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Una rimeditazione dei rapporti
tra profitto e valore alla ricerca
di una consonanza intersistemica
VINCENZO MAGGIONI∗
Abstract
Gli studi di economia d’impresa, nel considerare profitto e valore non necessariamente
coincidenti e non esclusivamente legati da un rapporto di causa-effetto o di path dependency,
sostengono che, di fronte alla crescente complessità ambientale, l’azione di governo del
sistema aziendale trovi la sua “nobilitazione” nell’essere rispettosa degli interessi della
collettività, prima ancora di quelli dell’individuo. Emergono, quindi, sempre più in tutta la
loro evidenza due punti di fondamentale importanza per l’impresa moderna: la necessità di
recepire un’etica di mercato e, al contempo, di orientarsi ad un’etica della responsabilità
sociale. Si giunge pertanto a considerare positivamente il superamento di un’interpretazione
utilitaristica dando, invece, spazio ad una lettura dei fenomeni manageriali sempre più
orientata alla valorizzazione di principi quali la solidarietà, la redistribuzione, l’equità,
destinati ad attenuare la rigida applicazione delle categorie proprie della scienza economica
(l’interesse, l’efficienza, il profitto, ecc.), sostenendo un’impostazione etica dei rapporti
intersistemici. Naturalmente la responsabilità sociale dev’essere estesa al di là del perimetro
dell’impresa, integrando la comunità locale e coinvolgendo, oltre ai lavoratori dipendenti e
agli azionisti, un ampio ventaglio di portatori d’interessi. I valori etici dei comportamenti
aziendali vengono esaltati nelle imprese che riescono ad equilibrare l’obiettivo della
economicità della gestione, presupposto e conseguenza di una robusta capacità competitiva
resa sempre più urgente dall’apertura dei mercati globali, con un approccio maggiormente
“ecologico” e responsabile dell’impresa stessa verso i suoi stakeholder e verso l’ambiente di
riferimento. Un’azienda che agisce su un percorso socialmente legittimante non è, pertanto,
un sistema che si aliena dalle comuni norme del mercato ma è un’entità, perfettamente
integrata nel proprio macroambiente e fondata sulle logiche della competitività, che
reinterpreta le classiche categorie di efficienza ed efficacia orientandole verso la ricerca di
un valore diffuso a tutti gli stakeholder.
Parole chiave: profitto, valore, responsabilità sociale, etica aziendale, rapporti intersistemici
Studies on business management, by considering profit and value not necessarily
overlapping or path dependent, argue that corporate governance dignifies itself by acting for
the sake of the surrounding community rather than for the one of the individual in an
∗
Ordinario di Economia e Gestione delle Imprese - Seconda Università degli Studi di
Napoli.
e-mail: [email protected]
sinergie n. 81/10
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UNA RIMEDITAZIONE DEI RAPPORTI TRA PROFITTO E VALORE
environment of increasing complexity. It’s then emerging, for the modern entrepreneur, the
necessity to be somewhat oriented to the business ethics and to the corporate social
responsibility, by overcoming a mere utilitarian point of view of the management and by
hailing a valorisation of business principles inspired to the solidarity, to the fairness and to
the equity. Thus less considering goals like the efficiency and the profit whilst aiming at an
ethic tendency for each systemic business relationship. Of course, the corporate social
responsibility should overcome firm’s boundaries by interacting with a wider crowd of
individuals. Consequently, ethic managerial behaviours will result exalted inside
corporations which are able to reconcile an “efficiency-driven” management with a more
“ecologic” and socially responsible approach of the management towards their stakeholders
and business environment. That kind of firms does not estrange itself from the ordinary rules
of the market, but it reads the classic patterns of the cost effectiveness and efficiency by
orienting them towards the spreading of value among all the stakeholders.
Key words: profit, value, corporate social responsibility, ethic managerial behaviours,
systemic business relationship
1. Introduzione
Il presente lavoro prende spunto dalla sollecitazione ricevuta dal prof. Gaetano
Golinelli di offrire un contributo di pensiero sui rapporti tra profitto e valore
potenzialmente idonei a generare una consonanza intersistemica. Uno degli stimoli
più forti avvertiti in questa richiesta è insito nell’opportunità di poter condividere
con gli studiosi di economia e gestione d’impresa una serie di riflessioni che
prendono le mosse da dove altri sono precedentemente giunti.
Anzitutto, muovendo dall’interpretazione dell’impresa in chiave sistemica, punto
di arrivo di numerosi studi di economia d’impresa attuali, interessante deja vu dagli
anni Sessanta dell’applicazione, ad opera di W. R. Ashby, della teoria dei sistemi di
Ludwig von Bertalanffy ai sistemi sociali (Ashby, 1971; Bertalanffy, 1983).
In secondo luogo, dalla considerazione, mutuata dagli studi “ortodossi” di
economia aziendale, che profitto e valore non necessariamente debbano seguire
percorsi coincidenti, non esclusivamente legati da un rapporto di causa-effetto o di
path dependency. E dalla convinzione che, anche qualora non siano giustificati da
una sorta di causal ambiguity, ma descrivano una precisa sequenza logica nei
processi di gestione d’impresa, il “valore” (dell’impresa in sé, per l’imprenditore o
per i suoi stakeholder) eloquentemente preceda l’emersione del profitto.
Ed, infine, dalle riflessioni sulla “consapevolezza” dell’azione di governo
dell’impresa, già teorizzate da Pasquale Saraceno nella sua presentazione all’opera
di S. Beer, che vengono in mente leggendo l’introduzione del prof. Golinelli al
volume monografico di Sinergie che è andato in distribuzione proprio in questi
giorni: un’azione di governo “socialmente” responsabile che veda il sistema
d’impresa proteso, oltre che verso indicatori economici come redditività, efficacia ed
efficienza, anche verso la “consonanza”, intesa come attitudine a ricercare una
completa legittimazione sociale (Golinelli, 2009).
Ebbene, il punto di partenza delle mie riflessioni si annida proprio in una frase di
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Golinelli, riflesso delle teorie sull’internal customership e sulla entrepreneurial
myopia che hanno caratterizzato numerosi studi a cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90 del
secolo scorso: l’organo di governo non può prescindere dall’ascolto del contesto in
cui l’impresa opera e con cui si relaziona.
2. L’impresa sistemica, dall’etica di mercato alla responsabilità sociale
Per quanto la genesi sociale degli studi economici sia palesemente nota a tutti gli
aziendalisti, è doveroso riconoscere che il percorso tracciato dalle ricerche in questo
campo sia andato molto al di là degli obiettivi ab initio prefissati dagli studiosi
stessi, arrivando sovente anche a sconfessare lo stesso agire della materia. È proprio
un simile fattore di “distorsione” dell’economia classica, milieau di una precisa
epoca storica, che emerge come punto di partenza nella ricerca di un fil rouge tra
valore, profitto e consonanza sistemica (Barile & Gatti, 2003, pp. 235-244).
Proviamo a soffermarci, ad esempio, sull’impalcatura di ipotesi stabilite
dall’Utilitarismo, secondo cui l’uomo sarebbe spinto unicamente da propri interessi
incontrando, nella massimizzazione dell’utilità e del benessere personali, il più forte
limite al suo stesso agire. A tal proposito, Jeremy Bentham, successivamente ripreso
da Stuart Mill nel 1829, descrisse l’homo oeconomicus come un essere egoista ed
individualista: in termini più generali la filosofia greca, da Aristippo ad Epicuro, ne
avevano già largamente descritto i connotati, ma è sul finire del 1500 che tali studi
trovarono una loro legittimazione scientifica. Prima con Thomas Hobbes, il quale
teorizzò che l’uomo perseguiva la propria conservazione agendo sotto la spinta di
forze materiali (homo homini lupus); e, poi, con Bernard de Mandeville, che
concluse che il benessere dipendeva unicamente dall’efficacia di moti egoistici, al
limite di affermare una netta incompatibilità tra onestà e commercio. Tutto ciò
porterebbe a concludere che l’azione economica abbia il vantaggio di eludere la
moralità senza necessariamente contrastarla.
Naturalmente, una lettura non approfondita delle teorie classiche potrebbe
condurre a conclusioni troppo affrettate. Anche Adam Smith, nel 1776, scrisse che
“… non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci
aspettiamo il nostro desinare, ma dalla considerazione che questi hanno per il
proprio interesse personale. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro
egoismo, e ad essi parliamo dei loro vantaggi e non delle nostre necessità …”. Una
lettura semplicistica di Smith potrebbe vedere in questa frase l’apologia
dell’Utilitarismo: in realtà, così non è, in quanto l’economista scozzese spese gran
parte della sua vita nel sostenere proprio, al contrario, la necessità dei
comportamenti relazionali nell’agire dell’imprenditore; necessità, dunque, che dalla
massimizzazione dell’utilità di quest’ultimo emerga un forte orientamento alla
consonanza del sistema, da intendere come driver delle condizioni in cui l’impresa,
istituzione economica ma anche sociale, opera.
Questo bisogno di “socialità” è stato lungamente cavalcato dagli economisti
“classici”: si pensi al “dilemma del prigioniero”, proposto da Tucker negli anni ‘50.
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UNA RIMEDITAZIONE DEI RAPPORTI TRA PROFITTO E VALORE
Se i due prigionieri del “gioco” fossero stati meno razionali ed entrambi avessero
“non confessato” il loro presunto omicidio, attuando una strategia definibile di
cooperazione, sarebbero stati condannati al minimo della pena (due anni di carcere).
Ed, invece, la scelta razionale costa a ciascuno otto anni in più di prigione. È una
chiara riprova di quanto asserito poco fa: la ricerca del tornaconto individualistico,
in situazioni di interdipendenza, non solo non porta al bene comune, ma neanche a
quello individuale. Proprio questo è il dilemma posto dal tentativo di
massimizzazione del profitto individuale: ciascun soggetto persegue una sua
strategia personale “strettamente” dominante, nel senso che qualunque sia il
comportamento dell’altro, i propri obiettivi vengono perseguiti meglio attraverso
questa strategia; il problema è che in questo modo, ognuno si ritrova in una
posizione peggiore rispetto a quella che avrebbe ottenuto comportandosi meno
“razionalmente”.
Da quanto premesso emerge chiaramente che, di fronte alla crescente
complessità ambientale, l’azione di governo del sistema aziendale trova la sua
“nobilitazione” nell’essere rispettosa degli interessi della collettività, prima ancora
di quelli dell’individuo. Il che ribadisce ciò che, circa sessanta anni fa, è stato messo
in luce dagli economisti come illustrazione del fallimento del processo decisionale
su base individualistica e come giustificazione per l’introduzione di un contratto
collettivo a priori, dove ciascuno si obblighi ad agire in un modo prestabilito;
richiamando così, a sua volta, il pensiero di Rousseau che, molti anni prima,
distinguendo fra “volontà generale” e “volontà di tutti”, riteneva indispensabile un
“contratto sociale” (Von Mises, 1959; McMurrin, 1967).
Se ciò non bastasse a giustificare una scelta non sempre legata a doppio filo con
la più fredda razionalità, giungerebbe in soccorso una nuova ipotesi di lavoro che
non intende esulare da questa storica conquista che ha reso scienza l’economia,
bensì cerca di integrarla con la socialità, dando fondamento ad una teoria in grado di
conciliare la razionalità stessa con la socialità più o meno accentuata nella natura
umana (Nahapiet & Ghoshal, 1998, pp. 242-266).
Il riferimento qui è alla we-rationality, la “razionalità del noi” proposta da
Martin Hollis e Robert Sugden, che hanno descritto la possibilità di trovare la causa
del comportamento economico non nella classica visione della ricerca del bene
personale e del mero profitto, ma piuttosto di quello ragionevolmente collettivo
(espressivo di “valore” lato sensu), in quanto fine di un insieme sinergico di azioni
singole. Il rapporto di collaborazione binaria proposto dagli Autori britannici non si
esaurisce in una collaborazione strumentale per giungere al proprio scopo, che
sarebbe ipotesi poco innovativa, bensì in una fiducia collaborativa reciproca che
merita razionalmente di essere rispettata, anche qualora si dimostrasse contraria al
proprio interesse personale (Hollis & Sugden, 1993, pp. 1-35). Hollis trae soltanto
spunto da quest’ultimo esempio di razionalità, che trova lesivo della singolare
specificità dell’individuo, annullando la dimensione personale a favore di quella
esclusivamente collettiva, ed indicando quello che per lui è, invece, il corretto modo
di intendere la razionalità. Naturalmente, se si vuole attribuire un’importanza nuova
ai valori nell’ambito del processo economico, è necessario anche essere in grado di
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giustificarne la necessità per coloro che non li condividono, o persino non ne
intravedono la presenza nelle rigide leggi del mercato.
Per anni il cosiddetto “metodo economico” che molti hanno tentato di imporre,
in economia come in altre discipline sociali, ha richiesto agli studiosi di concepire il
comportamento dell’imprenditore in termini di appagamento delle preferenze e di
accorto perseguimento dell’interesse personale, ignorando volutamente istanze
deontologiche poste dalla morale o dai valori. Tuttavia, a mano a mano che gli studi
sull’impresa sono stati approfonditi, è andata emergendo la necessità di un sistema
fondamentale di “norme di moralità civile ed economica” ed il convincimento che
sarebbe risultato estremamente improbabile che il capitalismo come sistema avrebbe
potuto svilupparsi esclusivamente sulla base della ricerca del profitto, prescindendo
da valori quali l’etica degli affari e l’affidabilità del controllo di qualità (Sen, 1988;
Sciarelli, 2007).
Emergono, quindi, sempre più in tutta la loro evidenza due punti di fondamentale
importanza: la necessità per i sistemi di impresa di recepire un’etica di mercato e,
al contempo, di orientarsi ad un’etica della responsabilità sociale.
È bene precisare subito che il concetto di “etica di mercato” è strettamente
collegato a quello di “competizione”, tanto da non poter spiegare l’uno senza
necessariamente ricorrere all’altro (Caselli, 2003, pp. 33-45); se, allora, si intende
valutare l’ethos del mercato, giusto o iniquo che sia, si dovrà affrontare il tema della
competizione, essa stessa intimamente legata all’etica ed ai bisogni della natura
umana, tra i quali espandere la propria base economica.
Paradigmi pratici e teorici di questo tipo hanno, però, generato una stridente
dicotomia tra ciò che gli uomini compiono in due momenti temporali
cronologicamente prossimi; si affermerebbe, infatti, che prima ci si adopera nel
produrre ed accumulare più ricchezza possibile, e poi ci si preoccupa, in un moto di
liberalità, di re-distribuirla a coloro che ne sono privi (Sen, 1977). La scarsa
razionalità di questo comportamento si consuma nella contraddizione degli scopi di
due azioni compiute dal medesimo individuo e del frutto dell’invalsa prassi di
collocare “moralità degli affari” e “moralità personale” su due piani distinti e
difficilmente riconciliabili. Così facendo, si alimentano sporadiche ingerenze
dell’una sfera sull’altra, sacrificando o l’efficienza economica o l’etica,
impossibilitati a reperire un modello che sappia ricongiungerli ad un maggiore
livello di sintesi e che riesca a non avvilire nessuna delle due (Caselli, 1998, pp. 8588). Anche in questo ambito, dunque, la classica visione keynesiana della
massimizzazione del profitto, che guiderebbe il comportamento delle imprese,
dimostra la sua debole capacità predittiva ed il bisogno di essere re-indirizzata verso
modalità descrittive più affini alla realtà1.
1
Modigliani e Miller sottoposero questa teoria ad una radicale rivisitazione, introducendovi
l’elemento dell’incertezza e del rischio, nonché l’esistenza del mercato dei capitali in cui
le imprese sono immerse. In questa nuova visione di indeterminatezza in cui le imprese si
troverebbero ad agire, il profitto da massimizzare, di impostazione keynesiana, acquista
un peculiare carattere di incertezza, che lo rende meno idoneo ad essere lo scopo
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UNA RIMEDITAZIONE DEI RAPPORTI TRA PROFITTO E VALORE
L’affermazione dell’etica di mercato, e con essa la nascita di un nuovo liberismo
economico e politico, si pongono a presupposto di un’analisi che, riconducendo le
tematiche dell’economia alla vita civile, appaiono incentrate sulla ricerca del legame
che intercorre tra la “razionalità” dei processi e la loro applicazione a favore della
società. Si addiviene, allora, a considerazioni che tendono a superare
l’interpretazione utilitaristica dando, invece, luogo ad una lettura dei fenomeni
sempre più orientata alla valorizzazione di principi quali la solidarietà, la
redistribuzione, l’equità che appaiono destinati ad attenuare la rigida applicazione
delle categorie proprie della scienza economica (l’interesse, l’efficienza, il profitto,
etc.) ed a consentire un’impostazione etica dei rapporti intersistemici. Il limite
dell’individualismo culturale induce, dunque, a guardare con crescente interesse a
nuove modalità di considerare il “sistema-impresa”, come soggetto con profonde e
rilevanti interdipendenze con l’ambiente sociale e naturale in cui lo stesso è inserito
(Bertini, 1974, p. 389; Maggioni, 1981).
Anche la finanza, divenendo strumentale alla realizzazione di attività che
esprimono spirito partecipativo, solidarietà, pluralismo, rispetto per l’ambiente e per
i diritti umani, finisce con l’essere correlata agli obiettivi culturali e civili ascrivibili
a forme d’intervento di reale servizio sociale, aspirando a divenire utile ed
innovativo strumento per l’affermazione di una società più orientata all’uomo ed al
rispetto delle più virtuose norme di convivenza democratica e civile2.
Tutto ciò conferma l’evidenza che, nel corso degli ultimi anni, è
significativamente cresciuto l’interesse di tutti coloro che a vario titolo sono
portatori di interesse (stakeholder) per le prassi esplicative dell’attività
imprenditoriale: dalle condizioni in cui i prodotti vengono fabbricati, assemblati o
sviluppati all’attenzione rivolta dai media alle stesse pratiche lavorative; dalla
necessità, conclamata a più voci, di ricerca di un equilibrio ecologico nei rapporti tra
l’impresa e l’ambiente alle esigenze di correttezza e trasparenza informativa verso i
clienti attuali e potenziali; dal proliferare di movimenti di denuncia dello
sfruttamento dei lavoratori alla forte attenzione verso le condizioni di sicurezza degli
2
dell’azione imprenditoriale, ed è assai meno preferibile rispetto a un nuovo strumento di
misurazione della prestazioni aziendali, che è il free cash flow.
Ma nel caso della finanza, differentemente dalla mera responsabilità sociale
dell’imprenditore, si tratterà di valutare in quale specifico ambito questi criteri etici, non
sempre facilmente raggruppabili, intendano trovare concretizzazione. Si potrà, pertanto,
prendere come riferimento l’etica del mercato, spesso oggetto di imposizione da parte dei
meccanismi di controllo, messa in atto, ad esempio, da quell’intermediario che
volontariamente persegua finalità coerenti con l’efficienza allocativa del mercato:
trasparenza nei comportamenti, adesioni alle regole formali a prescindere dall’entità della
sanzione e dalla probabilità di essere scoperto in caso di violazione delle stesse,
astensione dall’abuso di posizione dominante, scelte che favoriscono le pari opportunità
di accesso agli scambi. Oppure sarà necessario far riferimento ad un’etica del mercato
sostenibile, che emerge allorquando gli intermediari e le aziende di produzione provano,
allungando l’orizzonte temporale di riferimento, a rendere espliciti o a internalizzare
taluni costi legati ai cosiddetti fallimenti del mercato, senza però tradire l’adesione ai suoi
principi cardine (Statman, 2004).
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stessi ed alle certificazioni di qualità alla base dei processi aziendali (Buchanan,
1975; Jensen, 2001). Tutto ha, in buona sostanza, ulteriormente contribuito a portare
alla ribalta le questioni legate alla responsabilità sociale d’impresa.
Allo stesso modo, è maturata nelle aziende la consapevolezza che anche
l’adozione dei valori proposti dalla “finanza etica” non sia semplicemente una
concessione ad un generico buonismo imprenditoriale con finalità non ben precisate,
ma un vero plus che permette di rafforzare la capacità di stare sul mercato (Beal et
al., 2005, pp. 66-77). Fra le ragioni che stanno convincendo di questo fatto gli
ambienti del business ve ne sono molte interpretabili con una logica strettamente
economica, la stessa - cioè - che viene utilizzata per giudicare la capacità di
un’azienda, ad esempio, di fare profitti, finanziarsi o avviare un piano di espansione.
Esiste, in altri termini, un rapporto stretto tra le performance sociali ed ambientali e
quelle economiche di un’azienda (Williams, 2005, pp. 43-57).
Ad esempio, una buona gestione strategica ambientale dell’attività d’impresa
permette non solo di prevenire o limitare le pratiche inquinanti, quindi di evitare di
venire coinvolti in scandali per danni provocati all’ambiente per una non accorta
gestione dei rifiuti di produzione, per il mancato rispetto di normative,
danneggiando irrimediabilmente la brand image; una buona strategia ambientale
consente anche, ispirandosi ai principi della sostenibilità delle attività economiche,
di ottimizzare l’utilizzo delle risorse - materie prime ed energia in primo luogo - e,
di conseguenza, di ottenere un contenimento dei costi importante e, soprattutto,
duraturo proprio in queste aree.
Lo stesso discorso vale sul versante delle relazioni sociali che l’azienda
intrattiene con vari gruppi di soggetti, primi fra tutti i dipendenti. Riuscire a
predisporre un luogo di lavoro sicuro e confortevole, avere una piattaforma
contrattuale coerente e rispettosa dei diritti dei lavoratori, fissare percorsi di carriera
chiari ed adottare un piano di incentivi stimolante, modulare l’erogazione di
eventuali benefit sulle esigenze specifiche dei destinatari: sono tutti comportamenti
che, migliorando il rapporto complessivo tra azienda e dipendenti, contribuiscono ad
elevare, in maniera quasi spontanea, la produttività, la fedeltà del dipendente, lo
stimolo per potenziali nuovi collaboratori ad entrare a far parte dell’azienda,
rendendo più efficaci i processi di recruitment e abbassando i rischi di fuga verso la
concorrenza, con evidente risparmio di tempi e costi (Hart, 1995).
In una sola parola, contribuiscono ad aumentare non solo il valore dell’impresa
per effetto di una maggiore consapevolezza “sociale” dell’agire dell’imprenditore;
ma anche, di conseguenza, i profitti derivanti dalla razionalizzazione dei costi e
dall’espressione stessa del maggior valore dell’impresa sui mercati (Coda, 1989, pp.
789).
Quest’evidenza, così drammaticamente attuale, conferma in realtà quanto
dimostrato da Rosen già nel 1991 in una sua indagine sui socially responsible
investors (SRIs) e da numerose ricerche condotte in Gran Bretagna che evidenziano
come l’investimento etico, riflesso della percezione del valore dell’impresa sui
mercati finanziari, interessi potenzialmente il 40-50% degli investitori “generici”, in
realtà interessati anche nell’ipotesi in cui il risultato economico di questi titoli non
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UNA RIMEDITAZIONE DEI RAPPORTI TRA PROFITTO E VALORE
fosse stato in linea con la redditività degli investimenti convenzionali (Rosen et al.,
1991, pp. 221-234).
Questo comportamento di investimento, apparentemente poco razionale, è,
invece, rassicurato dalla certezza che le aziende che più e meglio delle altre
conducono la loro attività secondo i criteri della CSR, e vengono perciò premiate
dallo screening sociale e ambientale operato dai fondi etici, possono contare, specie
sul medio-lungo periodo, su una serie di fattori che ne favoriscono: la redditività, la
capacità di confrontarsi con successo sul mercato, la sostenibilità (Nagy &
Obenberger, 1994, pp. 63-68; Waddock & Graves, 2000). Essenzialmente esse
vanno incontro a minori rischi operativi, dovuti a loro volta a minori rischi
ambientali, più bassa intensità dei conflitti sociali interni ed esterni, maggiori
probabilità di non dover ricorrere a vie legali. Tutto questo crea un clima di fiducia,
una condivisione dei valori aziendali, una superiore reputazione sul mercato da
spendere nei rapporti con gli altri attori sociali (sindacati, comunità, enti pubblici,
consumatori), un insieme di condizioni, cioè, che favoriscono il conseguimento di
migliori risultati economici ed, inoltre, arrecano beneficio a tutti gli stakeholder ed
alla collettività nel suo insieme.
L’agire imprenditoriale si connota, dunque, di valori sociali, nel senso che
costituisce un volano capace di recare vantaggi eterogenei alla società nel suo
complesso: un fenomeno che gli economisti definiscono di “win-win”, ossia una
produzione di valore che qualcuno realizza non a scapito di una riduzione di valore
subita da qualcun altro, ma anzi provocando effetti positivi anche per gli altri.
Determinante è, del resto, anche la consapevolezza, da parte dei vari soggetti
coinvolti, della forza del circuito virtuoso attivato: il comportamento responsabile e
trasparente delle imprese diminuisce le conflittualità ed i rischi, riducendo per questa
via la complessità ambientale cui l’impresa deve far fronte. Aumenta, così, la
credibilità e la reputazione dell’impresa e, di conseguenza, la fiducia che in essa
ripongono gli stakeholder; è quindi più facile per l’impresa avere accesso alle risorse
(si abbassa il costo di raccolta del capitale) e moltiplicare le opportunità di business.
Perciò è più probabile che l’impresa riesca ad avviare sentieri di sviluppo e di valore
dai quali l’intera collettività può trarre beneficio; sviluppo che conferma la bontà
della scelta imprenditoriale di fare business in senso responsabile e che anzi la
stimola.
3. La legittimazione sociale dell’impresa tra la ricerca del profitto e
l’urgenza del valore
Compreso il legame tra CSR e “valore” sistemico, è necessario, a questo punto,
riflettere brevemente, ma in maniera più approfondita, sull’impatto della
responsabilità sociale sulle determinanti del profitto.
Anzitutto, nel sistema d’impresa le prassi socialmente responsabili hanno riflessi
sui dipendenti e riguardano, ad esempio, gli investimenti nel capitale umano e la
gestione delle risorse umane. Ma la responsabilità sociale dev’essere estesa al di là
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del perimetro dell’impresa, integrando la comunità locale e coinvolgendo, oltre ai
lavoratori dipendenti ed agli azionisti, un ampio ventaglio di parti interessate:
partner commerciali e fornitori, clienti, poteri pubblici ed organizzazioni non
governative che rappresentano la comunità locale e l’ambiente. In particolare,
l’ampliamento della compagine degli interlocutori non deve chiudere la strada
all’instaurazione di un dialogo primariamente con le comunità locali, a cui le
imprese, da una parte, recano il loro contributo fornendo posti di lavoro, salari ed
entrate fiscali; dipendendo, dall’altro, non poche delle loro performance dallo stato
di buona salute, dalla stabilità e dalle condizioni di prosperità caratterizzante le
comunità che le accolgono.
A valle di queste riflessioni, volte ad analizzare in breve alcune modalità con cui
è possibile quel compromesso, teorizzato nella prima parte di questo lavoro, tra le
ragioni dell’economia e quelle dell’uomo, si dovrà riconoscere che, a differenza di
quanto generalmente si ritiene, la spesso censurata, ma legittima, ricerca del profitto,
pare non osteggiare, fortemente come si supponeva, non solo i più ovvi e basilari
doveri impostici dalla convivenza ma, ancor più, le più lodevoli richieste della
solidarietà. Il problema, però, raffrontato alla complessità del presente assume altri,
ancor più stimolanti, ambiti di indagine.
Chi, infatti, opponesse a queste argomentazioni un relativismo etico, che molti
non temono di affermare piuttosto diffuso tra gli imprenditori, rivendicando la forza
e l’esclusività della intramontabile logica del profitto, sarebbe legittimato ad
ignorare tutti i numerosi segnali che l’analisi attenta dell’attualità ci invia? La
risposta, a ben vedere, è naturalmente no. Già nel preambolo del presente lavoro lo
si affermava: si tratta di procrastinare le conseguenze di un comportamento
improntato alla mancanza di deontologia, non di evitarlo, perché, magari
nell’assistere alla rovina dei più deboli, piuttosto che scontrarsi con la volatilità di un
patrimonio fondato su operazioni di scarsa trasparenza, il mercato, alla fine, pare
proprio portare in superficie le debolezze di chi ha voluto sfruttarne le leggi a
proprio vantaggio.
Per rendere maggiormente produttivo il lavoro esso non solo deve avere uno
scopo ed essere appagante, nonché favorire la crescita personale; ma deve catturare i
cuori delle persone ed assicurare il loro impegno. A tal fine è necessario definire
l’obiettivo e l’impostazione dell’impresa in funzione di premesse intuitive o
spirituali da trasmettere in modo esauriente.
A comprendere quella che oggi potrebbe essere vantata come una “rivoluzione”
sono giunti, tra i primi, gli studiosi di organizzazione industriale comprendendo che,
avendo ormai le organizzazioni tradizionali ampiamente soddisfatto i primi tre livelli
dei bisogni umani di Maslow (cibo, asilo e appartenenza), debbono ora rivolgersi ad
opportunità molto più straordinarie per conquistare la lealtà e l’impegno dei
lavoratori, e queste sono il rispetto e la realizzazione personale. Solo le aziende che
hanno intuito le potenzialità create dall’investimento sui valori e sulle risorse umane
possono cogliere proficuamente le opportunità offerte da un ambiente economico
sempre più instabile e turbolento, che richiede una inusuale flessibilità ed una
apertura alla diversità che solo un’organizzazione in cui l’uomo, e non il capitale
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UNA RIMEDITAZIONE DEI RAPPORTI TRA PROFITTO E VALORE
infrastrutturale, è il protagonista, può offrire (Cyert & March, 1963). “Leggi” della
coscienza e regolamenti del mercato, imperativi morali (personali e non di kantiana
memoria), insieme alle benefiche logiche del profitto sembrano spingere nella
medesima direzione.
L’economia, pertanto, pare rivendicare l’uomo e la sua socialità (Morgenstern,
1976). E, del resto, non si può neanche negare che il capitalismo abbia notevolmente
contribuito a redimere il profitto, divenendo il sistema che ha, nel corso dei secoli,
saputo moltiplicarlo e distribuirlo con una velocità che prima del suo avvento non si
era mai riscontrata: la ricerca del profitto è oggi diffusamente considerata come la
forza motrice che crea le opportunità economiche e conduce al loro sfruttamento. “Il
motore che muove l’impresa - asserì Keynes - non è la parsimonia, ma il profitto”
(Keynes, 1979). I due aspetti della ricerca del profitto, ovvero il perseguimento del
guadagno ed il ruolo d’incentivo per ottenere efficienza e buoni risultati, possono
essere distinti, e distanti; ma, a partire da La ricchezza delle nazioni di Adam Smith,
gran parte della teoria economica moderna si è preoccupata di dimostrare i nessi
esistenti tra questi due aspetti. Ed il risultato principale che la moderna teoria
dell’equilibrio generale ha prodotto, indicato talora come “il teorema fondamentale
dell’economia del benessere”, è che, date alcune ipotesi (ad esempio l’assenza di
esternalità nella forma di interdipendenze esterne al mercato), gli equilibri
concorrenziali di massimizzazione del profitto corrispondono esattamente al
raggiungimento della “Pareto-efficienza”, quello stato di cose in cui nessun
individuo può migliorare la propria posizione senza che peggiori quella di almeno
un altro individuo. Ma si è già rilevato che l’ottimalità così definita non è poi il
migliore dei risultati conseguibili, visto che è compatibile con molta disuguaglianza
e molta povertà.
Torna allora dibattuta un’altra motivazione, attualissima in epoca di
stravolgimenti finanziari, a difesa della massimizzazione del profitto, che non si
appella ad alcun risultato fondamentale delle teorie economiche, ma richiama la
responsabilità fiduciaria dei dirigenti d’azienda, il loro impegno a massimizzare i
profitti come atto dovuto ai possessori di capitale. È stata avanzata l’argomentazione
stringente che i dirigenti d’impresa sono impegnati a perseguire l’esclusivo interesse
degli azionisti e, in quanto di ciò responsabili, sono vincolati all’obbligo di
massimizzare i profitti. Deviare da tale finalità potrebbe apparire moralmente giusto,
ma secondo questo punto di vista equivarrebbe a disertare le responsabilità morali
del mandato ad amministrare e della tutela degli interessi affidati.
Questo approccio all’etica della finanza e degli affari ha una sua logica rigorosa
e precisa ed offre il notevole vantaggio di non dipendere dalla validità o dalla
rilevanza di un qualche modello particolare elaborato dalla teoria economica. Essa
poggia semplicemente su quella responsabilità diretta di cui la teoria classica
dell’agenzia ha in passato ritenuto fossero investiti i soli dirigenti e gli altri
amministratori, a fare ciò di cui hanno avuto mandato, ferme restando, invece, le
giustissime riflessioni operate da Ghoshal (2005, pp. 75-91) sulle “buone” prassi
VINCENZO MAGGIONI
127
manageriali a dispetto delle “cattive” teorie d’impresa3.
Tuttavia gli errori insiti in questo approccio sono tre, due di natura etica ed un
ultimo, non meno rilevante, di eminente valenza teorico-finanziaria, e non possono
in alcun modo essere ignorati.
Il primo, per quanto attiene la responsabilità dei dirigenti, è quello per cui si
instaura una separazione tra gli azionisti ed i proprietari - da un lato - ed il resto del
mondo, dall’altro. È lecito e realistico chiedersi perché la responsabilità debba
essere fondata su tale specifica separazione. In un’impresa sono in gioco i destini di
molti e diversi gruppi di persone, e tanti sono quelli che affidano un mandato
fiduciario alla direzione d’impresa: tra questi, i lavoratori non meno degli azionisti.
Il fallimento di un’impresa è una tragedia per molti, inclusi i lavoratori, e non solo
per i proprietari del capitale; diversamente, si contribuisce ad alimentare, ed a far
sopravvivere, un modello d’impresa ormai razionalmente superato, che si poggia su
un rapporto conflittuale tra i soggetti che intrinsecamente la costituiscono. E’
sintomatico che, anche nell’attuale evoluzione di strutture di gestione complesse, i
“sistemi di sistemi”, come ha pensato di definirli Golinelli, con sistema di delega ai
manager e parcellizzazione della proprietà, i modelli d’impresa seguitino a
privilegiare la massimizzazione del profitto, soltanto finalizzandolo alla fonte del
capitale di rischio, quasi ignorando la miriade di altri interlocutori che svolgono un
ruolo di primo piano nel funzionamento dell’azienda. Si finisce così per
misconoscere la vera identità dell’impresa, che è un soggetto autonomo la cui
sopravvivenza è un interesse comune di così alto profilo da sanare il tradizionale
rapporto di conflittualità tra capitale e lavoro, nel tentativo di porgere la sensibilità e
lo slancio unitario verso il medesimo obiettivo, come i nuovi elementi di una
realistica etica d’impresa.
Il secondo errore a cui l’opinione dominante si appella per descrivere, con
povertà di mezzi a ben guardare, la realtà d’azienda, è la considerazione
dell’imprenditore come protagonista unico dell’impresa, intento a soprassedere su
ogni principio di ordine morale, all’unico scopo di perseguire la massimizzazione ad
ogni costo del proprio profitto.
Il terzo errore, quello di natura finanziaria, è stato fatto rilevare dalla nota
trattazione di Modigliani e Miller, che ridimensionarono l’importanza del profitto
così come fino ad allora considerato, avvalorando la tesi secondo cui esso sarebbe
piuttosto ambiguo da definire nel processo di valutazione dell’impresa, in quanto
nelle evidenti condizioni di rischio ed incertezza del mercato il profitto sarebbe una
variabile aleatoria, la cui scarsa misurabilità dipenderebbe dalla variabilità delle
conseguenze che una decisione imprenditoriale produrrebbe sui risultati futuri, nel
migliore dei casi rappresentabili tramite una distribuzione di probabilità soggettiva
(Modigliani & Miller, 1958, pp. 261-297).
Questo conferma l’inasprimento, con particolare acutezza negli ultimi decenni,
del contrasto tra le valutazioni etiche e quelle economiche, nascondendo la loro
3
Sull’argomento cfr. anche Ghoshal & Moran, 1996, pp. 13-47; Donaldson, 2002, pp. 96106.
128
UNA RIMEDITAZIONE DEI RAPPORTI TRA PROFITTO E VALORE
effettiva convergenza, celata sotto una soltanto apparente insanabile inconciliabilità,
non solo poco razionale, ma anche scarsamente profittevole per la stessa impresa se
si verificano due fondamentali condizioni.
La prima è che si colga a fondamento dei giudizi economici non un concetto
astratto di profitto, ma una redditività dell’impresa di lungo periodo, che ben si
concilii con la sua sopravvivenza e prosperità economica nel tempo. E a questo
proposito assume un’importanza fondamentale la trattazione di Modigliani e Miller,
che seppero trascendere dall’essenzialità del profitto per introdurre la categoria del
valore del patrimonio dell’impresa, da massimizzare mediante le scelte
imprenditoriali che lo stesso soggetto produttivo compie. L’impresa, pertanto, deve
essere considerata ben oltre la dimensione sincronica, per aprirsi ad
un’interpretazione che la colga come un istituto fatto per durare nel tempo, un bene
non soltanto per la generazione presente, ma anche per quelle che seguiranno.
La seconda condizione ha ad oggetto l’esigenza di favorire una comprensione
approfondita dell’impresa che la riesca a cogliere in tutta la sua complessità:
infatti, soltanto criteri di gestione lungimiranti sono conciliabili con delle categorie
etiche volte a promuovere una funzionalità economica, insieme ad un rapporto con il
fattore umano pienamente condivisibile dal punto di vista morale.
Il ruolo del profitto, pertanto, rimane inequivocabilmente importante, ma non
può essere né assolutizzato e né declassato ad obiettivo di secondaria importanza. Se
l’imprenditore guardasse al profitto come fine in sé stesso, svincolato dalle altre
realtà che costituiscono l’impresa, sarebbe portato a strumentalizzare in vario grado
tutti i rapporti vitali di cui si intesse la vita dell’impresa, a cominciare da quelli
intrattenuti con i clienti e con i dipendenti. Ma se il profitto viene così inteso dal
management, come sommo bene cui ogni altro valore va subordinato, è inevitabile
che si producano atteggiamenti e comportamenti di ricerca di esso che finiscono, a
lungo andare, per logorare la competitività dell’impresa intaccandone il consenso
presso il pubblico con infausti effetti sulla profittabilità. Oggi più che mai l’impresa
che, in nome del profitto, rinunci a sviluppare un orientamento al cliente od a
preoccuparsi di avere un personale ben motivato disposto a mobilitarsi perché
l’impresa vinca il confronto competitivo, è destinata a fallire in un periodo
nemmeno troppo lungo. Il rispetto ed il coinvolgimento della persona, dunque, non
rispondono più soltanto a logiche di condivisione umana, ma anche ad esigenze di
razionalità economica. I fenomeni di assolutizzazione del profitto non coinvolgono
soltanto giovani imprese dal management imprudente, ma anche imprese che hanno
saputo trovare affermazione nel tempo; le cause sono molteplici, legate o ad una
perdita di vitalità ed entusiasmo, fonti dello slancio creativo imprenditoriale da cui si
crea ricchezza, o per un mutamento di leadership, specie ambiziosa
finanziariamente, orientata alla produzione di risultati di breve periodo. Questa
logica poteva funzionare un tempo, le mutate condizioni del mercato non lo
consentono più oggi.
Se, invece di guardare al profitto, ci si rivolgesse alla categoria del valore
dell’impresa, naturalmente essa sarebbe onnicomprensiva e consentirebbe di
superare la diatriba sui differenti conflitti che si instaurano tra profitto ed altri fini
VINCENZO MAGGIONI
129
aziendali. Esemplificando la tipologia di questi dissidi tutti interni alla logica
dell’impresa, e che scarsamente le giovano, è possibile ritenere che se
l’intronizzazione del profitto può essere letale per l’impresa, non lo è da meno il suo
asservimento ad altri scopi, anche lusinghieri o nobili, ma incompatibili con lo
sviluppo di lungo periodo.
Come, ad esempio, l’asservimento alla sola tecnologia. La comprensione
profonda del sistema competitivo e lo sviluppo di una strategia che consenta di
conquistare e conservare una buona posizione sul mercato, facendo leva per
l’appunto sulla superiorità tecnologica di cui si dispone, non preserva in senso
assoluto l’impresa da gestioni inefficienti della dimensione produttiva.
Oppure, altro fattore che può minare lo sviluppo duraturo dell’impresa,
compromesso dalla subordinazione del profitto, è una malintesa ed esclusiva
attenzione alla socialità, quasi che il fine economico-finanziario perseguito
dall’azienda ne fosse del tutto estraneo. La tensione all’economicità non dev’essere
interpretata come aliena da ogni carattere di socialità. I fini sociali, di per sé
lodevolissimi, se vengono visti come gli obiettivi esclusivi dell’impresa, non
considerano che essa è il mezzo idoneo al perseguimento di questi fini nella misura
in cui gli stessi si coniugano con l’economicità all’interno di iniziative
imprenditoriali valide.
L’uso improprio dell’impresa per finalità sociali si può riscontrare anche qualora
siano operanti concezioni del finalismo d’impresa tendenti a stabilire un
collegamento tra scopo di reddito e fini sociali al di fuori di ogni logica
imprenditoriale; magari ritenendo che l’impresa debba indirizzarsi al perseguimento
di finalità sociali, sotto il non meglio definito vincolo di un’economicità spesso
tradita. La soluzione per la corretta gestione di un’impresa, che non voglia essere
asfittica ed incapace a confrontarsi nell’agone competitivo, è, invece, quella di saper
scientemente integrare esigenze sociali e bisogni del mercato, in una visione
imprenditoriale dotata di un’intrinseca validità economica, che è ben lungi dalla
vecchia concezione secondo cui l’“economico” è ineluttabilmente nemico del
“sociale”. Chi crede ancora in questa contrapposizione, da un lato identifica
l’economicità con una solida ed opportunistica ricerca del profitto, di cui si è già
dimostrata la scarsa durabilità; dall’altro ha una malintesa idea della socialità, che
prescinde dal ruolo tipicamente sociale che l’impresa attua, nella sua funzione di
creatrice e dispensatrice di ricchezza.
4. Riflessioni conclusive
Sulla base di quanto detto è possibile tracciare, in conclusione, una proposta
circa il corretto agire imprenditoriale tra valore e profitto che, mediando con
avveduta abilità tra la tentazione di vedere accresciuto il valore stesso dell’impresa
riconosciuto dal mercato e l’ideale di subordinarlo ad altri aspetti, non potrà mai
trascurare che:
- non c’è fine, per quanto nobile, giusto o eticamente orientato, che l’impresa
130
UNA RIMEDITAZIONE DEI RAPPORTI TRA PROFITTO E VALORE
possa permettersi di seguire senza che lo stesso venga coniugato con
l’incremento del valore dell’impresa;
- una economicità di gestione dalle solide basi deve fondarsi sulla competitività
che, oggi più che mai, l’impresa deve considerare interrelata con il consenso
sociale esterno ed interno che riesce a creare, coniugandosi con le finalità
competitive e sociali;
- il reddito di breve periodo non va perseguito compromettendo le fondamenta per
l’azione futura dell’impresa, bensì considerandolo strumento per finanziare gli
investimenti su cui verrà costruito il successo a lungo termine dell’azienda ed il
suo valore attuale sul mercato dei capitali.
In sintesi, l’obiettivo di incrementare il valore degli asset tangibili ed intangibili
dell’impresa sistemica scaturisce da una superiore capacità di interpretare i bisogni
dei propri stakeholder e, di conseguenza, di soddisfarne i desideri, favorendo un
dialogo più fitto con tutti gli interlocutori e garantendo all’impresa una performance
competitiva, favorita anche dall’ambiente caratterizzato da maggior coesione,
motivazione e, quindi, dedizione.
Data così una definizione di metodo circa il corretto operare dell’impresa, sarà
lecito chiedersi quali siano le condizioni essenziali che consentono di perseguire
simultaneamente tutti gli obiettivi preposti, che sono molteplici, senza snaturare il
comune senso di giustizia ed uguaglianza, ma al contempo rifuggire da ipocrite e
demagogiche asserzioni che dimentichino la funzione assegnata dalla società alle
imprese, che è naturalmente quella di produrre beni e servizi destinati a soddisfare i
bisogni degli uomini secondo gli imprescindibili criteri di efficacia ed efficienza. Il
primo criterio serve a rendere conto della effettiva congruenza tra le decisioni
imprenditoriali e le loro dirette conseguenze; il secondo, invece, risponde della
razionalità dell’utilizzo delle risorse, limitate, nel conseguimento degli scopi
produttivi prefissati. Se queste condizioni risponderanno a criteri di efficacia ed
efficienza, riuscendo nel contempo a favorire la promozione dell’uomo in tutte le
sue dimensioni, in consonanza con la crescita globale dei singoli e della comunità,
saranno allora pilastri irrinunciabili su cui erigere un’impresa orientata al
soddisfacimento di fini economici e al contempo rispettosa dell’uomo.
Ed una prima condizione essenziale al funzionamento delle imprese, garante
della sopravvivenza aziendale in condizioni di autonomia, è espressa dall’esigenza
secondo cui le risorse economiche di capitale-risparmio, di lavoro e di altre
condizioni specifiche consumate siano reintegrate in tempo utile dal valore della
produzione. In un’economia di scambio come la nostra ciò significa semplicemente
che la produzione economica è possibile se e solo se il valore di scambio dei
prodotti è maggiore del valore dei fattori impiegati per ottenerli. Se così non fosse,
l’imprenditore produrrebbe in condizioni non economiche erodendo le risorse e, così
facendo, comprometterebbe gravemente la possibilità di poter rinnovare i processi di
produzione che aveva inizialmente avviato. Naturalmente, una parte di quella
differenza tra i due valori, di acquisto e di scambio, sarà strumentale a remunerare
equamente il rischio di impresa sopportato dal soggetto d’azienda. Ma prima di
trarre conclusioni sulla legittimità morale di questa attività alla base di ogni impresa
VINCENZO MAGGIONI
131
sarà utile verificare anche le altre condizioni; è tuttavia già evidente, se non altro per
il carattere di imprescindibilità di questa premessa, che l’esistenza stessa
dell’impresa sarebbe minata dal non soddisfacimento di questa condizione, con gli
indiscutibili e drammatici risvolti sociali che la sua assenza provocherebbe.
Assolvere questa prima condizione di base significa, allora, riuscire a produrre le
risorse per raggiungere anche la seconda, ovvero mettere in pratica la necessaria
tensione competitiva tesa alla ricerca di efficaci combinazioni dei prodotti, dei
mercati nei quali operare e delle tecnologie produttive da utilizzare. Tre componenti
fondamentali in continua evoluzione che l’imprenditore tende a combinare
efficacemente per assicurare alla propria impresa vantaggi differenziali rispetto a
quelli conseguibili presso altre imprese. La ricerca di efficaci combinazioni
prodotto-mercato sarà tanto più perseguita quanto più sarà avanzato lo stadio di
competizione, ed è questo il caso in cui si trovano ad operare le imprese del nostro
tempo, continuamente impegnate a ricercare un adeguato equilibrio tra scopo del
profitto e perseguimento di una favorevole competitività, in termini di qualità,
prezzo ed innovazione del prodotto, senza tradire quei principi di fondo il cui
rispetto non sempre il mercato è disposto ad assumersi monetariamente, qualora
influisca cospicuamente sul prezzo, come il più delle volte accade.
Infine, la terza condizione è anch’essa intimamente legata alle due precedenti, e
pertiene alla capacità dell’unità di produzione di corrispondere ai soggetti interessati
alla gestione aziendale congrue remunerazioni in funzione degli apporti dei fattori di
produzione e di ogni condizione necessaria all’espletamento dell’attività aziendale.
Ogni impresa, infatti, qualunque sia la dimensione o il settore di appartenenza, deve
ordinare la propria gestione in modo da rendere compatibile la produzione
economica alle esigenze di una congrua ed equa distribuzione del valore aggiunto
tra interessi, salari, dividendi ed imposte, attuando, quindi, la divisione della
ricchezza prodotta dai differenti protagonisti del processo gestionale, organizzativo e
produttivo, nella misura in cui ciascuno ha portato in esso il proprio contributo.
Riassumendo, sembra possibile affermare con fermezza che i valori etici dei
comportamenti aziendali vengono esaltati nelle imprese che riescono ad equilibrare,
in un processo di continuo adattamento, l’obiettivo della economicità della gestione,
presupposto e conseguenza di una robusta capacità competitiva resa sempre più
urgente dall’apertura dei mercati globali, con un approccio maggiormente
“ecologico” e responsabile dell’impresa stessa verso i suoi stakeholder e verso
l’ambiente di riferimento.
Giunti a concludere che un’azienda che agisca su un percorso socialmente
legittimante non è un sistema che si aliena dalle comuni norme del mercato, né che
cerca di dare concretezza ad ideali utopici irrealizzabili, bensì è un’entità,
perfettamente integrata nel proprio macroambiente, che reinterpreta le classiche
categorie di efficienza ed efficacia orientandole alla ricerca del valore, è il caso di
valutare come questo riesca a trovare compimento nella realtà pratica.
Anzitutto, è necessario riconoscere che l’efficienza, stimolata da una crescente
competitività, è un principio esecutivo proficuo e non eticamente esecrabile, e va
sempre accompagnato con la garanzia di libertà e del corretto agire di tutti i soggetti
132
UNA RIMEDITAZIONE DEI RAPPORTI TRA PROFITTO E VALORE
coinvolti, che le istituzioni debbono sforzarsi di assicurare alle imprese. Ovvero, lo
Stato - e chi per esso - deve evitare che interferenze arbitrarie, concentrazioni
abusive, scarsi osservatori delle norme di buona condotta economica, possano
impedire il normale funzionamento delle regole della concorrenza e del mercato.
Assicurate, quindi, queste minimali condizioni al teatro d’azione in cui le
imprese operano, è possibile indicare i principi cardine che possono orientare i
sistemi d’impresa, assicurando loro uno sviluppo equo e duraturo, indirizzato dai
seguenti valori fondamentali di comportamento:
- la sopravvivenza, che deve essere intesa quale obiettivo perseguito in ogni istante
da tutti i soggetti operanti nell’impresa al fine di consentire un’evoluzione
darwiniana tra esistenza, selezione ed adattamento nella propria zona di rispetto
sociale;
- l’economicità, che è la condizione che consente al sistema di operare per lungo
tempo e proficuamente4;
- la consonanza degli interessi, che nasce dalla comune scoperta di come
l’impresa non agisca isolatamente, ma “sistemicamente” come membro attivo di
una comunità più vasta in cui essa stessa è inserita, sistema di sistemi, nella
consapevolezza che un rapporto simbiotico con il macroambiente d’appartenenza
contribuirà ad alimentare quella fiducia e collaborazione, indispensabili anche
per il perfezionamento delle performance economiche;
- la globalità, intesa come la capacità di sentirsi partecipe di un nuovo progetto di
coesione e condivisione di una medesima avventura comune, verso la quale
anche i comportamenti delle imprese possono contribuire positivamente o meno
con le proprie esternalità;
- la flessibilità, resa più urgente dalla accelerata mutabilità e complessità che
caratterizza ogni ambito sociale, e che richiede rinnovata e partecipata capacità
di adattamento e rinnovamento anche attraverso alleanze o joint-venture con altri
sistemi esterni o mediante l’implementazione interna di progetti di system
thinking e di business dynamics;
- la trasparenza, cioè la capacità e volontà di comunicare correttamente i risultati
raggiunti e raggiungibili a tutti gli interlocutori, disposti a concedere, e
meritevoli di ricevere, fiducia.
L’impresa, pertanto, non potrà sopravvivere a lungo se non riuscirà ad incastrare
le sue esigenze di sviluppo in un processo evolutivo teso ad incrementare il suo
prestigio e la sua legittimazione sociale; alimentati, sì, dagli accantonamenti di
reddito, ma anche dalla capacità di armonizzarsi proficuamente con gli altri sistemi,
rispettando gli interessi della collettività.
Se tutti gli attori che operano per lo sviluppo dell’impresa meritano un adeguato
riconoscimento per l’azione svolta, che sappia equamente ed eticamente rendere
conto degli sforzi di ciascuno, nell’opportuno rispetto per la loro diversità ed il
4
Se la teoria tradizionale ha visto in essa il perseguimento della massimizzazione del
reddito per i portatori del capitale di rischio, ora è più opportuno riferirsi al valore
aggiunto come la somma di tutta la ricchezza prodotta, equamente distribuita tra tutti gli
operatori dell’impresa, proporzionalmente al contributo apportato da ciascuno.
VINCENZO MAGGIONI
133
differente valore dei loro contributi, un passo fondamentale sarà stabilire un
allargamento della tradizionale base soggettiva di riferimento dell’economicità.
Tuttavia, questo più maturo approccio necessita di una responsabilizzazione che non
tutti sono in grado di accogliere, indotti da un relativismo etico spesso tendente ad
autoassolversi, o ad esimerci da ogni conseguenza negativa del nostro agire.
Pertanto, nel tentativo di scientificazione del governo d’impresa, deve emergere
una nuova idea di sistema che si allontani, almeno in parte, da quella data dalle
teorie economiche tradizionali.
Tale impresa dovrà simultaneamente essere osservata da due differenti
angolazioni. Da un lato, quello dei proprietari/azionisti, e si presenterà come
un’organizzazione strumentale al raggiungimento di un livello di profitto adeguato a
remunerare il rischio d’impresa sopportato dagli investitori. Dall’altro, essa verrà a
caratterizzarsi come l’unità centrale catalizzatrice di interessi (non solo economici)
interni ed esterni e come risolutrice degli eventuali conflitti che dovessero emergere.
L’anello di congiunzione tra queste due visioni, quella prettamente economica e
quella più spiccatamente sociale, forse è possibile rintracciarlo nell’approccio eticocontrattualista che trova la sua realizzazione proprio nell’idea dell’esistenza di una
sorta di “contratto sociale” tra i sistemi operanti in un determinato macroambiente.
Un contratto ancora tutto da scrivere, per l’impresa che verrà.
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