprecone, le bistrattano o le ammazzano, penetrano in terra straniera facendo man bassa delle provvigioni. Il miele viene
spazzolato via dai favi in brevissimo tempo e trasferito nell’alveare aggressore, che vede così crescere mostruosa30
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mente le sue riserve. Da un alveare si passa a un altro, a un
altro ancora! Per terra, centinaia di api morte denunciano
che si tratta di uno scontro mortale, di una guerra in piena
regola: ape contro ape, come uomo contro uomo. Perché
per l’insetto, e per noi, la guerra è la prosecuzione – von
Clausewitz mi perdoni – del furto con altri mezzi.
L’ape bussola
Gli insetti, queste infime creature che evocano il ribrezzo
nella maggior parte degli uomini, destano di frequente in
chi li conosce un po’ più da vicino, negli entomologi per intenderci, uno stupore reverenziale. Si pensi al loro numero: ci sono probabilmente più specie di ditteri (volgarmente: di mosche) nel nostro Paese, o in Francia, che di mammiferi sull’intero pianeta.
D’altra parte gli insetti esibiscono spesso performance davvero spettacolari, dimostrandosi capaci di sopravvivere in
condizioni estreme. Difatti, delle larve di zanzara prosperano nell’acqua dei geyser, a 60 gradi di temperatura; altre, negli stagni siberiani, si fanno beffe del freddo, sfidando abbassamenti termici dell’ordine di 50 gradi sotto zero. Inoltre, gli
insetti non sono dotati solo di capacità di percezione di straordinaria efficienza, ma di veri e propri “sensi nuovi”. Per
esempio, hanno la possibilità di rispondere al campo magnetico terrestre mediante autentiche bussole biologiche incorporate. Questi organismi “bionici”, chiamiamoli così, presentano in molte cellule degli infimi frammenti di magnetite e
sono questi i diavoletti responsabili del fenomeno.
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Prendiamo il caso, un poco stravagante, delle api. Martin
Lindauer, un allievo di Karl von Frisch, ha scoperto questa
singolare costanza costruttiva: se trasferiamo uno sciame
di api da un alveare in un contenitore oscuro e le lasciamo
libere di comportarsi a loro piacimento, i favi nuovi avranno la stessa orientazione di quelli vecchi. Abitudine di architetti dotati di buona memoria? Per nulla! Sembra che il
favo nuovo venga disposto nella stessa direzione del vecchio secondo le indicazioni del campo magnetico terrestre.
La cosa ci lascerebbe increduli se Lindauer non l’avesse
corroborata con delle originalissime esperienze. Ponete il
contenitore in un campo magnetico debole, come per l’appunto quello della Terra, e fatelo variare a vostro piacimento. Il favo, come l’ago di una superbussola, verrà costruito
orientato in conformità. È dall’alba del Neolitico che l’uomo osserva le api, e le api non cessano di sopraffare le nostre aspettative.
L’ape pensante
Quando un babbuino che vigila come sentinella sul suo
gruppo vede avvicinarsi un leopardo, lancia un grido di avvertimento. Questo grido non comunica affatto: “Attenzione, c’è un leopardo”, ma veicola la paura del predatore che,
propagandosi da individuo a individuo per empatia, mette
il piccolo nucleo sociale in stato di allarme. In una specie
di cercopiteco la comunicazione non si verifica soltanto
mediante emozione, ma emerge una vera e propria articolazione semantica. Queste scimmie segnalano con un grido
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– chutter! – la presenza di un serpente; con un altro grido
– rraup! – quella di un rapace; e con un altro grido ancora – uh! – la comparsa di un carnivoro pericoloso, per
esempio una iena.
Siamo, in questo caso, sul sottile confine che separa il segnale dal segno, e si può ben dire che non si passa più da
emozione ad emozione, ma da emozione a cognizione, anche se in modo ancora piuttosto rudimentale. Lasciando
perdere gli scimpanzé e i gorilla che imparano a leggere, a
scrivere, o a parlare gesticolando, che restano (istruttivi
quanto si vuole!) dei fenomeni da laboratorio, la cosa più
paradossale è che l’uso di un linguaggio parzialmente simbolico non è stato scoperto tra le scimmie, nostre cugine,
ma tra le api, organismi dalle origini remote e, tutto sommato, dal cervello di esigue dimensioni (circa un milione di
neuroni soltanto!).
Quando un’ape ha scoperto del cibo, un bel prato con fiori
ricchi di nettare, rientra nell’arnia e comincia a danzare.
Questa esibizione, come ha scoperto Karl von Frisch (attribuendosi così il premio Nobel), informa le compagne sulla
direzione e la distanza del paese di Bengodi, tenendo come
punto di riferimento geografico il sole, di cui per altro l’ape
sa calcolare lo spostamento. La danza costituisce una sorta di ideogramma cinetico, un ideogramma-coreogramma
perciò, che condensa in sé una mappa e un discorso.
Il problema sollevato dalla scoperta di von Frisch non è di
breve momento. Perché se l’emozione può passare direttamente da un individuo all’altro senza dover ricorrere all’interpretazione, l’ape deve, invece, interpretare il messaggio.
Quindi: è cosciente? Donald R. Griffin è propenso a rispon33
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dere affermativamente, ma non è facile concedere a una
creatura così antica una facoltà così evoluta. D’altra parte
è stato scritto che il pensiero, quindi anche la coscienza,
sono dei “precipitati” sociali, e che è la società, dopo tutto,
a pensare in noi. Forse, anche la società dell’ape pensa nell’ape.
L’ape neopitagorica
Sir James Jeans, uno dei fisici eminenti del secolo scorso,
propenso alle avventure filosofiche, pensava, e non era il
primo, da Pitagora in poi, che Dio, il Grande Architetto del
mondo, fosse un matematico, e se la cosa era vera, argomentava, lavorando sui numeri si entra in rotta di collisione con la Sua Mente.
Pure, la matematica, che dopo tutto è la scienza del contare, è nata per necessità pratiche e l’hanno tenuta a battesimo gli agrimensori, che volevano tracciare i confini dei campi, e i mercanti che desideravano portare a compimento degli affari non in perdita. Misurare, saper distinguere il più
grande dal più piccolo, costituiscono le operazioni fondatrici di ogni sistema numerale. Insomma, se questa pertica è
più lunga, se questo numero è più grande... tutto è cominciato tra gli aratri e i mercati e se n’è andato per la tangente, a ingranarsi, come dice il poeta, nei mulini degli dei.
Di recente, nel corso delle mie ricerche sulle api, che svolgo insieme a una mia graziosa collaboratrice, di nome Paola Angelini, abbiamo scoperto che i versatili imenotteri del
miele non sanno di certo contare, ma possono distinguere
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facilmente due linee di diversa lunghezza. Campo d’operazioni: il giardino del mio Istituto, un piccolo Eden semiselvaggio prossimo all’orto botanico e a ridosso delle antiche
mura della città. Un posto ideale per starsene in santa pace, all’ombra di un ciliegio e di un albicocco, a primavera
carichi di frutti.
Le api di quattro alveari sono state le cavie dell’esperienza
che vi descrivo brevemente. Tre coppie di segmenti (4-2
centimetri; 3,75-2,5 centimetri; 3-2 centimetri) sono state
esposte su di un tavolo. I segmenti più brevi premiavano
l’ape in visita con una soluzione zuccherina, quelli più lunghi offrivano solo dell’acqua. Grande incertezza nei primi
giorni, ma ben presto le piccole cavie si sono fatte furbe e
hanno capito benissimo le regole del gioco. Per cui hanno
cessato di posarsi a casaccio su segmenti lunghi o corti e
hanno cominciato a preferire questi ultimi.
Abbiamo così acquistato la certezza che le api erano in grado di riconoscere la diversa estensione dei bersagli, individuando, per la visita, quelli preferiti. Bisogna ricordare che
l’occhio dell’ape è composto da tanti elementi visivi autonomi, detti ommatidi. Si può presumere allora che le cose
vadano così: più ommatidi eccitati è “lungo”; meno ommatidi eccitati è “corto”.
Anche il Dio delle api è un matematico?
L’ape matematica
La signora che viene due volte alla settimana per rimettere a posto la mia casa di “scapolo di ritorno” è originaria
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della montagna e mi sembra partecipi ancora di una cultura che non esito a definire arcaica. Per esempio, ho accertato di recente che per lei la matematica è un’opinione e
che, quindi, le valutazioni quantitative vengono, nel suo
universo mentale, tradotte in impressioni soggettive.
Una volta, per non sciupare un assegno con una somma
troppo esigua, ho anticipato di quattro quote il suo compenso. Male me ne ha incolto! Dopo due visite di lavoro la
signora ha dichiarato di dover essere pagata. Alla mia confutazione, fatta con cifre alla mano, che l’assegno copriva
non due ma quattro suoi “interventi in casa”, lei mi ha risposto, scuotendo il capo, che sì, forse avevo ragione, ma
che dall’ultima volta che l’avevo pagata era passato tanto
tempo!
Questa matematica “impressionista” corrisponde a una
maniera di pensare che potremmo definire “pre-logica”, o
“pre-scientifica” se preferite, e mentre tentavo di portare
la mia interlocutrice domestica sui sentieri dell’aritmetica
e delle quattro operazioni, mi è venuto in mente che gli antichi Cinesi, nell’indicare le distanze, distinguevano i percorsi in pianura da quelli in montagna, perché il tempo richiesto al viandante era inferiore per i primi e maggiore
per i secondi.
D’altra parte, esiste sull’Appennino, e credo anche altrove,
una espressione: “distanza da montanaro”, che significa,
per l’appunto, una distanza dichiarata dall’abitatore delle
altitudini, abituato alle salite, come ben inferiore a quella
che l’escursionista improvvisato, che fa tanta fatica, avrebbe stimato. Bene, si può supporre che questa metrica esistenziale sia non solo arcaica in senso culturale, ma addi36
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rittura primitiva in senso biologico. Le api, difatti, quando
fanno ritorno all’alveare e comunicano mediante la ben nota danza dell’addome le distanze del cibo alle compagne, si
comportano così: se hanno volato contro vento “aumentano” la distanza, e viceversa se hanno volato con il vento in
poppa. Insomma, la distanza è calcolata non con il metro,
ma con la fatica.
L’ape stakanovista
Metti una sera a cena con uno psicologo esperto di problemi del lavoro. Il commensale, che si era impadronito della
conversazione trasformandola in una lezione, ricordava il
film Tempi moderni di Charlie Chaplin, o Metropolis di
Fritz Lang, come esemplari. Gli operai, messi alle catene di
montaggio, destinati per sette, otto ore a compiere lo stesso gesto, si robotizzano a poco a poco, perdono la propria
identità e, quel che più importa, tendono a rendere sempre
meno. Insomma, alla catena di montaggio non si diventa
per nulla degli “uomini di pietra”, ovverosia degli stakanovisti. Al contrario. Se si ignora il senso di quello che si fa
non si può essere pienamente efficienti. Per questo, dichiarava lo psicologo, sarà bene che l’operaio lavori in diversi reparti, acquisendo un’idea dell’opera complessiva,
ponendo in relazione la vite con la ruota, e la ruota con la
macchina.
Proprio come nell’alveare, mi capitò di pensare, mentre
consentivo all’ascolto dello sproloquio. Difatti l’ape operaia, nata al mondo, fa carriera (il “sogno americano” dell’al37
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veare?) svolgendo un po’ tutti i mestieri. Dal primo al terzo giorno è spazzina, e collabora a tener pulita la “città”.
Dal quarto al dodicesimo giorno lascia l’umile mansione di
netturbina, matura speciali ghiandole e diventa nutrice,
elargendo la pappa reale alle larve, di regina soprattutto.
Dal tredicesimo al diciassettesimo giorno la piccola balia
scopre in sé la vocazione di costruttrice e, insieme alle
compagne, mette in opera un suo secreto, la cera, per edificare i favi.
Allo scoccare del diciottesimo giorno la nostra versatile lavoratrice vince il concorso di guardiana e comincia a sorvegliare le vie d’accesso all’arnia. Punge gli intrusi, anche se
le costa la vita, ma il dovere è dovere.
Superstite, dal ventitreesimo giorno in poi assume la funzione di bottinatrice, mestiere nobile che le consente di volare nel sole a raccogliere il nettare e il polline sui fiori. Ma
non si creda che, raggiunto il vertice, cessi di lavorare. Tutt’altro. I percorsi fiore-alveare, e viceversa, di tutte le api di
una comunità durante una stagione di bottinamento, messi idealmente su di una sola linea, coprono, a quanto sembra, la distanza tra la Terra e la Luna. Avrà ragione lo psicologo? Fare tutti i mestieri rende stakanovisti?
L’ape e la banca del seme
Nei libri di fisiologia della riproduzione animale si è soliti
distinguere l’inseminazione, cioè l’immissione dello sperma
nelle vie genitali femminili, dalla fecondazione vera e propria, e cioè la penetrazione dello spermatozoo nell’ovulo,
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con formazione dello zigote. Mentre nei mammiferi, però,
uomo compreso, il distinguo ha scarsa rilevanza (all’inseminazione segue con breve scarto temporale la fecondazione), in taluni invertebrati, per esempio negli insetti, tra i
due eventi può intercorrere molto tempo, perfino anni!
Si veda il caso dell’ape regina. Questa creatura che inquieta da sempre la fantasticheria erotica e mitologica dell’uomo, compie, nella sua vita, un solo volo nuziale, durante il
quale fa grande incetta di sperma. Si pensava, dapprima,
che la nostra seduttrice alata contraesse il suo tragico rapporto sessuale – il fuco muore nell’atto – con un solo maschio, e la si credeva così un insetto di specchiata virtù; ma
in seguito si è potuto accertare che i donatori di sperma sono più di uno, e a quanto pare addirittura una decina! La
nostra ape ripone il dono di vita dei maschi in un serbatoio biologico molto particolare, la spermateca, e conserva gli
spermatozoi vitali e attivi per alcuni anni, una pratica che
noi sappiamo imitare solo di recente, e con tecnologia
complicata. Questa tasca è situata alla base degli organi e
funziona come una macchinetta distributrice di spermatozoi, e se si pensa che durante la buona stagione l’ape regina può deporre mille uova al giorno, e che può vivere quattro o cinque anni si può avere un’idea dell’efficienza della
“conservazione”.
Tra i mammiferi è curioso il caso delle foche. Qui le cose
hanno uno sviluppo molto differente, perché lo scarto temporale non si verifica più tra inseminazione e fecondazione,
ma tra fecondazione e impianto. Succede, difatti, che l’ovulo fecondato si differenzi in un minuscolo embrione sferico, e che resti nelle parti superiori dell’apparato genitale
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femminile per tre, quattro mesi prima di scendere a impiantarsi nell’utero. Si tratta di un adattamento alla vita
nell’Artico. Il maschio monta la femmina subito dopo lo
svezzamento dei piccoli, e l’epoca del parto deve protrarsi
fino alla fine dell’inverno successivo. Per questo, l’embrione deve attendere.
L’ape futuribile
Ci vorrà ancora qualche decennio, scriveva Jean Rostand
nel 1972, prima che si riesca a determinare il sesso del nascituro, scegliendo a piacimento se dar vita a un maschio
oppure a una femmina. Pessimista, per una volta, il biologo francese, perché dopo meno di 15 anni dalla sua previsione, la bimba Teresa è venuta tra di noi, progettata come
femmina in un laboratorio napoletano, a turbare le coscienze. È lecito? Non è lecito? Il fatto è che l’uomo si sta
sempre più impadronendo del proprio futuro biologico, e
non mi sento di dare l’ostracismo scientifico, o di condannare al rogo, chi se ne va dritto per questa strada, anche se
in me, lo confesso, si mescolano l’ammirazione e l’inquietudine.
Mi rassicuro un po’ quando penso che le nostre scoperte, i
nostri successi, vengono quasi sempre dopo le cosiddette
invenzioni della natura, perdonatemi se la dichiarazione
pecca di una certa ingenuità. Ma tant’è: da milioni e milioni di anni prima dei biologi di Napoli e dell’uomo stesso,
certi insetti, per esempio gli imenotteri, ed evochiamo
l’ape per la sua notorietà ecumenica, ottengono a scelta
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delle Terese o dei Giovanni; sanno, cioè, determinare il sesso della prole.
Certo, la faccenda è completamente diversa dal nostro caso.
Per noi è stato necessario separare gli spermatozoi “maschili” da quelli “femminili”, mi si consenta una terminologia da
sproloquio scientifico, mentre l’ape regina opera con altri
meccanismi biologici. Questa virago, come abbiamo già detto in precedenza, conserva lo sperma che ha ricevuto in pegno d’amore dai maschi durante il volo nuziale all’interno di
uno speciale serbatoio e ne fa un uso discrezionale. Se al
momento della deposizione delle uova nelle cellette del favo
le feconda, nasceranno solo femmine; se non le feconda,
verranno alla luce, per partenogenesi, solamente dei maschi.
Se e quando servono alla vita della comunità.
Lecito, non lecito? Sarà indispensabile in futuro riconciliare, o addirittura identificare, la biologia e la morale. O no?
La formica e la lotta biologica
Gli insetti sono i più formidabili consumatori di sostanza
vegetale del mondo. Fin dall’alba della storia, quando da
cacciatore e raccoglitore l’uomo è diventato agricoltore, gli
insetti sono stati i suoi più irriducibili competitori alimentari. Oggi, malgrado i milioni di chilogrammi di molecole di
sintesi che continuiamo a immettere nei campi coltivati, e
nell’ambiente, questi minuscoli animali rispondono alla sfida chimica aumentando il loro impatto sulla produzione
perché, pesticidi o no, le perdite sembrano, nel complesso,
in aumento.
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A cominciare dai primi secoli della nostra era, i Cinesi hanno fatto tesoro di una singolare circostanza: che i nemici
più validi degli insetti sono degli insetti. In altri termini: gli
insetti vegetariani mangiano le piante e vengono, a loro
volta, per contrappasso ecologico, divorati dagli insetti carnivori.
I Cinesi decisero così di mettere a guardia, e a salvaguardia, dei loro frutteti le formiche, e anche gli Arabi adottarono ben presto questa idea, conformandosi nelle oasi a
una strategia simile. Molto in ritardo, devo pur dirlo, rispetto a talune piante, dette mirmecofile, che da tempi immemorabili si sono poste sotto la protezione delle formiche.
Si tratta di un fenomeno straordinario, e per di più ancora
abbastanza misterioso nelle sue origini. Prendiamo, per
esempio, le piante del genere Myrmecodia. Sono più di una
quarantina e le troviamo distribuite in un vasto areale australe, che va dalla Malesia settentrionale all’Australia e alle isole Figi. Vivono sugli alberi, mangrovie sopra tutto, e
presentano alla loro base un rigonfiamento spinoso. Le spine sono radici trasformate, fatto già raro!, e la parte ingrossata (si tratta dell’asse dell’ipocotile) è percorsa internamente da una rete di gallerie. In questo labirinto abitano,
giunte lì fin dal formarsi della prima cavità, delle formiche,
principalmente del genere Iridomyrmex.
Sembra che si tratti di uno scambio vistoso di favori: dal
punto di vista della pianta, il falso bulbo è una caserma,
che ospita una piccola guarnigione in piena regola, dal
punto di vista delle formiche è un ricovero confortevole in
cui abitare e far crescere la comunità. In certi casi, tra le
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formiche e le piante che le ospitano si svolgono anche
scambi nutrizionali: gli escrementi degli insetti forniscono
al vegetale dei composti azotati, e il vegetale ricompensa i
suoi alleati con “similfrutti”, che le formiche mangiano avidamente.
Se qualcuno insidia una Myrmecodia, stia all’erta! Le “guardiane” escono in frotta e l’attaccano ferocemente.
Formiche d’équipe
A partire dal XX secolo la ricerca scientifica è molto mutata. Non c’è più Copernico nella sua torre, o Charles Darwin
a spasso ogni mattina lungo il cosiddetto “sentiero dei Pensieri”, che girava attorno alla sua casa nel Kent. Gli psicologi curiosi dei processi mentali che preludono, o consentono, la scoperta, hanno spesso osservato che un’équipe di
ricercatori bene assortita, in cui la competizione tra i membri sia mitigata da una forte stima reciproca, permette il
conseguimento di risultati assai superiori a quelli che potrebbero derivare dalla somma delle prestazioni individuali isolate.
Questo fenomeno di amplificazione, che può venire indicato con la parola generica, buona per tutto, di “sinergismo”,
è ormai di pubblica ragione, e il progresso della scienza viene sempre più accreditato all’attività di gruppi, piuttosto
che alle intuizioni di ricercatori solitari. Al punto che si ottengono più facilmente finanziamenti se si ha un’équipe
dietro di sé. Guai se si dichiara, invece, di voler lavorare in
solitudine!
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Buona o meno che sia questa idea, anzi questa ideologia,
del due più due fa cinque, sembra che anche fra certi animali l’unione non faccia solo la forza, ma abiliti a risolvere
meglio i problemi. Per esempio, mettete una formica, tutta
sola, all’interno di un labirinto sperimentale, struttura così
cara ai behavioristi, piena di vicoli ciechi e di scorciatoie.
L’animaletto mostra delle mediocri capacità di apprendere
il percorso giusto! Invece, consiglia Remy Chauvin, fate entrare nella macchina rompicapo un mucchio di formiche
rosse uscite a far raccolta sul territorio.
Le risposte sembrano migliorare di colpo. Al contrario di
quanto avviene nelle folle umane che, per dir così, esprimono un’anima e un comportamento da beoti, la folla delle formiche funziona come una équipe di ricercatori, si fa
più inventiva. I vicoli ciechi vengono scartati più rapidamente e le scorciatoie sono scoperte e adottate quasi subito. Più formiche, insomma, pensano molto meglio di una
formica sola.
La formica cieca
Uno dei racconti più straordinari di George Herbert Wells,
lo scrittore della Guerra dei mondi, è Il paese dei ciechi.
Wells immagina che un uomo capiti in una vallata sconosciuta, il solito “altrove” delle storie di fantascienza, abitata da un popolo di uomini diventati ciechi in seguito, se
ben ricordo, a una degenerazione genetica o all’azione di
un virus. Colpiti da questa grave menomazione, i valligiani
si sono adattati perfettamente a vivere impiegando gli altri
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sensi, e hanno finito per disprezzare, come inferiore, chi ci
vede. Tentano, così, di convincere lo straniero, che si è dichiarato vedente, a imitare Edipo e a mutilarsi con le proprie mani entrando a far parte di questa società di amici
delle tenebre.
Al di là della finzione letteraria, è possibile teorizzare un
mondo abitato da uomini ciechi? Forse, ma a condizione,
comunque, che gli altri sensi subiscano un notevole potenziamento. Pensavo a tutto questo rileggendo quel libro epico in cui Renaud Paulian racconta le peripezie di una sua
spedizione scientifica in Costa d’Avorio.
Uno dei punti più impressionanti ha per protagoniste le
Anomma, le terribili formiche migratrici, che gli indigeni
chiamano Mañans. Queste predone non abitano in un formicaio, ma eleggono delle dimore provvisorie, per esempio
le cavità sotto il ceppo di un albero, e si spostano periodicamente in massa, seminando il terrore nella foresta. Tutto quello che non fa in tempo a fuggire a gambe levate viene aggredito e, se è il caso, fatto a pezzi e divorato.
Quando le Anomma non compiono migrazioni vere e proprie, trasferendo la prole e la regina, fanno razzie, spostandosi in file compatte vigilate dai soldati, più grossi e con
mandibole più potenti, veri e propri samurai della società.
In formazioni compatte, le Anomma esplorano sistematicamente la foresta, assalendo insetti e vermi, ma facendo fuggire anche i grossi animali e gli uomini. I gruppi
di razziatrici operano in concerto e per porzioni di foresta,
e non succede quasi mai che invadano di nuovo un’area già
“sfruttata”. Queste prodezze sono eseguite dalle Mañans
con l’ausilio del tatto e dell’olfatto che, come succede in
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genere negli insetti, è di una eccezionale sensibilità. Perché, lo credereste?, sono cieche.
La formica “ventisei-uomini”
Di tanto in tanto nascono uomini dotati di una prestanza fisica singolare, non gonfiati in palestra, ma muscolosi d’origine che, emuli dell’Ercole mitologico, compiono prodezze
davvero epiche. Tommaso Tophan è stato uno di questi
campioni del genere umano. Nato a Londra nel 1710, l’atleta di strada era un uomo tozzo, dalle spalle larghe e dal collo taurino, capace di imprese leggendarie. Per esempio, all’età di ventuno anni, a Derby, raccolse la sfida di alcuni increduli e sulla pubblica piazza, posto in cima a un traliccio
di legno, sollevò tre botti piene d’acqua, agganciate al suo
collo da alcune solidissime strisce di cuoio. Il peso del malloppo era di 1.836 libbre inglesi, ovverosia di circa 610 chilogrammi.
Ma non basta. Un’altra delle sue performance consisteva
nell’alzare dal suolo con i denti una tavola di legno lunga
due metri, gravata all’estremità da un peso di mezzo quintale, e nel tenerla per qualche tempo orizzontale.
Non aveva torto il fisico Jean Désaguliers, che prese in esame per qualche tempo l’uomo fenomeno, ad attribuire al
superfusto la forza di dodici uomini.
Eppure, fatte le dovute proporzioni, dal punto di vista delle formiche le gesta del grande Tophan sono all’ordine del
giorno, e diventano delle vere e proprie bazzecole. Prendiamo, per esempio, le formiche del gruppo “rufa” che vi46
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vono nei boschi di conifere delle Alpi. Queste industriose
creature costruiscono la parte emersa del nido, detta
acervo, un curioso cumulo a cupola, con gli aghi dei larici
e degli abeti raccolti variamente in giro e messi diligentemente “in opera”. Se supponiamo che una formica sia un
uomo di una settantina di chilogrammi, lo vediamo manovrare con facilità un travicello di larice dello stesso suo peso, e sopra tutto degli aghi di pino austriaco che, se tanto
mi dà tanto, equivalgono a un manufatto di mezza tonnellata o giù di lì. Fin qui, la formica emula Tophan e Tophan
la formica, ma talune frustule vegetali incorporate nella
massa dell’acervo, e quindi trasportate in loco da qualche
formica, totalizzerebbero, mantenendo il rapporto di proporzioni uomo-insetto, il peso di circa due tonnellate! In altre parole, se diamo per buona la stima di Désaguliers che
era, dopo tutto, uno scienziato, una formica esibisce, nel suo
piccolo, la forza di due Tophan, ovvero di ventisei uomini.
La formica drogata
Nel vecchio film Don Camillo, tratto dal romanzo omonimo di Guareschi, si assisteva a uno degli scioperi duri della bassa padana. Il personale addetto alle stalle aveva incrociato le braccia, e le vacche da latte – quelle del grana!
– non più munte da nessuno, avevano le mammelle gonfie
da scoppiare, e riempivano la notte dei loro penosissimi
muggiti.
Accadeva così, in quell’Italietta cantata da Guareschi, che
don Camillo, un prete mica tanto prete, e Peppone, un ros47
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so un poco rosa, in nome della sofferenza degli animali, decidessero di recarsi, eludendo la sorveglianza dei picchetti, a sgravare del loro latte le vacche, mettendo fine ai loro
tormenti. Difatti, queste povere bestie domestiche sono diventate progressivamente dipendenti – pena la vita! – dal
mungitore o dalla mungitrice meccanica.
Al principio, una vacca “selvatica” produceva circa tre
quintali di latte all’anno. Ai giorni nostri ce ne regala, in
media, 50 quintali, ma si conoscono picchi stakanovisti di
100 quintali e più. Per dir così, l’animale va letteralmente
“in acqua”!
Ma se l’uomo modella a sua immagine il mondo – è la sua
principale occupazione! – gli altri organismi non perdono,
nel loro piccolo, l’occasione. Quando interagiscono tra di
loro si modificano reciprocamente, e succede spesso che
l’uno si leghi indissolubilmente all’altro e lo elevi a interlocutore necessario per la propria sopravvivenza. Si veda, al
riguardo, il caso delle formiche e dei lepidotteri licenidi. Le
larve di questi insetti sono provviste, sulla parte dorsale
del settimo e dell’ottavo segmento addominale, di ghiandole particolari che secernono liquidi o sostanze volatili “inebrianti”.
Le formiche, con le zampe anteriori e con le antenne, sollecitano l’emissione di questi composti, di cui si nutrono
avidamente. Le larve dei licenidi sono, così, una sorta di
bestiame, e per questo le formiche le proteggono dai nemici e costruiscono attorno a loro, in qualche caso, perfino
delle rudimentali tettoie in terra. Ma c’è una circostanza
curiosa, che ci riporta a quella notte della bassa padana in
cui don Camillo e Peppone fecero il compromesso storico:
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le larve, se non vengono munte di quando in quando dalle
formiche, muoiono.
La formica robot
Che cosa fa quella formica? Invece di ritornare buona buona, di sera, nei meandri sotterranei della sua città, si arrampica, spinta da uno strano impulso di scalatrice, fino
sulla cima di un filo d’erba, dove afferra con le mandibole i
tessuti vegetali e resta immobile, folgorata da un misterioso incantesimo. Sembra in attesa di qualcosa, forse di un
evento definitivo e liberatore. Bene: è proprio così. Ha un
appuntamento mortale con la pecora che, brucando l’erba,
la inghiottirà, inviandola dritta nel suo tubo digerente. Il
bello è che la cosa, nel suo accadere, è favorita dalla posizione “di vetta” che la formica occupa e che rende certo
più probabile la sua ingestione da parte dell’erbivoro.
Un caso strabiliante di amor fati per dirla con le intuizioni di Friedrich Nietzsche? La formica contribuisce attivamente alla sua distruzione! In realtà, è così e non è così,
perché il nostro insetto sta obbedendo agli ordini di un invasore che, piazzato nel suo cervello, l’ha trasformato in un
piccolo robot.
Non so se qualcuno ricorda il romanzo di fantascienza di
Robert Heinlein Il terrore della sesta luna. Narrava di invasori spaziali che parassitizzavano animali e uomini, rendendoli schiavi dei loro voleri.
Per la nostra formica la faccenda è andata più o meno in
questo modo. Un minuscolo verme, il Dicrocelium den49
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driticum, che completa il suo ciclo biologico nella pecora,
l’ha prescelta, Dio solo sa perché, come uno dei suoi ospiti intermedi. Prima ha invaso una lumaca, poi passa nella
formica, e qui deve progettare la maniera di entrare nell’intestino di una pecora.
Come fare? Semplice, un verme raggiunge quella parte del
cervello dell’insetto che governa i movimenti delle mandibole e delle zampe, smonta il programma esistente e ne rimonta uno suo. “Sali in cima al filo d’erba e restaci”, comanda al suo automa. Quello esegue e la pecora lo bruca.
In un certo senso, Alien è sempre stato tra di noi.
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I miei gatti
e qualche cane
Il gatto allo specchio
Il mio gatto è allo specchio. Fissa con una certa curiosità,
e forse un po’ di tensione, la propria immagine riflessa.
D’un tratto si alza, per dir così, in piedi, puntellandosi con
le zampe anteriori contro la superficie magica che sta tra
lui – questa sembra essere la sua ipotesi – e quell’altro gatto un poco irreale, quasi un fantasma, che si muove “al di
là”: come Alice nel romanzo di Lewis Carroll, il mio amicone si adopera per andare oltre lo specchio, a raggiungere
quel sé stesso non riconosciuto come tale. Alla fine desiste,
pieno di inquietudine.
Possiamo affermare senza tema di smentite che non sa superare la prima fase del rapporto tra il bambino e lo specchio, quella prima fase che lo psicoanalista Jacques Lacan
ha posto ai primordi della nascita dell’io. In tal senso, non
riconoscersi allo specchio equivale a non conoscersi come
individui, per cui il mio gatto, per altri versi notevolmente
intelligente, rivela in questo frangente una debole coscien51
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za di sé. Ma non è certo così per tutti gli animali, soprattutto per quelli più evoluti, come le scimmie antropomorfe,
dotate sicuramente di autoconsapevolezza.
Charles Darwin pose, una volta, uno specchio davanti a due
oranghi, e accertò come essi si comportassero più o meno
come il mio gatto. Ma se il grande naturalista non si fosse
accontentato di queste sommarie osservazioni e avesse fatto qualche esperienza sottile, avrebbe scoperto delle cose
quanto mai istruttive. Una volta, per esempio, uno scimpanzé venne narcotizzato e gli fu spruzzata sulla testa della vernice di colore rosso. Uscito dal sonno artificiale, il bell’addormentato nello zoo fu portato davanti a uno specchio.
L’animale osservò attento la propria immagine e fece il gesto cruciale. Ispezionò con le dita la macchia ma, si badi bene: non sulla testa di quell’altro, che stava nello specchio,
ma sulla propria. Si “riconosceva”, ergo: si “conosceva”.
Il gatto un po’ genio
Nei giardini zoologici, belli o brutti che siano, gli animali
impazziscono. D’altra parte, nelle nostre grandi città, prigionieri della civiltà delle macchine e della folla, gli uomini
danno sempre più frequentemente di matto.
Anche i piccoli amici, che alleviamo e curiamo amorosamente nei nostri appartamenti, cani e gatti soprattutto,
pagano le nostre attenzioni con la frustrazione e la nevrosi. D’accordo, non sono delle tigri. Li abbiamo modellati fin
dalla preistoria a nostra immagine, li abbiamo selezionati
perché meglio accettassero di vivere con noi.
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In realtà, è sufficiente che un passero si posi e cinguetti
ignaro sul davanzale di una finestra, perché il pacioso gatto di casa subisca una perversa trasformazione.
Chi sarà mai quella piccola belva con gli occhi sulfurei e le
unghie pronte allo scempio? Povero mister Hyde: che tristezza non potere uccidere! In un mondo che gli altri, e non
lui, hanno “moralizzato”, il povero Fuffi è un assassino in
astinenza per mancanza di vittime. Alcuni dei suoi fasti e
nefasti denunciano apertis verbis che è ormai un animale
un po’ pazzo.
Mescola comportamenti sensati ad altri che avevano, un
tempo, per la specie, un loro significato biologico, ma che
ora sono messi in atto a vuoto, a riprova dello stato confusionale della bestiola.
Per esempio, il mio gatto da qualche anno, con l’intuizione
e forse anche con l’osservazione, entrambe prodigiose, ha
scoperto la destinazione del water-closed, e ne fa uso, per
lo meno per i “rifiuti liquidi”, e non solidi, del suo organismo.
Lo osservo all’opera: con il corpo in precario equilibrio sulla tazza, la coda eretta e il posteriore spinto sul vuoto, assolve la sua funzione fisiologica. Che genio!, si griderebbe.
Ma ora, che cosa fa? Con le zampe spazza per bene la ciambella, “come se” volesse coprire con la terra il suo escreto.
Se fosse in giardino, la cosa andrebbe bene, ma qui? A che
cosa serve più tutto quel suo darsi da fare? A nulla: ergo, il
gattone è nevrotico.
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Il gatto a parlamento
Qualcuno ha scritto che gli istinti sono delle vere e proprie
monomanie. Si traducono, difatti, in azioni coatte: l’animale non può impedirsi di far così. In realtà, le cose, come ha
scritto Julian Huxley, stanno diversamente: esiste una sorta di “parlamento degli istinti” e ne trovo la conferma osservando il mio gatto.
Il piccolo felino mi sembra sovente in balia di uno “stato
d’animo” che gli psicoanalisti non esiterebbero a decretare
di “ambivalenza”. Delle pulsioni opposte confliggono in lui
e si alternano bruscamente, in una sorta di oscillazione
etologica.
Per esempio, l’amicone è venuto a cercarmi sul divano: si
avvicina facendo ron-ron, e io gli accarezzo la testa. Ma
ecco che la sua coda comincia a flagellare l’aria, e sappiamo che questo non annuncia nulla di buono. Circostanza
curiosa: il ron-ron, che costituisce una sua offerta di pace
sonora e un segnale di beatitudine, si sovrappone, per dir
così, e coabita con il movimento della coda, che significa:
attenzione, sono nervoso e sto per aggredirti. La beatitudine e l’inquietudine stanno parlamentando, e il gatto è in attesa, socchiudendo gli occhi, della decisione finale. D’un
tratto, il ron-ron gli muore in gola e mi rifila un’unghiata
fulminea, dandosi subito dopo alla fuga. Questa instabilità
di “carattere”, che rende sempre difficile convivere con un
gatto, e che ha avvalorato nel tempo la diceria che il nostro
eroe sia, per costituzione, proclive al tradimento, dipende,
sicuramente, dalla sua imperfetta domesticazione.
Il lupo, l’antico avo del cane, era un animale “di gruppo”,
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per cui la sua domesticazione è stata in linea con la sua
precedente socializzazione. Ahimè, il gatto selvatico delle
origini era un predatore solitario e quando l’uomo, nei granai dei faraoni, incontrò il gatto, per parafrasare il titolo di
un libro di Konrad Lorenz, la loro amicizia non aveva, per
dir così, delle basi genetiche, e cominciò nel segno di un
rapporto “difficile”.
Il gatto selvatico non aveva alcun padrone, e anche il suo
discendente non ne riconosce alcuno: ci degna soltanto di
una sua “amorosa preferenza”. Abita con noi e fa, quando
gli garba, il carino, ma nei sogni, credetemi, va ancora in giro nei boschi, mister Hyde onirico, a menar strage tra i topi e gli uccelletti.
La gatta psicosomatica
Una mia amica, persona sensibile e di gusti squisiti, venne
piantata in asso dal fidanzato, un rozzo atleta che lei amava teneramente (costituiva l’eccezione alla regola della sua
vita, improntata a un’estrema raffinatezza), e cadde in preda alla malinconia. Dopo alcuni mesi di fuga in sé stessa cominciò a perdere i capelli e il medico di famiglia, che era
anche il mio, non esitò a diagnosticare il caso come alopecia psicosomatica. La perdita del fidanzato, mi spiegò, si
era somatizzata nella perdita dei capelli. L’inconscio, in altre parole, opera sul corpo per metafore. Non potei sottrarmi a un ricordo e a una comparazione anche se, per non offendere nessuno, mi tenni la cosa per me.
Una mia gatta di nome Pallina, si trattava di una siamese,
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mi era molto attaccata. Di notte dormiva ai piedi del mio
letto, ronfando come un sassofono sfiatato, e di giorno voleva continuamente giocare al gatto e al topo. Naturalmente io ero il topo, e mi tendeva degli agguati, inseguendomi
lungo i corridoi della casa o in biblioteca, deliziata se io fingevo di prendere la minaccia sul serio e fuggivo impaurito.
Un brutto giorno per lei decisi di andare in vacanza per tre
settimane, e l’amico che mi ospitava in Sardegna aveva poca simpatia per gli animali in generale, e per i felini in particolare. Era la nostra sola ragione di dissenso. Affidai così
alla donna di servizio il compito di riempire ogni giorno la
ciotola di Pallina, ma non si vive di solo pane, e la bella siamese dovette soffrire intensamente di solitudine.
Al mio ritorno scoprii con sgomento che aveva perduto
gran parte del suo pelo, soprattutto sui fianchi, e che sembrava decisa a fare in breve tempo uno “spogliarello” totale. Si trattava di una parassitosi? Di una carenza di vitamine? Di un eczema? Macché, il veterinario escluse tutto
questo e alzò le spalle. Per fortuna, nel giro di un mese, il
fenomeno, spontaneamente, ovverosia senza nessuna cura, cominciò a regredire e la gatta a riprendere il pelo, e insieme il vizio di trattarmi come un topo.
Anche per Pallina, come per la mia amica, si era trattato di
una somatizzazione dell’abbandono? Non voglio formulare
diagnosi avventurose, ma mi sembra doveroso riferire che
negli animali domestici sono stati osservati − si veda la rassegna di J. Guilhon − dei casi di alopecia su base psichica.
Per esempio, una gatta perdette il pelo dopo un intervento chirurgico, e un cane dopo il taglio “estetico” degli orecchi. Per Pallina il trauma era stato l’improvvisa solitudine?
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Il gatto e la morte
Gli animali, decretano i filosofi, non hanno come noi la coscienza della morte. Sarà vero? Penso, in linea di massima,
di sì: per lo meno, la morte non la prevedono da lontano,
ma è sicuro che la temono se è vicina.
Spesso le leggende nascondono una verità di “seconda mano”, tramandano qualcosa di vero solo in un senso parziale, onirico: difatti se è falso che esista, in qualche parte dell’Africa, il “cimitero degli elefanti”, un luogo in cui i vecchi
della specie si recherebbero per morire in solitudine, risponde a verità il fatto che molti animali tendono, quando
stanno molto male o sono stati feriti gravemente, a isolarsi, a fuggire dagli altri per morirsene in santa pace.
Durante la mia vita, passata insieme ai gatti, ho potuto constatare diverse volte che questi felini, afflitti da qualche infermità improvvisa e incurabile, vanno a nascondersi. Spariscono sotto i mobili, o si rifugiano in fondo a un armadio,
o in un angolo remoto del giardino, e più si sentono male
più si fanno trasparenti e invisibili. È come se il gatto proiettasse quella morte, che sente in sé, fuori di sé, reificandola, facendone una entità minacciosa che lo insegue e alla quale la bestiola vuole nascondersi.
Non essere trovato significa non morire? Chissà! Ma anche
tra gli animali selvatici, in libertà, sembra esistere questo
pudore della morte, e G.B. Schaller, un ricercatore che, per
primo, ha vissuto quasi un anno con un gruppo di gorilla,
ci racconta in merito una storia pietosa e gentile. Un gorilla avanti negli anni, un capo, si era ammalato di una grave
affezione intestinale e sporcava tutto in giro.
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Sembrava vergognarsene perché, ben presto, lasciò il
gruppo e sparì nella foresta. Non del tutto solo, però, perché uno dei piccoli del suo clan lo seguì nell’esilio, come se
volesse prestargli, se non assistenza, per lo meno conforto
in quell’ultimo cimento.
Furono veduti vagare tra gli alberi per qualche giorno, il
vecchio sempre più malandato e sofferente e il giovane
sempre più deciso, a quanto sembrava, a non abbandonarlo. Li trovarono, alfine, su di un pendio: il capo morto e il
suo fedele gregario che lo vegliava. E ce ne volle del bello
e del buono per farlo desistere dalla sua veglia funebre.
Il gatto “gesticola”
Quando Charles Darwin diede alle stampe L’espressione
dei sentimenti nell’uomo e negli animali si capì finalmente che la comunicazione non è solo di natura verbale,
ma che un movimento delle ciglia, o una smorfia, fanno
parte di un linguaggio, di natura gestuale, che funziona con
notevole efficienza.
Non a torto Margaret Mead ha sottolineato l’importanza
dell’opera del grande naturalista inglese nell’ambito dei
messaggi senza parole, che tanto interessano insieme l’etologo e l’etnologo.
Chiunque sia vissuto per qualche anno con un gatto apprende ben presto l’importanza dei suoi segnali corporei,
che ne sbandierano l’umore. Se si flagella i fianchi con la
coda, corre brutta aria. Ben presto l’animale passerà a vie
di fatto: mettetevi subito in salvo dalle sue unghie. Per quel
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che concerne il muso, gli etologi hanno messo in luce ben
settantacinque segnali possibili e vi conviene, se volete vivere in armonia con lui, imparare i più importanti.
Prendiamo il gioco delle orecchie: se sono dritte, il mondo
è in ordine; se troppo dritte, il gatto diffida; se le piega di
lato denuncia attenzione e attesa; infine, se l’animale le gira all’indietro è bene fare attenzione, perché sta per andare su tutte le furie. Si tratta di un vero e proprio “lessico
auricolare”!
Ma i segnali variano di significato da una specie all’altra,
per cui si può ben dire, con non so quanto felice analogia,
che esistono delle differenti lingue senza parole: è il corpo
che le parla. Per un cane, il movimento della coda, al contrario che nel gatto, segnala esultanza e benevolenza. Ma
se un gatto “fa la gobba”, o un cane, per converso, mette in
linea rigida il dorso bisogna stare in guardia: sono segnali
di guerra.
Tra gli uomini di diverse culture, quando il linguaggio verbale è impedito, e non c’è uno straccio di interprete in giro, il linguaggio gestuale acquista importanza. Ma attenzione a non fare delle gaffe! Altrimenti vi può succedere come
a quel capitano dei marines che, sbarcato su un’isola del
Pacifico, aveva voluto testimoniare la sua amicizia a un capo villaggio prodigandogli un colpetto con la mano sul capo. Rabbia generale, i nativi agitano minacciosamente le
lance. Quel gesto, si scoprì dopo, equivaleva a gratificare il
beneficiario con un “testa di…”.
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Il cane simulatore
Una delle strategie più comuni del nevrotico, studiata per
bene da Adler, consiste nel fingersi perpetuamente malato,
oppure, che è in fondo lo stesso, nell’occultare la sopravvenuta guarigione. Si vuole, in tal modo, catturare la benevolenza e ottenere il gradevole risultato di porsi al centro dell’attenzione universale. “Poveretto, soffre tanto!”, queste
parole riempiono di esultanza il malato immaginario, perché acquista la certezza di essere amato, e che comunque
si continua a parlare di lui.
Bene, sembra che anche tra i cani sia stata osservata questa perversa tendenza a perdurare nella malattia, esibendone certi sintomi anche dopo che il veterinario ha decretato
la guarigione completa. È chiaro come si attiva, nel proverbiale “amico dell’uomo”, questa nevrosi di sapore molieriano: il cane si è raffreddato e ha cominciato a tossire. Ed ecco che il padrone diventa più sollecito: gli propina, forse,
qualche cattiva medicina, ma in compenso lo coccola, lo
prende in braccio, gli parla con grande dolcezza.
Il cane non è mica scemo: ben presto collega la tosse a tutte quelle attenzioni, e nota che se diminuisce, calano anche
le coccole. Dunque, sarà pur lecito simulare un po’ di tosse, che diamine! Un mio collega, uomo non uso a contar
frottole, mi ha raccontato che il suo cane ha continuato a
zoppicare anche dopo che la ferita al piede si era perfettamente cicatrizzata. Al punto che si sospettò che un frammento dell’iniquo chiodo fosse rimasto in loco, ma ogni investigazione in tal senso non diede alcun risultato.
Secondo gli studiosi di queste singolari nevrosi, è necessa60
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rio prestar molta attenzione se si decide di smascherare il
simulatore. Un brusco intervento (per esempio, afferrare e
scuotere la zampa “psicomalata”) può evocare una crisi
d’ansia, per cui il povero cane cade in una depressione prolungata e manifesta aggressività. Non fa piacere essere
trattati da bugiardi, soprattutto se lo si è!
Si consiglia, questa è la cura, di far calare piano piano le attenzioni, finché cane e padrone ritrovino il loro comportamento reciproco di sempre. Esiste, allora, una possibile
psicoanalisi degli animali?
La cagna isterica
Uno dei fenomeni più surreali, e strani, è la cosiddetta gravidanza isterica, croce e delizia dei sostenitori della medicina psicosomatica. Una donna, colpita da una vera e propria ossessione frustrata di maternità, fantastica di essere
incinta e siccome, come dice la canzone della Cenerentola di Walt Disney, i sogni son desideri, quel desiderio finisce per iscriversi nel corpo e per forzare, da contrabbandiere, i confini del reale. Alla finta gravida cessano le mestruazioni, ed ella cade preda di nausee, capogiri e vomiti,
come se fosse al secondo o al terzo mese; il suo ventre, poi,
si ingrossa in proporzione. Finché, ovviamente, il delirio
perde quota e tutto finisce nel niente, il sogno torna sogno,
e il ventre fa puff, e svanisce come una bolla di sapone.
Una persona degna di fiducia, il cui padre alleva cani per
scopi venatori, da me aspramente riprovati, e che per la incongruenza del cuore umano ama i gatti, ma sicuramente
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meno le lepri e i fagiani che fucila senza pietà, mi ha raccontato una storia che trovo strabiliante, ma che è suffragata dallo spergiurare di numerosi testimoni oculari.
Il cacciatore non-pentito, e cinofilo, possedeva due cani
bracchi italiani, se ben ricordo, due femmine che vivevano
insieme in perfetta concordia. Una delle due venne un bel
giorno destinata alla riproduzione, ma l’esclusa, selezionata sessualmente, sopportò male la cosa e decise di prendersi una rivincita nell’immaginazione. Si “inventò” così
una gravidanza, crebbe di volume, e quando l’altra partorì
le sue mammelle si gonfiarono per bene di latte. Era, in tal
modo, pronta ad affrontare i compiti di madre del desiderio, e li assolse non nel sogno, ma nel reale.
Fu così che la cagna “isterica” diventò una balia in piena
regola, e con grande stupore il “padrone” poté assistere alle gesta di una famigliola molto particolare. Metà della cucciolata venne allattata dalla madre vera, e metà dalla madre “vicaria”, e non risultò a nessuno che l’una fosse, alla
fin fine, più efficiente dell’altra. I quattro piccoli crebbero
sani e robusti, e vissero comunque tutti felici e contenti.
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Bestiario d’amore
C’e’ amore e amore
Tra gli animali, le cose del sesso sembrano essere meno
complicate che tra gli uomini, o per lo meno risultano più
lineari e perentorie.
L’estro è il grande semplificatore di tutta la faccenda, quello
stato fisiologico e comportamentale che le femmine degli animali esibiscono, sovente in maniera vistosa, per pubblicizzare
la propria abilitazione e disponibilità a venire fecondate. I segnali sono davvero inequivocabili: le parti genitali si arrossano,
gli effluvi odorosi saturano l’atmosfera, le posture di copula
vengono assunte con insistenza, si fa di tutto per convincere il
maschio che è venuto il momento di fare il proprio dovere.
Nella donna, invece, l’estro è scomparso. Il momento dell’ovulazione resta sconosciuto, sia alla donna che al suo
compagno, e non si sa più che pesci pigliare se si vogliono
dei figli, o se si vuole evitare di averne! Dato che, in natura, nulla che duri è senza significato per la sopravvivenza,
l’eclissi dell’estro deve pure obbedire a qualche esigenza
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d’ordine generale. Qualcuno ha pensato che l’assenza di un
periodo limitato di ricettività sessuale nella donna consente una sua continua disponibilità per il maschio, favorendo
il legame di coppia e la monogamia.
Eppure, tra le scimmie, i gibboni restano insieme tutta la
vita pur accoppiandosi solo all’epoca degli amori.
Di recente, Richard Alexander e Katherine Nooman hanno
emesso una ipotesi ispirata alla sociobiologia. Tra i sessi,
hanno decretato i due scienziati, ciascuno tira l’acqua al suo
mulino, e sono due mulini differenti. Alla donna conviene essere monogama, perché le fa gioco avere, a full-time, un uomo che si occupi di lei e della prole. L’uomo, al contrario, trova il proprio interesse nel diffondere il più possibile i suoi geni, ed è così proclive alla poligamia. La scomparsa dell’estro
ha consentito un compromesso tra queste due esigenze contrastanti. Infatti, se il momento dell’ovulazione resta silente,
il maschio desideroso di figli che perpetuino i suoi geni, deve, con la stessa femmina, provarci e riprovarci, per essere
sicuro di conseguire il suo scopo, ed è così che rinuncia, per
gran parte del suo tempo, a fare il don Giovanni. È bene anche che la femmina ignori dal canto suo il momento fatale,
perché potrebbe, sapendolo, tradirsi, informando il maschio,
che coglierebbe l’attimo fuggente per darsi subito dopo alle
“avventure fuori casa”.
Ditelo coi doni
Se vai dalle donne, ha scritto Friedrich Nietzsche nel suo
furore di maschio iconoclasta, non dimenticare la frusta.
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Dal canto mio consiglio, invece, di non scordare un piccolo regalo che, state pur certi, non guasta mai. Anche le
femmine di numerosi animali danno segno di gradire il
pensiero, e il rituale del dono è in molti casi parte integrante del corteggiamento e delle strategie di seduzione.
Tra gli uccelli, per esempio, il maschio della sterna deve
portare alla femmina un piccolo omaggio gastronomico, un
pesce, e si possono osservare i due amorosi che si guardano negli occhi tenendo la preda nel becco alle due estremità. Vada per gli uccelli, che sono notoriamente così intelligenti! Ma chi direbbe che anche tra gli insetti è in voga la
consuetudine del “dono nuziale”?
Per esempio, esiste nell’Africa tropicale una cimice vegetariana che va in cerca della femmina con un seme di ficus
infisso nel rostro appuntito del suo apparato boccale.
Quando si imbatte alfine nella sua bella, esibisce il seme,
poi lo fa ruotare tra le zampe, lo punge più volte e inocula
nei tessuti vegetali della saliva, provocando una sorta di
predigestione. Offre, quindi, il sorbetto alla femmina, che
comincia a suggerlo e, nel contempo, consente a entrare in
copula.
Un comportamento egualmente sorprendente è stato osservato in un insetto del New Messico, la cosiddetta “mosca tumbu”. Il maschio afferra una preda e la mette in mostra, perché la femmina esamini il dono, e decida se ne vale la pena. Se accetta, mangia un po’ del cibo esposto e si
concede all’offerente. Altrimenti, se la preda è misera, non
esita un istante a piantare in asso il maschio così poco munifico. Gli amori disinteressati sono rari... e non solo tra gli
insetti.
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Afrodisiaci salutari
Il marchese de Sade, lo apprendiamo dagli atti del suo processo per l’affaire di Marsiglia − i capi di imputazione per
lui erano avvelenamento e pratiche sessuali innaturali −
prima di scatenarsi nell’orgia, ovviamente “sadica”, sembra
offrisse alle sue vittime dei confetti conservati in una scatoletta di cristallo cerchiata d’oro. Si trattava di dolcetti
afrodisiaci, o per lo meno presunti tali. Nel corso dell’indagine giudiziaria si scoprì che le sostanze di base dell’esca
erotica erano dell’anice e della cantaridina, e che era stata
proprio quest’ultima sostanza a provocare dei sintomi di
intossicazione in una delle prostitute reclutate per il divino marchese dal fedele servo, e compagno di crapula, Latour.
Questa “droga” dal nome accattivante, cantaridina, è un
composto biologico noto fin dall’epoca remota di Ippocrate e veniva considerata, a torto o a ragione, nella farmacopea tradizionale, un rimedio contro l’impotenza, e quindi,
logico corollario, un potente incentivante sessuale. Da usare con discrezione, però, perché la cantaridina non è affatto innocua. Tutt’altro! Le sue origini sono perlomeno curiose: è un composto elaborato nei laboratori fisiologici di certi insetti, coleotteri meloidi, e impiegato da loro come una
sottile arma chimica. Difatti questi insetti, posti in condizioni di emergenza, emettono delle goccioline del loro sangue “cantaridinizzato” e fanno desistere l’aggressore. Sulla
nostra pelle, per esempio, il liquido suddetto provoca degli
sgradevoli e vistosi effetti vescicatori.
Anche altri piccoli coleotteri, gli stafilinidi, se vengono schiac66
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ciati sulla cute con una pacca dall’uomo che ne è infastidito,
producono delle piaghe, e questo fenomeno, in certe zone del
mondo, assume una frequenza non trascurabile. Nel 1912, un
entomologo brasiliano individuò il Paederus colombinus come responsabile di queste affezioni cutanee, battezzate, per
l’appunto, pederosi. Fino agli anni Cinquanta il principio attivo della patologia dermale fu creduto la solita cantaridina, ma
ricerche successive di Mario Pavan e di una équipe di chimici
misero in luce un’altra molecola, che prese il prevedibile nome di pederina.
Fin qui la faccenda non sembrerebbe di grande interesse,
ma la pederina, questo è il bello, si rivelò ben presto un
diavoletto a vocazione duplice. Infatti, mentre a forti dosi la sostanza necrotizza i tessuti, a dosi omeopatiche, e
cioè piccolissime, inverte la sua attività e induce la cicatrizzazione. Ottima, quindi, per la cura di piaghe renitenti a ogni altro trattamento. Le risultanze cliniche recenti
sono molto favorevoli. C’è una farmacia degli insetti nel
nostro futuro.
’ da molecole
Castita
Si racconta, e la faccenda, benché sordida e crudele, ha generato una falange di lepide storielle, che il signore del feudo, partendo per le crociate, prendesse le sue misure per
non diventare padre di un qualche bastardo, magari con le
stesse fattezze del suo stalliere.
L’ordigno posto a guardiano della fedeltà della “bella-lasciata-sola” era di ferro, conformato a guisa di mutanda crivella67
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ta di fori, come le padelle per le caldarroste, e veniva assicurata ai fianchi della donna mediante una catena e un lucchetto, di cui il prode Anselmo portava seco le chiavi.
Sono certo che di queste chiavi ne restassero sempre, in
qualche stipo segreto del maniero, alcune copie, e mi sembra che la castellana, di fronte a tanta iniqua sfiducia, avesse tutti i diritti di applicare la legge del contrappasso e di
dare a Cesare quel che è di Cesare, nel caso nostro un bel
paio di corna.
Tra l’altro, un po’ di sangue plebeo non poteva che giovare
alla nobiltà del tempo, usa a favorire le nozze tra parenti,
vicini o lontani, e a esporsi ai rischi della consanguineità.
Dobbiamo ammettere, però, che tra gli altri animali, certi
maschi, posti in un simile frangente, si comportano in maniera insieme più soffice e più efficace, ricorrendo non a
barriere di metallo, ma a dissuasioni molecolari: in altre parole, a cinture di castità “chimiche”.
Prendete il caso del “serpente giarrettiera a fianchi rossi”.
Dopo aver fecondato la femmina, il nostro amico la contrassegna, in prossimità della cloaca, con una pallottola
odorosa. Gli effetti di questa sostanza magica sono strabilianti: il feromone repulsivo è capace non solo di allontanare i maschi che vorrebbero godere a loro volta dei favori
della serpentessa, ma addirittura, se si avvicinano troppo,
di renderli impotenti per il resto della giornata. Che sia
proprio quel grumo di gelatina a funzionare come cintura
di castità è dimostrato dal fatto che se il dissuasore chimico viene trasferito su una femmina vergine, maschi, prima
assidui, cominciano a fuggirla come se avesse la peste.
La trama di un possibile romanzo di fantascienza: nel 3001,
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il principe Aster deve partire per una spedizione con le
astronavi ed è sposato da poco. Chiama, allora, il chimico
di corte...
Musica, “maestro”!
Avrete osservato spesso che le coppie umane, soprattutto
se affiatate, finiscono per diventare una piccola società a
parte, con comportamenti propri e un repertorio di gesti, e
di parole-chiave, che solo i due impiegano e comprendono
nel loro “vero” significato. Per esempio, uno dei due “colombi” pronuncia una certa parola, banale per voi, come
“mare”, e voi cogliete, tra loro, il fulmineo scambio di uno
sguardo, mentre l’ombra di un misterioso sorriso, da novella Gioconda, affiora sulle labbra della donna. Avvertite che
è filtrato un messaggio in cifra, che si è aperto lo spiraglio
su di un mondo segreto da cui voi siete irrimediabilmente
esclusi. Certe volte vi piglia perfino la mosca al naso, perché è come se tacendo a voi, ed evocando tra loro quell’episodio cruciale, che la parola “mare” ha richiamato alla
memoria, i due maleducati vi avessero sbattuto la porta sul
muso.
In realtà, in ogni coppia, lo so per esperienza, e anche voi
lo sapete, esiste un istruttore, e un imitatore, e spesso il
plagiato non si accorge neppure di esserlo, perché la sua
manipolazione psicologica si è svolta con suprema discrezione. Ahimè, temo per noi maschietti che sia la donna a
forgiare lo “stile” della coppia, e che il comportamento di
“lui” risulti alla fine totalmente modellato da “lei”.
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Ho fatto questa pensata leggendo un libro di Wolfgang
Wickler, I dialetti degli animali, a proposito del destino
del povero molotro. Esistono due sottospecie di questi uccelli, che cantano secondo uno “spartito” un po’ diverso, e
l’apprendimento dei dialetti, se possiamo chiamarli così, è
governato dalle femmine, che pure, da parte loro, non
cantano.
Paradossalmente, queste femmine mute sono le maestre di
musica dei loro maschi, e le lezioni vengono impartite non
mediante suoni, ma tramite comportamenti. Difatti, se il
maschio, nel corso della serenata, commette qualche errore, e cioè adotta “passaggi” della specie vicina, la femmina
non si lascia accostare, lo snobba e lo aggredisce perfino se
insiste. Man mano che il canto diventa più conforme al modello melodico atteso, la bella molotra si mostra sempre
più condiscendente, finché non ottiene una dichiarazione
canora tutta nel dialetto di suo gusto. In termini più generali, è come se la femmina muta cantasse “attraverso” il suo
maschio.
Il colibri` in discoteca
Forse è vero, come è stato scritto, che il cuore è un cacciatore solitario, ma non tutti sembrano essere d’accordo. I
ragazzi, difatti, vanno spesso “a donne” in gruppo, e i luoghi deputati all’incontro e alla gaia interazione tra i sessi
sono spesso contraddistinti da un’alta densità di individui,
e citiamo al riguardo le sale da ballo e le discoteche.
Per i maschi turbolenti della nostra specie l’essere in “di
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più” sembra esorcizzare la timidezza: di fronte al pericolo
di venir messo alla berlina per eccesso di prudenza dal proprio gruppo ciascuno si butta a capofitto nella mischia e diventa un seduttore per “forza altrui”. Meglio passare per
sfrontato che per incapace: questo comportamento potrebbe figurare come nota a pie’ di pagina di un libro sulla
psicologia delle masse.
Sappiamo, ahimè, che anche gli atti di violenza carnale
vengono spesso consumati in gruppo, e che lo stupratore
“individualista”, i mostri dell’ascensore e simili gentiluomini, sono più rari, e forse più pericolosi.
Anche tra certi animali il “corteggiare insieme” da parte
dei maschi è un fenomeno ben noto agli etologi, e si manifesta con particolare evidenza in talune specie di uccelli. In
Sud America i colibrì, altrimenti conosciuti per le loro esiguissime dimensioni come “uccelli mosca”, si radunano in
congreghe di varie decine di maschi e danno fiato in coro
al loro canto d’amore.
Più discreti, i Casanova di certi uccelli del paradiso si danno da fare in due e, per attirare l’attenzione delle femmine,
montano uno spettacolino acrobatico insieme. Alternativamente, ora un maschio ora l’altro, si appende al ramo a testa in giù, formando con l’altro delle “figure” simmetriche,
in una sorta di body-art animale.
Che significato attribuire a queste esibizioni collettive? Potremmo ben dire che l’unione non solo fa la forza, ma potenzia l’attrazione sessuale. I segnali di seduzione si sommano tra loro e si rinforzano reciprocamente.
Mi viene in mente una ragazzina, sull’autobus, l’altro giorno. Parlando, concitata, a un’amica, di una esibizione gin71
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nica dei maschi della sua scuola, ha esclamato: “Tutti in
maglietta bianca, così belli: e poi tanti!”.
Tristano e’ una volpe
Dedurre, dal comportamento degli animali, delle norme di
condotta per noi è una fatica di Sisifo, che sempre ricomincia. Perché, ahimè, in natura l’etologo trova tutto, e il contrario di tutto!
Per esempio, se qualcuno vien preso dallo sfizio di ricercare dei fondamenti biologici per la monogamia (sicuramente l’istituzione più praticata dall’uomo) può rifarsi al cigno,
che vive in coppia tutta la vita, o al gibbone, una scimmia
antropomorfa acrobata e canterina che manifesta eguale
abitudine di vita coniugale.
Ma questi esempi possono sempre venire infirmati da altri,
di segno esattamente contrario. Perché svalutare il fatto
che i gorilla, o gli scimpanzé, vivono, a parte un certo ordinamento gerarchico, in una felice promiscuità sessuale, simile a quella dell’orda primitiva che Charles Darwin fantasticava alle nostre origini?
E perché non preferire al cigno il leone marino delle Galapagos, il cui maschio vigila su di un harem di più di dieci
femmine? Non son passati due mesi da che uno di questi
pascià mi ha inseguito a lungo sulla spiaggia di una di quelle isole felici, “encantadas” come ha scritto Herman Melville, perché pensava che io fossi andato là per insidiare una
delle sue favorite.
Qualcuno mi ha domandato se è più naturale la fedeltà, o l’in72
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fedeltà. Ho risposto che la volpe maschio, per quel che ci
hanno riferito gli allevatori, è al riguardo un vero Tristano. Difatti, il giovane campione feconda a piacimento tutte le femmine con cui viene messo insieme, a patto, si badi bene, di
non consentire che passi tutta la notte con una di esse. In tal
caso, a quanto sembra, il riproduttore indiscriminato contrae
un legame personale: cade, per dir così, preda d’amore, e per
quella stagione gli diventa difficile assolvere regolarmente il
suo mandato con altre volpi. Commovente, non è vero? Anche se, al contrario, le femmine durante il periodo dell’estro
non fanno tante storie, e accettano il maschio che capita!
Ti fiuto, e so chi sei
L’impiego diffuso e imponente di sapone, deodoranti e profumi nelle popolazioni sedicenti civili, denuncia il rifiuto
dell’odore del corpo, proprio e altrui, e la scelta per una
sfera olfattiva artificiale, esalata dagli alambicchi dell’industria chimica. Eppure esistono dei fenomeni, marginali ma
eloquenti, che mostrano quanto, in un passato non lontano
della nostra specie, contassero gli odori corporei, assolvendo a compiti biologici di grande importanza.
Per fare un esempio, sembra che siano delle percezioni olfattive a governare i rapporti tra la madre e il neonato. Delle esperienze condotte in alcune cliniche americane hanno
dimostrato che, se la madre non fa frequenti abluzioni, non
si depila e non fa uso di profumi, consentendo il precisarsi
di una sua “firma olfattiva”, il bambino appena nato impara ben presto a riconoscerla.
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Ma per forza, perché l’odore di ciascuno di noi è una sorta
di “impronta digitale annullabile”, un carattere volatile
squisitamente individuale, dipendente da fattori fisiologici,
come la composizione chimica del sudore e delle varie secrezioni, nostra e non di altri, e da fattori variabili, come gli
stili di alimentazione etnici e le preferenze in proprio.
Negli animali, gli effetti degli odori del corpo e dei suoi
escreti sono complessi e numerosissimi. Per esempio, è
possibile provocare, in una topina fecondata da poco, un
aborto spontaneo via olfatto. È sufficiente introdurla in un
box che abbia ospitato un maschio estraneo, di un altro
gruppo, e quindi con un altro bouquet odoroso, perché la
nostra topina rigetti l’uovo e nel giro di tre o quattro giorni ritorni in estro come se non fosse mai stata fecondata.
D’altra parte, anche la deprivazione olfattiva può comportare grosse ripercussioni fisiologiche. Gruppi di topine riunite in box senza maschi esibiscono, dopo qualche tempo,
gravidanze nervose (o isteriche?), turbe del ciclo estrale, e
la sua abolizione.
Alcuni giorni fa, delle studentesse che abitano la stessa camera, mi hanno confessato, tra il serio e il faceto, cercando lumi dall’etologo, un curioso fenomeno: il gruppo aveva
sincronizzato le mestruazioni.
Ho risposto che la faccenda era stata già osservata molti
anni fa da Mac Clintock negli Stati Uniti, e che si suppone
che entri in gioco, nel determinarla, un messaggio olfattivo, percepito a livello subliminale. La sincronizzazione, a
quanto sembra, non avviene tra ragazze che prendono la
pillola.
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Gelosia, che pena!
Anche se il Sessantotto ne aveva decretato l’eclissi, la gelosia resta un male dell’anima assai diffuso, e forse tutti ne
siamo vittime in diversa misura. Per certuni, tuttavia, la gelosia assume la forma di una ossessione vera e propria, e
questi satrapi dell’immaginazione passano gran parte del
loro tempo a supporre, ad arzigogolare, a escogitare i modi per sapere la “verità” e per cogliere in fallo il fedifrago,
smascherandolo finalmente. Una persona che conosco, un
uomo gioviale e amante della vita, è caduto preda, dopo il
matrimonio con una ragazza molto giovane, di una gelosia
intensa e piena di congetture e di sofferenze. Durante
un’esplosione del suo delirio, mi confessò che se qualcuno
corteggiava sua moglie era perché lei, l’infame, gli doveva
aver dato corda.
Se si considera, a questo punto, che per corteggiamento il
mio amico intende non solo una sequenza di attenzioni
“mirate”, ma un sorriso, o una parola gentile, diviene intuibile come ogni party sia suscettibile di trasformarsi in un
casus belli, e difatti la coppia conduce da qualche tempo
una vita rigorosamente ritirata. Sono convinto, tuttavia,
che l’isolamento non serva per esorcizzare certi fantasmi.
Dal punto di vista etologico, l’idea che il maschio si faccia
avanti perché la femmina, sotto sotto, lo invoglia, trova una
curiosa conferma in una esperienza che è stata fatta sui gelada, delle scimmie che vivono sulle montagne d’Etiopia.
Alcune coppie scafate di questi babbuini vennero mescolate con maschi spaiati, di vario grado gerarchico. I leader,
consapevoli del loro prestigio, si diedero subito da fare,
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convincendo in breve tempo molte femmine a “fuggire di
casa”. Gli altri maschi, di rango inferiore, meno sicuri di sé,
adottarono la strategia, che il mio amico geloso chiama “da
party”, e cioè del “fatti avanti se ti fa capire che ci sta”. In
parole povere, se la babbuina mostrava di essere molto legata al suo compagno, il Casanova di turno passava oltre,
ma se la bella faceva la civetta, l’invito veniva accettato e
iniziava la competizione. Il mio amico avrà ragione?
Coppia e nevrosi
Non si può proprio dire che Edward Wilson, l’entomologo
fondatore della sociobiologia, manchi di coraggio. Per
esempio, con questi chiari di luna, egli osa affermare che la
poligamia, un uomo con più donne, è “più naturale” (quindi più promossa dai geni) della poliandria, una donna con
più uomini. A parte l’accusa di maschilismo, o peggio, scagliata contro Wilson dalla pubblica opinione, i suoi avversari scientifici, antropologi in testa, sono stati meno emotivi
ma non meno perentori nel confutarlo.
Marvin Harris, che non è neppure uno dei più feroci denigratori della sociobiologia, afferma che non è affatto vero che le
donne tendano per loro natura alla monogamia, perché esistono gruppi sociali nei Caraibi e nel Nord Est del Brasile in
cui lo scambio del maschio è così frequente e rapido da costituire una poliandria di fatto, mentre nel Tibet famiglie di
più uomini e una sola donna costituiscono un’istituzione sociale permanente.
Secondo Harris la poca versatilità della donna nella scelta
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sessuale non sarebbe affatto biologica, ma dovuta all’oppressione maschile. Prova ne è, incalza l’antropologo, che
spesso, quando la donna si emancipa e conquista il potere
punta, come gli sceicchi, all’harem. Esempio paradigmatico: Caterina di Russia, che si “faceva”, l’uno dopo l’altro, gli
ufficiali della sua guardia! Esempio contrario: Elisabetta
d’Inghilterra, che forse non era proprio vergine, come millanta la storia, ma che era certo dedita all’astinenza.
Non c’è dubbio, tuttavia, che da sempre, tra gli uomini, la
coppia è in crisi. Ma non sarà, dopo tutto, meglio così. Il caso del gibbone insegna come una monogamia troppo esclusiva possa comportare una perdita di socialità, o di salute
mentale. Esiste, difatti, un rapporto stretto, almeno lo si
può presumere, tra la monogamia e la gelosia, vero mal
sottile della mente. I gibboni, queste graziose scimmie antropomorfe, note per le loro acrobazie al trapezio degli alberi e per le loro esibizioni canore (i gibboni cantano!), formano delle coppie a vita, si interessano veramente solo del
nucleo familiare. Il maschio o la femmina, a pari merito,
scacciano con energia gli individui dei rispettivi sessi opposti che vengano a mettere zizzania con tentativi di seduzione. Poveri gibboni: sono fedeli, tutti casa e famiglia... ma
nevrotici.
Non ci si fidi del sesso
Si è soliti pensare, ed è in gran parte veritiero, che maschi
o femmine si nasce; in taluni casi, però, può succedere che,
nel corso dello sviluppo, il corpo cambi idea, e che i nati
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maschi diventino femmine, e viceversa, con tutte le conseguenze del caso.
In laboratorio questi bisticci biologici possono venire ottenuti facilmente. Si prenda, per esempio, una rana (Xenopus laevi) o per meglio dire si consideri un suo girino geneticamente maschio. Facciamogli delle somministrazioni
di ormoni femminili, e voilà, il gioco è fatto: avremo una
bella rana di sesso femminile. D’altra parte, con tecnica più
sofisticata, l’innesto di un testicolo in un girino geneticamente femminile comporta un risultato analogo, anche se
inverso: una totale mascolinizzazione del soggetto. Esperienze da apprendisti stregoni, si dirà. Certo, ma eventi simili si verificano, e talora con frequenza (quindi sono “normali”), anche in natura, come in alcuni pesci. Difatti, molti di questi abitatori dei mari cambiano spontaneamente di
sesso, i maschi diventano femmine, e le femmine maschi.
Le cause di questo eclettismo sessuale sono in gran parte
ignote, ma si sospetta un intervento ormonale. Douglas
Shapiro, dell’Università di Puerto Rico, ha preso in esame
Anthias squamipinnis, un pesce che vive nei mari delle
Filippine. I suoi branchi sono, a quanto sembra, programmati per mantenere un rapporto fisso tra il contingente
maschile e quello femminile. Se in queste comunità si tolgono i maschi, altrettante femmine cambiano sesso per sostituirli, e lo stesso si verifica, ma in senso inverso, se sono
le femmine a venire escluse dal gruppo. Il mutamento compensatorio richiede circa due giorni.
Questi fatti sembrano incredibili, eppure non è poi tanto
infrequente, nella nostra specie, assistere a qualcosa di simile. Si pensi, per analogia, a quanto accade nella Repub78
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blica Dominicana nei Caraibi. Quivi, nascono spesso dei
bambini geneticamente maschi, ma dotati di caratteristiche femminili. Questi bambini allevati come bambine, al
sopraggiungere della pubertà si mutano, per dir così, in uomini veri e propri, e molti di loro si sposano e hanno dei figli. In biologia non si può essere mai sicuri di niente.
Castrazione con “trillo”
Un mio amico, di professione biologo, sostiene la curiosa
teoria, da trattare nel corso di una cena e non certo in laboratorio, che le persone rudemente dominate, per esempio l’assistente universitario plagiato dal professore o il
portaborse schiacciato dalla personalità prorompente del
suo boss perdono, e non tanto lentamente, la propria virilità, diventando ben presto degli inadempienti, o dei “deboli” sessuali. Sarà vero? L’essere in balia quotidiana della
volontà di qualcuno innesca un processo di castrazione
progressiva?
Dal punto di vista etologico è ben noto che nei gruppi a
conduzione gerarchica, gli animali leader si riproducono di
più di quelli “minor”, che sovente non lasciano alcuna discendenza. Ma in taluni insetti la condizione di “dominato”
comporta non solo di venir selezionato sessualmente, ma
perfino di subire la regressione delle gonadi, e si può così
assistere all’avvento di veri e propri “eunuchi da subordinazione”.
Si consideri, per esempio, il caso di certe vespe: la Polistes
gallicus − chiamiamo in causa una specie molto comune −
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costruisce dei piccoli nidi a forma di coppa rovesciata che
si possono osservare appesi a un cornicione, o che so, allo
stipite di una finestra, mediante un sottile peduncolo.
Questi insetti, dotati di un aculeo, ma in fondo assai meno
aggressivi di quanto si paventa, sono stati studiati da Leo
Pardi, uno dei padri dell’etologia italiana. Lo zoologo è stato il primo a segnalare un comportamento di dominanza
negli invertebrati, riferendolo proprio alle nostre vespe.
Quando sopraggiunge la buona stagione, può succedere
che alcune femmine di Polistes, che hanno svernato, si
consorzino per fabbricare e gestire un nuovo nido. Tra
queste fondatrici, una assume subito, per dir così, il comando. Si sofferma più a lungo sul favo, depone le uova, distrugge quelle eventualmente deposte dalle compagne, e
quando si imbatte in una vespa subalterna ribadisce la propria superiorità mediante il “trillo antennale”. In altre parole, frusta la testa della sua schiava con le antenne, e la
poveretta subisce il trattamento “a capo chino”, senza dar
segno di ribellione.
Intanto, le sue gonadi regrediscono, ed essa perde ben presto ogni facoltà di maturare e di deporre le uova. La subordinazione culmina nella sterilizzazione. Dunque, se il vostro capoufficio vi urla spesso addosso, fate attenzione...
Oh, Lolita!
I bimbi hanno delle guanciotte ben colorite. Quindi, se una
vostra amica, prima di entrare in discoteca, si pizzica gli zigomi o se li cosparge di fard, per arrossarli, siete legittima80
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ti a pensare che voglia mettere in gioco un segnale infantile. Se poi si veste da marinaretta, si lega i capelli (o ancor
meglio, le trecce), con un nastro rosa, se si rivolge a voi
con una voce “di testa”, un po’ in falsetto, fissandovi con gli
occhi sgranati, vi nasce l’irresistibile certezza che sta recitando la parte della bambina.
Che questa commedia sia, come è, una strategia di seduzione può generare, al principio, qualche perplessità. Difatti, nel gran teatro del sesso, accanto alle donne-bomba, dai
seni prorompenti e dai fianchi opulenti, esistono le cosiddette ragazze-grissini alla Twiggy, piatte e lineari, che godono, secondo le epoche, eguale consenso e popolarità
presso gli uomini.
Insomma, il seno grande, e il non-seno, possono funzionare alla fin fine, nella stessa maniera, conseguendo scopi
identici.
Tuttavia, mentre Carmen Russo evoca, esibendo i suoi vistosi attributi, delle risposte biologicamente comprensibili,
ci si può chiedere, con una certa inquietudine, quali corde
tocchi in noi la ragazza-grissino. Si può supporre, in chiave
di etologia umana, che la seduzione alla Twiggy si fondi sul
“complesso di Lolita”, e che vengano coinvolti meccanismi
indiretti, e certo un po’ perversi. Il fatto è che Konrad Lorenz ha da tempo messo in luce che, tra gli animali e l’uomo, certi caratteri dei “piccoli” (i crani tondi, la fronte
bombata, gli occhi sgranati, le guance, per l’appunto, paffutelle e rosee), disarmano l’aggressività ed evocano la
protezione e la tenerezza. Ma protezione e tenerezza non
sono, forse, presupposti naturali dell’amore?
Non si creda, per concludere, che le donne-manager del
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nostro tempo, con i loro gesti decisi e i loro sobri tailleur
abbiano esorcizzato attorno a loro (e in loro!), la donna
bambina. Le Lolite, vere o simulate che siano, vengono da
lontano. Amleto, nell’omonimo dramma di William Shakespeare, con l’amarezza di un Edipo tradito, le perseguita in
Ofelia. “Dio vi ha dato un volto e voi ne fate un altro”, grida il pallido prence (si legga: “Basta con il fard!”). E continua: “Bamboleggiate, pargoleggiate”. Insomma: “Loliteggiate”. Amleto si sente minacciato. Dunque, la sua ricetta
è: tutte in convento!
Misteri del seno
Non ho dubbi: quell’attributo femminile che noi indichiamo
come seno, dopo aver subito una certa eclissi di importanza
nel Sessantotto, epoca in cui la donna cullava in sé l’ideale
dell’androgino, sta conoscendo un rilancio e le maggiorate
degli anni Cinquanta, che ossessionarono la mia giovinezza,
sembrano tornate alla ribalta.
Carmen Russo e Serena Grandi fanno della “esibizione di
petto”, e Birgit Nielsen suscita controversie accese tra gli
“esperti” su quanto ci sia di vero o di finto, di naturale o di
chirurgico, nella sua pregevolissima anatomia.
Questa breve storia biologico-culturale del seno, durante le
età buie e dopo, ci consente di formulare una o due considerazioni in chiave di etologia umana.
I comportamenti degli animali, quindi anche i loro atti sessuali, vengono per solito attivati da stimolazioni interne,
come un certo tasso di ormoni, e da stimolazioni esterne,
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per esempio un percorso di volo a zig-zag di una determinata farfalla femmina che passi sotto il naso del maschio.
Da sempre ci si chiede, tralasciando i segnali interni, se
esistano nell’uomo, e quali siano, gli stimoli attivatori
esterni. Il seno insomma, esibito o forse, ancor meglio, malcelato, in che misura scatena nel maschio umano il comportamento erotico? Si tratta, è sicuro, di un evocatore, e
la riprova in forma negativa ce la fornisce l’avversione dei
moralisti, sempre sessuofobi, alla diffusione del topless
sulle spiagge.
Un intervento in merito, un po’ impertinente, è stato quello di Desmond Morris. Egli sostiene che il seno non solo è
il segnale sessuale, ma è, per dir così, un sedere spostato
nella parte superiore e anteriore del corpo. Difatti, argomenta, nei primati, che praticano la copula “dal di dietro”,
le natiche delle femmine in calore si infiammano, o si inturgidiscono, per avvertire i maschi della loro disponibilità.
Nell’uomo, con l’acquisto della stazione eretta, che ha reso
possibile l’adozione in amore della cosiddetta “posizione
del missionario”, i segnali sessuali avrebbero avuto la tendenza a spostarsi dal dietro in basso al davanti in alto. In
parole povere il seno sarebbe diventato l’equivalente etologico delle natiche!
Ci sono però delle popolazioni africane che sono rimaste
legate alla tradizione e lo dimostra lo sviluppo adiposo dei
fianchi delle loro donne. Una di esse, si racconta, aveva il
sedere così grosso che, seduta, non riusciva ad alzarsi di
nuovo in piedi da sola!
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Smancerie da ristorante
Le coppie fanno mostra, talora, di rituali sorprendenti, e
può succedere che l’etologo riesca a intravvedere in certi
gesti, in certe azioni, la “citazione” o le vestigia di un comportamento animale. Per esempio, una mia giovanissima
amica ama, in sommo grado, attingere dal piatto del suo ragazzo. Al punto tale che, a ristorante, con la scusa di una
dieta perpetua, si fa portare un po’ d’insalata, invocando
per lui, che fa tanto sport!, delle porzioni super. Inoltre, è
sempre lei a decidere che cosa desidera mangiare l’amato
bene. Tutta la manovra presuppone un intervento di forchetta “parallelo”: la ragazza contribuirà attivamente all’esaurimento delle “risorse”, ed è giusto, tra l’altro, che il
cibo, destinato a lui, piaccia anche, e forse soprattutto, a
lei. Non sempre il giovane è connivente, anzi dà segno,
qualche volta, di una palese irritazione, ma la sua compagna è irriducibile.
In taluni casi, queste abitudini prandiali possono diventare
paradossali e generare l’ilarità negli altri commensali. Una
signora di mia conoscenza, quando trabocca d’affetto, si fa
imboccare a tavola dal marito, che la chiama, nel contempo, trasferendo il cibo dal piatto alla sua bocca, con i più
dolci nomignoli: “passerottino”, “gattina”, e perfino “topolino mio”.
So di persone che non accettano più inviti a cena dalla tenera coppia per timore di dover assistere a questo rito alimentare, che penso sia fondatore del rapporto d’amore tra
i due officianti.
Vengono in mente, ed è molto difficile sfuggire alla tenta84
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zione di chiamarli a paragone, dei comportamenti simili
esibiti dagli uccelli durante il corteggiamento. Tra i ciuffolotti, l’ho osservato anche di persona, il maschio imbocca
con solerzia la femmina, e vedendolo all’opera si ha l’impressione che baci interminabilmente la sua compagna.
Per quel che concerne la mania del “mangiare nel piatto altrui” si pensi ai gabbiani: il maschio offre nel becco socchiuso del cibo triturato alla femmina, e la femmina lo preleva e se ne nutre con profitto. Gli leva, per dir così, il pesce di bocca!
L’insetto e’ un play-boy
Quando la femmina di un certo lepidottero Satiride passa,
con il suo caratteristico volo a zig-zag, sotto − si fa per dire − il naso del maschio, questo decolla subito e si dà al suo
inseguimento.
Poi la bella fuggitiva si posa e il corteggiamento diventa
davvero curioso: il maschio atterra a sua volta e compie,
davanti a lei, un curioso inchino. Il lepidottero galante consente così alla femmina di mettere in contatto le antenne
con due zone odorifere situate sulle pagine superiori delle
sue ali anteriori. Solo dopo questo rendez-vous, con effetti afrodisiaci, la femmina consente alla copula.
La sequenza di azioni è in sé abbastanza rigida da avvalorare l’ipotesi di taluni behavioristi che gli animali siano solo delle macchine, anche se “super”. Ma è pur vero che tutte le volte che i sociologi hanno “smontato” qualche comportamento globale dell’uomo è emerso il fantasma del85
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l’imitazione e dello stereotipo. Insomma, siamo meno liberi di quanto crediamo.
Un ricercatore americano, Ray Birdwhistell, ha preso in
esame il rituale di corteggiamento del ragazzo statunitense, e ha potuto accertare l’esistenza di una sequenza di gesti predeterminati e poco interscambiabili. Tra il dire e il
fare, tra la prima stretta di mano e l’amplesso, intercorrono ben 24 passaggi, che devono scorrere in ordine obbligato. Si tratta di un “botta e risposta” senza parole: il ragazzo che preme la mano della girl sarà autorizzato a incrociare le dita con lei solo dopo una contropressione di risposta.
Il braccio posto con noncuranza attorno alle spalle della ragazza costituisce un progresso; il bacio sulla guancia precede quello sulla bocca e così via. Guai bruciare i tempi! Si
rischia di mettere in forse il risultato finale.
Inutile dire, lo sappiamo bene, che la farfalla agisce per
istinto, e il ragazzo per apprendimento sociale: quel che
desta stupore è che ci sia, nell’insetto e nell’uomo, un galateo, se si vuole un rituale, che deve preludere all’atto sessuale. Ci vuole sempre un po’ di delicatezza, che diamine!
Kamasutra, con libellule
“Voglio andare a vivere tra cose semplici, naturali”, mi sussurrava durante un party una mia amica erborista, decisa
ad abbandonare il centro storico della sua città per abitare
in un cascinale di campagna. Questa affermazione, pensai
subito, contrabbandava come vero un antico pregiudizio, e
cioè che le cose naturali siano necessariamente semplici.
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Invece no. È sufficiente che uno si metta a osservare un
poco gli esseri viventi per imbattersi in tortuose strategie
di sopravvivenza.
Si pensi al fenomeno della riproduzione. Si sa che l’uomo si
è fin dai primordi adoperato per isolare il piacere sessuale
come fatto in sé, dando vita all’erotismo e insieme a tutte
le pene dell’amore. In quanto all’erotismo, il Kamasutra è
la summa di quella che potremmo definire la ginnastica ellittica dell’atto sessuale, e sfido chiunque a imitare “in vivo” tutte quelle “figure”. Eppure ci sono degli insetti che
nell’acrobatica della copula esibiscono uno straordinario rituale, nel quale la stranezza anatomica si rispecchia nella
stranezza del comportamento.
Parlo degli odonati, volgarmente chiamati libellule. Tanto
per cominciare il maschio di questi insetti presenta l’organo destinato alla copula separato, anzi lontano, dallo sbocco dei genitali. Il pene cosiddetto secondario, e le sue
strutture satelliti, atte a immagazzinare lo sperma e ad agganciare la femmina durante l’accoppiamento, si trovano
all’inizio dell’addome, mentre l’apertura genitale vera e
propria è prossima alla sua estremità. Ripiegando l’addome, contorsionista riproduttivo, il maschio riempie di sperma il serbatoio di complemento, ma questa manovra è
semplice rispetto a quelle della copula vera e propria. La
femmina, afferrata in volo dalle tenaglie addominali del
maschio, deve curvare il corpo sottile fino a mettere in
contatto il suo apparato sessuale con quella che potremmo
ben definire “la banca dello sperma”.
Si possono osservare così dei tandem volanti di libellule,
che passano sulle acque, disposte in una strana quanto im87
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probabile postura, nella straordinaria posizione, insomma,
del loro kamasutra. Che significato biologico riveste questa
ardua congiunzione sessuale tra due corpi snodabili? Non
ci si capisce un bel nulla. Se ne può solo dedurre che la natura non è semplice come si vorrebbe.
Scopofilia, per piccina che tu sia...
Siamo perfettamente al corrente che il rapporto Kinsey,
una delle più monumentali investigazioni condotta attorno
agli anni Cinquanta sulla sessualità dell’uomo e della donna, è sotto accusa, e che molti scienziati lo considerano datato e screditato. Pure, taluni dei suoi capisaldi hanno superato la prova del tempo, e sono diventati patrimonio comune del sapere sessuologico e, perché no?, etologico.
Per esempio, Kinsey sosteneva che per quanto concerne
l’attivazione del desiderio sessuale, nell’uomo e nella donna gli stimoli visivi hanno un peso differente. In altre parole, l’uomo adopera più l’occhio e la donna l’immaginazione.
Noi siamo più guardoni delle nostre compagne, e ci eccitiamo più dell’altro sesso alla vista delle nudità corporee.
D’altra parte, ci si guardi attorno per la strada: i manifesti
pubblicitari fanno sfoggio di molte signore in déshabillé, e
solo raramente fa capolino in costume da bagno un qualche maschione. D’altra parte, lo strip-tease è una pratica
quasi esclusivamente femminile, e le riviste che annoverano immagini di muscle boys non sono per lo più destinate
alla contemplazione delle donne, ma a quella di “guardoni
altri”, dediti a piaceri molto particolari.
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Di recente, Davemport ha dato ragione a Kinsey, schierandosi su di un versante etnologico.
Nelle società primitive, egli afferma, il vestito, sia pure succinto, tende più a nascondere i genitali femminili di quelli
maschili, sottolineando un loro diverso peso espositivo. Si
nasconde quel che più si pregia, e per non provocare è bene che quell’oscuro oggetto del desiderio, per dirla alla Buñuel, resti oscuro. Anche nelle scimmie, per lo meno in
moltissime specie, gli stimoli visivi rivestono una notevole
importanza come segnali per il maschio, e come evocatori
del suo desiderio. Difatti, il posteriore di molte femmine,
all’epoca degli amori, presenta zone che si inturgidano e
acquistano una colorazione accesa. È, per dir così, il semaforo dell’amore, e il maschio supera subito l’incrocio.
Nella specie umana il volto è diventato, fin dalle origini, lo
specchio dell’anima: l’emozione si fa espressione, e
l’espressione comunicazione.
Per questo, forse, l’uomo, al contrario degli animali, fa
l’amore “faccia a faccia” e se spegne la luce è, come dice
Jean-Didier Vincent, solo per vedere meglio con la mente.
II verme e le ciccione
Che fatica mantenere la linea, o riacquistarla! Certe signore sono, al riguardo, veramente capaci di tutto. Sembra che
talune cantanti d’opera lirica, solitamente di notevole stazza corporea, e delle mannequin costrette per lavoro a restare dei “grissini”, ingeriscano delle “teste” di tenia, il cosiddetto verme solitario, per farsi crescere nell’intestino un
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organismo che “si nutra al loro posto”, facilitando il blocco,
o il regresso del peso. Qualcuno mi ha confessato di recente che la pratica ripugnante è ancora in uso e io rabbrividisco al pensiero di queste gentili signore che se ne vanno in
giro con un mostro vorace di uno o due metri annidato nelle viscere.
È pur vero che ottenuto lo scopo le ingrate se ne liberano
avvelenandolo e inviandone il cadavere, si indovini come,
nell’ambiente; ma preferirei, dal canto mio, diventare una
montagna di ciccia prima di dare asilo a un così spaventevole inquilino. La tenia, che mena, come molti parassiti,
una vita complicata, passando dal maiale all’uomo, e dall’uomo al maiale, è stata oggetto in passato di una curiosa
disputa teologica.
Il caso del verme solitario è scoppiato nell’ambito della
controversia scientifica sulla generazione spontanea e ha
coinvolto le Sacre Scritture. Se i vermi nascono dai vermi,
avevano opinato nel Seicento alcuni filosofi, Adamo, nell’Eden, doveva ospitarli già nel suo ventre. Ma le malattie
non potevano esserci prima della cacciata dell’uomo dal
paradiso terrestre, ed era illogico pensare che Dio avesse
creato questi infimi esseri dopo il Sesto Giorno. C’era molta inquietudine nelle anime pie di quel tempo, finché Antonio Vallisneri, uno scienziato padovano, scese in campo a
far luce sulla questione. Adamo, decretò, aveva il suo bravo verme nell’intestino, ma il cibo dell’Eden manteneva
l’invasore in stato di grazia, per cui non dava alcun fastidio
al nostro progenitore. Era, per dirla in termini à la page,
in simbiosi con lui. Dopo la cacciata, la carne, e gli altri alimenti terrestri avevano incattivito il verme, trasformando90
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lo in un parassita. Memore dell’Eden, però, continua a beneficiare, con loro rischio, le ciccione.
Tra moglie e marito
Esiste un proverbio che dice: tra moglie e marito non mettere il dito, ammonendo ad assistere in silenzio ai conflitti
di coppia, altrimenti non si può che peggiorare le cose. Gli
animali “di casa” sembrano, in talune circostanze, non conformarsi affatto a questa aurea massima, restando neutrali. Difatti, un mio amico, se alterca con una certa violenza
con la moglie, deve chiudere il cane in una stanza contigua,
se no l’animale, un pastore tedesco di considerevoli dimensioni, si avventerebbe su di lui, prendendo spudoratamente partito per la padrona sotto accusa.
Al contrario, il mio gatto, un brutto giorno che una mia in
quel momento non cara amica mi stava gridando contro,
alzando le mani come se intendesse passare a vie di fatto,
si è messo a miagolare sordamente, e l’ha graffiata per bene. Un gatto guardia del corpo? Direi proprio di sì.
In casa Hayes, come hanno raccontato in un loro libro celebre questi coniugi psicologi, le cose hanno avuto un esito ben più felice. Gli Hayes, alcuni decenni fa, avevano deciso di allevare una piccola scimpanzé, Gua, assieme al loro figlioletto appena nato. Questo allo scopo di vedere se
per caso a eguali cure corrispondessero eguali risultati, e
se la scimmia potesse subire un processo di umanizzazione, imparando perfino a parlare. Gli esiti furono, nel complesso, deludenti: Gua apprese una o due parole, e se al
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principio mostrò delle performance più precoci del suo
coetaneo umano, venne ben presto battuta da quest’ultimo
nell’apprendimento linguistico e nelle manifestazioni cognitive.
Però, sul piano degli affetti, Gua dimostrò sempre d’essere
una creatura squisita. Per esempio, gli Hayes un brutto
giorno litigarono furiosamente di fronte a lei, si dissero delle male parole, e ciascuno, crucciato e imbronciato, andò a
sedersi tutto solo nella stanza. La scimmia, dapprima impaurita, ci pensò un poco su, poi andò da “lui” e, con mille
moine, lo spinse da “lei” mettendo la mano dell’uomo in
quella della sua compagna. Gli Hayes scoppiarono a ridere,
e rifecero la pace. Per fortuna, la scimmia non sapeva nulla di certi proverbi.
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Un poco di bionica
Progetti da lombrico
Il 10 ottobre del 1881 compare in libreria l’ultimo libro di
Charles Darwin, che tratta delle “gesta” di un animale infimo, il lombrico. L’opera era stata, com’era costume del grande naturalista, “ruminata” per più di quarant’anni; da quando Darwin, reduce dal viaggio sulla Beagle, aveva avuto una
piccola discussione con lo zio Jess a proposito del lavoro che
svolgevano i lombrichi nel prato vicino a casa. Un lavoro davvero colossale, come Darwin riuscì poi a dimostrare, perché
non soltanto tutto il terreno vegetale è passato, e passa, attraverso l’apparato digerente di queste piccole creature, ma
le grandi città del passato sono state da loro “aspirate” nelle
viscere della terra e ne sanno qualcosa gli archeologi.
Il libro sui lombrichi, che Darwin giudicava “minore”, e che
ebbe invece un notevole successo presso i lettori, è un’opera di ecologia a tutto tondo. Da allora, il lombrico non ha
più cessato di tener vivo l’interesse: degli psicologi, per
esempio, e si vedano le ricerche di Yerkes; o dei bionici,
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che si sono ispirati più recentemente a lui per progettare
un veicolo robot.
Il lombrico ha una struttura particolarmente adatta a muoversi nel suolo. Il suo corpo è suddiviso in segmenti “snodabili” e presenta, all’interno, una cavità piena di sangue in
cui sono immersi gli organi.
Dei muscoli, longitudinali e circolari, in sua dotazione,
agendo sulla massa liquida consentono al corpo di modellarsi variamente. Inoltre, la sua estremità cefalica, da vero
e proprio siluro terrestre, è capace di esercitare una pressione dell’ordine dei 1.000 grammi per centimetro quadrato, circa otto volte di più della pressione del piede di un uomo normale sul terreno.
È stato così messo a punto un veicolo-lombrico, destinato
a muoversi sotto terra, o su aree accidentate e impervie. Si
tratta di una struttura composta da elementi autonomi,
connessi tra loro in maniera lassa, e di volume variabile, in
grado di restringersi e di allungarsi a piacimento.
Per fortuna dei bionici, i vermi non rivendicano priorità e
non riscuotono le royalties!
L’emulo di Edison
Tra tutte le creature paradossali che popolano il continente australiano, non è al canguro che spetta la palma della
stranezza, ma sicuramente all’ornitorinco. Questo animale
amante dell’acqua, che nuota veloce nei fiumi di montagna
o negli acquitrini della pianura, è una vera e propria chimera zoologica semovente, perché ha il becco di un’anatra e
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come un uccello fa le uova; eppure, bontà sua, è un mammifero, perché allatta la propria figliolanza.
Sembra che l’evoluzione si sia divertita, come con gli onicofori, a mescolare le carte in tavola, e a fabbricare una
sorta di fallace anello mancante, fatto apposta per portare
alla disperazione i sistematici, uomini semplici e timorosi
delle ambiguità.
Ma se le fattezze dell’ornitorinco non cessano di destare
stupore, di recente sono state messe in luce alcune sue
ben più strane peculiarità biologiche, e non è dir poco. Sulla parte sinistra del becco l’ornitorinco è dotato di un organulo sensibile, anzi ultrasensibile, all’elettricità. Si è capito
perché questi animaletti non riescono a sopravvivere in acquario: l’elettricità sfuggita dai motori delle ventole di ossigenazione li sovrastimola, facendoli impazzire!
In natura, l’ornitorinco usa questa sua facoltà per localizzare le prede, dato che gli esseri viventi emettono segnali
elettrici debolissimi, ma non tanto da sfuggire al prodigioso detector della nostra “anatra-mammifera”. Inoltre, i piccoli campi elettrici formati dall’acqua in movimento consentono all’animale di orientarsi mettendo a punto per lui
una sorta di mappa “elettrotopologica”.
Charles Darwin, nel suo viaggio attorno al mondo sulla
Beagle, un tre alberi della marina inglese, giunse in Australia il 12 gennaio del 1836. Il grande naturalista notò la rarefazione dei canguri, che non riuscì neppure a vedere, ma
ebbe la fortuna, durante un’escursione, di imbattersi in un
gruppo di ornitorinchi. “Uno degli animali più straordinari
che esistano”, annotò nel suo diario. E non sapeva che
quella bestiola era un emulo di Edison!
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Le zampe hanno orecchie
Nei film western della mia infanzia, le giubbe blu, in fama
a quei tempi di essere “i buoni”, o con locuzione più familiare “i nostri”, attraversavano le praterie valendosi di una
guida indiana. Questo scout, che si rivelava quasi sempre
un subdolo traditore, doveva − retorica di quei film! − dire
hugh! e compiere alcuni gesti di prammatica, come esplorare l’orizzonte proteggendo gli occhi dal sole con la mano
aperta o esibirsi in qualche rilievo acustico al suolo. In altre parole, alla richiesta del capitano del drappello di appurare la distanza e la consistenza numerica dei pellirossa inseguitori, la guida scendeva da cavallo, si stendeva sulla pista e appoggiava l’orecchio sul terreno, cadendo in una
specie di stato mistico. Poi, risorto, decretava: cento Sioux
a un miglio di distanza!
La manovra non era di fantasia: perché davvero le vibrazioni sonore si propagano nei solidi più facilmente e più velocemente che nell’aria, e ci sono degli animali che odono con i
piedi. Per esempio, è stato dimostrato, con sperimentazioni
di laboratorio ben mirate e precise, che gli scorpioni del deserto, cacciatori notturni, sentono e localizzano la preda,
mettiamo un insetto, non con gli occhi o l’olfatto, ma attraverso le vibrazioni della sabbia, percepite grazie a peli posti
all’estremità delle zampe. Lo stesso succede per certe cavallette sprovviste di organi ad hoc di ricezione acustica ma con
peli che possono, per dir così, “sentir cantare il supporto”.
La cosa più straordinaria è che l’ampiezza delle vibrazioni
ancora percepite dall’insetto può diventare infima, inferiore
al diametro di un atomo di idrogeno! Se la faccenda rispon96
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de a verità i peli tattili nelle zampe di questi animaletti competono e battono in sensibilità gli strumenti dei fisici.
Antenne d’autore
Durante una conferenza ho esaltato, come nel capitoletto
precedente, gli straordinari poteri dei peli tattili di certi insetti, abilitati a percepire vibrazioni (davvero infinitesimali!) del supporto. Povero me, alcuni dei presenti mi hanno
accusato di gonfiare le cose, e di essere in balia di una vera e propria deformazione professionale. In altre parole, da
bravo entomologo, tenderei a sovrastimare gli insetti. Penso di no, soprattutto perché non è affatto necessario! Questi piccoli animali non cessano di stupirci, e di lanciare delle sfide alla nostra comprensione e alla nostra presunzione
di supremazia. Si considerino, a suffragio, i messaggi chimici che si scambiano certe farfalle notturne.
Si metta una femmina di questi lepidotteri in una gabbietta di fil di ferro e si portino alcuni maschi, marcati per poterli riconoscere, a più di dieci chilometri di distanza (si
può arrivare fino a 11, a quanto sembra!).
Dopo qualche tempo i maschi sono lì, a svolazzare attorno
alla gabbietta incantata della bella prigioniera, che li ha attirati a sé dalle profondità dell’orizzonte. Ma come? Inviando un messaggio chimico, un odore, un “feromone” come
si dice in gergo scientifico, in breve una sostanza dotata di
straordinaria attività biologica.
La femmina lancia il suo messaggio molecolare da una piccola ghiandola addominale, e il maschio lo percepisce me97
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diante i sensilli, organuli localizzati nelle sue antenne. Ma
qui viene il bello: facendo i conti risulta che la piccolissima
quantità di feromone emessa dalla femmina, diffondendosi
in un volume atmosferico di 11 chilometri di raggio, subisce
una rarefazione incredibile, si riduce alla concentrazione di
una molecola per metro cubo d’aria. Come fanno i sensilli
dei maschi a percepire ancora il richiamo della femmina?
Non possono essere, come si è sempre creduto, dei semplici organi olfattivi (dei nasi insomma!), ma dei congegni ben
più complicati. Si presume, difatti, che i sensilli funzionino
come degli spettrometri, e che percepiscano così le vibrazioni nell’infrarosso della molecola bersaglio! In parole povere,
questi organi competono con uno degli strumenti più sofisticati dei nostri laboratori. Ma c’è una differenza, a favore dell’insetto: le sue “macchine” sono microscopiche, mentre uno
spettrometro, se va bene, ha il volume di una valigetta!
Guerra chimica
Dalla clava primordiale, un femore di antilope, e dall’amigdala di selce, le armi dell’uomo sono diventate, nei millenni, sempre più potenti. Tra le più esiziali, accanto alla proverbiale bomba H, ci sono senz’altro i gas, impiegati però
solo in maniera sporadica. La loro azione subdola e indiscriminata li ha fatti mettere, per così dire, all’indice, e
ogni volta che qualcuno osa servirsene si guadagna subito
il biasimo dei popoli. Lo stesso Hitler, inventore e teorico
della guerra totale, non si sentì di metterli in opera neppure alle soglie della disfatta, certo temendo, e non a torto, di
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venir ripagato con la stessa moneta! Insomma, i poteri delle armi, quando sono in dotazione di ambo le parti, si annullano, e noi lo sappiamo bene perché viviamo da oltre
cinquant’anni in una pace, come disse Winston Churchill,
all’ombra dell’atomica.
Tra gli insetti, il brachino bombardiere si beffa della convenzione di Ginevra e fa ampio uso di gas per difendersi dai
suoi nemici. Questo esserino di meno di un centimetro,
quando messo alle strette, volta le terga al nemico e lo bersaglia con una sostanza volatile tossica, che esce crepitando dal suo posteriore. L’aggressore può cadere in paralisi, o
semplicemente fuggire a zampe levate. Non è molto tempo
che l’alchimia di questo “meccanismo a biogas” è stata messa in luce, e a pensarci su si resta stupefatti e increduli.
Bene, tutto il marchingegno è composto da una vescica
rettale in cui sfociano due ghiandole. Una ghiandola secerne dell’acqua ossigenata, cosa davvero sorprendente perché questo composto dovrebbe aggredire i tessuti organici, e non sembra danneggiare brachino. La seconda ghiandola secerne un enzima, una perossidasi che scompone
l’acqua ossigenata in modo brusco generando calore: più di
cento gradi centigradi di temperatura!
A questo punto il contenuto della vescicola viene espulso
con violenza all’esterno, a centrare il bersaglio. Sembra che
la reazione chimica succitata sia stata impiegata in certi
propellenti per i razzi; ed è per questo che il brachino, nel
momento della “scarica”, si aggrappa al terreno per non
partire come un ordigno a reazione.
Ad ogni modo, il nostro insetto è più fortunato di Hitler: lui
ha il gas, ma i suoi nemici no.
99
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’,
Spazio, densita
’
aggressivita
Il pesce a teatro
Si sa da tempo che certi animali contrassegnano un loro
territorio di riproduzione e lo difendono con accanimento
dall’invasione degli intrusi. Il bello è che, in questi scontri,
il proprietario la vince sempre sull’usurpatore virtuale come se, detto in linguaggio figurato, l’essere nei propri diritti conferisse forza e il sapersi in torto debolezza. Tra i Ciclidi, pesciolini molto studiati dagli etologi, sono stati osservati, nel corso di queste beghe di confine, dei comportamenti paradossali.
Per esempio, quando un ciclide invasore penetra nella zona,
per lui proibita, di un altro maschio, procede come se nuotasse in un mezzo liquido progressivamente più viscoso, e
cioè con velocità decrescente. Secondo l’interpretazione degli etologi, si tratta di un’impresa governata da due impulsi
di segno opposto: l’aggressività, che spinge avanti il nostro
eroe, e la paura che lo tira indietro. Una situazione che ricorda gli immortali dialoghi tra Tartarino-Chisciotte e Tartari100
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no-Sancho nel romanzo di Alphonse Daudet (Tartatino di
Tarascona), in cui la parte eroica del personaggio grida: “A
me l’Africa!” e lo scudiere che è in lui invoca la tisana.
Insomma, più il nostro ciclide avanza in territorio nemico e
più la paura prevale sull’aggressività. Risultato: il pesciolino va sempre più piano. In pratica le pinne toraciche, che
obbediscono all’impulso paura, battono all’indietro con
maggiore energia della pinna caudale, che promuove l’invasione, innescando un dilemma degno di Amleto.
Lo storico dell’arte Ernest Gombrich ricorda infatti che un
grande attore del Settecento, J.J. Engels, descrisse in una
sua lettera didattica una situazione conflittuale simile, riferendosi al succitato dramma di William Shakespeare. Nella
scena in cui il principe danese segue sugli spalti del castello il fantasma del padre, scrive Engels, l’attore ricordi che
il suo personaggio è sotto l’impulso di due emozioni contrastanti: la brama di andar dietro allo spettro per sapere la
verità e la paura di inoltrarsi da solo in un universo sconosciuto e ambiguo. Per cui il nostro Amleto-ciclide parte
baldanzoso, ma più si inoltra nella notta stregata, e più il
suo passo diventa lento e impedito. Si potrebbe dire che le
pinne della paura battono sempre più all’indietro nella sua
mente. C’è molto da fare per un etologo a teatro.
Il giusto locatario
Anche chi, come me, non nutre una grande passione per
gli sport di massa, e non ha assistito spesso a degli incontri di calcio, ha sentito parlare di uno strano fenomeno, de101
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finito dall’etologo Desmond Morris, con un certo umorismo, il “male da trasferta”. In altre parole, succede che
quando una squadra di calcio gioca fuori casa perde più
frequentemente la partita di quando affronti la squadra avversaria in casa propria. Nel XIX secolo, in Inghilterra, la
Football League promosse delle partite per dodici stagioni
di seguito registrando puntualmente i risultati. Dividendo
il numero delle vittorie in casa per il numero delle vittorie
fuori casa, si ottenne un numero superiore a 1, nella fattispecie 2,6. Una statistica italiana, ottenuta prendendo in
esame le partite giocate nel periodo che va dalla fine della
Seconda guerra mondiale agli anni Settanta, ha confermato il fenomeno, ottenendo una cifra sorprendentemente simile a quella inglese: 2,5. Da che cosa dipende il mal di trasferta? Sono state formulate molte spiegazioni, come la
stanchezza dei giocatori venuti da fuori, ma io credo che la
verità sia più profonda, e che si esprima in un disagio psicosomatico, dovuto al sentirsi allo scoperto, esuli in una
terra ostile.
D’altra parte, gli etologi sanno bene che quando un animale territoriale contrassegna il suo spazio vitale, e lo difende
dagli intrusi, il legittimo locatario la vince sempre sugli invasori, mettendoli agevolmente in fuga. Un solo caso tra
tutti, quello della Parerge aegeria, una graziosa farfalla
che vola in primavera e nella tarda estate.
I maschi del lepidottero, all’epoca degli amori, si insediano
nei boschi, sulle macchie solari che si formano al suolo tra
gli alberi. Il maschio che ha occupato per primo un piccolo
solarium attira più femmine mentre gli altri, senza un loro
posto al sole, hanno meno probabilità di trovare una com102
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pagna. Accade così che qualche disperato tenti l’invasione
e l’esproprio. Ma senza successo.
L’occupante della macchia solare l’aggredisce rudemente,
e i due contendenti si agganciano in un breve volo di lotta.
Marcando con un particolare colore i locatari legittimi per
poterli riconoscere, si è scoperto che sono proprio loro che
prevalgono sempre e che riguadagnano lo spazio insidiato.
Difatti: giocano in casa.
Il cervo volante e’ cavalleresco
Il filosofo Hobbes pensava molto male dell’universo, e degli esseri viventi in particolar modo. Affermava, difatti, che
l’uomo e gli animali combattono una guerra di “tutti contro
tutti”, e che non c’è alcuna pietà per i vinti. Charles Darwin
era abbastanza d’accordo con questo punto di vista, la selezione naturale non prevede il buon samaritano, ma bisogna subito aggiungere che taluni dei suoi esegeti, i darwinisti sociali, hanno gonfiato ad arte questo coté gladiatorio
dell’evoluzione, soprattutto perché lo trovavano conforme
alla competizione davvero selvaggia che esiste tra gli individui all’interno della società capitalistica.
Tuttavia, se si punta sulla lotta per la vita, e si legittima
l’aggressività tra gli individui, diventa pressoché impossibile spiegare la nascita dell’altruismo che pure, malgrado tutto esiste, e consente la convivenza degli uomini. Nel nostro
secolo gli etologi, Konrad Lorenz in testa, hanno messo in
luce come gli animali, nei conflitti per il comando del gruppo, e per la femmina, non si comportano affatto, tra i mem103
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bri della stessa specie, come dei gladiatori. Al contrario, gli
scontri sono in una certa misura “ritualizzati”; le mosse e le
contromosse risultano tali da limitare il danno reciproco.
Anche se questi tornei sono stati osservati per lo più nei
vertebrati, e messi a fuoco nel XX secolo, in passato la faccenda era già stata segnalata, e ricordo tra tutti i precursori un entomologo, Ernst Ludwig Tauschenberg, che è vissuto nell’Ottocento, ha osservato con fervore, per esempio,
i cervi volanti. I maschi di questi coleotteri sono dotati di
mandibole enormi e impiegano queste strutture per battersi con i rivali. Difatti, scrive Tauschenberg, incrociano le
mandibole e si mettono a fare una sorta di “braccio di ferro”. Finché il più debole non viene rovesciato sul dorso, e
tutto finisce lì. L’entomologo notò come i due contendenti
non si producono alcuna ferita. Se Hobbes avesse studiato
un po’ di entomologia…
La scimmia assassina
Tra le scimmie cosiddette antropomorfe, lo scimpanzé, dal
punto di vista delle capacità sensoriali e del comprendere,
è senza dubbio il più simile all’uomo. Si pensa che le sue
performance mentali eguaglino quelle di un bambino di circa sette anni. In una cosa lo scimpanzé appariva dissimile
a noi, ma in meglio, e non in peggio. Si pensava che fosse
un animale quasi esclusivamente vegetariano, dal carattere dolce e dalle abitudini pacifiche. Chi non ricorda la Cita
di Tarzan?
Insomma, gli etologi avevano alimentato il mito della “buo104
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na scimmia”. Se noi siamo Caino, e lo scimpanzé Abele,
non avranno avuto ragione taluni a pensare che, dopo tutto, l’uomo potrebbe essere una scimmia degenerata? Oppure bisogna mettere in forse le comuni parentele?
Scherzi a parte, la triste verità è venuta a galla di recente.
Gli scimpanzé non sono vegetariani ortodossi, tutt’altro!
Vanno difatti a caccia di altre piccole scimmie, per esempio
i colobi, li braccano sugli alberi e li divorano ancora vivi!
Questi nostri angelici cugini non sono soltanto cacciatori,
ma cannibali. J. Van Lawick-Goodall, che ha studiato lungamente le scimmie in libertà, ha potuto assistere a una
scena che possiamo soltanto definire atroce. Sembra che
talora gruppi di maschi di scimpanzé intraprendano delle
battute di caccia ai loro simili. Durante queste spedizioni
marciano per la foresta in silenzio, contravvenendo alla loro abituale chiassosità e gaiezza. Un brutto giorno un piccolo contingente di assassini ha sorpreso, ai margini degli
alberi, una scimpanzé sola con il suo piccolo. Sono stati subito accerchiati, e l’orribile scempio ha avuto inizio. I carnefici hanno morso a sangue la femmina e sbatacchiato sul
suolo il piccolo. Alla fine hanno fatto a brani ambedue e si
sono messi a divorare le carni ancora calde e sanguinanti.
Sembra che il fantasma del marchese de Sade si aggirasse
tra di loro, dato che, eseguendo il massacro, i maschi
cannibali davano segni di una grande eccitazione sessuale.
Che roba! Non ci sono più dubbi: lo scimpanzé è un nostro
parente molto prossimo!
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Follia da folla
Mi capita sempre più spesso (siamo in tanti!), di trovarmi,
in banca o nel supermarket sotto casa, e frequentissimamente in autobus, mescolato a una folla di miei simili. Come confessarlo? Ho notato che vengo allora posseduto da
quella che potrei chiamare un accesso di “follia da folla”; in
altre parole, la presenza di una moltitudine di uomini mi
mette dapprima a disagio, e in seguito, se la circostanza si
prolunga, divento aggressivo. Senza volerlo, come obbedendo a un impulso irresistibile, comincio a lavorare di gomito, per aprirmi una strada e fuggire, e gli spintoni che
elargisco a iosa a chi mi sbarra il passaggio dimostrano
quanto io sia divenuto insensibile alle norme della buona
educazione, in preda a un raptus di aggressività.
Sembra, tuttavia, detto a mia discolpa, che il fenomeno sia
di ordine generale e che il rapporto di causa-effetto tra
densità crescente e aggressività sia stato riscontrato in
azione all’interno di molte popolazioni animali. Posso ricordare le esperienze di John Calhoun sul ratto albino, che mi
sembrano, al riguardo, le più impressionanti. Questo animale, posto in condizioni sperimentali di sovraffollamento
spinto, esibisce vistose modificazioni del comportamento.
In particolare, quando il numero di individui per metro
quadrato diventa elevatissimo, il nostro roditore entra in
una fase che lo scienziato suddetto ha battezzato come “la
fogna del comportamento”. In altre parole, l’“essere in
troppi” scatena nei ratti un’acuta aggressività, per cui non
corteggiano più le femmine, ma le bistrattano, e i maschi
tendono al sadismo, e si infliggono dei morsi dolorosi alla
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coda. Insomma, la folla li rende furenti, e smantella in loro
ogni inibizione.
Mi è venuto in mente, quando ho riletto Calhoun in cerca di
espiazione, che certi polemologi, così vengono chiamati gli
studiosi della guerra (ricordo per tutti Gaston Bouthul),
hanno sostenuto che gli scontri armati tra le nazioni sarebbero favoriti dalle alte densità dei popoli coinvolti, e non c’è
dubbio che i dittatori, per indottrinare e militarizzare la
“carne da cannone” parlano spesso di “spazi vitali” o di nuove terre da conquistare. Forse, si tratta più di un sovraffollamento “ideologico” che reale, ma la cosa è irrilevante.
Quel che importa è che si cerchi di evocare quella “follia da
folla” che, nel mio piccolo, mi induce, posto in una moltitudine, a non rispettare più come dovrei il mio prossimo.
Carnefici e vittime
Certi insetti vanno a caccia di altri insetti per nutrirsene direttamente o indirettamente. Da tempo si sa che alcune
specie di imenotteri paralizzano la loro vittima, per esempio un grillo, iniettandogli veleno, con sapiente impiego del
pungiglione, nei gangli di coordinazione motoria. Su questi
cadaveri viventi, gli assassini, anzi le assassine, perché di
femmine si tratta, depongono le loro uova. Le larve che ne
escono hanno la ventura di trovarsi a portata di bocca un
cibo vivente, quindi sempre fresco ma inerte, quindi incapace di difendersi. Una risposta a misura di insetto al problema della frigoconservazione delle carni!
Gli imenotteri pompilidi sono degli stravaganti, che hanno
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deciso di sconfinare dalla loro classe e di eleggere i ragni
come selvaggina per le larve. Una scelta pericolosa, si direbbe, perché non sembra facile che gli insetti possano pugnalare impunemente con il loro stiletto velenoso dei mostri di otto zampe dotati, a loro volta, di strumenti di offesa formidabili. Ma la natura ha i suoi misteri, e sembra che
il pompilide sia depositario di una meravigliosa capacità di
stupefare, e ne fa uso senza risparmio.
Il fatto ha suscitato meraviglia tra i biologi: si pensava che la
collaborazione tra la vittima e il suo carnefice, tra il torturato e il suo boia, di cui ci ha parlato con eloquenza Jean-Paul
Sartre, fosse un fenomeno squisitamente umano. Perché, a
dire il vero, la selezione naturale non consentirebbe di prevedere nulla di simile. Invece, il ragno sembra collaborare
con il pompilide alla propria perdita, o per lo meno non fa
molto per eluderla.
William S. Bristow ha introdotto in un tubo di vetro, che
ospitava un ragno (Artosa peiita), un pompilide (Pompilius plumbeus), il suo nemico di sempre. Che spettacolo!
Invece di avventarsi sull’intruso e farlo a pezzi, il ragno è
caduto in preda a una mortale esitazione. Quando poi l’antenna vibrante dell’insetto lo ha toccato, l’esitazione si è
trasformata in una sorta di stupore catatonico. Il ragno ha
assunto una curiosa, anormale postura e ha permesso al
suo persecutore di colpirlo a beneplacito con il suo aculeo
avvelenato, mutando la catatonia in catalessi, e un corpo
vivo in uno zombi pronto a farsi divorare dalle larve.
Parlavo prima di Sartre, ma ora penso di nuovo a Friedrich
Nietzsche. Mi chiedo se, anche in questo caso, si possa “attribuire” ai ragni l’amor fati.
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Fissare e’ sfidare
Tutti abbiamo sperimentato, una volta o l’altra, il fastidio
che si prova quando uno sconosciuto si mette a fissarci intensamente e a lungo. Tendiamo, dapprima, accertato lo
sguardo indiscreto, a distogliere gli occhi, a far finta di
niente. In seguito, se l’altro continua a prodigarci la sua attenzione, sentiamo crescere in noi un’irritazione sorda, e ci
mettiamo a fissarlo, con sfida, a nostra volta.
In altri casi, per esempio quando stiamo rimproverando
aspramente un figlio, se il reprobo, investito dalle contumelie, alza gli occhi, e ci fissa con fermezza, ci sentiamo
punti nel vivo e interrompiamo ogni discorso per gridare:
“Abbassa quegli occhi, subito!”. Il bello è, per l’etologo, che
questa sensazione che fissare è sfidare, risale direttamente alle nostre più vicine ascendenze animali.
George B. Schaller, lo abbiamo già chiamato in causa, è uno
studioso di scimmie antropomorfe, che ha passato 457 ore
insieme a un gruppo di gorilla sulle pendici dei vulcani Virunga, nel Parco nazionale Albert. Tollerato da queste grandi scimmie che, al di là delle fantasticherie alla King Kong
sono ben poco aggressive, Schaller andava e veniva a piacimento tra di loro, ed era riuscito perfino a dormire insieme
ai grandi maschi dominanti, i gerarchi della tribù.
Solo, bisognava stare bene attenti a non infrangere alcune
norme del viver civile gorillesco.
Guardare fisso negli occhi un vecchio maschio, con il pelo
del dorso sfumato d’argento, significava dar prova di un’intollerabile impudenza, ridestando nel pacifico bestione, di
due quintali di peso e di due metri di altezza, una certa
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propensione allo scontro fisico. A Schaller non sembrava
conveniente prendersi una sberla! Per cui, accertata la circostanza, scelse la via della modestia: se ne andava sempre
in giro tra i gorilla a capo chino.
Erode e’ un langur
Ho l’impressione che gli etologi classici, Konrad Lorenz in
testa, siano stati spesso, loro malgrado, vittime di quello
che potremmo chiamare “il complesso dell’Eden”. Tutti
quei lupi cavallereschi, che risparmiano il rivale sconfitto e
lo lasciano rientrare incolume nel gruppo, o quei cervi maschi che, all’epoca degli amori, “incrociano”, per dir così, le
corna in un torneo che non prevede esiti mortali, hanno finito per escludere la violenza e la crudeltà dal mondo animale, dove ciascuno, al contrario di noi, amerebbe il prossimo suo come sé stesso.
Gli etologi non avranno, per caso, sostituito al mito del
“buon selvaggio” di Jean-Jacques Rousseau il mito del
“buon animale” di Konrad Lorenz? Solo gli uomini sarebbero capaci di essere malvagi con i propri simili? In realtà,
le cose sembrano andare un po’ diversamente. Per esempio, qual è il crimine che suscita tra di noi più orrore? È
presto detto: l’uccisione dei bambini. Erode è l’allegoria
dell’infinita crudeltà del cuore umano, e il generale George Armstrong Custer ha perduto la simpatia di tutti quando, dissolta l’aureola di eroe che gli aveva posta in capo
John Ford, si è scoperto che i pellerossa l’avevano soprannominato killerbabies per talune sue imprese.
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Sembra che in carcere i massacratori di bambini vengano
rifiutati dai compagni di cella, che magari sono dei delinquenti incalliti, e degli assassini, è pur vero: ma di adulti!
Bene, anche tra gli animali vengono perpetrate atrocità
sull’infanzia.
Il caso più conosciuto è quello dei langur, scimmie che vivono in India. Quando un maschio diventa dominante, mette in pratica senza indugi, come consuetudine, una vera e
propria “strage degli innocenti”. Difatti, uccide senza pietà
tutti i piccoli del gruppo, e dal momento che l’eccidio comporta la ripresa dell’estro nelle femmine, si adopera per fecondarle l’una dopo l’altra, conseguendo una discendenza
esclusivamente legittima. Una ragione dinastica non dissimile da quella di Erode!
Tra i gabbiani, invece, quando un piccolo si allontana dai
genitori, gli altri componenti del clan lo castigano senza
pietà, ed è stato calcolato che talora il 20 per cento dei
nuovi nati perisce per mano, anzi per becco, dei suoi simili. La natura, insomma, non è precisamente come vorrebbe
Walt Disney.
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Delfini, pinguini,
topi e molti altri
Il pinguino ci guarda
Talora, mentre pianto un chiodo nel muro di casa mia per
appendere un quadro o quando, forse ancor più raramente, faccio un po’ di ginnastica da camera gridando hop!
hop!, allorché, insomma, mi comporto in maniera inconsueta, scopro che il gatto mi osserva. Sta lì, sul divano, con
gli occhi sgranati e una espressione, lasciatemi dir così, tra
la meraviglia e la curiosità. Mi viene il dubbio, allora, che da
sempre ci siano nell’appartamento due etologi a confronto:
un uomo che cerca di capire un gatto... e viceversa.
Non voglio affermare che il mio gatto si interroghi sui motivi filosofici del mio comportamento, ma è certo che la bestiola si adopera per interpretarne il significato. Tutto quel
mio gesticolare non sarà il prologo di qualcosa di imprevedibile e di pericoloso? La sopravvivenza di un animale dipende anche dalla sua capacità di fare qualche piccola previsione, e di mettersi con un ragionevole anticipo “in allarme”.
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La sensazione di venir posto dagli animali “alla gogna etologica” l’ha provata anche Cherry Kearton, un naturalista
avventuroso che ha studiato i pinguini per molti mesi su
una sperduta isoletta dell’Antartico. Si pensi che su questo
grumo di terra, dell’ampiezza di circa sette chilometri quadrati, approda, all’epoca degli amori, un popolo di alcuni
milioni di pinguini! Questi uccelli, inetti al volo, ma formidabili nuotatori, e pescatori subacquei, hanno cominciato
subito a frequentare l’ornitologo, entrando a piacimento
nella sua tenda. Ero io che studiavo i pinguini, si è domandato a un certo punto Kearton, o erano loro che osservavano un esemplare della nostra specie? In tal caso, conclude
tra il serio e il faceto, spero di non aver fatto fare una cattiva figura agli uomini.
Il delfino e’ di scena
Se è vero, come ha scritto Johan Huizinga, grande storico
del Medioevo, che l’uomo è un animale ludens, in altre parole un giocherellone, i suoi compagni di viaggio sul pianeta, gli altri animali, non gli sono da meno e praticano, a loro volta, questa attività apparentemente superflua. Dico
apparentemente, perché non tutti sono d’accordo nel considerare il gioco una sorta di “ozio ricreativo”, ma gli assegnano dei compiti biologicamente più importanti, come
l’anticipazione, e l’allenamento, a talune funzioni.
Per loro il gattino che insegue la pallina da ping-pong starebbe dando la caccia al suo topo futuro. Ma in certi casi il
gioco è certamente fine a sé stesso, e costituisce, come
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suol dirsi, un premio in sé. Nei delfini, che hanno un cervello grande quanto il nostro, il gioco può assumere, difatti, perfino le forme di una “presa in giro”, o di uno “sfottò”.
Un tursiope troncato era stato allevato in una grande vasca
insieme a una foca. Bene, nei momenti di relax, e possiamo
ben presumere di allegria, il delfino burlone “faceva il verso” alla sua compagna, e cioè ne imitava il comportamento. Si metteva nella posizione di riposo della foca, stendendosi di fianco sulla superficie dell’acqua, oppure nuotava
“alla fochese”, spingendosi avanti con le pinne e tenendo
ben ferma la coda. Simulava perfino le operazioni di pulizia
della sua amicona, sfregandosi il ventre con le pinne. Ma
non solo la foca era oggetto di lazzi per il nostro tursiope.
I sorveglianti dell’acquario non sfuggivano alle sue imitazioni. Dopo aver visto uno di loro che, immerso, ripuliva il
vetro di un oblò laterale della vasca, il delfino, con una penna di gabbiano in bocca, si mise a fingere di ripulire lo stesso oblò dalle alghe. E perché la commedia fosse più realistica, l’animale, nel corso della recita, emetteva a tratti dei
suoni simili a quelli che sfuggivano dalla valvola del respiratore del subacqueo e, se non bastasse, si lasciava dietro
una scia di bollicine d’aria.
Questo comportamento non è solo gioco puro, ma va al di
là del gioco, e diventa teatro. D’altra parte, chiunque abbia
assistito, in un grande acquario, a uno spettacolo con delfini ammaestrati, non nutre più dubbi sul fatto che questi
cetacei siano davvero degli ottimi attori. Come tali sono
anche molto sensibili agli applausi.
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Il beluga burlone
Lo confesso, non sono imparziale: mangio senza rimorsi una
vongola, ma ho già qualche problema con un coniglio. Con
un gatto, poi! Penso che non ce la farei mai a papparmelo,
anche se messo alla fame. Il fatto è che conosco “di persona” le qualità di pensiero di un gatto, e ho sperimentato da
tempo, vivendo insieme a questi animaletti inquietanti, che
i loro processi mentali, e la loro affettività, ci tallonano da vicino. Il gatto ci somiglia troppo perché servirlo in tavola non
risulti, alla fin fine, un vero e proprio atto di cannibalismo.
Qualcuno mi ha raccontato una sera, per provocarmi, Dio
ci salvi dai commensali aggressivi!, che tra le delizie gastronomiche offerte dalla cucina ligure esiste un piatto ignobile, a base di carne di delfino. Inorridisco al solo pensiero,
perché se il gatto è, per dir così, abbastanza intelligente, il
delfino è umano, troppo umano! Pensavo a questo alcuni
giorni fa nell’acquario di Vancouver, che ospita dei delfini
beluga, quelli tutti bianchi, che sono degli autentici fantasmi dei mari. Uno di questi spettri gentili era ancora piuttosto giovane, e come tale si dimostrava propenso al gioco.
Lo credereste? Preferiva giocare con i suoi coetanei umani
in visita all’acquario, piuttosto che con i loro genitori. Le
cose andavano più o meno così: quando un gruppo di bambini vociferanti si accostava all’orlo della vasca, il beluga faceva capolino in superficie, inghiottiva dell’acqua e la risputava, con un getto parabolico, contro di loro. I bambini
si mostravano deliziati a quell’invito al gioco e correvano
lungo la vasca ridendo, mentre il delfino li inseguiva continuando a innaffiarli per bene.
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Sopra tutto, le sue performance da pompiere improvvisato
erano dirette contro uno dei giovani energumeni, vestito di
una tuta vistosa, che sbraitava più di tutti. Alla fine, il gioco si è mutato in una sfida a due: il bambino si allontanava
dalla vasca, per ricomparire d’un tratto in un punto qualsiasi, e il beluga stava sott’acqua e appariva fulmineo tentando di centrare per bene il bersaglio mobile. Tra i visitatori ha cominciato a serpeggiare una sorta di commosso
stupore. Ho pensato, allora, che in loro, e sopra tutto in
quel bambino, era di sicuro morto ogni possibile mangiatore di delfini.
Il topo e il cioccolato
Forse, quella mela che cadendo dal ramo per eccesso di
maturazione suggerì a Isaac Newton la teoria della gravitazione universale, o quella lampada che oscillando in chiesa
mise Galileo Galilei sulla pista del movimento pendolare,
sono fantasticherie popolari, forme di quella “leggenda aurea” che trasfigura nei secoli le biografie dei grandi uomini.
A parte questo, è pur vero, e lo sottoscrivo, che la ricerca
scientifica trova sovente ispirazione nelle occasioni della
vita quotidiana, e il caso dello psicologo animale John Garcia, che sto per chiamare in causa, suffraga, anche se in
maniera minore, questa mia convinzione. Sembra che la
madre del nostro Garcia fosse, da bambina piccola, ghiotta
di cioccolato, e che una volta, in procinto di salire su di un
ferry-boat che doveva portarla coi genitori al di là di un lago, avesse divorato un pezzo di questa leccornia. Subito
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dopo, salita a bordo, i movimenti della nave le avevano procurato un bel mal di mare, con nausea, vomito e quel che
segue! Bene, la cosa aveva scatenato, e fissato, in lei un
odio insuperabile per il cioccolato.
Un caso di condizionamento alla Pavlov, ottenuto spontaneamente? John Garcia si mise all’opera per capire il disgusto materno e pervenne a conclusioni di estremo interesse,
perché contraddicono Skinner e la sua scuola. Nel senso
che il condizionamento di un animale presenta dei limiti
che potremmo chiamare propriamente biologici. Per esempio, appurò Garcia, se date a un topo un certo cibo e lo punite, per dissuaderlo ad alimentarsene in futuro, con piccole scosse elettriche, non otterrete alcun risultato apprezzabile. Solo se il cibo viene associato con un senso di nausea,
indotto con farmaci o con piccole irradiazioni di raggi X,
siete sulla strada buona. In altre parole, la madre di Garcia
aveva perduto ogni propensione per il cioccolato proprio
perché il mal di mare aveva associato la nausea al consumo
mentre, con ogni probabilità, una scarica elettrica, o un altro evento similmente sgradevole, non avrebbero per nulla
fatto insorgere la ripugnanza. L’evoluzione, insomma, ha le
sue regole, che non prevedono alcun rapporto di causa ed
effetto tra un elettroshock e una caramella.
Uomini e topi
A proposito delle esperienze di psicologia sugli animali,
Bertrand Russell, un pensatore ricco di humour, ha scritto
che spesso i soggetti sperimentali, topi o scimmie che sia117
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no, si comportano secondo le convinzioni preconcette, e
perfino le caratteristiche nazionali, degli scienziati all’opera su di loro! Per esempio, gli animali studiati dagli americani (memori dei pionieri?) si muovono senza tregua, dando prova di grande energia e ardore, conseguendo il risultato quasi per caso, mentre quelli osservati dai tedeschi
(proclivi alla metafisica?) se ne stanno buoni buoni in meditazione, risolvendo i problemi come per improvvisa illuminazione interiore.
La circostanza sembra essere qualcosa di più di una semplice battuta di spirito e le esperienze di Rosenthal e soci
convalidano con i fatti il sarcasmo epistemologico di Russell. In altre parole, più sovente di quanto sarebbe lecito, lo
sperimentatore trova quel che cerca. Difatti, date a due
gruppi di psicologi dei topi scelti a caso, ma dite al primo
gruppo che gli animali sono abili a districarsi in un labirinto, e al secondo gruppo che gli animali sono del tutto inetti alla bisogna, e passerete di sorpresa in sorpresa.
I topi presunti intelligenti dai loro gestori sperimentali si
comporteranno come tali, mentre gli altri, bollati di stupidità, la renderanno, con il loro comportamento, palese e
inequivocabile. Eppure, erano stati scelti a caso! Secondo
Rosenthal la spiegazione del pasticcio è rintracciabile nel
rapporto uomo/topo. I topi millantati come dei piccoli Einstein vengono, durante tutta la prova, trattati con gentilezza e simpatia − sono tanto intelligenti! −, mentre gli altri,
creduti tonti, sono trattati sbrigativamente e per dir così: a
calci nel sedere. Bene, sono come tu mi vuoi... la cortesia
aguzza l’ingegno, e viceversa.
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Per amore di un topo?
Qualcuno mi accusa, talora, di non nutrire molta comprensione per gli zoofili. Forse è proprio così. Tempo fa, a un dibattito di ecologia, una signora, se non sbaglio in giacca di
pelle, mi ha rimproverato di aver detto nel corso di una trasmissione televisiva che tra salvare la vita di un gatto (animale che io amo tanto!) e quella di un bambino avrei scelto senza esitare il bambino. Amo gli animali, ho risposto,
ma non li antepongo ancora agli esseri umani. Certo, non
posso escludere in futuro che incontrando molte signore
come la mia accusatrice potrei anche cambiare idea.
Scherzi a parte, sarò antropocentrico finché si vuole, ma
non rinuncio per ora ai miei simili, e tuttavia si vorrà riconoscere a mia discolpa che ho fatto abbastanza, scrivendo
e riscrivendo, perché si cominci a considerare gli animali
dei nostri compagni di strada, dei fratelli minori, e non delle macchine o delle cose. Penso che l’amore per gli animali debba fondarsi non sulla proiezione, malfido miraggio,
che attiva nel pechinese il fantasma di un figlio non avuto
e desiderato (se ne adotti uno vero, semmai) ma sulla conoscenza che insegna l’amore per la diversità.
Per spiegarmi meglio voglio raccontare un fatterello che mi
è successo tempo addietro. Avevo parlato, in una sera nebbiosa e in uno sperduto paese, a un pubblico di insegnanti
e di curiosi, di etologia, soffermandomi un poco sulla saggezza dei ratti. Più tardi, mentre venivo trasferito in automobile, pieno di sonno, al mio albergo, l’assessore che guidava frena bruscamente. Lo interrogo e lui mi dice: “Sa,
professore, c’era un topo sulla strada, ma dopo quello che
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lei ha detto...”. È vero: un topo, come oggetto d’amore, non
è il più adatto, però...
Il pappagallo non sa il tedesco
Un mio amico possedeva un pappagallo, di nome Coco, che
non esito a definire geniale. Difatti, quando uno sconosciuto entrava in casa, e si avvicinava al suo trespolo, Coco gli
domandava perentorio: “Come ti chiami?”.
La cosa davvero straordinaria era che certe volte, se l’interpellato rispondeva a vanvera, dicendo magari: “Fuori sta
piovendo”, il pappagallo si mostrava insoddisfatto, e continuava a esigere il nome. Come se, nella risposta, avesse
percepito qualcosa che non andava, o forse, pensavo io, un
sottile tono di scherno che lo lasciava perplesso.
Purtroppo, un anno dopo il nostro incontro, Coco passò a
miglior vita, e il suo padrone anche, impedendomi di fare
delle osservazioni o una intervista più approfondite in merito.
È sicuro, a ogni modo, che Coco “riconosceva” il proprio
nome, e dava evidenti segni di attenzione quando questo
veniva pronunciato in sua presenza, anche, si badi bene, se
non ci si rivolgeva a lui.
Al contrario, un cagnolino di dubbie ascendenze, chiamato
Pippo, che allietò la mia infanzia, rispondeva al suo nome
regolarmente, ma è indubbio che il tono della voce aveva
una importanza primaria.
Difatti, lo chiamavamo, o lo sgridavamo, con una voce un
po’ in falsetto, come spesso si fa con i bambini molto pic120
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coli, e l’adozione di questo registro fonetico informava il
cagnolino che lo stavamo tirando in ballo. Il suo nome, pronunciato con un tono volutamente diverso, evocava nell’animale solo una certa inquietudine. Come se capisse e
non capisse nello stesso momento.
Certo, anche per noi, la maniera con cui si pronuncia una
parola partecipa attivamente alla sua comprensione. Benché si tratti di un fenomeno un po’ diverso, si pensi al parlare in una lingua straniera.
Mi rivedo su un tram di Monaco di Baviera, totalmente digiuno della lingua tedesca. Tento di sapere dal conducente
qual è la prossima fermata. “Hüberplatz?” gli chiedo. Mi
guarda attonito. Ripeto allora la domanda. È ancora più
perplesso. D’un tratto, il suo volto si illumina “Hüberplatz?
Oh, ja, ja!”. Non avevo, forse, detto lo stesso? Ma “come”
l’avevo detto?
In barba a Chomsky
L’uomo si crede da sempre, e si millanta, il solo essere dotato di intelligenza, e secondo alcuni pensatori e semiologi
l’intelligenza e il linguaggio sarebbero la medesima cosa. Si
sa che i pappagalli possono imparare a parlare (per imitazione, si dice; e l’uomo come fa?), ma subito gli psicologi
animali hanno decretato che il povero Loreto parla, per
l’appunto, “da pappagallo”. Non capisce, insomma, il significato delle parole che pronuncia. Ma sarà vero?
Di recente, Alex, un perrochetto del Gabon, ha smentito
questo pregiudizio, perché si è messo a colloquiare “a sen121
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so” con la sua padrona, una signora americana di nome Irene Pepperberg. Convinta delle pregevoli performance intellettuali del suo Alex, la detta signora ha ideato una maniera per renderle palesi. La manovra ha preso il nome di
“tecnica del rivale”.
Vediamo un po’ di che cosa si tratta: due persone si mettono davanti al trespolo del pappagallo e, fingendo di non curarsi affatto di lui, giocano “alla cosa e al nome”. Per esempio, uno dei due mostra una banana e l’altro dice: banana!
Se sbaglia viene aspramente rimproverato, e se per più volte ci azzecca riceve la leccornia in premio. Dopo un po’ il
perrochetto si stufa di starsene in disparte, e comincia a rivaleggiare con quello che pronuncia i nomi delle cose esibite, e risponde prima di lui. Da quel momento dirà banana ogni volta che la vede, o che la chiede, e sembra così
che Alex sia uscito dalla sua condizione di pappagallo e abbia perfettamente capito il rapporto tra il significato e il significante, tra la parola e la cosa. Inoltre, ha appreso perfino a dire sì e no secondo le circostanze.
Le barriere linguistiche tra l’uomo e l’animale si stanno
sempre più assottigliando: e c’è chi ha tentato di insegnare l’inglese ai delfini, e c’è chi comunica con gli scimpanzé,
o con gorilla, attraverso scritture sintetiche composte da
parole/oggetto, oppure mediante il linguaggio gestuale dei
sordomuti americani. Ora anche i pappagalli, in barba a
Noam Chomsky e a tutti i semiologi antropocentrici, si sono messi a parlare come noi.
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Come Barbanera
Le api, lo sapeva bene anche l’uomo preistorico che le depredava, accumulano nei loro favi il nettare raccolto sui
fiori e lo trasformano in miele. Dunque, mettono via del cibo per consumarlo più tardi. In altre parole, è come se prevedessero dei bisogni futuri, e prendessero le misure necessarie per fronteggiarli. Ma l’ape fa, perché sa?
È una domanda di difficile risposta, perché la previsione
prevede il pensiero, e il pensiero sembra appannaggio di
animali con un cervello ben più grosso del cervello dei nostri imenotteri che pure il grande Darwin definiva uno degli atomi di materia più straordinari del mondo. In effetti,
l’istituzione di depositi di cibo è una pratica non infrequente tra gli animali e, in taluni casi, è stata anche estesamente studiata.
La nucifraga columbiana, per esempio, è un uccello americano che, nell’autunno, quando si approssima il tempo delle “vacche magre”, mette via uno stock di ben trentamila
semi disponendoli in piccoli gruppi, da due a cinque, in nascondigli opportuni. Mille depositi assicurano al previdente animale una sorgente di cibo da sfruttare a fondo nel
corso dell’inverno. Si tratta di una vera e propria assicurazione per la sopravvivenza e la nucifraga supera la cattiva
stagione dedicandosi intensamente alla “caccia al tesoro”.
Come fa a ritrovare i suoi depositi? Sembra che l’uccello
sappia con una certa esattezza dove si trovano i semi imboscati, e li recuperi con facilità. Il rinvenimento non è a
caso, e a quanto pare non intervengono degli stimoli-guida
olfattivi. Questo è stato accertato mettendo in una gabbia
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sperimentale dei semi nascosti vicino a quelli sistemati in
precedenza dall’uccello che, rimesso in loco, trovava facilmente i suoi e trascurava gli altri.
Insomma, l’animale doveva essersi formato, nel cervello,
una mappa, più valida di quella stilata su pergamena dal pirata Barbanera, e la impiegava per ritrovare i propri tesori.
Difatti, facendo variare il “paesaggio”, cambiando il posto
di quell’arbusto, o spostando più a destra quel sasso, la nucifraga mostrava sempre segni di spaesamento, come se i
conti non gli tornassero più. A ogni modo, se metter via significa prevedere, e se prevedere equivale a pensare, gli
animali pensano.
Il piccione sa contare
L’etologo, come tutti gli altri scienziati, si sforza di essere
al di sopra delle proprie convinzioni, ma ci riesce raramente. Chi studia gli animali è di solito antropocentrico, e diffida di Charles Darwin, o zoocentrico e giura a mano aperta sulla realtà dell’evoluzione. L’etologo della prima corporazione ideologica, non saprei come meglio chiamarla, sperimenta sugli animali nel segreto intento di trovarli stupidi
e affermare, di conseguenza, che l’uomo è il solo essere veramente intelligente del pianeta, mentre l’etologo proclive
all’animalità, che io trovo più consono ai miei gusti, si dedica al suo insetto, o alla sua scimmia, tentando di dimostrare, dati alla mano, che noi non siamo affatto i soli esseri pensanti e che tra i processi della nostra mente e quelli
della mente di un cane esiste una differenza, è certo, di
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quantità, ma non di qualità. Anche il cane pensa, ricorda,
sogna, soffre e sicuramente ama, anzi: bontà sua, ci ama!
Questi etologi dissacratori, che si mettono dalla parte degli
animali, non si arrestano davanti a niente, e taluni di loro
hanno alimentato perfino l’idea che gli uccelli siano in grado di accedere ai mondi supremi del numero e della matematica, seppure elementare. Negli anni Trenta uno psicologo di nome Arndt aveva stabilito un rapporto di amicizia
stretta con un piccione, da lui battezzato Nichtweiss, più o
meno Passobianco; e l’aveva addestrato a mangiare dei semi disposti in fila e a fermarsi alla quinta beccata. Posto in
seguito tra due file di semi, l’una di due e l’altra di ventitré,
l’animale pitagorico cominciò a praticare una curiosa ars
combinatoria, scegliendo ora a destra, ora a sinistra, ma,
(si badi bene!), mantenendosi fedele alla sua dieta a “cinque punti”. Insomma, era capace di sommare?
Successivamente dimostrò di conformarsi al mandato del
suo istruttore anche se, tra una beccata e l’altra, intercorreva la dilazione di sessanta secondi. Delle esperienze più
recenti hanno confermato, e messo in dubbio, questa facoltà numerale degli animali, ma sostanzialmente si è pervenuti all’idea che questi nostri compagni di strada siano capaci di pensare senza parole e, come ha scritto Koehler, di
contare senza nominare i numeri.
Il piccione mistico
Dire che cos’è la superstizione non è cosa facile, perché la
faccenda in sé, e la parola che la indica, sono molto ambi125
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gue e di difficile interpretazione. Si può tifare per l’idea, di
marca positivista, che la superstizione sia formata da convinzioni maturate nell’ambito del pensiero magico, e ben
decise, queste convinzioni, a sopravvivere in piena epoca
scientifica.
Per esempio, il pensiero magico, simile in questo al pensiero nevrotico, se vogliamo dar credito a Sigmund Freud, alimenta la convinzione che il simile chiami il simile, e che di
conseguenza trafiggere con un ago la fotografia di una persona odiata significhi, per risonanza, fargli del male davvero, e cioè nel corpo. In altre parole, la superstizione trarrebbe forza dalla credenza in un nesso causale tra due fenomeni, nesso che sarebbe inesistente, per quel che vale
l’esperienza scientifica. Il comportamento superstizioso è
generalmente ritenuto appannaggio esclusivo della nostra
specie. Alcune esperienze dei behavioristi americani, Skinner in testa, starebbero però a dimostrare proprio il contrario. Anche gli animali possono dar segno di superstizione. Difatti, prendete un piccione e, qualsiasi cosa stia facendo, fate piovere nella sua gabbietta dall’alto un chicco
di grano. Dopo, a intervalli regolari di tempo, ripetete
l’elargizione. Bene, il piccione comincia a ripetere in maniera coatta l’azione che ha provocato, così sembra “credere”, la caduta della manna. Al momento del primo chicco si
girava a destra? Continuerà a farlo, perché ha intuito un
nesso causale tra quel movimento e il dono degli dei. Gira,
rigira, e comincia, forse, a sognare un elargitore onnipotente.
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Il piccione migratore
C’era una volta, in un tempo non molto lontano, un uccello volgarmente noto come il piccione migratore − per la
scienza Ectopistes migratorius − che viveva e prosperava
felicemente nel Nord America, in un ampio areale che
comprendeva il Canada meridionale e parte degli Stati Uniti, popolando la Virginia e il Mississippi. Come migratore
era un irregolare, ma la maggior parte degli individui, per
sfuggire ai rigori invernali, si spostava in grandi masse verso le terre limitrofe al Golfo del Messico. In grandi masse,
ho detto, perché il contingente numerico di questo piccione era, a dir poco, immenso: gli alberi delle foreste, suo habitat preferito, si schiantavano sotto il peso dei nidi e agli
inizi del secolo scorso alcuni osservatori avevano stimato
delle orde di più di due miliardi di individui. Gli indiani si
nutrivano da sempre di questo uccello, dalle carni molto
gradevoli, ma i loro prelievi erano discreti e assolutamente
non distruttivi.
Ma, come ha scritto Ernest Hemingway, i continenti invecchiano presto quando arriva l’uomo bianco, sopra tutto se
armato di doppietta. I fucili cominciano così a tuonare:
“sportivamente”, si abbattono centinaia di uccelli non per
scopo alimentare, ma per mostrare la propria bravura, e
migliaia di cacciatori fanno il tiro a segno lungo le vie di migrazione. Ben presto si passa alla distruzione dei nidi, e il
gioco è fatto. Nel 1909 viene promessa una ricompensa di
1.500 dollari per chi segnali una coppia − una sola! − nidificante. Nessuno si presenta a riscuotere il premio. Campione unico della sua specie, superstite della grande mat127
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tanza, l’ultimo Ectopistes migratorius muore cinque anni
dopo nello zoo di Cincinnati.
L’albero del fulmine
Amo gli animali, e sono convinto da sempre della loro intelligenza, dimostrata dalla loro indubbia capacità di far
fronte a situazioni nuove, e di superare spesso brillantemente le emergenze. Tuttavia, ci sono dei casi in cui le loro abitudini ereditarie, in altre parole i loro comportamenti istintivi, si scontrano con delle novità “ambigue”, che
evocano risposte spesso pregiudizievoli all’individuo e alla
specie.
Ben nota al riguardo la circostanza che i ricci europei, posti di fronte a un pericolo in veste tecnologica, e cioè alla
minaccia di un’automobile in rapido avvicinamento, reagiscono “come sempre” e, ahimè!, soccombono. Mi spiego
meglio: un riccio, quando si imbatte in un predatore, non
sceglie la via della fuga ma, messo alle strette, si appallottola mutandosi in un ben difeso portaspilli, diventando in
larga misura invulnerabile. Ma se questo comportamento,
con una volpe, può avere successo, appallottolarsi in mezzo a un’autostrada per difendersi da un tir che sopraggiunge è la cosa peggiore che il piccolo riccio possa fare. Ahimè, l’evoluzione della sua specie non ha previsto, per lo
meno non ancora, l’esistenza di veicoli semoventi su quattro ruote! La risposta “felice” diventa “infelice”, e mal consigliati dalle loro abitudini i ricci sono sulla via dell’estinzione.
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La stessa cosa è accaduta, tempo fa, a un orso bruno fuggito da una gabbia dello zoo di una cittadina presso Londra. Turista in questa metropoli, ho assistito alla scena, angosciosa, ripresa da una televisione locale e messa in onda
con le notizie della sera. Dunque l’orso, dopo essere evaso,
si era dato a correre per i campi, inseguito da un nugolo di
poliziotti e di guardiani dello zoo, che agitavano reti e corde, in un bailamme non privo di umorismo. Bene, un orso
perseguitato, se sente che i suoi inseguitori fanno progressi, che cosa crede sia meglio? Per esempio, salire fino alla
sommità di un albero. Ma da quelle parti della campagna
non c’erano alberi, ma sì: c’erano, ma per dir così: ridotti all’osso. Intendo dire, trasformati in pali della luce.
Suppongo che abbiate già intuito il triste epilogo. L’orso,
spinto dalle sue abitudini ataviche, è salito lungo questo
fantasma d’albero, fino a che, con la zampa, ha toccato un
punto fatale. La pianta “finta” aveva, per dir così, un fulmine incorporato, e l’animale ha pagato con la vita la sua incomprensione del progresso.
Pensare, prevedere, soffrire
Il dolore è uno strumento della sopravvivenza. Per cui, il sistema nervoso non è solo la centrale dei sensi, il luogo di
raccolta di tutti i segnali provenienti dall’esterno, che si
coagulano in un’immagine del mondo, è anche la fabbrica
del malessere e delle sensazioni “cattive”. In forza di tutto
questo mi è difficile pensare che un organismo possa stare, per dir così, al di là della sofferenza, perché se, come
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pensa Gautama Buddha, “la vita è dolore”, il dolore, per
converso, salvaguarda la vita.
Anche negli animali inferiori, come le amebe e le planarie,
sono stati riscontrati dei preferendum: gli individui tendono a restare in certi luoghi o a migrare da certi altri secondo le temperature o i sali del mezzo acqueo, più o meno
“graditi”. È pur vero che il dolore più “nobile”, quello dello
spirito, sembrerebbe presupporre l’esistenza di un pensiero molto evoluto, ma è del pari vero che molti animali superiori, si pensi al cane o al gatto, soffrono se vengono trascurati, o abbandonati, perché contraggono dei veri e propri legami affettivi con i loro padroni. Il grande etologo
Konrad Lorenz, alla domanda se gli animali soffrissero più
o meno di noi, ha risposto: “Di più”. Sembrerebbe un punto di vista paradossale, ma Lorenz ha chiarito subito in modo soddisfacente quello che intendeva dire: gli animali soffrono di più, e lo stesso potrebbe dirsi per i bambini molto
piccoli, perché non razionalizzano e non contestualizzano
il dolore.
Un uomo torturato sa il perché, e questa consapevolezza
gli consente di fronteggiare meglio l’evento. Ma un povero
cane, posto sul tavolo del vivisettore che magari, fino a
qualche minuto prima, lo aveva ipocritamente accarezzato
per farlo star buono mentre lo legavano, non può far altro
che soffrire. Inoltre, mentre l’uomo può escogitare previsioni sulla cessazione della tortura, il cane la vive in un
eterno presente, come fosse “per sempre”. La previsione
funziona come un placebo: noi speriamo che una persona
cara, ora lontana, tornerà domani, e siamo meno tristi, ma
il mio gatto, se sono assente per qualche giorno, vive la mia
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latitanza come una perdita totale e irreparabile. E si rattrista a morte quando tiro fuori dall’armadio la valigia. Certo,
l’animale ha un vantaggio: non sa, come noi, di dover morire. Ma la sua vita è spesso più dolorosa della nostra.
Il suicidio e lo scorpione
Quando, per esempio nel corso di una cena, i commensali
scoprono che mi occupo del comportamento degli animali,
vengo subito bersagliato dai quesiti più stravaganti. L’altra
sera si era curiosi del suicidio. In parole povere, mi interrogava una signora, gli animali si uccidono? O questo gesto così innaturale è di pertinenza esclusiva della nostra specie?
Circolano, mi ricordava qualcuno, delle curiose dicerie in
merito: c’è chi afferma che lo scorpione, posto al centro di
un circolo di fuoco, si trafigge con il suo stiletto velenoso,
soccombendo nell’atto. Altri parlano dei lemming, quei roditori nordici che in certe annate crescono imponentemente di numero, migrano a battaglioni, e finiscono per gettarsi in mare annegando miseramente. In massa, davvero, se
si racconta che nella seconda metà del XIX secolo una nave norvegese ci mise un buon quarto d’ora a superare una
moltitudine di lemming natanti!
Ma i casi congiunti, dello scorpione o del lemming, sono il
risultato di fantasticherie o di osservazioni male interpretate. Io stesso, da bambino, ho potuto assistere, anche se
dissentivo del tutto sull’esperienza, al rito di uno scorpione posto al centro di un circolo di fuoco da un professore
di scienze naturali un po’ sadico. L’animaletto si è limitato
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a correre intorno come impazzito, e alla fine non ha per
nulla fatto karakiri, ma si è precipitato contro la barriera
ignea tentando, secondo me, di superarla, e finendo, invece, arrosto. Per i lemming è chiaro che, se si tuffano in mare, è soltanto perché desiderano continuare la loro migrazione verso nuove e più propizie pasture e se affogano è
perché le rive della terra promessa sono troppo al di là delle loro forze.
Dunque gli animali, tranne alcuni esempi di delfini in cattività, non si uccidono nel senso proprio del termine, o per
meglio dire non lo fanno in maniera plateale e cruenta. Però, ci si può suicidare in altri modi che con la pistola o il veleno: per esempio, con la malinconia. Vi sarà capitato di
notare che, spesso, quando uno di due vecchi coniugi, che
hanno trascorso insieme una vita “da colombi”, se ne va via
dal mondo, il superstite non tarda a seguirlo. Questa “morte da malinconia” riguarda, allora, anche gli animali.
Una cagnetta, dal nome arcade di Filli, al decesso della sua
padrona, che abitava nel condominio di mia madre, perse
l’appetito, ed evidentemente la voglia di vivere. Nel giro di
una settimana dalla scomparsa della sua diletta, Filli fu trovata morta nella cuccia. Suicida? Certo che sì.
L’agnello pazzo
La psichiatria animale è una disciplina ricca di informazioni e di prospettive nuove per l’etologo, che la dovrebbe tener d’occhio. Anche se, dando prova del solito antropocentrismo implicito e duro a morire, taluni alienisti e filosofi
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sostengono, chissà perché, che solo l’uomo ha il privilegio
di impazzire, e che la follia è un male non della mente, ma
dello spirito. Gli animali, dal canto loro, del tutto all’oscuro
di questa “incapacità”, continuano a esibire comportamenti aberranti, raptus di aggressività, o di autolesionismo, che
non sappiamo interpretare se non come vere e proprie turbe nervose.
Per esempio, i pastori della Nuova Zelanda conoscono da
tempo una fissazione coatta, detta placer sheep, che colpisce gli agnelli dopo la perdita improvvisa della madre. Le
cose vanno più o meno così: quando una pecora, in seguito a un accidente qualsiasi, muore, il piccolo che è stato
presente al fattaccio, si lega durevolmente a una cosa del
paesaggio prossima al luogo del triste evento, e non può
più staccarsi da quella roccia, o da quell’albero. Tende così, con una irriducibile ostinazione, a restare sul posto, anche se nel frattempo la carogna della madre è stata definitivamente allontanata.
Come preda di un incantesimo, l’agnello stregato diventa
una sorta di genius loci e non c’è verso di sloggiarlo da
quell’angolo di mondo senza che si adoperi, in ogni modo,
di recuperare la vista, o l’ombra, dell’albero o della roccia
che l’hanno affascinato per sempre. Ma non basta: sottratto, volente o nolente, a quel circolo magico, l’animale resta
segnato a vita, e crescendo si dimostra del tutto incapace
di far parte di un gregge o di riprodursi. Esibisce, insomma, l’equivalente di un comportamento autistico.
Remy Chauvin sembra propenso a considerare la faccenda
come un caso particolare di “imprinting errato”, ma è più
corretto, forse, annoverarla tra le psicosi traumatiche. In133
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somma, in termini semplici, ci sembra di poter affermare
che quell’agnello è impazzito. I pastori della Nuova Zelanda non si danno a tante speculazioni in merito: ritenendolo irrecuperabile, mettono il caso clinico allo spiedo o in
graticola.
Vegetariano e’ bello?
Non sono vegetariano, lo confesso. Ma dovrei esserlo, per
due importanti ragioni. Il mio amore per gli animali, intanto, e la sofferenza che provo quando vedo, e penso, che si
fa loro del male; e il mio desiderio di giustizia, poi, che mi
spinge a lavorare, nel mio piccolissimo, per un mondo in
cui tutti possano mangiare a sazietà.
Ahimè, una mia amica, di ritorno dalla Cina, mi ha raccontato una storia angosciosa. In un mercato di Pechino (o di Canton, non ricordo bene), due cagnolini aspettavano in una
gabbia di fil di ferro il buongustaio del caso. Il paventato personaggio sbuca da dietro un cumulo di ortaggi, indica al bottegaio uno dei due animali, che vien preso per la collottola e
ucciso a bastonate sotto gli occhi del superstite. Questo comincia a tremare e a guaire e si rifugia, pazzo di terrore, nell’angolo della gabbia più lontano dai suoi carnefici.
Questo racconto mi ha rattristato a morte, e ho inveito
contro i cinesi, ma un’altra mia amica, la sera dopo, mi ha
riportato in patria. Da bambina, in Cadore, mi ha confessato di aver visto uccidere un maiale così: appeso con le zampe posteriori a un traliccio, gli venne aperto il ventre con
due o tre colpi d’ascia!
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La seconda ragione per cui dovrei essere vegetariano, è
meno truculenta, ma di portata ben più generale. Se è vero che c’è la fame nel mondo, mangiare le piante, e non gli
animali, significa contribuire a un più equo convitto dei popoli. Perché, man mano che si sale lungo le catene alimentari, passando dall’erba all’insetto che la mangia, e all’uccello che si pappa l’insetto e così via, si verifica una perdita notevolissima di energia.
Secondo un ecologo russo, V. Dejkine, 1.000 tonnellate
d’erba servono per alimentare 27 milioni di cavallette che,
a loro volta, sono in grado di soddisfare l’appetito di 90.000
rane. Il contingente di anfibi, per concludere, consente a
300 salmoni di raggiungere la maturità.
Si mediti su questa circostanza: i 300 salmoni possono, per
un anno, servire come cibo a un solo uomo, mentre già se
venissero servite in tavola le rane gli invitati potrebbero essere qualche decina. Ancora: chi, come certe popolazioni
arabe, si dedicasse agli spiedini di cavallette potrebbe allestire una vera e propria mensa popolare! Emulare la cavalletta, passando direttamente a mangiare i vegetali, resta,
così, la soluzione ottimale. Il vegetariano è un uomo alimentarmente più “democratico” e non so che cosa aspetto
ancora a convertirmi.
L’animale immaginario
Sembra proprio che il serpente di mare non esista, e gli
zoologi ortodossi si rifiutino di prendere in seria considerazione l’eventualità che un bel giorno questo mostruoso ret135
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tile esca dall’incognito e faccia naufragio, carcassa immane, su qualche spiaggia popolosa, offrendosi finalmente alla vista di tutti.
Bernard Huevelmans non condivide l’opinione degli scienziati increduli, e in un suo libro monumentale prende in
esame le testimonianze di tutti quelli che hanno veduto il
bestione chimerico emergere dagli abissi, fare uno show, e
sparire di nuovo nel mistero. Sono troppi, secondo lui, perché si possa credere ai miraggi. Se non c’è fumo senza fuoco, deve esserci qualcosa che vive nei mari a nostra insaputa, e che somiglia a quel serpente di mare che Konrad
Gessner, uno zoologo del Cinquecento, raffigurava nella
sua Historia animalium come in procinto di affondare
una nave. La cosa resta, a ogni modo, controversa, perché
gli scienziati ufficiali, emuli di san Tommaso, insistono sul
“vedere per crederci” ed esigono di “metterci il dito”.
Ma se il nostro dinosauro marino è un animale che non c’è,
e che c’è, secondo le convinzioni, anche altri animali di
esperienza quotidiana sono spesso resi “irreali” dai pregiudizi, o per meglio dire dalle cattive osservazioni, che è lo
stesso. Conosco molte persone, per esempio, pronte a giurare che i gatti hanno una spiccata propensione per il tradimento, che non riconoscono, e non amano, contrariamente al cane, il loro padrone, e che sono animati da uno
spirito malvagio. Bene, questo animale non esiste, è il risultato di una proiezione e di una fantasticheria.
Di recente sono risalito al colpevole, al fabbricatore del
“gatto irreale”. Ho scoperto che è stato il conte Buffon, uno
dei più eminenti zoologi del Settecento, a ratificare, con la
sua autorità, e a consolidare nel tempo le gravissime accu136
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se. Se ne conclude che anche Buffon era uno scienziato
proclive ai sogni. Come Bernard Huevelmans che crede
senza vedere, così il conte Buffon ha speculato senza osservare.
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Altri scritti
A scuola dalle analogie
Interpretare i comportamenti cosiddetti “superiori” dell’uomo partendo “dal basso” significa, forse, praticare quel
“riduzionismo” oggi inviso agli scienziati e ai filosofi dediti
alla “sfida della complessità”. Ma il loro dissenso non sarà,
in qualche misura, il risultato di un equivoco? Colpa dei positivisti, dei Vogt e dei Buchner che, se non avevano proprio “inventato” questo approccio, l’avevano, è certo, ampiamente chiamato in causa. Ahimè, essendo non dotati di
alcuna sensibilità per le “sfumature”, erano riusciti quasi
sempre ad apparire semplicisti, quando non grossolani. In
realtà, procedere nell’esame di un fenomeno dal “basso all’alto” non è cosa in sé riprovevole o scorretta dal punto di
vista epistemologico, a patto che si tenga ben presente di
star facendo “proprio questo” e che ci si astenga dal reificare le metafore. Mi spiego meglio: dire, come Rutherford,
che un atomo con i suoi elettroni potrebbe essere analogo
a un sistema solare in miniatura, significa proporre delle
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verifiche attraverso una metafora. L’analogia formale nasconde una qualche analogia funzionale? Si tratta di pensare per modelli, e non di rovesciare il telescopio! Ahimè,
spesso i positivisti peccavano di troppo realismo, e identificando le parole con le cose, finivano per fare, malgrado
loro, della cattiva metafisica. Excusatio non petita... intendo sgombrare il campo da ogni equivoco, perché sto per
proporvi un divertissement sulla biologia dell’arte, con intenti lucidi ma, se considerati alla luce del posto “dell’uomo nella natura”, anche segretamente pedagogici. Veniamo subito al sodo: esiste in natura un insieme di fenomeni
straordinari che sono stati rubricati dagli scienziati con la
parola comprensiva di mimetismo.
Nell’accezione più propria, la parola allude alla presenza di
una “imitazione” e cominciamo, allora, con la scorta di Winckelmann, a evocare Zeusi che dipinge sulla parete di una
casa un cesto d’uva. La verosimiglianza dell’affresco è tale
che gli uccelli scendono in frotta a beccare gli acini. Dunque, per Zeusi far pittura significa rifare la natura, e il
Rinascimento, dopo gli “anni bui” delle chimere artigliate
alle cattedrali, farà sua questa teoria dello stare allo specchio. Torniamo, ora, al mimetismo, e ritroviamoci in compagnia di Henry Bates, sulla metà del XIX secolo, a caccia
di farfalle nelle foreste dell’Amazzonia. Il naturalista, che
vive in quell’Eden da un decennio, ha notato che certe farfalle si somigliano moltissimo tra di loro, anche se non esiste alcuna affinità sistematica. Perché mai? Ci pensa e ci ripensa, e gli viene in aiuto Charles Darwin. Il padre dell’evoluzione dà alle stampe, nel 1859, il libro cruciale; non parla affatto di mimetismo, ma fornisce a Bates la chiave per
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capirci un bel po’ in merito. Il cacciatore di farfalle è abituato a cogliere le cose al volo, anche le idee, a quanto
sembra, ed è con sorprendente tempestività che nel 1861
pubblica una memoria scientifica in cui, per primo, impiega la selezione naturale di Darwin per spiegare un certo fenomeno biologico. Insomma, ecco i fatti: due specie di farfalle “somiglianti” sono entrambe predate dagli uccelli, solo che l’una, che funge da modello, è di gusto abominevole, mentre l’altra, il cosiddetto mimo, è molto appetitosa.
Succede che quando il predatore alato fa esperienza del
sapore disgustoso del modello, cessa di perseguitarlo, e sospende anche la caccia del mimo, perché lo scambia per
l’altro. In principio, c’era solo una somiglianza casuale, e
forse percettivamente incerta, ma ecco che gli uccelli, premiando gli individui del mimo “più conformi”, hanno perfezionato, nel corso delle generazioni, la sua specularità.
Questo mimetismo, fondato su di un errore percettivo,
chiamato in onore del suo scopritore batesiano, attiva una
pièce a tre attori. Ricordando Zeusi, il modello è il cesto
d’uva reale, il mimo è il cesto d’uva in affresco, l’osservatore ingannato è l’uccello che becca i finti acini. Se l’arte, come ha decretato Ernst Gombrich, è illusione, il mimetismo
è il suo “doppio biologico”. Ha ragione Adolf Portmann, allora, a scrivere che la natura opera come un artista e che il
mondo è il suo atelier? La selezione naturale “ritocca” gli
errori di conformità del mimo, finché la sua opera d’arte
organica non risponde del tutto alle aspettative. Sulle spalle di Leonardo da Vinci si posa il fantasma dell’uccello insettivoro. Ambedue fabbricano illusioni, l’uno di donne misteriosamente sorridenti, l’altro di farfalle diabolicamente
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travestite. Ma se tutto questo è vero, opinava un mio amico storico dell’arte, la natura, e chiedeva scusa per il calembour, produrrebbe soltanto un’arte naturalista? E la
pittura astratta? La biologia dell’arte sarebbe soltanto apollinea, non prevederebbe Pollock ma solamente Rembrandt. Macché, nel mimetismo troviamo tutto di tutto,
non solo l’imitazione, ma perfino l’astrazione e il surrealismo. Prendiamo il caso del mimetismo terrifico: il rap-
Mimetismo terrifico
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porto di specularità tra modello e mimo non è più lineare,
si problematizza. Il modello diventa sincretico, irreale, potenziale, come i paesaggi del mondo nelle manipolazioni
cubiste di Picasso e di Braque. Aspiro a farvi capir meglio
tutta la faccenda con un esempio: una mantide dal nome
esoterico, Pseudocreobotra wahlbergi, quando intende
spaventare un suo persecutore, assume una strana postura: apre le ali, esibisce delle macchie oculari che ha in appannaggio, sulle ali anteriori, piega a sinistra e a destra,
simmetricamente, le zampe raptatorie. Imita una creatura
terribile... che non esiste. Un mostro irreale, anzi surreale,
come un reperto onirico di Max Ernst. La nostra mantide
fa della body-art puntando sulla trasfigurazione invece che
sulla rappresentazione.
Molte farfalle la seguono per questa strada. Hanno in dotazione, sulle ali, delle macchie oculari, e quando vengono
poste in stato di emergenza, per esempio da un uccello con
cattive intenzioni, lo spaventano esibendo di colpo quelle
pupille vicarie. Il predatore resta sconcertato, come se si
fosse imbattuto, in un paese d’Alice ornitologico, in un gatto magico, di cui solo gli occhi siano rimasti visibili. La farfalla si difende, così, evocando un felino astratto, una metonimia di felino, in cui l’occhio sta per l’intero animale. Ma
precisiamo un po’ meglio l’aspetto surrealista del mimetismo, già citato. Sarà utile ricordare che il surrealismo è stato una corrente artistica e letteraria del secolo scorso, che
ha promosso, come tecnica per produrre effetti estetici, lo
“spaesamento”. L’ipotesi era che far arte coincida col far
saltare in aria le idee coatte, i concatenamenti logici, proponendo, come ha scritto Lautreamont, uno dei precurso142
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ri di André Breton, il capofila del clan, “l’incontro di un ombrello e di una macchina da cucire su di un tavolo operatorio” come il paradigma più proprio della metafora pittorica
e poetica. Insomma, spaesare significa mettere “fuori posto”, contraddire le aspettative codificate, coltivare il gusto
e le alchimie degli accostamenti impossibili, dei comportamenti anormali. Devo dire, allora, che, anche in questo caso, certi animali, molto prima di Lautreamont, hanno dimostrato di essere dei maestri nell’arte dell’imprevedibile, e
non esito ad annoverarli tra gli ascendenti biologici di Salvador Dalì, e soci.
Esiste un insetto della Tailandia, un emittero, che esibisce,
all’estremità addominale, due macchie, una per parte, di
forma oculare, e due curiosi prolungamenti a clava, simmetrici a loro volta, che sembrano delle vere e proprie antenne. Insomma, tutto il congegno morfologico si configura
come una macchina ottica illusoria, che suggerisce una testa... dove non c’è. A che cosa serve questa mascherata?
Non è ben chiaro, ma una delle ipotesi più probabili è che
abbia, per l’insetto, una funzione protettiva, che ne favorisca la sopravvivenza. Quando un predatore si avvicina al
nostro illusionista, sicuramente con cattive intenzioni, non
lo vede spostarsi con la testa in avanti, ma con il “passo del
gambero”. Questo movimento “spaesato” sconcerta il killer
potenziale, che esita ad aggredire la strana creatura? Oppure, supponiamo che si tratti di un uccello, la finta testa
attirerà su di sé quei colpi di becco che, inferti a quella vera, riuscirebbero ben più letali?
Queste nostre escogitazioni ellittiche su di un parallelo
possibile tra il mimetismo e l’arte non sono, come qualche
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allievo di Croce potrebbe credere, del tutto deliranti.
Ernst Gombrich, il prestigioso storico dell’arte che abbiamo già chiamato in causa, in un suo saggio sulle “scoperte visive attraverso l’arte” non ha esitato a mettere in relazione i fenomeni mimetici con quelli estetici. Il fatto è
che, riduzionismo o no, il mondo dei viventi ha una sua
intima coerenza, e in tutto quello che l’uomo fa brilla, come una pepita sommersa, il segno, anzi il geroglifico, delle sue origini.
Scienziati e stregoni
Molti sono convinti, anche se oggi si sta manifestando una
inversione di tendenza, che la scienza, mi si consenta questa piccola tautologia, sia la “scienza punto-e-basta” e che
le tradizioni popolari, erbe salubri o fasi lunari più o meno
propizie al travaso del vino, che si tramandano di generazione in generazione attraverso la fuga dei secoli, siano soltanto delle corbellerie, da scartare con il gesto annoiato
con il quale il bramino del sapere allontana il venditore di
almanacchi. Eppure, anche se spesso si tratta di pregiudizi veri e propri, certo da combattere – non è vero che il rospo sputi veleno o che l’orina dei pipistrelli renda calvi! –
certe volte le osservazioni secolari hanno fatto centro, stabilendo dei rapporti causa-effetto tra taluni fenomeni, e
può succedere che lo stregone faccia scuola, e che l’uomo
della strada abbia qualcosa da insegnare al demiurgo dei
microscopi e dei diagrammi. Cominciamo con un esempio:
che certe specie di zanzare trasferiscano l’agente della ma144
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laria, un protozoo, dal malato al sano, succhiando il sangue
prima dell’uno e poi dell’altro, è una scoperta abbastanza
recente, opera di Ross e di Grassi, che si sono contesi a
lungo le priorità.
Certo, al nostro Grassi bruciava che l’inglese si fosse attribuito il premio Nobel, e che lui fosse rimasto a bocca
asciutta, ma tant’è: gli scienziati sono spesso uomini litigiosi. Si pensi alla contesa tra Newton e Leibniz sull’invenzione del calcolo infinitesimale! Tuttavia, qui veniamo al
punto, il rapporto tra la zanzara e la malaria era già stato
intuito da tempo. Nel libro di un batteriologo, a sua volta
premio Nobel, Charles Nicolle, dal titolo allettante Biologie de l’invention, che risale al 1939, ho pescato una curiosa notizia, che riporto subito. L’abate de Fortis, nella seconda metà del Settecento, aveva fatto un viaggio in Dalmazia e ne aveva dato alle stampe il resoconto in un libro
epistolare. Nella lettera due si può leggere, di sicuro con
un certo stupore, che gli abitanti del corso inferiore della
Narenta dormono d’estate in luoghi chiusi per sfuggire alla puntura delle zanzare. Un ecclesiastico del luogo aveva
detto al nostro de Fortis che questa precauzione notturna
non era stata decisa soltanto per sfuggire alla molestia dei
prelievi di sangue degli insetti, ma perché si sospettava che
le febbri di cui soffrivano molti abitanti del luogo fossero
provocate dalle punture. “Non è impossibile”, commenta
saggiamente de Fortis, “che i miasmi possano trasmettersi
per questa via: la congiunzione è davvero ingegnosa”. E vera sopra tutto. Insomma se Ross, invece che in India, e
Grassi, invece che nelle paludi pontine, avessero fatto un
piccolo tour in Dalmazia si sarebbero imbattuti in una tra145
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dizione popolare sotto forma di una vera e propria ipotesi
scientifica. Da verificare, si capisce: ma intanto...
Veniamo, allora, a un’altra piccola storia a suffragio, questa
volta di sapore etnologico: un mio amico medico, che ha
molto viaggiato in Africa, mi ha raccontato che, nel Congo
Belga, come ai suoi tempi si chiamava, aveva sentito dire
che uno stregone era capace di curare la sifilide. Incuriosito, da bravo medico qual era, il mio amico decise di far visita a quel taumaturgo in perizoma, e si recò nella sua capanna, intenzionato a farlo cantare. Non c’è dubbio che
fosse scettico, e disposto solo a concedere qualche effetto
psicosomatico: prima dell’avvento degli antibiotici – il viaggio del medico si era verificato agli inizi degli anni Trenta –
il Treponema pallidum veniva contrastato solamente dal
Salvarsan di Ehrlich-Hata, da pomate mercuriali, e costituiva ancora una malattia assai perniciosa. Ma torniamo in
quella capanna: lo stregone fu molto gentile, e non ebbe alcuna difficoltà a comunicare al buana la sua cura. In un
pessimo francese, spiegò che mandava gli ammalati a dormire per diverse notti all’aperto, in prossimità di qualche
zona paludosa, perché così gli spiriti del luogo potessero
entrare in loro. Alla possessione seguiva una forte febbre,
che cancellava le piaghe luetiche dalle mucose della bocca
e di altre parti intime, senza che tornassero più. Purtroppo, ammoniva lo stregone, non tutti gli spiriti erano benefici; alcuni, soprattutto se l’ammalato non era puro nel cuore, lo facevano morire. Ma a suo giudizio, questo esito funesto era raro, e per lui si trattava della conseguenza di
una colpa non espiata. Il mio amico medico capì tutto al volo, e trasecolò. Si ricordò che, nei primi decenni del Nove146
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cento, un luminare della medicina viennese, Wagner-Juaregg, aveva ideato una terapia della sifilide che potremmo
chiamare biologica. In altre parole, inoculava nei suoi pazienti affetti dal morbo il plasmodio della malaria, e lasciava che seguisse un forte rialzo termico, tale da spiazzare
l’agente patogeno ovunque si fosse insediato nel corpo del
suo ospite. In seguito, delle massicce somministrazioni di
chinino contrastavano la malaria sperimentale, chiamiamola così, e nella stragrande maggioranza dei casi la debellavano. Ahimè, non sempre! E tanto lo stregone quanto il
professore lamentavano qualche evento infausto. Ma, alla
fin fine, la terapia praticata dall’uomo della foresta non era
la stessa ideata dal grande Wagner-Juaregg? Infatti, se quest’ultimo usava la siringa per contaminare il malato, lo stregone mandava i suoi pazienti a dormire sulla riva delle paludi, perché fosse la siringa organica delle zanzare a provocare la malattia terapeutica, per chiamarla così. E se il
nostro dermatologo selvaggio non aveva a sua disposizione
il chinino, per evitare che il rimedio fosse peggiore del male, è da tempo noto che i negri, spesso affetti da un’anemia
falciforme in eterozigosi, contraggono più difficilmente, o
più blandamente di noi, la malaria, e si può supporre che
in moltissimi casi il gioco valesse la candela. Ma passiamo
a un altro esempio, un po’ più sghimbescio, ma alquanto divertente.
Gli studiosi del comportamento animale, etologi e behavioristi, soprattutto nella prima metà del XX secolo, avevano
estremizzato le loro premesse epistemologiche. Per gli uni,
gli esseri viventi nascevano già abilitati a fare molte cose –
il ragno la tela, l’ape la sua bella celletta esagonale –, e
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quindi: evviva gli istinti!, mentre i behavioristi pensavano,
al contrario, che tutto, o quasi tutto, dovesse essere imparato e quindi privilegiavano l’apprendimento. In realtà, come si è capito sempre meglio negli ultimi decenni, istinti e
intelligenza, comportamenti innati e appresi, sfumano gli
uni negli altri, e accade che gli istinti si possano imparare,
e che gli apprendimenti si fondino su delle predisposizioni
ereditarie. In altre parole certe azioni sono istintive, ma
migliorano con l’esercizio e delle altre devono venire apprese, ma talune lo sono più facilmente di altre. Tuttavia
il dibattito è stato all’inizio molto acceso; botta degli etologi: il pulcino nasce già in grado di riconoscere la voce della chioccia; risposta dei behavioristi: è vero, ma perché
l’ha sentita quando era ancora nell’uovo.
I fondatori dell’etologia classica portano acqua al loro mulino: un anatroccolo, appena nato, si spaventa, e si accovaccia al suolo se nel cielo compare il profilo di un falco, anche se non l’ha mai visto, e se sicuramente non ha potuto
imparare che si tratta di un predatore. Come non concludere che nasca già con una sorta di immagine del rapace
impressa nella mente? Sto parlando in soldoni, ma consentitemelo, è solo per farmi capire meglio.
Qualche prova sperimentale? Perché no? Venne confezionato uno zimbello, in altre parole una sagoma di legno con
delle sporgenze laterali aliformi, e con due prominenze alle estremità, l’una corta e l’altra lunga. Orbene, facendo
scorrere avanti e indietro questo fantasma di uccello sul
capo di alcuni anatroccoli si poté osservare un curioso
comportamento. Se la sagoma scorreva con la prominenza
breve in avanti, i paperini davano segno di terrore e si ap148
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piattivano al suolo, se la parte in avanti era la prominenza
lunga restavano indifferenti, o quasi. Perché mai? Semplice, il collo corto ricorda il falco, il collo lungo un’oca selvatica, per cui S.O.S., e a terra!, per il rapace, e O.K., tutto va
bene, per l’innocua volatrice. Se ne deduce che l’immagine
del falco come segnale di pericolo è stata fissata nel genoma dell’uccello dall’opera della selezione naturale nel corso delle vicissitudini della specie in maniera abbastanza
Se la figura che sorvola il piccolo anatroccolo ha la prominenza anteriore lunga, quest’ultimo resta indifferente o quasi, in quanto il collo lungo
viene abbinato a un’innocua oca selvatica; se la figura scorre con la prominenza breve in avanti l’anatroccolo dà segni di terrore e si appiattisce al suolo, in quanto il collo viene da lui associato al falco rapace.
(Disegno di Silvia Costa)
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precisa, come una configurazione, si potrebbe perfin dire
una Gestalt. Però, però... delle ricerche posteriori su degli
uccelli che nidificano al suolo hanno precisato come anche
in questo caso l’istinto migliori con l’apprendimento, e si
confronti con l’esperienza. A quanto sembra, dapprima il
piccolo si spaventa per qualsiasi cosa lo sorvoli ma, a poco
a poco, si abitua alla presenza nel cielo di taluni uccelli che
memorizza come innocui. I falchi, però, sono rari, e non
riescono mai a superare la “soglia dell’assuefazione”, continuando a scatenare l’S.O.S. e il comportamento conseguente. In parole povere, il falco non è temuto come rapace, ma come straniero, e i piccoli di uccello in questione
manifesterebbero un’attitudine neofobica, peraltro diffusa
tra gli animali selvatici, e no. Per esempio, il gatto diffida
sempre fortemente delle novità. Ma, alla fin fine, la neofobia non avrà, a sua volta, un plafond genetico? Il bello è che
tutta la manovra non era affatto sfuggita a chi frequentava
le aie delle case di campagna.
Se Lorenz, Tinbergen e soci, adepti o avversari che fossero, avessero letto il libro di un filosofo contadino, L’atto
della creazione, di Edward Carpenter, stampato agli inizi
del secolo scorso, avrebbero potuto trarne un sicuro giovamento scientifico. Carpenter, un ibrido di Burns e di Thoreau, aveva l’occhio fino per gli animali e la natura, ma
quando parla dei suoi volatili da cortile non fa altro che riferire una vox populi. E comincia, difatti, con un tutti noi
sappiamo, e continua: “che i piccoli degli animali agiscono in modo tale da far credere che le loro facoltà psichiche,
la loro memoria e la loro esperienza, siano in qualche modo continue con quelle dei loro progenitori. Le giovani per150
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nici e pulcini del pollame domestico, anche quando hanno
un sol giorno, appena vedono un grande uccello volare nell’aria, si accovacciano e si distendono sul terreno; e il loro
timore, aumentato dal grido di allarme della madre, li induce poi a cercar rifugio sotto le sue ali. Certo è difficile stabilire quale forma prenda nella mente del pulcino il senso
del pericolo: ma sembra che vi sia un ricordo di migliaia e
migliaia di casi nella storia degli antenati del pulcino, in cui
i temuti artigli e il terribile becco scesero dal cielo e afferrarono o cercarono di afferrare la preda. Questa associazione così chiara è stata tanto spesso ripetuta, che ora la
semplice vista di un uccello dirige, per così dire, un intero
plesso di nervi non solo nel pulcino, ma anche nelle pernici e nel pollame adulto, e pone in moto quasi automaticamente un completo apparato di muscoli per la difesa o
per la fuga. La certezza e l’istantaneità della cosa è davvero impressionante. Personalmente io non mi stanco mai di
osservare il mio pollame ogni qual volta viene l’uomo a pulire i camini della casa. Appena la lunga scopa emerge dalla cima del camino, qualunque cosa i polli stiano facendo,
sia che mangino o razzolino o si aggirino nei campi più lontani, subito, gettando grida di terrore, essi si sbandano da
tutte le parti in cerca di un ricovero, persuasi che un terribile nemico sia apparso sul tetto. Un berretto lanciato a
grande altezza nell’aria produce lo stesso effetto; e non già
che il mio berretto per la forma o per il movimento rassomigli molto a un uccello, anzi io sono convinto che molti
dei miei polli sappiano esattamente cosa sia il mio copricapo; solo esso risveglia in loro la rimembranza latente dell’uccello da preda. I polli non vedono in realtà né il berret151
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to né la scopa dello spazzacamino; essi vedono invece quella che potrebbe dirsi la visione dello sparviero ideale, che
è molto più forte e più profondamente radicata nella loro
fisiologia di qualsiasi altra immagine momentanea, e ha
un’influenza molto più grande su di loro”.
Come etologo, il nostro Carpenter non era davvero niente
male! Il suo cappello lanciato in aria contiene già l’idea dello zimbello, e cioè di sagome simili a quella poc’anzi descritta, di cui gli etologi del Novecento faranno ampio uso
nelle loro esperienze di campo. Ma il suo libro, così pieno
di vita, e per certi versi anticipatore, può venire elevato a
paradigma di come dobbiamo comportarci nei riguardi della possibile scientificità della cultura popolare, perché
non è mica oro tutto quel che riluce. Infatti, se nella osservazione dei pulcini e dei rapaci il nostro filosofo centra il
bersaglio, e con lui tutti quelli che hanno osservato, attraverso gli anni e le generazioni, le stesse cose sull’aia delle
loro case, il lamarckismo che Carpenter professa è una delle più comuni credenze popolari, tanto diffusa, e difesa,
quanto scientificamente falsa. Perché non è affatto vero
che i figli dei padri che in vita hanno fatto molta ginnastica nascano dotati dei muscoli paterni, o che la gestante
spaventata da un topo generi un bambino con un neo peloso, o al peggio con il musetto da roditore! Dunque, la
buona ventura è di comportarsi sempre alla Confucio, non
rifiutare l’almanacco ma leggerlo con un misto di disponibilità e di diffidenza, di confidenza e di distanza. A giustificazione di Carpenter ricordiamo però che, agli inizi del Novecento, l’ereditarietà dei caratteri acquisiti era ancora in
forse, e molti eminenti scienziati, soprattutto francesi, ma
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anche americani, ci spergiuravano sopra. E se anche Charles Darwin, a un certo punto della sua vita, era diventato
lamarckista, come non perdonare a Carpenter lo stesso
peccato?
Qualche appunto ecologico sugli animali
’à
in citta
Fin dai tempi più remoti gli animali hanno abitato, volenti
o nolenti, nelle nostre case, fossero grotte, capanne o edifici di pietra e di mattoni, spesso creandoci disagi più o meno tollerabili, e costringendoci a darci da fare per sfrattarli. Un esempio ben noto è quello dell’Ursus speleus, che si
rifugiava nelle grotte, e che l’uomo del Paleolitico, interessato a quel ricovero, ha dovuto far molta fatica per disdettare. Battaglia dura, per quel che si sa, ingaggiata e condotta con tutte le armi a nostra disposizione, e che è culminata con lo sterminio del povero orso e con la sua estinzione.
Uno sfratto davvero radicale, non ci sono dubbi. Ma come
spesso succede gli animali di stazza corporea imponente
sono quelli più facili da liquidare in massa, come dimostra
il caso dell’Epiornis, un uccellaccio del Madagascar alto tre
metri e inetto al volo, e che fu sterminato alla fine del ‘500.
Invece, animali di dimensioni ridotte, come i roditori, o ancor più come gli insetti, sono davvero irriducibili allo sfratto, e le case dell’uomo costituiscono, per loro, delle nicchie
ecologiche diversificate e ricche di opportunità per la sopravvivenza. Qualche decennio fa un entomologo inglese,
George Ordish, ha dato alle stampe un libro davvero curio153
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so, The living home, in cui ha preso in esame la successione storica del popolamento animale di una fattoria a cominciare, si pensi un po’, dal 1555. Questa fattoria è meglio
nota come “la casa di Barton”. Dall’esame di una massa importante di documenti, note di diario, relazioni di ristrutturazioni edilizie e così via, Ordish è riuscito a ricostruire la
consistenza delle specie degli ospiti clandestini della fattoria, che erano ragni, insetti, roditori, uccelli, pipistrelli, e
chi più ne ha più ne metta. Nel 1860 si toccò il punto più
alto della biodiversità di “casa Barton”: ben 119 specie di
animali, una complessità da far invidia a qualsiasi altro ecosistema naturale. Al momento attuale, la più attenta pulizia dei locali e l’avvento dei pesticidi ha fatto crollare il popolamento della fattoria, proprio come sta accadendo, e
qui per sola colpa delle molecole di sintesi, nel campo coltivato. Indubbiamente, come osservava già Antonio Berlese in un suo libretto del 1925, gli invasori delle abitazioni
rurali differiscono da quelli delle abitazioni urbane; si veda
il caso delle mosche, che trovano nei letamai un luogo di
insediamento privilegiato, e dunque sono più numerose
dove esistono impianti zootecnici a conduzione familiare, o
greggi al pascolo, ergo non in città. E tuttavia non ci sono
dubbi che le aree urbane ospitino molte specie di animali,
che trovano in esse delle possibilità di sfruttamento, e di
sopravvivenza, davvero importanti. A riprova, nel 1925,
M.D. Leonard stampò una grossa memoria scientifica, un
vero e proprio libro, sugli insetti che si erano insediati nella città di New York.
Della trentina di ordini in cui si suddivide la classe degli insetti, i rappresentanti di ben ventitré ordini sono stati re154
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periti in quella città, con un totale di 430 famiglie, 4.997 generi, 16.124 specie. Le specie più rappresentate (4.546)
sono riferibili all’ordine dei coleotteri, seguite da quelle dei
ditteri (3.615) e dei lepidotteri (2.439). La biodiversità di
New York, agli inizi degli anni Venti del secolo scorso, era
davvero considerevole, e sono convinto che l’elenco risulti
incompleto, perché talune specie di insetti di minuscole
proporzioni come, per fare un esempio, i collemboli, che vivono nei meandri del suolo, presentano dei riscontri molto
difficili. A conferma, ricordiamo come Grassé abbia calcolato che le mille e cinquecento specie dell’ordine
sarebbero una parte minima delle centomila di cui si può
congetturare l’esistenza. L’ecosistema urbano offre numerose nicchie favorevoli alla vita di certi animali: i laghetti
dei parchi pubblici, le vasche ornamentali dei giardini privati, consentono alle zanzare di prosperare come larve,
spesso in assenza di nemici naturali come i pesci, non immessi o periti per anossia ove il carico organico confluito
nelle acque stagnanti, per incuria o per inquinamento, abbia fatto crollare il tenore d’ossigeno, riducendolo drasticamente. Delle notevoli opportunità di proliferazione per Culex pipiens, adattata sotto forma di C. pipiens molestus
alla vita in spazi angusti, senza più necessità di ampi voli
nuziali, sono offerte dai sistemi fognari delle città. Più in generale, il microclima urbano presenta una temperatura di
qualche grado più elevata del territorio circostante, e nelle
abitazioni un vero e proprio criptoclima determina uno
scarto ancora maggiore, favorendo il ciclo di molte specie,
che non subiscono alcuna interruzione invernale. Gli edifici
si mutano, così, in vere e proprie serre, consentendo perfi155
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no il proliferare di specie di origine tropicale. Per passare
da animali di proporzioni infime, come gli insetti, ad altri di
stazza un po’ più consistente, i topi e i ratti sono da sempre
degli ospiti sgraditi, ma del pari, a quanto sembra irriducibili nella loro decisione di vivere con noi, si può ben dire gomito a gomito. I ratti offrono delle opportunità di investigazione scientifica di grande interesse, anche se spesso misconosciute. Intanto, sono degli animali giunti in Europa, e
diffusi in ogni parte del mondo, attraverso delle grandi invasioni successive. Si era pensato che il mondo romano conoscesse il topo ma non il ratto. Invece, negli ultimi cinquant’anni sono emerse numerose testimonianze in forza
delle quali ai tempi di Cesare, e più tardi di Plinio, una specie di ratto sembra convivesse, per dirla in maniera figurata, insieme alle oche e ai galli del Campidoglio.
A conferma, Robert Goffin, nel suo libro mai tradotto nella
nostra lingua, Le roman des rats, ci ricorda come siano state rinvenute dagli archeologi due statuette di ratti risalenti
al primo secolo dell’era cristiana. D’altra parte è noto che a
Roma gli aruspici non si dedicavano soltanto all’investigazione del fegato degli uccelli, ma consideravano lo stridio dei
ratti come segnale di buona o cattiva fortuna, secondo i casi. Al punto da far dimettere dal suo incarico il console Massimo Rulliano, e da consigliare Caio Flaminio a lasciare l’incarico di generale della cavalleria nel corso della guerra contro Cartagine. Ma per venire a epoche più recenti, l’Europa
ha subito tre grandi invasioni ratticole: quella del ratto bruno, quella del ratto nero, e quella, alfine, del ratto grigio, o
surmolotto. Il bello è che tutte le invasioni sono state rese
possibili da quelle dell’uomo, per cui ogni nostro spostamen156
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to è stato causa di una eguale migrazione dei roditori, che
sembrano aver capito benissimo come sia meglio per loro,
invece di affrontare i disagi della vita in natura, mettersi, per
dir così, a convivere con noi. Il ratto bruno, a riprova, sembra sia giunto in Europa a seguito delle orde dei barbari.
Scrive Toussenel, citato da Goffin: “Dire ratto vuol dire evocare delle invasioni di barbari. Orde di barbari, orde di ratti.
Gli uni occupano il suolo, gli altri il sottosuolo. Si sono avuti, così, i ratti dei Goti, i ratti dei Vandali, i ratti degli Unni”.
Al ratto bruno è succeduto il ratto nero, che lo ha spiazzato
del tutto, e oggi non se ne può più osservare alcuno. Il ratto
nero, dal canto suo, ha tallonato in massa delle tribù mongolo-tartare, che lasciavano il Caucaso in cerca di nuove terre,
probabilmente scacciate da altre tribù più forti o meglio armate. Era l’anno Novecento della nostra era quando Arpad,
un grande condottiero della sua gente, giunse in Ungheria e
la sottomise. Aveva molti guerrieri e donne con sé, ma il suo
seguito era più numeroso di quanto lui stesso immaginasse.
Una moltitudine di ratti bruni era venuto con lui nella terra
promessa, e sembrava ben deciso a non andarsene più. Anzi, animale imperialista, si diffuse ovunque. È il regalo di Arpad all’Europa. In pochi decenni il ratto nero diventò un animale egemone, tanto più che il suo contingente numerico
venne, per dir così, rinforzato dagli arrivi di altri ratti neri
che si erano imbarcati sulle navi dei crociati, e che, viaggiando via mare, scendevano a gavazzare in tutti i porti del Mediterraneo.
Bisognerà attendere il 1700 per vedere arrivare il castigamatti del ratto nero, e per assistere all’ultima grande invasione che condusse il surmolotto alla conquista e al conso157
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lidamento di un regno che dura tuttora. Al contrario di
quello che accadde per il ratto bruno, la nicchia del ratto
nero venne invasa, sì, ma non del tutto; il surmolotto si insediò nelle fogne, nelle cantine, e nelle parti basse degli
edifici, e il ratto nero, più dotato di virtù acrobatiche, fece
come gli stambecchi, animali di pianura che in presenza di
una pressione venatoria eccessiva salirono in quota entrando a far parte della fauna alpina. Il ratto nero, dal canto suo, si spostò nelle parti alte degli edifici, e non le fogne,
ma i tetti, non le cantine, ma le soffitte diventarono il suo
luogo di elezione, la sua nicchia ecologica e il suo rifugio.
Per cui il ratto nero viene anche detto il ratto dei tetti, e il
ratto grigio il ratto delle chiaviche. Ma dato che lassù, ormai, le opportunità di sopravvivenza erano più scarse che
nel sottosuolo, il ratto nero non poté che vivacchiare, e le
sue popolazioni diminuirono di densità e oggi non è più numeroso come un tempo. Attualmente, infatti, è il surmolotto il clandestino urbano che ci dà le maggiori preoccupazioni. Il bello è che nell’interazione tra lui e il ratto nero
possiamo intravedere un esempio di ripartizione delle risorse, e quindi di diversificazione di un ambiente in tante
nicchie ecologiche, fenomeno simile a quello che si verifica per specie di uccelli che colonizzano lo stesso albero. La
casa dell’uomo e l’albero, posti a confronto, mostrano le
medesime possibilità di diventare un condominio, e di dar
vita a una convivenza gomito-a-gomito di talune popolazioni con gusti diversi per il cibo e per l’abitare.
Insomma, l’ecosistema urbano differisce sì da quelli naturali, ma mica poi tanto. Anche in questo caso, come spes158
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so succede, la cultura si rispecchia nella natura, e l’artificiale diventa quasi una metafora biologica del naturale. La
città, fatta dall’uomo, non è solo dell’uomo, ma anche degli
animali. Di taluni animali, si opinerà. Certo, ma non è così
anche nel territorio circostante? Non ci sono, forse, delle
specie che hanno il bosco come luogo di elezione, o il prato, oppure la montagna? La città è una sorta di plastico in
miniatura del mondo naturale. È un luogo dove la selezione naturale funziona ancora, ottemperando alle condizioni
poste da nuovi parametri ambientali. E l’ecologia urbana è
sorella siamese dell’ecologia del “fuori città”. Noi viviamo
in compagnia delle tarme negli armadi, delle blatte nelle
fessure dei muri, dei tarli nei mobili di pregio, dei piccioni
sulle piazze, dei cani e dei gatti che, per nostra decisione,
ci fanno compagnia. Insomma, abitiamo insieme agli animali domestici e a quelli che non siamo stati noi a scegliere, ma che sono stati loro a trovare in noi degli anfitrioni inconsapevoli. Difatti vivono di tutto quello che noi buttiamo
via e abitano dove noi ci rifiutiamo di abitare. I ratti, per
continuare a parlare di loro, ci hanno lasciato il regno del
giorno e si sono presi quello della notte, eleggendo non il
suolo, come noi, ma il sottosuolo, simili ai paria del futuro
immaginati da Wells nella sua Macchina del tempo. Scrive Goffin a proposito dei ratti, e mi si consenta di tradurlo
molto liberamente: “Le nostre case sono tutte scavate ed
erose dai ratti. I muri sono come il formaggio di groviera,
pieno di buchi, passaggi segreti attraverso i quali i ratti raggiungono i punti più lontani delle nostre abitazioni. Noi viviamo accerchiati da percorsi immaginari, circondati da
sentieri ratteschi che non ci è mai dato scoprire, chiusi da
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meridiani sconosciuti che tracciano i percorsi dei nostri
ospiti per forza. Dormiamo la notte al crocevia di continui
va-e-vieni, che intrecciano attorno al nostro sonno queste
bestiole demoniache e nottambule... Noi passiamo la nostra vita insieme ai ratti; al nord e al sud, al di sopra e al di
sotto di noi ci assediano sui confini del loro impero silenzioso. Sono costantemente in nostra compagnia, con il loro numero sempre in crescita; il loro appetito onnivoro, il
loro contatto mostruoso, la lima eterna dei loro milioni di
denti che minano le opere dell’uomo. È lo scontro del numero e della perseveranza con l’organizzazione e l’intelligenza. È la sfida lenta ma invincibile che lancia la mandibola al cervello”. Che la città sia più loro che nostra?
Dal parco santuario al parco laboratorio: è
e’ possibile un turismo nei parchi?
Il primo parco, quello di Yellowstone, è nato in una parte
del mondo, il Nord America, dove esistevano ancora delle
sterminate porzioni di territorio addirittura da esplorare, o
comunque da annettere a carte geografiche non più tanto
grossolane, che rari viaggiatori avevano visitato, e di cui si
raccontavano meraviglie: rocce disposte come grandi cattedrali, fiumi rapinosi con improvvise e funamboliche cascate, foreste fossili popolate di uccelli incantati, perché
spesso i miraggi si mescolavano, e tingevano d’arcobaleno
la realtà. Era così possibile immaginare che una parte considerevole di questo museo all’aria aperta potesse essere
sottratto all’influenza dell’uomo, al progresso come allora
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lo si intendeva, per lasciar fare alle forze dell’evoluzione.
Un luogo, insomma, dove la natura potesse regnare sovrana, affermando tutti i suoi diritti, e dove l’uomo potesse entrare, sì, in quel vero e proprio giardino della creazione, ma
soltanto in punta di piedi, e magari togliendosi le scarpe all’ingresso come nelle moschee.
Quando si è cominciato a progettare dei parchi non in continenti così poco antropizzati, ma in Europa, è stato sempre più difficile sostenere l’idea del santuario. Inoltre, nel
‘45, l’esplosione atomica di Alamogordo ha rovesciato la
concezione leopardiana del rapporto uomo-natura. Per il
poeta – si rilegga La ginestra –, la natura ci è matrigna e
da un momento all’altro può far crollare la nostra civiltà, e
i nostri poteri, come un castello di carte. Il Vesuvio è il simbolo di questa sua onnipotenza, e insieme della nostra pochezza. Invece il fungo atomico inaugura un’epoca nella
quale è vero proprio il contrario: è l’uomo, ormai, il “patrigno” della natura, e dipende da lui se il pianeta diventerà o
no, in un prossimo futuro, un deserto tecnologico. Il nuovo
concetto di biosfera ha infine globalizzato il mondo. Non è
più possibile immaginare un territorio vergine dalle ricadute della nostra tecnologia. Sui parchi piovono, come altrove, i radionuclidi di Chernobyl e le piogge acide delle industrie, i raggi cosmici che passano attraverso i cosiddetti buchi dell’ozono, bombardano i poveri anfibi a rischio di
estinzione ovunque, a Yellowstone come nei maceri del Veneto. E se la temperatura della terra cresce per l’eccesso
di anidride carbonica nell’atmosfera, non c’è nessun luogo
che possa sfuggire agli effetti nocivi di questo fenomeno.
Ragion per cui, oggi, la natura può essere salvata soltanto
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dalla cultura, e il naturale, gestito dall’artificiale, dà origine
a una “natura seconda”, a una neonatura e il parco “santuario” cede così definitivamente il passo al “parco laboratorio”.
Per cui, oggi, in una terra dove la crescita demografica sembra inarrestabile, e dove anche la crescita zero è comunque
sopravvenuta ad elevate densità di popolazione, l’uomo deve venire considerato, nei parchi, non come un intruso, ma
come una presenza irrinunciabile, sia che vi abiti e vi pratichi l’agricoltura o altre forme di attività, sia che, come turista, voglia ricreare il suo spirito frequentando un frammento di natura superstite. Per cui il parco non mira più solo alla conservazione, ma alla sperimentazione di una interazione sostenibile tra l’ambiente e le opere dell’uomo. Con il
vantaggio che il parco santuario tende a chiudersi in sé stesso, e nella peggiore delle ipotesi a funzionare come un alibi
– rispetto la natura qui, e la distruggo dappertutto! –, mentre il parco laboratorio, elevato a modello, tende ad allargarsi a macchia d’olio nel mondo. Perché, sia ben chiaro, o domani riusciremo a conciliare l’umanità e la biosfera, facendo
di tutto il pianeta un parco, oppure la natura, distrutta da
noi, userà questa distruzione, in un percorso di andata e ritorno perverso, per distruggerci a nostra volta. Infatti, siccome noi facciamo parte della natura, distruggere lei, alla fin
fine, significa distruggere noi con lei. Evidentemente, le attività che l’uomo può condurre nei parchi devono essere
compatibili con la salvaguardia dell’ambiente e con la biodiversità. Per cui se si tratta di agricoltura, sarà un’agricoltura
biologica, o perlomeno sostenibile nell’accezione più ristretta del termine. E se si tratta di turismo, è necessario fare un
piccolo indugio esplicativo.
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Che cosa cerca, e ha sempre cercato, il turista? Perché si
fa del turismo? In parole povere, il turista chi è, che cosa
vuole? Intanto, il suo primo desiderio è quello di uscire dal
quotidiano, di abolirne il monotono tran-tran. Il turista immagina una nuova vita, non permanente, però, se no sarebbe l’equivalente del “fu Mattia Pascal” di Luigi Pirandello.
La sospensione della vita quotidiana viene concepita come
temporanea, e si configura così con tutte le caratteristiche
dell’avventura. Il turista non migra, parte per tornare. È un
po’ come Ulisse, va da Itaca a Itaca, attraversando i lestrigoni, i ciclopi e sopra tutto Circe. Però l’avventura deve essere piacevole, e sopra tutto senza rischi. Solo di recente
qualche turista intende viaggiare in maniera più pericolosa, a stretto contatto con la realtà di luoghi lontani, e qualcuno ci ha rimesso perfino la pelle. Però il turista canonico
non rinuncia di sicuro al comfort: vuole quello che ha a casa sua, oppure quello che vorrebbe avere, aria condizionata, ascensore, camere dell’hotel grandi e luminose, e così
via. Il turista di sempre è un consumista, e come tale un
dissipatore di merci, e, perché no, di beni ambientali. Diseducato a vivere civilmente il quotidiano, e la sua città, trasferisce questa nonchalance ambientale, questi vizi dissipativi, nel luogo d’arrivo. Per cui non chiude di sicuro il
cerchio, come vorrebbe Commoner, ma lascia ovunque le
tracce del suo passaggio. È un seminatore costituzionale di
barattoli di Coca-Cola vuoti, di involucri di plastica stracciati e di cicche, qualche volta accese, a celebrare con l’incendio dei boschi la sua avventura “nel verde”. Se dice di
amare la natura, si tratta di un’attrazione fatale, che distrugge l’oggetto del proprio amore al primo appuntamen163
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to. E se non lo distrugge, lo deturpa, e dato che lo sfregio
si moltiplica per mille, si può ben dire che gli esiti siano
sempre catastrofici. Insomma, fino ad oggi il turista è stato l’allegoria di Attila e dei suoi Unni: dove passa l’erba appassisce e spesso, concretamente e non metaforicamente,
brucia. Però da qualche tempo ho l’impressione che le cose stiano cambiando, e che si stiano consolidando, in campo turistico, presso i suoi protagonisti di sempre, delle importanti novità. La faccenda è cominciata, secondo me,
con una nuova consapevolezza ecologica, che ha generato
una “mentalità” emergente. L’esigenza del comfort fine a sé
stesso ha cominciato a entrare in crisi e l’esigenza di natura, e di un contatto diretto con essa, ad affermarsi con crescente intensità. Si veda, come paradigmatico, quello che è
accaduto nelle città: fino all’inizio degli anni Sessanta, al
culmine del boom, i cittadini fuggivano dalle case dei centri storici, scomode, poco riscaldate, e con scale ripide e
impervie, per andare ad abitare in periferia, in condomini
“attrezzati” o, nella migliore delle ipotesi, in quartieri residenziali in collina. Poi, a questo spostamento centrifugo è
succeduto, a poco a poco, un movimento centripeto. Quelle case dei centri storici si sono trasformate in una specie
di nuovo Eden, e si è cominciato a decidere di abbandonare l’ascensore per le scale ripide, il riscaldamento centralizzato per la stufa a gas e molti hanno, per dir così, riportato i loro penati dentro l’antica cinta muraria, alla ricerca
del tempo perduto, di un passato elevato a valore. Ma a
questo cittadino “storicista” si è opposto, alter-ego speculare, un cittadino “naturista”, che invece di tornare dalla
periferia al centro storico, ha deciso di andare oltre, e ha
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invaso i campi e le colline degli immediati, e anche non tanto immediati, dintorni. Questo fuggiasco dall’area urbana
ha di solito privilegiato i vecchi cascinali, abbandonati dai
contadini migranti dalle campagne alle città nel miraggio
che la catena di montaggio dell’industria sia meglio del lavoro della zappa. Riveduti e corretti, ma non troppo, questi edifici prodotto di una fiorente architettura rurale, sono
diventati le chiese del culto della natura. Che importano i
disagi di stanze poco riscaldate e di servizi igienici di fortuna, se all’alba ci può risvegliare il canto degli uccelli e di sera il cri-cri malinconico dei grilli può conciliare il sonno dopo le fatiche del giorno? Tutti questi disagi, urbani o rurali, sono diventati premonitori di una perfetta letizia, per citare frate Leone e i Fioretti di san Francesco, a sua volta antesignano e apologeta della vita agreste e di tutte le
creature che la popolano. Ma questa convergenza/divergente, mi si consenta il bisticcio verbale, del cittadino che
torna al centro storico e di quell’altro che si “ruralizza”, ha
consentito il formarsi di un nuovo modo di considerare il
territorio, come il luogo in cui i beni naturali e i beni culturali entrano in sintonia, diventando, per certi versi, la stessa cosa. In altre parole, la specie animale o vegetale minacciata di estinzione ha acquistato la stessa dignità, ed è stata investita dalle stesse motivazioni conservative, della pieve sulla collina, o del palazzo patrizio in città. Se la fauna e
la flora sono un prodotto dell’evoluzione, e la chiesa e il palazzo della storia, noi partecipiamo, come esseri viventi, e
come creature culturali, ad entrambi i processi, e contrastare i bracconieri e i palazzinari fa parte della nuova etica
ambientale, da leggersi nel suo significato più ampio. Si
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tratta di cose non solo nostre, ma delle generazioni future,
e come sta scritto nella Bibbia, “chi distrugge la propria casa sarà l’erede del vento”. Tutto questo che ho detto non
riguarda soltanto l’esigenza di conservare, ma di come beneficiare di quei beni che conserviamo. In che senso? Ritorniamo, allora, alla domanda che abbiamo posto nel titolo. Non solo il turismo nei parchi è possibile, ma è addirittura auspicabile, perché se le popolazioni umane residenti
vedono nell’avvento di un territorio protetto, e da conservare, soltanto un luogo di vincoli e di limiti, sono per forza
contrarie, e tutto deve essere imposto de jure, generando
malcontenti e perfino sabotaggi. Se, invece, il parco si configura come l’inizio per loro, non solo di una qualità della
vita migliore, ma di una nuova attività economicamente interessante, diventa possibile istituire un clima di protezionismo spontaneo, e potrei perfino dire di “volontarismo
ecologico”. Per fortuna il turista, come abbiamo già accennato, sta cambiando e, per dirla in metafora, si tinge sempre più di verde. In altre parole questo turista emergente,
che vorrei chiamare edenista, non si interessa più tanto all’albergo quanto a quello che ci sta attorno, cerca piste ciclabili nel bosco e nei prati, e ama le testimonianze del passato quanto gli animali che può incontrare spostandosi a
piedi, o su ruote di bicicletta, in quella nuova arcadia. E, insomma, ama emblematicamente, divenuto un emulo di
Guido Gozzano, i fiori “non colti”, da contemplare e non da
prelevare. Nel parco laboratorio, in altre parole, l’uomo
non entra più in punta di piedi, ma ci abita e ci lavora a pieno titolo, si potrebbe perfino dire come un elemento faunistico di pari dignità degli altri, e se lo visita per trovare una
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sintonia con la bellezza del mondo, è benvenuto purché lasci, al suo transito, per quanto sia possibile, le cose come
sono. Si passa, così, dal parco chiuso al parco aperto, dal
parco invisibile al parco visibile, dal parco “fa da sé” al parco “gestito”, dal parco sacro al parco profano. Dal santuario al laboratorio, è detto tutto. Certo, non bisogna lasciarsi fuorviare, in questa nuova concezione, dai fondamentalismi. Per esempio, le zanzare, in un parco come il delta del
Po, o come la Camargue, sono una presenza costitutiva di
quel particolare ecosistema. Presenti da sempre, entrano
di concerto nelle reti alimentari: cibo come larve dei pesci,
e come adulti degli uccelli, o dei pipistrelli a notte fonda.
Ragion per cui, se pure si potesse, e non è il caso, ridurle a
zero sarebbe un vero e proprio attentato a quel particolare
ambiente. Anche perché, come sa ogni buon ecologo, vuotare una nicchia ecologica è pericoloso, perché i candidati
a occuparla potrebbero essere ben peggiori degli uscenti.
Per esempio, è arrivata nel nostro paese l’Aedes albopictus, la ben nota “zanzara tigre”, più aggressiva delle specie
locali, e vettrice nei luoghi d’origine di pericolose malattie.
Bene, se tutte le nicchie delle zanzare autoctone fossero
state vuotate da interventi, che in tal caso non esiterei a
definire magici, la nuova venuta potrebbe diffondersi con
facilità maggiore di quanto non possa fare ora. Tuttavia, in
parchi con ricca popolazione umana stanziale, e con un apporto temporaneo di turisti, non è possibile consentire alle zanzare di riprodursi indisturbate, diventando delle moltitudini. Quindi è necessario intervenire, per ridurne la
densità e il disagio di chi abita stabilmente o temporaneamente nelle aree più infestate. Certo, è necessario che i
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metodi prescelti siano soft, e la lotta biologica con impiego
di Bacillus thuringiensis israelensis o di B. sphericus
contro le larve nei luoghi di proliferazione, in precedenza
mappati, assolve pienamente alle necessità di non perturbare a fondo l’ecosistema. Certo, sarebbe meglio non far
niente, però però... In alcuni parchi si è deciso di tener duro con questa idea, e quali sono stati i risultati? Le zanzare
si sono riprodotte in gran numero negli stagni, e nelle paludi protette, e il vento le ha portate, come adulti, al di fuori. Al di là dei confini “sacri”, le popolazioni umane locali
hanno richiesto e ovunque ottenuto che si facciano degli
interventi chimici a largo spettro d’azione, ecologicamente
distruttivi, ma i soli possibili contro le miriadi di piccoli
vampiri. Alla fin fine la salvaguardia del parco ha comportato, così, la distruzione del territorio che lo circonda. E sapete chi è andato perfettamente d’accordo con i “verdi”
fondamentalisti? Ma i venditori di insetticidi, ben contenti
che nel parco esista un bel salvadanaio di larve, così da irrorare di molecole di sintesi gli adulti non appena ne escono dai confini. In parole povere, il diavolo si concilia con
l’acqua santa e il “verde”, forse senza saperlo né capirlo,
consente alle multinazionali della chimica di fare degli affari d’oro! Perché, spesso, ogni fondamentalismo, lo si sta
verificando ovunque nel mondo, è una maniera per darsi la
zappa sui piedi, o di aprire un’autostrada per l’inferno lastricata, come vuole il proverbio, di buone intenzioni. Per
concludere: se da un lato il nuovo turista sta maturando
delle esigenze, per dir così, ecocompatibili, i residenti dei
parchi sono chiamati a elaborare delle risposte adeguate.
Per esempio, l’agriturismo è una delle attività suscettibili
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di porre in sintonia il turismo con la conservazione e in
senso più lato l’ecologia con l’economia. Ma a questa forma
di ospitalità che non prevede, come punti nodali, televisione e aria condizionata, ma bei pergolati e canto di usignoli, deve corrispondere un’agricoltura condotta secondo
nuovi criteri, biologica o, in senso lato, sostenibile. Un’agricoltura, cioè, che preveda un incremento della biodiversità: siepi, filari d’alberi, scoline inerbite attorno a campi coltivati di piccola estensione. Che pratichi inoltre una fertilizzazione principalmente organica, che abbia la rotazione
come consuetudine, e che faccia un ampio ricorso alla lotta biologica come mezzo di contenimento degli organismi
dannosi. Questa agricoltura può essere semplicemente destinata alla mensa dell’azienda agrituristica, che può offrire così ai suoi ospiti dei cibi esenti da residui tossici ma anche, in senso più lato, mirata ad alimentare quel mercato
verde che si sta sempre più consolidando nel mondo, magari sotto la protezione, e la promozione, di un marchio che
garantisca la salubrità e, per dir così, la “provenienza edenica” del prodotto ai consumatori. Suggerendo a quelli dalla vista più lunga, come quel che mangiano, e che pongono
nella cornucopia di frutta e verdura sulla loro mensa, sia
stato ottenuto nel rispetto dell’ambiente.
L’agriturismo e l’agricoltura biologica, o per lo meno sostenibile, sono le due facce della stessa medaglia. Un modo
per poter istituire dei parchi anche in futuro, non a dispetto dei santi, e cioè dei residenti, ma con il loro consenso.
Che, alla fin fine, il numero dei turisti che possono accedere all’area protetta debba essere rigorosamente regolamentato e che delle porzioni del parco possano restare in169
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frequentabili, aree del tutto naturali per quanto sia ancora
possibile, sono cose che fanno parte di una strategia più
generale, da prendere in esame volta per volta. Ma in termini scientifici, e non emotivi, secondo ragione e non secondo passione. E senza fondamentalismi, sia ben chiaro!
La savana del Serengeti
Il perché questa savana abbia una così grande importanza
da venir considerata come uno degli ecosistemi più peculiari del pianeta è rintracciabile nel fatto che si presenta
come uno dei luoghi dove la biodiversità dei grossi mammiferi si è affermata con una straordinaria dovizia di specie.
Dal punto di vista ecologico, questa savana africana si configura come un luogo dove le piante erbacee prevalgono
nettamente sulle arboree, per cui il mare d’erba, detto
veld, si estende fino all’orizzonte, interpolato qua e là da
macchie povere di arbusti e da alberi, alcuni con le foglie
spinose, le acacie, e altri più rari, i giganteschi baobab. Le
origini e la permanenza di questo assetto botanico è controversa. La maggior parte dei geografi lo giudica il risultato di un clima molto particolare, che prevede l’alternanza
di un periodo di pioggia, della durata di tre-quattro mesi, e
di un periodo di siccità, solitamente molto più lungo. Questa successione di umidità e di siccità non consentirebbe il
consolidarsi di una vegetazione arborea, e il tessuto erboso subirebbe un’alternanza di rigoglio vegetativo e di prolungato appassimento. Le pozze d’acqua, come abbeveratoi naturali, dipenderebbero, a loro volta, dalla piovosità e
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costringerebbero gli animali del Serengeti a compiere, nel
periodo della siccità, delle grandi migrazioni per trovarne
qualcuna non ancora completamente esaurita. Sembra che
gli animali prevedano con un certo anticipo l’arrivo della
pioggia e si dice si spostino nei luoghi dove cadrà più copiosamente. Un’altra ipotesi dell’origine dell’assetto botanico della savana è quella che vede negli incendi, un evento abbastanza frequente durante la stagione secca, la ragione per cui una vegetazione di tipo forestale non ha avuto nessuna possibilità di affermarsi. Comunque sia, lo ripetiamo, la savana del Serengeti è uno dei luoghi dove la biodiversità dei grossi mammiferi si è espressa nel suo massimo splendore, dal punto di vista delle specie e della bellezza delle forme. Dal momento che noi, come animali, facciamo parte dei Mammiferi, sembra che la savana sia stata
l’ambiente originario che ha consentito l’avvento dei nostri
progenitori. Le numerose specie di animali presenti formano una grande comunità con diverse modalità di interazione e il rapporto più comune è quello tra la preda e il predatore. Le prede sono gli erbivori, che costituiscono il primo anello della catena alimentare, una metafora con cui
viene indicata la sequenza di chi mangia e di chi viene
mangiato. I predatori sono per lo più i grandi felini: i leoni,
e in particolar modo le leonesse, che cacciano in gruppo e
sono in grado così di abbattere anche un grosso bufalo, i
ghepardi, che inseguono la preda raggiungendo la velocità
di un’auto di piccola cilindrata, i leopardi, che praticano
l’agguato notturno. Il menù di questi formidabili cacciatori
è costituito dagli gnu, dalle antilopi, dai bufali, dalle zebre
e da altre prede occasionali. Gli scienziati si sono spesso
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stupiti, fin dai tempi di Aristotele, della singolare circostanza in forza della quale le popolazioni degli animali tendono, dal punto di vista demografico, a rimanere stabili.
Uno dei fattori più macroscopici è la predazione, ma non
deve essere il solo, perché sembra ne entrino in gioco altri
più sottili, che coinvolgono le ghiandole surrenali e le loro
secrezioni.
Gli ecologi hanno coniato la metafora della Regina Rossa,
che Alice incontra, durante il suo Viaggio nel Paese delle
Meraviglie, su di una gigantesca scacchiera. La Regina
Rossa dichiara alla stupefatta Alice che, per star ferma, deve correre sempre più in fretta. Accade qualcosa di simile
quando, per esempio, un leopardo insegue una gazzella. Se
la gazzella corre più forte di lui, il leopardo resta a bocca
asciutta, se è vero il contrario, si procura un lauto pasto. La
pressione di selezione consentirebbe solo alle gazzelle più
veloci di sopravvivere e di riprodursi, ma la stessa cosa non
dovrà forse verificarsi anche per il leopardo? I più veloci
raggiungeranno le prede meno veloci e si produrrà, così,
un circolo virtuoso in forza del quale la velocità del predatore incentiverà la crescita della velocità della preda e viceversa. È stato notato come questo meccanismo somigli
all’escalation della corsa agli armamenti tra le nazioni: se
tu inventi la bomba atomica, io rispondo con la bomba H,
se elabori un super-missile, io trovo un congegno che lo
neutralizza. Nel Serengeti gli uccelli, vista la mancanza di
una ricca vegetazione arborea, non sono molto frequenti.
Ricordiamo gli avvoltoi, che sono gli spazzini della savana.
Altri demolitori di carogne sono le iene che, agendo in
gruppo, possono contendere le prede abbattute perfino a
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un leopardo e a un leone. I rapporti preda-predatore non
sono i soli a contrassegnare il metabolismo ecologico della
comunità presente nella savana: esistono anche delle singolari alleanze che, se non sono proprio delle simbiosi, costituiscono tuttavia i primi segnali di un mutuo appoggio.
Gli struzzi per esempio, che sono degli uccelli, come si sa,
inetti al volo, per la loro carena poco prominente, punto
d’attacco inane per i muscoli alari, sono visti spesso in
compagnia degli gnu e sembra che, data la loro altezza – il
collo di questi grandi uccelli supera i due metri –, siano in
grado di osservare con notevole anticipo l’arrivo di un predatore, e quindi costituirebbero delle validissime sentinelle. Fenomeni di grande interesse sono poi stati osservati
nel Serengeti, che per gli zoologi si presenta come un gran
laboratorio all’aperto. Si considerino alcuni aspetti davvero
vistosi del mimetismo animale: le macchie del leopardo
consentono la somatolisi percettiva del suo corpo, che tra
l’erba, o nel folto di un cespuglio, si disgrega in tanti punti, perdendo gran parte della sua visibilità. E che dire poi
delle zebre, le cui strisce bianche e nere, quando fuggono
in gruppo, formano un grande puzzle in movimento che
confonde la vista dei predatori? Un effetto da pittura optical! Le due forme di mimetismo – attivo: il leopardo si rende invisibile alle sue prede, passivo: le zebre confondono la
vista del predatore – sono due grandi pilastri della sopravvivenza, che l’evoluzione non ha ancora spiegato del tutto.
Il regime alimentare, come abbiamo già accennato, degli
animali in savana, che equivale a uno scambio energetico,
si divide in erbivori, che brucano l’erba e in carnivori, che
mangiano gli erbivori. La giraffa è la sola che, essendo l’ani173
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male più alto del pianeta in forza del suo lungo collo, sia in
grado di brucare le foglie dell’acacia, e lo fa con grande perizia, perché deve spostare con la lingua le spine di cui
questa pianta è riccamente dotata. Ma l’interesse per la savana ci chiama, come abbiamo già accennato, direttamente in causa. Perché una delle ipotesi delle nostre origini,
forse la più accreditata, è che sia stato questo particolare
ambiente a darci, per dir così, il suo battesimo. Le cose
avrebbero avuto questo decorso. C’era una volta, nel Corno d’Africa, una grande foresta pluviale, in cui uno scimmione, oggi estinto, forse un dryopiteco?, viveva felicemente, saltando di ramo in ramo, e alimentandosi di un cibo sempre abbondante, costituito da foglie, frutti e semmai
qualche insetto. Un’improvvisa catastrofe, la Valle del Riff,
separò questa foresta in due parti, l’una destinata a restare come prima, l’altra, soggetta a una nuova gestione climatica, a perdere la maggior parte degli alberi, e a dare origine, per l’appunto, alla savana. Mentre gli scimmioni rimasti nella foresta non dovettero subire alcun cambiamento
per adattarsi a delle nuove circostanze e rimasero probabilmente simili allo scimpanzé, gli scimmioni che si trovavano nella savana furono sottoposti a una pesante sfida di
sopravvivenza. Il dilemma fu per loro cambiare o morire.
Cambiarono. Intanto, la pelliccia che nella foresta era utile
a proteggere la pelle dai vari traumi, sotto il sole implacabile della savana era diventata impacciante. Non consentiva la dispersione termica del corpo e se si doveva correre
si rischiava l’infarto. Ragion per cui furono, nel tempo, di
generazione in generazione, favoriti gli individui con una
pelliccia sempre più esigua, fino a che siamo diventati
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quella Scimmia nuda che Desmond Morris attribuisce come definizione peculiare alla nostra specie. Ma i guai non
erano finiti. L’esposizione al sole della pelle divenuta nuda
poteva procurare, visto l’inclemenza dell’astro diurno, delle ustioni e delle neoplasie, ragion per cui gli individui con
la pelle più melanizzata risultarono favoriti, fecero più figli,
enfatizzando la tendenza che finì per attribuire all’uomo un
bel colore oscillante tra il marrone e il nero ebano. Ricordiamo sempre che l’uomo nero è stato il nostro progenitore! Quando poi, dall’Africa, le popolazioni umane si sono
spostate prima in Asia e in Europa, dopo in America e in
Australia, la tintarella impediva o rendeva difficoltosa la
formazione delle vitamine che si formano sotto la cute a
causa della luce solare, e quindi la pressione selettiva invertì il suo bersaglio, la pelle più nera risultò sfavorita rispetto a quella un po’ meno nera, e così ha fatto la sua
comparsa l’uomo bianco.
Per cui, quando incontrate un uomo di colore, pensate che
siete dei suoi discendenti. Vostro nonno, insomma!
Statue biologiche, una digressione sull’arte
e l’ecologia
Se l’arte crea della novità, e quindi dell’informazione, andando in senso opposto all’entropia, la vita fa lo stesso, e
l’evoluzione non è da meno. Ha avuto ragione Bergson a intitolare la sua opera più celebre L’evoluzione creatrice.
La specularità, teorizzata da molti artisti delle avanguardie
storiche del Novecento, tra l’arte e la vita, è ben più che
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l’espressione di una poetica, o una semplice metafora. Soprattutto oggi che le biotecnologie stanno progettando
delle trasformazioni vistose negli esseri viventi, l’arte e la
vita hanno cominciato a puntare su di una loro coincidenza. Se il secolo scorso è stato l’età della fisica, quella che
viviamo si annuncia come l’età della biologia. In tal senso
i laboratori dei biologi stanno diventando sempre più simili a degli atelier, dove si inventano delle nuove creature, dei mostri, sì, ma nel significato etimologico più proprio di prodigi. Il mostro è prodigioso, e come tale evoca
insieme la meraviglia e lo spavento. Le scoperte, prima
della struttura e del funzionamento del DNA, poi delle
forbici enzimatiche che, per dir così, possono tagliarlo e
ricucirlo a piacimento, hanno messo i biologi in grado di
produrre delle novità viventi, completando la biodiversità
naturale, minacciata da continue estinzioni, con una biodiversità artificiale, che potrà essere incrementata a volontà. Come giudicare, per esempio, la pecapra, un essere derivato da una ars combinatoria, da un puzzle di geni di capra e di pecora, se non che si tratta di una invenzione biomorfa, simile a quella sognata nei bestiari medioevali o che fa capolino nei quadri dei pittori surrealisti? Se il surrealismo voleva annettere i sogni alla pittura,
la pecapra è un sogno che i biotecnologi hanno consegnato alla natura. Le biotecnologie fanno del principio del
piacere, di cui ci ha parlato Freud, un fratello siamese, e
non un antagonista, del principio di realtà, reificando nella carne i nostri sogni più vertiginosi e le nostre più ellittiche fantasticherie. Diventa così legittimo congetturare
che gli artisti del prossimo futuro non agiranno più con lo
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scalpello sul marmo o con il fuoco sul metallo per ottenerne delle sculture, ma manovreranno degli enzimi di
restrizione, modellando delle statue di carne che potranno rispondere con un grido a quel colpo di martello che la
leggenda vuole abbia vibrato Michelangelo al suo Mosè
perché desse segno di vita. Le due culture, nella formulazione di Snow, andranno in rotta di collisione, e la scienza diventerà un’arte e l’arte una scienza. Si manifesteranno perfino delle diverse correnti estetiche, che avranno
come archetipi fondatori il surrealismo o l’iperealismo,
l’objet trouvé di Duchamp o il dripping di Pollock. Facciamo insieme un po’ di futurologia: ci saranno, forse, dei
bioartisti che, lavorando sul DNA, vorranno ottenere dei
nuovi organismi eterocliti, mandando a spasso la chimera
di Arezzo, fatta reale, per le vie di questa città? Ce ne saranno degli altri che, clonando degli organismi, si daranno a un’arte realista, anzi iperrealista, che reggerà lo
specchio alla natura? O ancora, degli operatori estetici
più avventurosi tratteranno il clone come lo scolabottiglie
di Duchamp, un prodotto biotecnologico da spaesare,
spostandolo dal laboratorio al museo? O anche, simulando i pittori informali che hanno elevato il caso a virtuale
operatore estetico, ci sarà chi, agendo in maniera stocastica sul genoma e inducendo con mezzi chimici e fisici
delle mutazioni, promuoverà la comparsa di embrioni deformi, di animali a due teste o a sei zampe, da mettere in
formalina e da esporre in un nuovo museo alla Spallanzani, destinato a celebrare i fasti di una estetica del teratologico? Tutto sarà fatto con cellule, con tessuti viventi,
con organi, con strutture scheletriche e muscolari, con
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tutti i pezzi anatomici del corpo! Ma non si creda che l’uomo non abbia già agito, nel corso della preistoria e della
storia, in modo simile, anche se impiegando dei mezzi
empirici e non propriamente scientifici. Si pensi al grande fenomeno della domesticazione, che ha prodotto delle
forme di animali e di piante del tutto nuove. Si consideri,
per esempio, la genesi del mais, una pianta che rivaleggia
con il grano e con il riso nel nutrire la popolazione mondiale. Secondo una teoria, che mi sembra la più credibile,
al principio, nella penisola dello Yucatàn, prosperava, e
prospera tuttora, una pianta erbacea, il teosinte, con i semi disposti in una serie lineare ascendente, semi che a
maturità cadono al suolo, consentendo alla specie di riprodursi e di diffondersi nell’ambiente. Seimila anni fa,
poco più poco meno, gli agricoltori locali avevano deciso
che questi semi costituivano un cibo troppo nutriente per
lasciare che, dopo la maturazione, si disperdessero per
terra, rendendone impossibile la raccolta. Attraverso la
fuga dei millenni, dei geniali quanto anonimi selezionatori hanno scelto quei mutanti del teosinte che presentavano dei semi agganciati saldamente alla pianta, in contrasto con la selezione naturale, che li avrebbe spazzati via,
perché inadatti alla conservazione della specie. Il teosinte delle origini, posto sotto tutela dagli amerindi, si è così trasformato nel tempo in una pianta più alta e maestosa, con semi agganciati tutto intorno all’asse centrale,
saldati al punto che la pianta ha perduto ogni chance di
riseminarsi da sola. Il mais, diventato in tal modo una
pianta ammalata d’uomo, incapace di riprodursi senza il
nostro aiuto, è a tutti gli effetti un mostro biologico. Non
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si pensi, tuttavia, che se il criterio che ha guidato i suoi
creatori è stato quello dell’utilità, siano stati assenti, nel
suo modellamento, dei fattori estetici. I grandi produttori di sementi nordamericani, quelli che hanno dato origine alla corn-belt, facendo degli Stati Uniti uno dei paesi
cardine di questa produzione cerealicola, hanno seguito
spesso, nelle loro scelte, i dettami di un empirismo riccamente contaminato da motivazioni estetiche. A riprova,
James Reid, uno dei grandi selezionatori di mais dell’Ottocento, era un pittore mancato, e quando gli chiedevano
perché sceglieva quelle spighe e non altre, rispondeva
che erano le più belle. Ma se la creazione del mais ha pur
sempre obbedito a esigenze utilitarie, e l’arte è, invece,
come il gioco, premio a sé stessa, l’esempio del pesce rosso costituisce una più pregnante analogia. Questo pesciolino, che abita negli stagni, ed è di colore verdastro, era
pescato dagli antichi cinesi per essere messo in graticola.
Però l’animaletto presentava dei mutanti di un bel colore
rosso, che avevano finito per attirare l’attenzione dei pescatori e degli artisti. Cominciò così, attorno agli anni
1000, una vera e propria saga di acquacoltura, che ha visto il piccolo frequentatore delle acque dolci trasformarsi per selezione in tante forme sorprendenti. Nel 1200 esistevano già dei veri e propri allevamenti, e la variante rossa veniva smerciata non per scopi alimentari ma per venire sistemata in acquari posti in bella vista nelle case, come fossero delle sculture viventi. Ma il bello doveva ancora venire: dal 1500 in poi fecero la loro comparsa nei circuiti mercantili dei pesci con grandi pinne soprannumerarie, a mo’ di vele, oppure di piccole dimensioni, pesci179
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uovo, o ancora con grandi occhi telescopici. Se in Cina il
drago costituisce una figura centrale della mitologia, quei
pesci erano delle sue versioni biologiche, dei mostruosi
invasori, usciti dall’onirico, che si insediavano nel cuore
del reale. Nell’Ottocento questa alchimia morfologica
produsse il pesce a testa di leone, o se si preferisce di fragola, selezionato dai Giapponesi, affascinati, loro che
amano tanto i bonsai, da questo modellamento che punta
sulle strutture biologiche. Gli esempi potrebbero essere
moltiplicati: dal cane pechinese, razza da grembo per eccellenza, che ha il muso schiacciato e gli occhi tondi per
evocare la facciotta di un bambino, ai fiori che popolano
le serre dei vivaisti e le terrazze delle nostre case, contraffazioni ingigantite o multicolori delle specie botaniche
d’origine. Come si vede, le biotecnologie proseguono sulla via imboccata da noi fin dai tempi più remoti, quella
che vuole piegare la natura ai nostri bisogni e ai nostri capricci. Però, i poteri acquisiti attualmente dall’uomo in
questa operazione demiurgica, da scimmia di Dio, rischiano di trasformarsi in un pericoloso boomerang e di produrre quella che taluno ha paventato come una “Chernobyl genetica”. Il pericolo è che l’arte genetica diventi un
dadaismo dei geni, una poetica non delle parole ma dei
geni in libertà. Gli scienziati sono sempre stati costituzionalmente imprudenti, e gli artisti non brillano certo della
virtù opposta. Lavorare sulla vita non è lo stesso che lavorare sulla pietra, e in futuro questa nuova estetica dovrà, come tutte le biotecnologie, confrontarsi sempre più
con l’ecologia e con l’etica.
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Chernobyl, la strage dei cani abbandonati
Il disastro di Chernobyl si è presentato come una delle catastrofi più spaventose del secolo appena passato e i danni
genetici che sono stati provocati dagli uomini a tutti gli esseri viventi del nostro pianeta non potranno mai venire
computati con qualche esattezza. Inoltre, dato che certi
nuclidi emessi nell’ambiente hanno lunghissime persistenze, questi danni dureranno attraverso molti secoli a venire.
Tuttavia, in questa tragedia c’è un aspetto che, benché giudicabile da molti assolutamente marginale, mi ha di recente toccato il cuore.
E penso possa essere così per chi si è legato d’affetto con un
animale domestico, cane o gatto che sia. Col sopraggiungere del tempo delle vacanze, i giornali e le televisioni ripropongono puntualmente, un anno dopo l’altro, all’attenzione
di tutti, una triste consuetudine, divenuta finalmente reato
penale, e cioè l’abbandono dei cani da parte di sconsiderati
padroni in rotta per le vacanze. È sufficiente sapere qualcosa della psicologia del cane per capire che si tratta di
un’azione crudelissima, perché questo animale considera il
padrone non solo come l’emulo del capo branco che aveva
quando era ancora un lupo, ma addirittura l’asse del mondo.
Per cui l’abbandono rende il cane un povero essere smarrito e quasi folle, che vaga alla ricerca del padrone perduto, per finire sotto un’auto o nel lager di un canile. Ma torniamo a Chernobyl: di recente in un libro di un giornalista
ucraino che, trent’anni dopo, rivisita il disastro, ho letto
una storia che, come ho detto all’inizio, mi ha profondamente turbato. Quando si è dovuto evacuare la popolazio181
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ne dei dintorni della centrale, i cani e i gatti, contaminati
dalle radiazioni, sono stati per legge abbandonati sul posto.
Che scene devono esserci state! I poveri animali hanno
tentato, con ostinazione, di salire sui camion per seguire i
loro padroni nell’esilio, e sono stati scacciati dai militari
con tutta la malagrazia immaginabile, strappati dalle braccia dei bambini, allontanati a calci e urlacci, alcuni sono finiti schiacciati sotto le ruote dei veicoli, mentre altri si sono dati all’inseguimento degli automezzi che si allontanavano celermente fino a cadere al suolo, stroncati dalla fatica, dopo decine di chilometri. In seguito, le autorità hanno
istituito un piccolo nucleo di tiratori scelti, destinati a uccidere i poveri animali vaganti sul territorio perché divenuti radioattivi e perfino pericolosi per chi li avvicinasse. Poveri cani, alla vista dell’uomo, che era sempre stato per loro l’amico per antonomasia, si avvicinavano scodinzolando
gaiamente ai loro carnefici per essere fucilati sul posto.
Uno di questi esecutori racconta che una volta, di fronte a
un cagnolino particolarmente affettuoso e tremebondo,
non ha avuto il coraggio di premere il grilletto ed è fuggito
con le lacrime agli occhi lasciandolo incolume. Più difficile
è risultato lo sterminio dei gatti, abbandonati e condannati a morte a loro volta, ma è logico che sia stato così, perché i gatti non si fidano del tutto dell’uomo, e in questo caso avevano perfettamente ragione!
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Gaia Onlus, il pianeta che vive e che legge
L’Associazione Gaia Animali & Ambiente nasce nel 1995 per iniziativa di un
gruppo di giornalisti, di ambientalisti, di animalisti e di imprenditori nel campo
della comunicazione, tra i quali Edgar Meyer (attuale presidente), ricercatore,
storico dell’ambiente e giornalista, Stefano Apuzzo, ex parlamentare, giornalista ambientalista e scrittore, Stefano Carnazzi, scrittore e direttore editoriale di
Lifegate Magazine e Lifegate Radio.
L’Associazione promuove, da subito, campagne di forte impatto mediatico. Le
iniziative sono prevalentemente contro l'abbandono degli animali domestici,
per la difesa delle foreste pluviali, per la tutela degli animali selvatici, per lo sviluppo sostenibile, per la diffusione dei prodotti “bio”, per la salute umana. L’Associazione viene riconosciuta come Onlus – Organizzazione Non Lucrativa di
Utilità Sociale e collabora con ministeri e istituzioni nazionali e locali.
Dal settembre 2004 viene creato Gaia Lex, il centro di azione giuridica dell’associazione che si occupa di dare informazioni e risposte alla richiesta di assistenza legale dei cittadini sui temi dei diritti animali e della salvaguardia ambientale.
La collaborazione con aziende amiche dell’ambiente e la denuncia di attività
produttive devastanti per l’ecosistema rendono Gaia un’associazione attenta
al mondo delle imprese e alla comunicazione.
Dal 2006 Gaia è titolare della collana editoriale intitolata “I Libri di Gaia – Ecoalfabeto” con la casa editrice Stampa Alternativa, con la quale sono stati pubblicati diversi libri sulle tematiche dell’ambiente e della sostenibilità, dei diritti
animali, della salute umana e della sicurezza alimentare. Tra i titoli pubblicati ricordiamo: Fido non si fida, Qua la zampa, Bimbo Bio, Homo scemens, Dalla
luna alla terra, Quattrosberle in padella, Farmakiller, EcoLogo, Cosmesi naturale pratica, Le eco-conserve di Geltrude, Ecoalfabeto, United business of Benetton, Senza trucco, La città del Sole, Bici ribelle, Quattrozampe in tribunale,
Ambientiamoci.
Gaia Animali & Ambiente Onlus è in Corso Garibaldi 11 a Milano
tel/fax 02.86463111 – mail: [email protected]
con sedi decentrate in diverse città italiane, in Congo (R.D.) e in Gabon.
www.gaiaitalia.it
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Indice
Introduzione di Edgar Meyer 5
Il
best i ar i o vi vent e 9
Le mi e api e qual che f or mi ca 22
L’ape e l’uomo 22
L’ape e il diavolo 23
L’ape femminista 25
L’ape Robinson 26
L’ape farmacista 28
L’ape guerrafondaia 29
L’ape bussola 31
L’ape pensante 32
L’ape neopitagorica 34
L’ape matematica 35
L’ape stakanovista 37
L’ape e la banca del seme 38
L’ape futuribile 40
La formica e la lotta biologica 41
Formiche d’équipe 43
La formica cieca 44
La formica “ventisei-uomini” 46
La formica drogata 47
La formica robot 49
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I mi ei gat t i e qual che cane 51
Il gatto allo specchio 51
Il gatto un po’ genio 52
Il gatto a parlamento 54
La gatta psicosomatica 55
Il gatto e la morte 57
Il gatto “gesticola” 58
Il cane simulatore 60
La cagna isterica 61
Best i ar i o d’ amor e 63
C’è amore e amore 63
Ditelo coi doni 64
Afrodisiaci salutari 66
Castità da molecole 67
Musica, “maestro”! 69
Il colibrì in discoteca 70
Tristano è una volpe 72
Ti fiuto, e so chi sei 73
Gelosia, che pena! 75
Coppia e nevrosi 76
Non ci si fidi del sesso 77
Castrazione con “trillo” 79
Oh, Lolita! 80
Misteri del seno 82
Smancerie da ristorante 84
L’insetto è un play-boy 85
Kamasutra, con libellule 86
Scopofilia, per piccina che tu sia... 88
Il verme e le ciccione 89
Tra moglie e marito 91
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Un poco di bi oni ca 93
Progetti da lombrico 93
L’emulo di Edison 94
Le zampe hanno orecchie 96
Antenne d’autore 97
Guerra chimica 98
Spazi o, densi t à, aggr essi vi t à 100
Il pesce a teatro 100
Il giusto locatario 101
Il cervo volante è cavalleresco 103
La scimmia assassina 104
Follia da folla 106
Carnefici e vittime 107
Fissare è sfidare 109
Erode è un langur 110
Del f i ni , pi ngui ni , t opi e mol t i
Il pinguino ci guarda 112
Il delfino è di scena 113
Il beluga burlone 115
Il topo e il cioccolato 116
Uomini e topi 117
Per amore di un topo? 119
Il pappagallo non sa il tedesco 120
In barba a Chomsky 121
Come Barbanera 123
Il piccione sa contare 124
Il piccione mistico 125
Il piccione migratore 127
L’albero del fulmine 128
Pensare, prevedere, soffrire 129
Il suicidio e lo scorpione 131
al t r i
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L’agnello pazzo 132
Vegetariano è bello? 134
L’animale immaginario 135
Al t r i scr i t t i 138
A scuola dalle analogie 138
Scienziati e stregoni 144
Qualche appunto ecologico sugli animali in città 153
Dal parco santuario al parco laboratorio: è possibile
un turismo nei parchi? 160
La savana del Serengeti 170
Statue biologiche, una digressione sull’arte e l’ecologia 175
Chernobyl, la strage dei cani abbandonati 181
Gaia Onlus, il pianeta che vive e che legge 185
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Finito di stampare nel mese di marzo 2011
dalla tipografia Iacobelli srl, Pavona (Roma)