Olimpio_Par salvà `l nosti reis.pmd

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PAR SALVA'
'L NOSTI REIS
PAROLI DAL NOST DIALÊT
MODU 'D DÌ E PRUERBI TRINEIS
PENSÈ 'D LA SERIA, FORA 'D LA REALTÀ
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Olimpio Ferrarotti
PAR SALVA'
'L NOSTI REIS
PAROLI DAL NOST DIALÊT
MODU 'D DÌ E PRUERBI TRINEIS
PENSÈ 'D LA SERIA, FORA 'D LA REALTÀ
grup amis 'd la puisija e dal dialêt
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In copertina: disegno di LUISA AVAGNINA
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PREFAZIONE
I tempi sono cambiati, l'età media
dell'uomo è aumentata, dal tempo
in cui Seneca sentenziava che il
decimo settennio è il tempo giusto
per morire.
Io sono quasi giunto al giro di boa
dell'undicesimo settennio, nonostante le migliori previsioni, penso
che sia giunto il momento di fare
un bilancio di quanto ho realizzato.
Prima di tirare i remi in barca ritengo doveroso fare un ultimo sforzo per completare il lungo cammino che da anni sto percorrendo, intrapreso una ventina d'anni fa, per
salvare le nostre radici, ovvero la
conservazione del dialetto e delle
antiche tradizioni della cultura contadina.
Quanto mi appresto a pubblicare,
non ritengo si possa definire un dizionario, ma una raccolta di vocaboli dialettali, tanti dei quali ormai
in disuso, cancellati e dimenticati
dallo scarso uso del dialetto da parte
delle ultime generazioni, da un consistente numero di proverbi e di
modi di dire che venivano usati dai
nostri antenati, da tradizioni che per
tanti anni hanno regolato la vita dei
nostri avi e dei nostri genitori e che
ora sono definitivamente sparite.
L'opera si può definire artigianale,
i vocaboli non sono elencati in ordine alfabetico, ma sono posti così
come la memoria me li suggeriva,
senza nessuna pretesa, con il solo
scopo di conservare quello che era
il nostro dialetto, che ora si sta sempre più impoverendo, per la tendenza dei giovani a parlare in italiano, a scapito della lingua dei
nostri vecchi.
Penso proprio che il termine «Artigianale» sia il più appropriato, perchè più nessuno oggi si accingerebbe a mettere insieme quello che
io ho raccolto, avendo a disposizione solo penna, carta e... il cervello, nell'era in cui il computer ha
sostituito la mente umana.
A rompere la monotonia dei termini dialettali e dei proverbi troverete inserite alcune poesie, le ultime
della mia produzione, pure in vernacolo trinese, che avranno lo scopo di mitigare una lettura non proprio travolgente.
Non mi aspetto consensi e applausi, spero solo che la mia fatica raggiunga l'obiettivo che mi sono prefisso: «Salvà 'l nosti reis».
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Questo sarà appunto il titolo dell'opera. Quando negli anni a venire
i giovani sentiranno pronunciare
certe parole, che a loro suonano
come di lingue straniere da parte di
persone adulte, e che nessuno saprà più tradurre in italiano, potranno soddisfare la loro curiosità consultando questa modesta opera.
Anche i proverbi, che sono una fetta consistente della cultura contadina, saranno salvati grazie a queste poche pagine.
Non so se tutto questo avrà un valore, se sarà apprezzato. Per me ha
un valore altissimo, perchè questo
è un contributo alla conservazione
della nostra antica lingua.
Certamente, appena qualcuno
esperto di dialetto leggeraà queste
pagine, troverà immediatamente che
dal testo sono assenti una infinità
di vocaboli antichi, numerosi proverbi, tradizioni dimenticate, che io
ho tralasciato di riferire.
Sono cosciente che quest'opera è
parziale e incompleta, sin dall'inizio non ho mai avuto la presunzione di fare qualcosa di perfetto.
Secondo me, quanto raccolto qui
dovrebbe avere un solo scopo: quel-
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lo di stimolare qualcun'altro più
bravo e più giovane di me, dotato
di mezzi e apparecchiature moderne d'avanguardia, ad ampliare e
completare quanto da me iniziato,
che a causa dei miei limiti, sia di
mezzi tecnici, finanziari e culturali, non sono riuscito a portare ad un
maggior livello editoriale.
Se questo avverrà, sarà per me motivo di grande soddisfazione; credetemi, non ho mai pensato per un
solo momento di avere l'esclusiva
in questo campo, nè in nessun altro.
Il mio solo rammarico è di non vedere alcun giovane che si interessi
veramente in questa ricerca, perchè
i custodi di questa cultura spariranno e nessuno avrà raccolto il testimone per proseguire la corsa.
E le nostre radici, a questo punto
cadranno nell'oblio, perchè al mio
arco restano poche frecce e la mira
sta diventando sempre più imperfetta!
Inoltre potrebbe essere il canto del
cigno. Ma non poniamo limiti alla
provvidenza.
Olimpio Ferrarotti
NORME DI LETTURA DI ALCUNE FORME FONETICHE
USATE NELLA TRASCRIZIONE DEL DIALETTO
ê -
«e» semimuta;
ô -
si legge come la «eu» francese di «feu», «peu», «aveu» etc.;
ü -
si legge come la «u» francese di «mur», «pur», «sur» etc.;
j
serve ad indicare quando la «i» ha suono particolarmente prolungato;
-
ñ -
serve ad indicare il suono palatale della «n»;
-c -
la «c» preceduta da trattino, quasi sempre in fine di parola, serve ad
indicarne il suono dolce come in «cielo», «cibo» etc.; la «c» non
preceduta da trattino ha suono duro come in «cubo», «cosa», «casacca» etc.;
s-c - questo gruppo di consonanti separate dal trattino si debbono leggere
dando a ciascuna di esse il loro proprio suono; il gruppo si trova
davanti a vocali dolci («i», «e») per indicare che non devono essere
lette come normalmente si legge il gruppo «sc» in «sciare», «sciabola», «sceicco», «scemo» etc.; davanti a vocali dure («a», «o», «u»)
l'accorgimento non si rende necessario;
s
-
cc
gg â -
la «s» doppia serve ad indicare, anche graficamente, il suono dolce
della consonante; la «s» semplice si legge con suono duro, molte volte
simile alla «z»;
questi gruppi di consonanti in fine di parola (vecc - facc) si leggono
con suono dolce, come quando sono precedute da trattino;
quando la «â» è segnata con l'accento circonflesso è semimuta, come
nelle parole: pân, cân, etc.
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PAROLI
DAL NOST DIALÊT
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A
Ânsula - Ânsuli, gli occhielli che facevano da supporto al manico del
secchio.
Auaron, acquazzone, raffica di pioggia durante il temporale.
Armatich - Udur d’armatich, odore
di muffa, di stantio, odore di chiuso.
Asur, ricami che si facevano alla
biancheria delle spose.
Ânta - Anton, scuri, imposte di legno in un solo pezzo.
Armanach, almanacco, calendario.
Armanacà, spremersi il cervello, cercare una soluzione.
Amula, barattolo di vetro o di terracotta.
Apcaria, macelleria, da Apcà (peccato), siccome mangiare la carne di
venerdì era peccato, macelleria equivaleva al negozio che vendeva il peccato.
Am-sunà, spigolare.
Arciam, richiamo, verso che fanno
gli uccelli quando si chiamano fra di
loro; dicesi richiamo anche l'uccello
ingabbiato che cantando attira i suoi
simili nella rete.
Arbra, pioppo di alto fusto.
Arbron, pioppo capitozzato, cioe tagliato a breve altezza dal suolo, dove
i rami, formano come una grande
chioma.
Amsura, falce messoria, quella che
si usa per mietere il grano e il riso.
Anviarà, avviato, si dice di persona
che s’incammina per una strada o di
negozio che e ben avviato nel commercio.
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Arciüri, risorse, occasioni di guadagno facile.
Ariâñ, rigagnolo, scarico delle acque sporche, in mezzo alle strade,
quando non c’erano le fogne.
Arsegat, segantino, trentino, operaio che veniva dal Trentino a segare a
mano i tronchi per farne tavole, oppure da Morano.
Ara, aia spiazzo di catrame a due
pioventi dove si metteva il riso ad
essicare, oppure, spiazzo in terra battuta dove si stendevano i mattoni
appena sfornati.
Anciùa, acciuga, pesce di mare sotto
sale.
Arêta, aiuola estesa per la lunghezza
del campo.
Ac-nêta, pettine molto fine per eliminare la forfora dal capo.
Ac-nassi, pettinarsi.
Asvers, girato al rovescio, dicesi anche di tessuto scolorito, che ha perso
il colore.
Anravasà, dicesi di uno mai soddisfatto, che quando mangia si ingozza.
Aslìnguari, sentirsi esauriti, sentire
languore.
(S’) Anfrissu, s’infilano, s’intrufolano.
(S’) Asmortu, si spengono
(L’) Aslingua, si liquefa, si scioglie.
(S’) Asvegiu, si svegliano.
(S’) As-ciariss, si schiarisce, si rischiara.
(L’) Arnôva, si rinnova, si rimette a
nuovo.
Arvêia, arzilla, persona con portamento giovanile anche se in età avanzata.
Arvêia, rovo, la pianta delle more.
Anrangulà, roco, avere la voce roca.
Andrumì, addormentato.
Amsè, suocero.
(S’) Artiru, si ritirano, si restringono.
Ansugnaraia, appena sveglia, ancora assonata, carica di sonno.
Am-zürêta, recipiente a forma di mestolo che contiene un quarto di litro,
serviva per misurare il latte.
(S’) Ancàlu, si osano, osare.
Ambarunaj, ammucchiate, cose che
stanno in mucchio.
Asclent, limpido, sereno quando si
riferisce al cielo.
Ancrôs, profondo.
Ansigavu, stuzzicavano.
Ampatulà, infangato, sporco, ma si
dice anche, di uno che si è cacciato
in un pasticcio.
(S’) Arcuru, si ripassano, significa
ripassare i tetti, rimettere a posto le
tegole, ma si dice anche quando uno
le suona ad un altro, “I ‘Arcur i cup”.
Ampnì, si dice di un uccello che sta
rabbuffato, con le piume rigonfie, ma
anche di persona non molto sana.
Asmarinà, disgelato, far sciogliere
il ghiaccio.
Asbruclaia, schiodata, si riferisce ad
una tavola schiodata, ma anche di
persona non molto in ordine.
At-gnoli, geloni, arrossamenti delle
mani e dei piedi provocati dal gelo.
Acsenta, pastone di farina di grano e
acqua per fare il pane.
Arbu, albero di trasmissione.
Ai, aglio.
Arbi, bigoncia, serve per contenere
1’uva durante la vendemmia e per
mettere il maiale morto, irrorarlo di
acqua bollente per liberarlo dalle se-
tole.
Ardì, in salute.
Arnôva, rinnova, rimettere a nuovo.
Arnuà, letteralmente significa rinnovare, ma in trinese significa sfoggiare un vestito o le scarpe nuove e in
genere qualsiasi cosa che si usa per
la prima volta.
Arligriss, rallegro, provoco allegria.
Arvitaroli, ruzzoloni, capriole.
Anvasà, fermare, bloccare l'acqua per
aumentarne il livello.
(S’) Asgreia, si sveste.
Antersà, ridurre il numero delle maglie quando si fa la calza.
Ambutì, imbottito.
Afel, fiele.
Anrangulaia, rauca, avere la voce
roca.
(S’) Asfurvaiava, si sbriciolava, sbriciolare.
(S’) Amborsa, si rovescia, rovesciare.
Arfiarissi, riprendere fiato.
Alsja, bucato come si faceva una
volta con il ranno e la cenere di legno dolce.
Ancrêna, fessura.
Ambasmà, imbalsamato, imbalsamare.
Amplacà, appiccicato, appiccicare,
incollare.
Arpatà, rappezzato, rappezzare, mettere una pezza.
Asbercc, svergolato, svergolo
Arsentà, risciaquare, la biancheria,
le stoviglie.
Ampramuà, imprestare, chiedere un
prestito.
Aspnugià, razzolare, rassettare le
piume.
Anfassinassi, rimboccarsi i vestiti,
le gonne, lo facevano le donne durante la monda del riso.
Arioss, groviglio, si riferisce in particolare alle serpi.
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Ambutjà, imbottigliato, imbottigliare.
Ampatacà, incollato, incollare.
Armagni, restare bloccato, si riferiva ai carri agricoli, quando affondavano nel fango.
Arbütà, spingere, ma anche rispuntare con riferimento all’erba dopo falciata.
Av-giaia, vecchiaia.
(S) Asmangia, si consuma.
Aspantija, si espande, si diffonde.
Andariara, alla fine, per ultimo.
Arbiciucü, arzillo, pieno di vigore.
Arburela, barattolo di vetro.
Angarbià, ingarbugliato, aggrovigliato.
Ancruciunà, accovacciato, accosciato.
Arlichia, reliquia.
Augià, agugliata, il pezzo di filo che
si infila alla cruna dell’ago per cucire.
Antrei, intero, integro, ma anche
uomo tutto d’un pezzo, non molto
intelligente.
Ampevrà, pepato, cosparso di pepe.
Asvartià, rimboccato, si riferisce alle
maniche e ai pantaloni.
Anvirbì, arrossato, eccitato.
Arsulì, esposizione a mezzogiorno,
verso il sole.
Arbest, in pieno sole, contro un
muro.
Arzinà, rifare la scanalatura che trattiene il fondo delle botti e dei mastelli di legno.
Ancausaij, spaventate, fatte fuggire.
Ancausà, rimboccare la terra intorno
agli alberi o intorno alle piante di
granoturco.
Andi, corridoio, corsia.
Argiassà, rifare la lettiera ai bovini.
Asvuincà, guizzare, divincolarsi.
Arpià, erpicare derivato da erpice,
sarchiare.
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Anlascà, impagliare le sedie.
Arsion, grossa sega, per segare i tronchi.
Aruêt, rocchetto.
(S) Anciucu, si ubriacano.
Aliam, letame.
Arcülon, a ritroso, camminare all’indietro.
Anvara, si dice della frutta quando
comincia a maturare.
Armassà, risparmiare, mettere insieme il gruzzolo, una lira alla volta.
Arturnassi, togliersi la soddisfazione di mangiare o di fare una cosa
molto desiderata.
Amnisera, pattumiera.
Ampisulaia, persona che fa il pisolino, la siesta.
Ampuason, raffreddore.
Arcabilesta, arcobaleno.
Andari, andamento, buona vendita,
dicesi un prodotto molto richiesto:
“iè l'andari”.
Arbüt, germoglio che spunta ai piedi di una pianta.
Arfüdà, rifiutare.
Agniot, anatroccolo.
Agriman, regalia - fa n'agriman concedere qualcosa più del previsto.
Apsija, vescica.
Al bô dal lessi baesach, quando pioveva, per non bagnarsi passava, nel
fosso pieno d’acqua.
Aria frienta, aria rigida, spiffero.
Arvitulà, rotolare.
Armuntà, rimontare, rimettere a nuovo con riferimento agli zoccoli di legno, quando il legno della suola era
consumato si rimetteva nuovo.
Ariüs, disastro.
Anciurgnì, assordare, rompere i timpani.
Alvuantè, volentieri.
Amburlà, formare mucchi di covoni
di grano o di riso nel campo in previsione di temporale o pioggia.
Ancaplinà, formare mucchi di fieno
a forma di cappello “caplini”, in caso
di pioggia.
Arsarô, venditore di sale, l'attuale
tabaccaio.
Armissa, la seconda infornata di pane
nel forno scaldato con fascine, quando cominciava a perdere calore.
Arca, madia dove si impastava e si
conservava il pane.
Arbebu, buono a nulla.
Arvoch, nauseato per aver mangiato
troppo o di sentire cose insulse.
Arburela, barattolo di vetro, pesce
d’acqua dolce.
Ancruciunà, accovacciato, accosciato.
Auarô, solco di scolo dei campi e
delle risaie in cui scaricano gli altri
solchi, quelli tracciati nel senso della
lunghezza, “l'auarô” è trasversale.
Avlü, velluto, tessuto usato per foderare poltrone e confezionare tendaggi.
Ambindlà, abbagliare gli occhi.
Armugnach, albicocco, albicocca,
pianta da frutta con i relativi frutti.
Arplì, rifocillato, dicesi di persona
quando ha mangiato a soddisfazione,
dopo lungo digiuno.
Antè, dove: “Antè ca te” “Antè ‘t
va”, dove sei, dove vai.
Almach, soltanto: “Almach ‘na vira”,
soltanto una volta.
Arvidula, convolvolo, erba infestante a portamento rampicante e strisciante, che invade i terreni argillosi
e asciutti; fiorisce piccole campanelle bianche.
Andi, striscia di terreno, dove il contadino opera, lavorando nei campi:
mietitura, falciatura, monda del riso.
Amburgni, accecare, abbagliare, con
la polvere o con raggi di luce molto
forti.
Anz-gnassi, ingegnarsi, cavarsi d’im-
paccio con i proprii mezzi.
Andagnà, bacato, con riferimento
particolare alla frutta che comincia a
deteriorarsi.
Ariundela, malva, erba spontanea, le
cui foglie e fiori hanno proprietà
medicamentose.
Argôi, orgoglio, amor proprio, dignità.
Arciuss, cattivo odore stagnante, di
chiuso, di sostanze che si deteriorano emanando odore sgradevole.
Almân, alemanno, persona di origine anglosassone; si definisce così anche una persona che parla in maniera incomprensibile.
Arsunà, forma di saluto tradizionale
che si rivolge a un conoscente incrociandolo per strada, quale: “Anduma” “At va” “Andei zà”.
Armass, gruzzolo, frutto di risparmio e di privazioni.
Abrè, Ebreo, persona di origine giudea; ma si definisce cosi anche una
persona molto avara.
Ambruclà, inchiodato, inchiodare.
Arduissi, ridursi, essere costretti a
fare cose controvoglia.
Ampicà, impiccato, impiccare, ma
vuole anche dire appendere, attaccare al chiodo.
Angiarà, inghiaiare, spargere la ghiaia.
Antrunà, cataplasma d’argilla, che
si usa per curare i reumatismi ai bovini e agli equini.
Anvuangà, vangare, rivoltare la terra con il badile.
Arnassi, rinascere, rispuntare. Rinascere, quando uno esce da una brutta
situazione o malattia. Rispuntare si
dice di erbacce che muoiono in inverno per rinascere in primavera.
Antamanà, indisposto, accusare sintomi di influenza o di raffreddore,
pur senza mettersi a letto.
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Anderia, andatura, modo particolare
di camminare che contradistingue determinate persone.
Anlardà, pestare il lardo, cioe picchiare sulla schiena dove dovrebbe
esserci un ipotetico lardo.
Arnugià, rinfacciare i piaceri concessi, il bene fatto alle persone a noi
vicine.
Arvei, arzillo, vivace, anche in età
avanzata.
Amprendariss, apprendista, ragazzo
o ragazza che inizia una attività che
ancora non conosce.
Assêla, ascella, l’incavo sotto il braccio.
Anton, apertura che avevano i calzoni dei bambini sul di dietro, una volta, invece di essere abbottonati davanti.
Asij, attrezzi da lavoro in generale,
quelli agricoli, quali badile, tridente,
falce, ecc, in particolare.
Avgiaia, vecchiaia, l'ultima stagione
dell’uomo.
Atmara, tomaia, la parte superiore
della scarpa e della ciabatta, può essere di pelle o di stoffa.
Apcà, peccato.
Anvernì, aratura profonda del terreno, che si pratica in inverno, nei terreni di natura paludosa.
Ancanavà, parlare con voce nasale
causa raffreddore.
Acmari, comare, la levatrice di una
volta, una donna senza laurea, ne titolo di studio, che sfruttando la sua
esperienza, aiutava le donne a partorire nei paesi di campagna.
Acsì, così, fatto in questo modo, si
dice in questa maniera.
Acc, altri; i’acc; l'altre persone.
Avêt, ape, insetto che vive in colonia nell’alveare, va da fiore a fiore a
suggere il miele, che poi deposita
dentro cellette chiamati favi (Sbrês-
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ci).
Arsetari, ricettario, sia il libro che
riporta ricette di cucina, sia il blocco
per le ricette del medico.
Ancarcà, calcare, pressare, si dice
quando una cosa è molto accentuata.
Amnà, menare, condurre, accompagnare, riferendosi sia a menare a passeggio il cane, condurre un carretto o
una carriola, accompagnare una persona in un determinato posto.
Angavasson, ingozzarsi, mangiare in
fretta fino a rimanere ingozzato.
Anvualà, aggiustare, riparare, mettere a posto le cose, rimettere in ordine.
Acmensà, cominciare, iniziare a fare
un lavoro.
Amlon, melone, frutto profumato che
matura in estate, su una pianta con
lunghi tralci, simile alla zucca.
Arionda o Ariossa, la fettuccia che
usavano le donne per “anfasinassi”,
ossia rimboccare i vestiti quando andavano in risaia a mondare.
Ancrusià, incrociare le braccia, intrecciare rami per fare stuoie o ceste.
Antartuà, titubante, imbarazzato, a
svolgere azioni fuori da quelle abitudinarie, di fronte a persone che non
si conoscono, tenere un discorso e le
parole non vengono fuori.
Anquartinà, inchiodare striscie di
cuoio o di gomma sotto agli zoccoli
di legno (Ciabot) e alle zoccole portate dalle donne.
Aiassin, callo o porro, che si sviluppa alle dita dei piedi, e procura dolore a contatto con le scarpe.
Assi, slancio necessario per poter sollevare un peso, per lanciare un sasso,
comunque per compiere un gesto che
richiede libertà di movimento delle
braccia: “Avei l'assi”.
Anslêti, sottobraccio, reggere e accompagnare una persona passando-
gli il braccio sotto 1’ascella.
Arbüton, spintone, dato a una persona per allontanarla con violenza, che
può farla cadere, a una macchina o
carro per metterli in movimento.
Ambastì, imbastito, imbastire, con riferimento all’operazione di cucito che
mette insieme provvisoriamente i
pezzi di un vestito. Si dice anche di
persona malandata di salute, che sta
in piedi a fatica.
Amprendi, apprendere, imparare, la
lezione, un mestiere.
Arfendi, segare i tronchi in steppe,
oppure dividere le steppe in tavole di
minor spessore.
Antrigatôri, individuo che ficca il
naso dappertutto.
Ampalia, pari, sulla stessa linea, della stessa lunghezza.
Andrè, indietro, non stare sulla stessa linea, ma anche persona di scarsa
istruzione e intelligenza.
Aruè, rovaio, cespuglio di rovi.
Arzonzi, aggiungere, ossia mettere altro materiale con quello già esistente,
es. aggiungere acqua nella pentola.
Angurgà, ruttare, quel rumore che si
fa dopo mangiato.
Avghiruma, vedremo, verbo vedere,
futuro semplice.
Arfilà, rifilare, tagliare a filo, ma anche rifilare un bidone.
Argiassà, cambiare la lettiera (giass)
nella stalla.
Andicent, malandato, con riferimento sia a persona che a una cosa.
Arpatassi, mangiare o fare qualcosa
con grande soddisfazione.
Anciuat, venditore ambulante di acciughe salate.
Ambianchì, tinteggiare, il lavoro dell’imbianchino.
Amzüra, misura.
Ancanavà, parlare con voce nasale
come quando si è raffreddati.
Actì, altrochè.
Assè, abbastanza, averne abbastanza.
Ambindlà, abbacinare, accecare, effetto prodotto da un lampo o da luce
troppo vivai.
Avgiaia, vecchiaia, la terza età.
Ariân, rigagnolo, quello che una volta c’era in mezzo alle contrade o nei
cortili dei paesi.
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B
Babaciu, dicesi di figura senza un
profilo preciso, ma anche di una persona che non si stima.
Babi, grossa rana, individuo grasso,
obeso.
Barlaton, stronzo, individuo piccolo
e sformato.
Bumbason, persona di carattere docile e credulone.
Bumbass, rozzo filato di cotone che
veniva usato una volta per fare le
calze e “ia scapin” (vedere alla lettera S) per gli abitanti delle campagne.
Bumbasiña, bambagia con cui si fanno imbottiture.
Balaridon, danza sfrenata collettiva.
Bargamin, bergamino, mandriano, in
origine l'aggettivo è legato all’uomo
che proviene da Bergamo e custodisce le mucche.
Beiar, badile, attrezzo agricolo.
Bucin, vitello figlio della mucca, ma
anche individuo senza molto giudizio.
Biêt, biglietto da visita, d’auguri e di
vario genere.
Buè, bovaro, deriva da bue, colui che
guida i buoi nei lavori dei campi.
Bumpat, a buon mercato, roba da
poco prezzo, di poco valore.
Bartulè, carriolante, 1’uomo che conduce i mattoni con la carriola dentro
la fornace.
Brocla, chiodo a gambo sottile cilindrico per inchiodare il legno.
Baquêru, piccolo agricoltore, coltivatore diretto, con piccoli appezza-
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menti di terreno.
Brûgià, muggire, muggito delle mucche, oppure uno che grida a squarciagola.
Brânda, grappa, distillato di vinaccie.
(La) Brånda, stufa accesa che fa cantare la fiamma.
Bula, concimaia, specie di vasca scavata nella terra o in muratura, dove
macera il letame.
Bula, pozza di acqua stagnante piovana o alluvionale o piccola palude.
Baijêta, lungo ballatoio con ringhiera, tipico delle case popolari.
Bagnêt, salsa verde o di pomodoro.
Barossa, carro agricolo con timone a
cui si aggiocava una coppia di buoi.
Berta, gazza, la tipica gazza ladra.
Brânch, grosso ramo d’albero.
Bindel, nastro.
Binda, fettuccia.
Biut, nudo.
Biuta, nuda.
Binel, gemello.
Binela, gemella.
Barba, zio, ma significa anche amante camuffato da parente.
Burdel, rumore.
Barlêt, recipiente di legno a forma
di piccolo barile che serviva per portare l'acqua in campagna ai lavoranti
agricoli.
Barlatè, colui che portava e andava
a riempire il barlêt poteva essere
uomo o donna e anche un ragazzo.
Brêta, berretto con la visiera.
Barton, grosso berretto di lana o di
pelo che si può calare sulle orecchie
in inverno.
Bôgross, scricciolo, 1’uccellino della neve.
Büla, sottoprodotto del riso, alimento per le oche, da cui deriva il detto
“uchêt pin d’büla” per indicare un
tipo goffo.
Batapaia, giramondo senza voglia di
lavorare.
Burija, metterla tutta per tinire presto di lavorare.
Burija, sgridata.
Büfà, soffiare per noia, per stanchezza o per accendere il fuoco.
Büsêca, trippa.
Brich, collinetta, cocuzzolo.
Bronda, chioma dell’albero.
Bion, tronco dell’albero.
Bragalà, gridare a squarciagola.
Boia, scarafaggio, piccolo coleottero
in genere.
Basseia, mento pronunziato, ma anche una specie di vassoio dove si
mondava il riso o altri cereali.
Bassion, una persona con un mento
enorme.
Buteia, bottega, negozio di commestibili.
Bastin, basto, si pone sulla schiena
del cavallo, serve a reggere le stanghe del carro.
Braga, insieme di cinghie di cuoio
poste sui glutei del cavallo e agganciate con catene alle stanghe del carro, servono per frenare.
Bacu, mezzelune di:legno duro munite di ganci di feno, si applicano
alla collana dei cavallo, si agganciano alle catene delle stanghe del carro
e servono per trainare il carro.
Brilot, mascherina di cinghie di cuoio con paraocchi, con morso di ferro,
si mette sulla testa del cavallo il
morso di ferro in bocca, munito di
un’appendice sempre di cuoio, serve
per condurre il cavallo per mano.
Banaditin, recipiente di vetro e ceramica che era appeso vicino al letto
e conteneva l’acqua benedetta. Era
chiamata così, anche la punta della
calza di lana fatta a mano.
Blaga, vanita, ambizione.
Brancà, manciata, un pugno di roba.
Bissulin, biancospino.
Bissulà, siepe di biancospino.
Baveli, bave, perdere le bave dalla
bocca.
Buracheri, accopiamento di batraci,
le rane in amore che si accoppiano
per la fecondazione.
Bigat, bruco, baco da seta.
Bagnur, innaffiatoio.
Buvrà, abbeverare.
Batocc, battacchio.
Barlicà, leccare.
Brascal, braciere.
Braij, brache, pantaloni.
Braschin, particelle di brace in mezzo alla cenere.
Bavêta, bautta, maschera di carnevale.
Basavêij, cianfrusaglie.
Bunura, presto.
Boti, gemme.
Bubin, rocchetto, filo da cucire.
Bülon, lolla del riso.
Bot, rintocchi di campana che suona
le oze.
Balariñi, ballerine, bianche o gialle,
uccelli dei campi.
Büt, germoglio.
Bütir, burro.
Bamblunà, bighellonare.
Barbüssà, specie di raschietto di ferro con lungo manico di legno, serviva al contadino quando arava per
pulire il vomero dell’aratro.
Barbarot, mento.
Buciunà, rapare i capelli a zero, tosare i cavalli o la lana delle pecore.
Batarel, saliscendi per chiudere la
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porta, era anche un travicello di legno che si legava al collo dei bovini
al pascolo per impedire loro di correre.
Bataià, suonare la campana a battaglio.
Batusu, girovago.
Bêcc, pecora, agnello.
Balanson, bilancia per venditori ambulanti, formata da un piatto con catene, e un’asta graduata sui cui scorre il peso.
Balansin, il trapezio usato dagli acrobati, asta di legno con ganci di ferro
che serviva per aggogare i cavalli
all’aratro.
Bagaiot, ragazzotto, non piu bambino, non ancora uomo.
Baron, mucchio.
But, bolle di sapone.
Buchêt, si chiama così l’apertura che
immette, dal fosso, 1’acqua nella risaia.
Bissula, bussola, edicola di vetro e
legno che serve da antiporta per riparare l’aria; si chiamava così anche
quel contenitore di legno dove si teneva il sale grosso da cucina: “la bissula ‘d la sal”.
Buta, bottiglia, in gergo popolare:
“candeila”.
Bicier, bicchiere in gergo popolare
“lâmpia”, bere una bicchierata: “beivi na 1âmpià”.
Bulià, movimento insistente di insetti in massa che si spostano velocemente: es. “al buliava ‘d vespi” pieno di insetti in movimento.
Bagg, sbadiglio.
Bagià, sbadigliare.
Bugiatà, bucherellato.
Birocc, barroccio, era l'automobile a
cavalli dell'inizio del secolo.
Bissa, biscia, rettile innocuo non velenoso.
Bassila, vassoio per bicchiere e taz-
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ze, bacile molto basso per lavare la
frutta in tavola.
Biciclêta, bottiglietta chiusa da una
sfera di vetro, conteneva la gassosa,
tanti anni fa.
Babuia, affacciarsi, fare capolino.
Bariola, trottola.
Brassabosch, edera, pianta parassita
che vive arrampicandosi sui tronchi
d’albero e sui muri.
Bioca, testa grossa, testa dura.
Burica, giumenta, femmina dell’asino.
Burdel, rumore.
Büta, spranga di ferro che serviva a
sbarrare la porta.
Basu, asta di legno con due tacche o
ganci alle estremità a cui si appendevano due secchi o cesti di uguale peso
per appoggiarlo sulla spalla.
Basu, basto che si applicava sul dorso del mulo o dell’asino per caricarlo
di merce.
Bissacupara, tartaruga acquatica.
Biarava, bietola rossa da insalata.
Bartavel, nassa, rete da pesca che si
tende nei fossi controccorrente, e
dotata di una “coda” in cui i pesci
entrano e non possono più uscire.
Buru, errore, scrivere infiorando il
testo di errori, sgrammaticato.
Bua, rebbio, dente della forchetta o
del tridente.
Bissulot, mortaio di legno dove si
pestava il sale grosso da cucina.
Bêrli, sterco delle capre, pecore e
cavalli.
Burlarô, Zangola, attrezzo usato per
fare il burro, e costituito da un barilotto di legno con un buco nel coperchio, atraverso il quale si introduce
un bastone a forma di stantuffo, il
quale, manovrato dall’alto in basso,
agita la panna contenuta nel barilotto, fino a condensarla e diventare
burro. Altro tipo di zangola, un bari-
lotto che si chiude ermeticamente,
sistemato su due supporti, munito di
un volano e di una manovella per
farlo ruotare in modo da scuotere la
panna e farla condensare.
Barnà, scia, spargere sul terreno sale,
farina o altri materiali, in maniera di
lasciare una “traccia” che segna il
passaggio.
Barnass, paletta di ferro, che serve a
togliere la cenere dal fuoco.
Buacüla, intestino del maiale che si
usa per insaccare i cotechini.
Bânca, banca dove si depositano i
soldi; panca di legno o di ferro per
sedersi, es: quelle dei giardini pubblici.
But, mozzo della ruota del carro; piccolo flacone di vetro.
Bari, stanghe del carro per cavalli e
anche gli stessi carri, quelli per grandi portate, in genere usati dalle riserie.
Bucara, membrana, che i nidiacei
degli uccelli hanno intorno al becco,
fino al raggiungimento dello stato
adulto; croste che si formano agli angoli della bocca delle persone.
Brassà, bracciata, la quantità di legno, paglia o fienog che si può portare tra le braccia.
Bidoia, scaldarsi una mano a un fuoco improvvisato quando fa molto
freddo: “Piani ‘na bidoia”.
Bânda, parte: “Da ‘na bânda”, da una
parte.
Boñamân, mancia, il contentino che
si da ai ragazzi in cambio di un servizio, o agli operai per invogliarli ad
eseguire bene un lavoro.
Badò, onere, peso da sopportare, quale persona noiosa o indisponente.
Bueli, intestini, interiora, budelle per
fare gli insaccati con la carne di maiale.
Baveli, bave, che perdono i bambini
dalla bocca, quando mettono i denti,
o i vecchi quando i denti non li hanno più.
Boita, ventre molto accentuato, ma
anche una piccola bottega artigiana.
Batzà, battezzato, battezzare.
Brons, pentola in bronzo fuso, in cui
si cuocevano i fagioli e la minestra,
quando si accendeva ancora il fuoco
nel caminetto.
Brunsin, pentolino sempre in bronzo, in cui si faceva il caffè.
Barsival, persona molto grassa, obesa, le cui proporzioni sono più estese
in larghezza che in altezza.
Bavlent, perdere le bave, come esempio le rane quando si riproducono o
le lumache.
Biloucia, altalena rudimentale, che
si improvvisava per i ragazzi, legando una fune ad un ramo d’albero o ad
una trave del soffitto.
Barnêta, truogolo di legno o di pietra in cui si dà da mangiare al maiale
e altri animali da cortile.
Bibiciu, piccola rana con solo pelle e
ossa che si cucinava in frittata.
Bigu, capelli femminili raccolti in
treccia e arrotolati alla sommità del
capo.
Bacân, baccano, rumore, ma anche
aggettivo affettuoso per un bambino
troppo vivace.
Büra, inondazione, fiume in piena
con acqua rabbiosa che travolge ogni
cosa sul suo cammino.
Bufin, aiutante muratore, quello che
impasta e porta la calce e i mattoni.
Birò, mobile cassettiera con specchio.
Birô, cavicchio di legno, che si usava al posto dei chiodi nell’assemblaggio dei serramenti.
Burlin, catasta di fascine, o di covoni di grano o di riso da trebbiare.
Brancà, manciata, si misurava il riso
da mettere in pentola, o la farina per
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fare la polenta.
Bütà, mettere, messo.
Bütassi, mettersi, incominciare.
Burla, mucchio formato da sette covoni di grano o di riso, sistemato a
cupola, in vista del temporale.
Bota, capocchia del fiammifero di legno costituita da zolfo e fosforo.
Basà, baciare, baciato.
Bassà, abbassare, abbassato.
Biava, segala, cereale, la cui farina
veniva usata per cataplasmi (Papin),
e beveroni per i bovini, la paglia per
fare stuoie, impagliare sedie, legacci per i covoni di riso e di grano.
Büfon, soffiare forte, con la bocca,
per spegnere una candela, per ravvivare il fuoco, o fare cadere la polvere o scorie che si posano sui piani dei
mobili o sui vestiti.
Beia, costa, verdura che produce foglie munite di un gambo bianco, largo e tenero, che è ottimo cucinato
come contorno e anche come primo
piatto.
Bulon, stagno, grossa pozza, residuo
di alluvioni acqua stagnante di origine sorgiva.
Bongia, apertura del vestito femminile, specie di persone anziane, per
rendere più facile indossarlo, senza
dover alzare le braccia e infilarlo
della testa.
Bruclêti, chiodini, “bati 'l bruclêti”
significa battere i denti dal freddo.
Brasca, brace o brage, legno consumato dal fuoco, il carbone ardente
prima di spegnersi e diventare nero.
Si usava nella “barbeque”. Fornello
di terra cotta su cui si cuocevano i
secondi piatti più delicati.
Barunêt, piccolo mucchio, in genere
era sistemato così. il letame che si
distribuiva in inverno nelle risaie,
detto anche “Soma”.
Baricula, catasta, di sacchi pieni, di
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scatole o di mattoni o altri prodotti
con formato geometrico, di solidi.
Brigna, prugna con riferimento al
frutto, ma anche appella tivo di bambine curiose e ficcanaso.
Bsênt - Bsênta, pesante, aggettivo
ormai quasi totalmente sostituito da:
grev, greva.
Brassalêt, braccialetto, bracciale.
Bulêta, bolletta, quella della luce o
del gas, fallimento, bancarotta. Andare in bolletta, in gergo popolare
vuol dire fallire.
Butala, cisterna, quella che si usa
per lo svuotamento delle fosse settiche.
Buri, aggredire, con riferimento al
cane da guardia che assale l'intruso
abbaiando e tentando di mordere.
Bacilà, vaciIlare, tradotto letteralmente, ma vuole indicare una persona che ha perso parzialmente 1’uso
della ragione e parla a vanvera.
Baiarel, abbaino, altana.
Butunera, asola, lunga fila di bottoni come es: negli abiti talari.
Bunzija, foruncolo, piccolo ascesso.
Bron, piccolo cespuglio, zolla erbosa.
Barussin, conduttore di carri trainati
da buoi o da cavalli che offre le sue
prestazioni a conduttori di piccoli appezzamenti di terreno.
Balânsa, bilancino, la rete quadrangolare sorretta da due aste metalliche flessibili che i pescatori usano
appesa a una grossa canna.
Birocc, barroccio, carretto leggero,
trainato da un cavallo che serve per
trasportare persone.
Baratà, barrattare, scambiare un prodotto con un’altro, cambiare una cosa
con un’altra, es: cambiare la biancheria.
Brüsch, acerbo, con riferimento all’aceto o a frutta non matura.
Bertin, crosta lattea dei neonati.
C
Cà da rat, casa povera senza nessun
conforto.
Cüsela, carrucola su cui scorreva la
fune per sollevare pesi.
Caminânt, vagabondo che girava le
campagne a piedi in cerca di elemosina e a perpetrare piccoli furti.
Caramal, calamaio, contenitore d’inchiostro, ma anche aggettivo dispregiativo sta per ignorante (povri caramal).
Canapia, naso lungo, molto pronunciato.
Ciabot, zoccoli interamente di legno
costruiti a mano dal “ciabutat”, un
tempo molto usati in inverno dai contadini.
Ciuenda, siepe, steccato, costruita da
piante, sempreverdi oppure da fascine di legno o di piante di granoturco.
Cantarâña, strumento musicale (si
fa per dire) che emette un vezso simile a quello delle rane, veniva usato durante la settimana santa, quando
tacevano le campane.
Caplon, grosse nuvole nere cumuliformi che si addensano durante i temporali.
Crion, matita, derivato dal francese.
Coch, tarabuso, piccolo trampoliere
che vive nelle risaie.
Caratè, carrettiere, uomo addetto ai
trasporti con carri trainati da cavalli.
Carêta, carriola, mezzo di trasporto,
usata in particolare dalle lavandaie e
dagli ortolani.
Cribi, setaccio a trama larga per separare la sabbia dalla ghiaia.
Cuntrà, contrada, si dice delle vie di
paese.
Corni, chiamano cosi la sirena della
cementeria, come pure le corna dei
bovini.
Ciapuneisa, arachide, nocciolina.
Cagnulà, spettegolare, fare pettegolezzo.
Ciabrà, criticare, fare la critica.
Cassiña, cascinale, ma anche fienile
dove si ripone il fieno.
Cirighêt, chierichetto, ragazzo che
serve la messa.
Cavagna, cesta di vimini con manico da infilare al braccio.
Ciapinè, maniscalco, uomo che ferra
i cavalli, da ciapin, ferro di cavallo.
Ciapülaia, tritata, dicesi di verdura
tagliata fine.
Ciapülon, mezzaluna, quella che si
usa per tritare carne, lardo, verdura.
Cissà, punzecchiare, termine usato
particolarmente a riguardo dei bovini.
Crêp, screpolato, ma anche sinonimo di caduta rovinosa “Pià ‘ñ crêp”.
Cramaià, leggero strato di neve, brina o ghiaccio.
Crica, nottolino, chiusura per porte
e cancelli.
Cica, mozzicone di sigaro o sigaretta.
Cicà, masticare tabacco, ma anche
inghiottire amaro per delusione o invidia.
Cüña, culla.
Cüñà, cullare, dondolare.
Cadnass, grossa catena.
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Canà, grondaia, ma dicesi anche di
una forte botta “Daij ‘na canà”.
Careia, sedia.
Chiet - Chieta, quieto, tranquillo,
calmo.
Cavêst, catena che tiene i bovini legati alla mangiatoia, ma anche di
bambino vivace “T’è ñ cavêst”.
Chità, smettere di fare una determinata cosa, finire, “chità ‘d piôvi”.
Cagnin, arrabbiato.
Catà, comperare.
Ciciulà, succhiare.
Curt, cortile.
Curbela, recipiente col manico da
tenere al braccio fatto di legno, simile alla “cavagna”, serve ai contadini
per mettere il seme o il concime da
spandere.
Ciresa, ciliegio, ciliegia, si definisce cosi sia la pianta che il frutto.
Cadregat, costruttore e riparatore di
sedie.
Carton, carro agricolo.
Cuion, minchione.
Canon, tubo di scarico della stufa.
Cânva, pianta da fibra tessile. Canapa.
Ciapà, prendere.
Calà, discesa, strada in discesa.
Carvà, carnevale.
Crêpi, screpolature.
Ciardela, chiacchierare molto, avere
voglia di chiacchierare.
Cüncia, sporca.
Cardoca, avere la pelle d’oca.
Canton, angolo.
Cügè, cucchiaio.
Candlot, moccolo di candela, ma si
dice anche dei ghiaccioli che d’inverno pendono dagli alberi e dalle
grondaie.
Calesu, fuliggine.
Cundì, condito, condimento.
Carüfent, spettinato, ma dicesi anche di un cielo sporco di nuvole rade.
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Ciapi, pezze di stoffa, rappezzi, “tacà
‘na ciapa”.
Cassia ‘ñ cana, frutto lassativo tropicale, esotico.
Carpon, frutto o ortaggio diventato
legnoso non più commestibile.
Cichi, mozziconi, di sigaro o sigaretta.
Culaña, collana, quella che si mette
al collo ai cavalli da tiro.
Crocc, tozzo di pane duro.
Curdar, cordaio, colui che fabbrica
funi.
Ciaciara, chiacchiera.
Cota, veste femminile, sottana da
prete.
Coma, crinieza del cavallo.
Custüma, uso, “as custüma”, è di
moda.
Causagna, estremità del campo o della risaia, che viene arato in senso perpendicolare al resto del campo.
Caciasut, tuffo, tuffarsi sott’acqua.
Cundücc, condotto, scarico dell’acqua, piccola fogna.
Cubiêta, corda che si annodava alle
corna dei bovini per condurli in coppia.
Cavalè, parte alta, al centro della risaia, per il lungo dove il riso cresce
più vigoroso.
Curè, corriere.
Carssêt, crescione, insalata selvatica.
Causaron, calze private del piede che
le mondine si infilavano nelle gambe
durante la monda del riso.
Cügiarin, cucchiaino.
Ciula, persona poco furba.
Curm, colmo, arquato.
Curià, dare la piega, rendere malleabile.
Cuia, cotica.
Crapi, fibra grezza della canapa.
Croua, cade, dicesi di frutto maturo
o seme maturo.
Ciciurlin, dicesi di un tipo pacioso,
rotondetto.
Curdin, spago.
Capast, nibbio, rapace diurno.
Ciribibin, cinciarella, uccello della
famiglia dei paridi.
Crava, trippiede di legno, ricavato
dalla biforcazione di un grosso ramo,
serviva a sostenere il mastello per il
bucato (sêbri) oppure a mantenere in
bilico i carri carichi di fieno o di
cereali.
Cupon, specie di scodella di legno
che i bottegai tenevano nel cassetto
del negozio per tenere gli spiccioli.
Capunara, stia per ingrassare i capponi e i polli.
Cureia, cinghia, per pantaloni o per
trasmissione.
Cinciña, vino senza gradazione,
quando si tirava il vino dopo la fermentazione, sulle vinacce si versava
dell’acqua unita a zucchero e acido
citrico e si beveva d’inverno, quando
non si lavorava.
Cracion, crosta formata dall’acqua
nelle risaie in primavera, di origine
fungina, che impedisce al riso di nascere.
Carvâñi, piaghe che si formano sulla pelle delle mani specialmente nelle pieghe delle dita, d’inverno, per il
freddo e per l’umidita.
Capêt, strofa di una canzone.
Cutar, coltello d’acciaio posto sul
fusto dell’aratro (Steiva) davanti al
vomero, serviva a tagliare la terra
dove doveva aprirsi il solco.
Canaula, gancio registrabile a cui si
agganciava la trazione dell’aratro,
serviva a regolare la larghezza del
solco.
Corda, viene cosi definito l'argine
trasversale delle risaie, costruito dove
c’e un dislivello del terreno.
Cavagnin, cestino per la merenda
usato dai bambini che vanno all’asilo.
Curbin, alveare.
Custiñi, costole umane o di animale,
ma viene definita cosi quella verdura
chiamata coste, quando e ancora piccola.
Chela, fidanzata.
Chelu, fidanzato.
Crüssient, rabbuiato, fastidiato.
Cücà, sorbire un uovo fresco.
Canavôi, stelo di canapa privato della
fibra tessile, serviva “par anviarà ‘l
fô”.
Crossa, stampella per gli zoppi.
Crossa, asta con manici su cui si innesta la falce da fieno, quando si deve
falciare.
Cassa, mestolo di rame che si usava
per attingere acqua da bere.
C-lâna, sfaticata, donna perditempo
che trascura le faccende domestiche.
Cavion, capo, principio della matassa, bandolo.
Croch, uncinetto, “piccolo uncino”,
usato per fare maglie e centrini.
Cul, rete con cerchio di legno, si tende nei solchi di scolo, per impedire
ai pesci di scappare.
Carmassa, vocabolo dal significato
dubbio, potrebbe significare carogna
o scavezzacollo.
Cassaveli, borse di pastore, erbe
spontanee che crescono in primavera
nei terreni, dove l’anno precedente
era coltivato il granoturco; i germogli si usano per fare minestra di verdura e frittata verde.
Cravia, attrezzo usato dai Cordari per
guidare i trefoli mentre la ruota attorcigliava la corda.
Cantrêta, ripostiglio segreto situato
nelle cassepanche delle nostre nonne, ove riponevano denaro e gioielli.
Carsà, carreggiata, il solco lasciato
dalle ruote dei carri nel terreno ba-
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gnato.
Caciâña, brutta figura, fare una cosa
di cui doversi vergognare.
Capliña, copricapo di paglia usato dai
contadini e dalle mondine.
Ciapliña, piatta, sottile, “Preia ciapliña”
Cucala, vescica provocata da scottatura.
Crota, cantina.
Capmeist, capomastro, costruttore edile.
Cassülara, schiumarola per schiumare
il brodo.
Cassül, mestolo.
Cugè, erba infestante, con foglie a forma di cucchiaio, cresce nelle risaie.
Cò, capo, bandolo della matassa, ma
anche dove finisce un campo, una
strada, ecc.
Calibriu, equilibrio.
Cavigioli, cavalluccio, stare seduto
sulle spalle di un’altra persona.
Culândri - Culandrin, confetti, quelli da sposa e altri, grandi e piccoli.
Côv, covoni di grano.
Carsân, falce, simile a quella per
mietere il grano, ma piu lunga e con
la sagoma più aperta, senza punta e
con lungo manico, serviva per tagliare il falasco nell’acqua.
Curmaia, festa di chiusura di una
stagione di lavoro, o per la fine di
una costruzione; es: “Curmaia ‘d la
monda”.
Cavija, spina di ferro che serviva per
aggiogare i bovini al carro.
Cavalè, parte centrale della “piâña”
(vedere lettera P) dove il riso era
sempre più alto.
Caciâña, errore, sbaglio, fare una
cosa sbagliata un’azione scorretta,
Cason, caseificio, locale dove si lavorava il latte, si scremava, si faceva
il burro e il formaggio. Era un ambiente fumoso per via del grande camino che scaldava enormi pentole per
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cagliare il latte; umido per 1’acqua
che vi scorreva in abbondanza.
Casè, casaro, addetto al caseificio,
lavorava il latte e con gli scarti allevava maiali.
Cilipati, pere cotte al forno con vino
e zucchezo.
Carnè, carnaio, forca primitiva a cui
si appendeva il maiale morto per essere squartato.
Crutin, sottoscala buio e fresco in
cui si conserva il vino in bottiglia, i
salumi e le derrate alimentari.
Crucânt, croccante con riferimento
al cibo non troppo cotto, tipo il riso
che deve essere cucinato al dente,
oppure le patate fritte piuttosto secche, croccanti.
Cül, fondo della bottiglia o del bicchiere.
Côij, cogliere, raccogliere, i fiori, la
frutta.
Cruaia, caduta, si dice di frutta che
giunta a maturazione cade a terra.
Carià, caricare, caricato, si dice anche di una persona colpita da forte
raffreddore o influenza.
Cân e bariân, riferimento a un ambiente con viavai di persone estranee
di tutte le categorie.
Comu, gabinetto rustico di campagna, senza servizi igienici, costruito
in fondo all’orto con fascine e paglia.
Caussà, calzato, calzare, infilare le
calzature.
Caravâña, carrozzone, la casa ambulante degli zingari e dei saltimbanchi.
Ciaciarada, chiacchierata, cicaleccio
di donne quando si incontrano.
Cust - Custa, questo, questa.
Cul - Cula, quello, quella.
Cuveis, uovo incubato in cui sta sviluppandosi il pulcino.
Curpêt, maglia di lana che si porta
sulla pelle, il gilè che si porta sotto
la giacca, fatto della stessa stoffa.
“T’à ‘ñ bel curpêt”, si dice di uno
che ha coraggio.
Cracia, sporco che si accumula sulla
pelle di chi non si lava.
Caciapaia, denti nella bocca della
trebbiatrice che servono ad espellere
la paglia. In gergo trinese si chiamano così i denti finti applicati dal
dentista.
Curm, apogeo della luna, cioè quando
la luna appare in cielo tutta intera.
Cantarân, canterano, comò con specchio e cassetti.
Curam, cuoio, per suole da scarpe, a
volte si definisce cosi la pelle umana e
quella degli animali. “Onzi ‘1 curam”,
bastonare un’animale o una persona.
Crusiera, crocevia, punto dove le strade si biforcano o si intersecano.
Crivela, poiana, uccello rapace, i poveri definivano così la miseria della
loro vita, i periodi senza lavoro in cui
si faceva la fame.
Citalena, lampada a carburo, usata dai
minatori per scendere nelle miniere, e
dai “ranatè”, pescatori di rane, durante
la caccia notturna ai batraci.
Cüntula, racconto, favola, storia inventata che si narrava ai bambini, durante
le veglie invernali nelle stalle.
Ciularot, fregatura, inghippo, rifilare
un bidone alle persone credulone.
Crüssient, espressione corrucciata di
persona assillata dai crucci, faccia piena di fastidi.
Ciaciariña, bottoniera dei pantaloni,
quella che va dall’inguine alla cintura.
Cutin, gonna, quella che si indossa abbinata ad una maglia, camicetta, oppure sotto la giacca, dalle donne naturalmente.
Cutluzà, vezzeggiare, fare moine. “Ai
pias fassi cutluzà” ama essere coccolato.
Cutüra, terra rivoltata dall’aratro.
Cutürà, arare profondamente.
Cüncià, imbrattare, sporcare.
Ciapeli, cocci, tradotto, letteralmente,
ma in passato i contadini definivano
così anche le stoviglie.
Cücagna, pozzo nero.
Crôbi, coprire, mettere una copertura,
significa anche l'accoppiamento tra animali di sesso opposto a scopo di fecondazione.
Crêpi, crepe, screpolature, dei muri,
della terra del legno, ecc.
Capunà, castrare, si riferisce in particolare all’operazione di castratura dei
galletti, per fare i capponi in uso una
volta nelle campagne, pratica quasi
scomparsa.
Caussiña, calce viva, quella usata una
volta nell’edilizia, che si faceva morire
macerandola nell’acqua, in vasche scavate nella terra.
Cravià, biforcazione, punto d’attacco
di grossi rami di una pianta.
Cardensa, credenza che conteneva le
provviste in cucina.
Curanton, ballo popolare che si ballava tenendosi per mano uomini e donne,
in lunga fila e girando intorno alla balera al suono della musica.
Crià, gridare, urlare.
Crüssi, crucci, fastidi.
Cül bussü, posizione del corpo con le
mani appoggiate a terra, la schiena inarcata, il sedere rivolto in alto.
Côcc, cotto, con riferimento al cibo,
cotto; con riferimento alla terra cotta.
Crucia, chioccia che cova e alleva i
pulcini.
Cimbreia, banchetto con lauto pranzo per festeggiare una ricorrenza.
Cupa, coppa, calotta cranica, parte
superiore dello zoccolo di legno: “La
cupa dal ciabot”.
Cupà, ammazzare, alzare le carte,
tagliare il mazzo di carte.
27
D
Danà, dannato dell’inferno, ma anche una persona senza soldi ne mezzi
di sontentamento.
Daridân, attrezzo rudimentale che
serviva ad avvolgere in matasse, la
canapa o la lana dopo filata.
Ducià, adocchiare, stare a guardare
di nascosto.
Dagñ, danni.
(Al) dagna, perde, fa acqua, dicesi
di recipiente che perde.
Dubion, moneta di rame, del valore
da due soldi.
Darmagi, esclamazione dialettale che
significa “peccato”.
Disnuarda, Dio ce ne guardi.
Digurdì, vispo in gamba.
Dament, significa tanto ascoltare,
quanto ubbidire; “da dament” ascoltare, ubbidire.
Duert, aperto, intelligente.
Drucà, cadere.
Dicia, diceria, proverbio.
Dì a press, il giorno dopo, quello
che deve venire.
Dundoña, dondola.
Durgnà, ammaccato, “dubion durgnà”, dieci centesimi pesti, ammaccati.
Dubiaia, piegata.
Dismentià, dimenticato, dimenticare.
Dariar, ultimo, deformazione del
francese “dernier”.
Daij tedia, dare ascolto, fare conversazione.
Dürà, cosa della lunghezza giusta,
che arriva dove deve arrivare.
28
Dencià, addentare, morso, morsicare.
Dadnân, davanti.
Dôi, maniere, modo di comportarsi.
Distià, sfibrare, staccare la fibra dello stelo (canavôi) della canapa.
Drugânt, giramondo, senza fissa dimora.
Dasiânt, flemmatico, lento, persona
che impiega molto tempo a spostarsi
o a fare un lavoro.
Dôr, lutto, periodo di tempo in cui le
donne si vestivano di nero per la
morte di congiunti.
Doma, vettura coperta a un solo cavallo.
Dusgnon, dolciastro, sapore tendente al dolce, oppure cibo con poco sale.
Distura, quest’ora.
Drumion, larva di maggiolino durante il lungo letargo.
Drumiada, dormita, dormire profondamente.
Duvrà, adoperare, usare.
Derbia, eritema, fioritura della pelle
provocata da impurità del sangue.
Drolu, scherzoso, tipo fatto a modo
suo che non ascolta i consigli degli
altri.
Dadlà, dall’altra parte del muro, nell’altra stanza.
Drôbi, aprire.
Dasi - Dasiot, adagio, adagino.
Drucheis, rudere, casa diroccata che
va in rovina.
Dabon, davvero, sul serio.
E
Erlu, fa l'erlu, ritenersi furbo, fare
il furbo.
Ersu, argine, sopraelevazione del
terreno che si costruiva nelle risaie
per trattenere l'acqua dove c'era dislivello, si dice anche quello dei fiu-
mi.
Erpi sapinè, erpice a denti rigidi per
terreno arato.
Erpi rabadân, erpice snodato per
sarchiare i prati.
Essi, essere (verbo).
29
F
Fagnân, persona lenta a mettersi in
moto, con poca voglia di lavorare.
Fabioc, stupido, privo di amor proprio.
Faciandon, affaccendato, uno che ha
sempre tanto da fare.
Farnigüt, na squadra ‘d farnigüt,
bambini una nidiata di bambini.
Falanana, uno non troppo sveglio,
che si da poco da fare.
Fissü, velo pesante, di pizzo nero,
con cui le donne si coprivano il capo
per andare in chiesa quand’erano in
lutto.
Füs, fuso, attrezzo di legno a forma
di doppio cono con le punte all’esterno, serviva alle donne che filavano
canapa e lino per avvolgervi il filo;
si chiamavano così anche i raggi di
legno delle ruote dei carri.
Fümarin, ficosecco.
Flüria, fessura, riferito in particolare a quelle delle porte e delle finestre.
Furvaia, briciola, una piccola particella di qualsiasi cosa.
Furnasin, fornaciaio, colui che accudisce la fornace.
Fuculânt, fuochista.
Fughent, infuocato; arroventato.
Friciô, dolci campagnoli fatti con farina e uova.
Friciulin, polpette di carne o di verdure.
Furmiè, formicaio.
Filon, spina dorsale, ma anche una
persona che fa la furba.
Fiara, dolce casalingo, fatto con pa-
30
sta del pane, condimento, zucchero e
sapori vari.
Falchêt, nibbio, uccello rapace, si
dice di persona svelta e veloce.
Frustera, forestiera.
Fuatà, frustata.
Frev, febbre.
Fümêt, postumi di sbornia.
Frisson, brividi.
Frucc, chiavistello.
Faciaia, affaccendata.
Früst, consumato.
Fuet, frusta.
Fêti, fette.
Frustè, forestiero.
Fraciüssa, è la parte femmina del cardine, quella fissata al telaio della
porta.
Fudela, grembiule.
Frola, fragola, dicesi anche di una
cosa croccante.
Fôdra, fodera.
Frelia, fodera fatta con tela molto
pesante, consistente, serve a contenere le piume per il letto.
Favent, si dice di un uomo appena
sveglio con gli occhi ancora iinpastati dal sonno.
Falaij, sbagliare, non centrare.
Fava, incrostazione che si forma agli
angoli degli occhi durante il sonno.
Fanà, affannato, convulso.
Fa ‘l rô, stare seduti o in piedi a fare
crocchio, a chiacchierare in gruppo.
Fuin, faina.
Fumarin cun al fnocc, fichi secchi
con semi di finocchio.
Franguj, fringuello.
Furca, forcone di legno a due sole
punte, serviva a rivoltare la biada,
quando si batteva con il “Trêsch”.
Früstâña, fustagno, stoffa ruvida per
vestiti da campagnoli e montanari.
Fiarì, respirare.
Fora di fôij, fuori dalla grazia di Dio,
esasperato.
Fassi cmè i babi, mangiare di gusto,
mangiare fino a scoppiare.
Fümassa, ascesso che viene alla gengiva, alla base di un dente cariato.
Fratass, poteva essere di legno o di
panno ruvido, i muratori lo usavano
per lisciare l'intonaco.
Fursliña, forchetta.
Faramiù, negoziante di rottami di
ferro.
Fardel, corredo della sposa, un certo
numero di capi di biancheria che
portava in dote.
Frossa, fiocina, simile a grande forchetta, serve per infilzare i pesci sui
fondali trasparenti.
Facia - Pià la facia, prendere un lavoro a cottimo.
Furcà, mucchio di paglia o fieno che
s’infila col tridente. Si dice anche
“Trentà”.
Fucol, colletto inamidato della camicia.
Frundon, arraffone, disordinato, senza riguardo.
Fardlin, corredo per neonati.
Fiurêta, fungo che si forma sul vino,
quando e di qualità scadente, es.:
“cinciña”.
Freion, massaggiare, sfregare con
energia.
Frisi, friggere, con olio e burro e la
padella, Sono dette cosi le briciole o
piccole quantità di roba.
Fümiñant, fiammiferi di legno.
Fusunà, abbondare, metterne più del
necessario.
Früst, logoro, consunto, dopo lungo
ed intenso uso.
Fons, funghi in genere.
Fat, cibo con poco sale o completamente senza, che non ha nessun sapore.
Flambò, grande fiammata.
Farabalà, volano a balze che ornava
le f’esti delle nostre nonne.
Fiamenghu, si definisce cosi una persona o un oggetto molto appariscente che fa furore.
Füsêta, lampo, fulmine.
Fa la iola, piagnucolare, caratteristica dei bambini viziati quando vogliono ottenere qualcosa.
Falusch, persona di dubbia serietà,
di cui non ci si può fidare.
Fularià, leggerezza.
Fut, pazienza, sopportazione, “Fa
scapà ‘i fut”, far perdere la pazienza,
arrivare al limite di sopportazione.
Ficiulânt, affittuario, inquilino, locatario.
Fursêla, forcella, bastone tagliato
con alla cima una piccola biforcazione, serviva in particolare, per sorreggere la corda per stendere il bucato.
Fuson, “fa fuson”, materiale che da
impressione di abbondanza, senza che
esista realmente.
Fusunânt, abbondante, abbondare,
concedere senza fare economia.
Ficheta, ficcanaso, persona curiosa
che vuole sempre sapere tutto di tutti.
Facià, affacendato, persona che si da
molto da fare, che ha sempre molto
da fare.
Frà, frate e inferriata, la protezione
in ferro di varia fattura che si applica
alle finestre in difesa dai ladri.
Faciassi, affacendarsi, affrettarsi.
Fidich, fegato umano.
Früstà, logorare, consumare.
Füma, pipa, faccia dai lineamenti non
proprio piacevoli brutta da vedersi.
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Ficc, affitto, pigione, quota che si
paga al proprietario per compenso di
locazione.
Filent, affilato, si dice di un’arma da
taglio, ma anche di una faccia molto
fine, tirata, affilata.
Figarola, raccoglifichi, è un attrezzo
di lamiera a forma conica con la parte più ampia frastagliata, la parte del
vertice è fissata a una lunga pertica,
serve per raccogliere i fichi maturi
32
sull’albero stando a terra.
Furziña, forbice, sia per tagliare la
stoffa, che la lamiera.
Facion, faccendiere, contadino che
svolgeva i lavori di mietitura e raccolta del riso a cottimo.
Fuma, facciamo, verbo fare, indicativo presente.
Fusch, fosco, nebuloso, con riferimento al cielo coperto di foschia.
Fioss - Fiossa, figlioccio, figlioccia.
G
Galarin, nastro colorato che si metteva nei capelli, o annodato alla coda
dei cavalli alla fiera; era chiamato
così anche lo zampillo della fontana.
Garisula, sonzino, grassetto, prodotto commestibile che si ricava dalla
cottura e spremitura del grasso di
maiale appena macellato, ma anche
di un tipo un po' minchione, non tanto furbo.
Gaba, salice.
Gena - Avei gena, vergogna, avere
vergogna.
Gugêti, ferri per fare la maglia e la
calza a mano.
Gambot, settori di cerchio in legno
che formano il bordo esterno della
ruota del carro o carriola.
Giücamara, Dulcamara, pianta rampicante, il cui legno verde veniva succhiato dai ragazzi, perchè lasciava in
bocca un sapore dolce amaro. Fa
mazzetti di fiori bianchi, che, maturano poi bacche rosse che in dialetto
si chiamano “tossi” perchè ritenute
velenose.
Greiassi, vestirsi.
Greiti, vestiti.
Giaiêt, piccole perline di vetro di colori diversi, servono da guarnizione
per gli abiti femminili e frange per
paralumi.
Ghigna, faccia, volto.
Ghignà, ridere, sghignazzare.
Galiota, carrettino con ruote gommate, che i contadini usavano per trasportare il risone sull'aia.
Gamula, tarlo.
Gamulaia, tarlata.
Giassa, ghiaccio.
Gavasson, ingordo, uno che non è
mai sazio.
Gavassi, togliersi, tirarsi indietro.
Gavass, gozzo.
Garmì, bruciacchiato.
Gatignà, solleticare, fare il solletico,
Grûpia, greppia, mangiatoia per bovini.
Girusia, persiana, imposta.
Gianin, piccolo baco, larva di mosca
carnaria.
Gata, bruco verde, larva di farfalla.
Grês, dicesi di prodotto non lavorato, di persona giovane che non conosce ancora bene il mestiere.
Grêm, incrostazione delle botti lasciata dal vino, di pentola e tegami
lasciata da cibi bruciacchiati.
Grusser, ruvido, grossolano.
Gnaulà, miagolare, miagolio.
Gugliard, goloso, dicesi di persona
che mangia solo bocconi prelibati.
Ghignada, risata.
Gabera, lunga fila di salici, normalmente piantati sulle rive dei fossi.
Gelatè, venditore di gelati.
Giass, giaciglio di paglia o foglie per
animali, ma dicesi anche di un luogo
dove c’è uno spesso strato di sudiciume.
Gavadi, dire delle stupidaggini, fare
delle fesserie
Gusson, gocce di sudore.
Grissia, forma di pane; o sorta di
33
giochetto quasi simile alla dama.
Grandunà, tetti che gocciolano direttamente sulla strada senza grondaia nè pluviale.
Gratôn, prurito; uno che ruba, da
grattare, rubare.
Grilêt, grossa scodella di ceramica o
terracotta.
Gratacü, bacca rossa che racchiude
i semi della rosa selvatica. (rôsa eucoña).
Ginoria, cattivo soggetto, persona
cattiva (ginoria grama).
Grinfia, artiglio.
Gaia, ghiandaia, ma anche una testa
bionda “testa gaia”.
Gabâña, capanna.
Ganoia, nocciolo, seme di ciliegia,
prugna, ecc.
Gabulà, studiare per uscire da situazione difficile.
Gabacin, cestino.
Giuch, traliccio di legno situato nel
pollaio, serve da posatoio per i polli.
Ghêdu, cadenza con cui si esprime
in un determinato dialetto.
Garmet, stia di vimini a forma di
ruota per pulcini e polli.
Gembêta, fila di mattoni sovrapposti sulle aie delle fornaci, una volta
essicati al sole.
Gügia, ago per cucire, e quello da
balia.
Giernà, bestemmiare, imprecare.
Guij, specchio di acqua profondo
sotto una cascata.
Grêmula, barra di legno usata dai
panettieri per impastare la cosidetta
pasta dura.
Gabiô, museruola di ferro che si metteva ai bovini per impedire loro di
mangiare.
Gulon, sorsata, mandare giù grosse
sorsate o inghiottire saliva.
Goucc, svergolato.
Gêna, capelli lunghi, folti e spettinati.
34
Gargion, gargarozzo, pomo d’Adamo.
Grupera, sottocoda, laccio robusto
di cuoio, che veniva infilato sotto la
coda del cavallo, serviva a mantenere il basto nella giusta posizione.
Gilardon, gallinella d’acqua.
Gabass, cassone di legno o di ferro
in cui i muratori tenevano il pastone
di calce lavorando sull'impalcatura.
Gargunà, gorgheggiare.
Grüpion, specie di silo situato in un
angolo della stalla dove si teneva il
fieno, che, mediante una botola comunicante con il fienile, vi veniva
introdotto.
Gatarô, foro circolare o semicircolare che si praticava negli usci dei
solai per dare la possibilità ai gatti di
accedere quando sentivano i topi;
oppure in quelli dei pollai, onde permettere ai polli di andare e venire.
Ganassi, mandibole, dell’uomo o degli animali, si chiamano così anche
le due sponde della morsa in cui si
stringono i metalli.
Giücà, vomitare, rimettere il cibo a
causa di cattiva digestione, o per nausea provocata da cause diverse.
Gambulêta, capriola, quella che si
fa sui prati, ma è anche sinonimo di
fallimento, bancarotta: “La facc la
gambulêta”, per significare, andare a
rotoli.
Grutulent, nodoso, ruvido.
Gava, cava, gaicimento di marna,
tufo, marmo e altri materiali, situati
a poca profandità.
Grilêt, grossa scodella di ceramica o
terracotta.
Giuma, diciamo (verbo).
Givu, dicevamo (verbo).
Gulêta, colletto della camicia, una
volta era rigido e si allacciava alla
camicia con un bottone di metallo,
Gura, vimini, rami sottili di robinia
o di salice che privati della corteccia
servono a intrecciare ceste e mobili
da giardino.
Gurin, giunchi, erba palustre che si
usa per legare piante d’ortaggi ai
paletti di sostegno.
Garmeli, semi di zucca, melone, pomodoro, peperone. Di una persona
senza cervello si dice: “T’à la testa
pina ‘d garmeli”.
Giuntà, aggiungere, allungare, ma
vuole anche significare rimettere soldi in affari sballati.
Gumi, gomito del braccio, ma anche
quello del tubo della stufa o della
grondaia.
Gnoch, forma di pasta, persona di
scarsa intelligenza.
Gurêgn, resistente, elastico, pieghevole.
Gnêch, malcotto, indigesto, duro da
masticare.
Grev, pesante, sia nel senso di peso
elevato, o di persona noiosa da sopportare.
Gamalà, sobbarcarsi lavori faticosi
o pesi enormi da portare.
Grivia, tordo bottaccio della famiglia dei turdidi, di taglia simile al
merlo, piumaggio grigio con riflessi
metallici, il maschio e un cantore favoloso.
Garêti, garretti, caviglie, con riferimento agli animali bovini, equini e
ovini.
Gena, riservatezza, timidezza. “Avei
gena”, avere vergogna.
Garon, tallone, tacco.
Gügin, spillo, quello usato dalla sarte per appuntare.
Ghignon, aborrimento, odio. “Pia ‘ñ
ghignon”, odiare.
Gêti, semi di cardone selvatico.
Giva, diceva (verbo).
Gireia, direi (verbo).
Gireiu, diremmo (verbo).
Gavass, gozzo, grande borsa che si
trova nei gallinacei e nei piccioni, in
cui si ferma il cibo appena ingerito
per essere predigerito.
Gussunà, stillante sudore, imperlato
di sudore.
Grêm, incrostazione che si forma all'interno delle botti o delle damigiane dove il vino rimane per un lungo
tempo, oppure quella del tabacco
nella pipa.
Gavà, levare, togliere.
Gavassi, levarsi, togliersi dai piedi.
Giau, diavolo, quello con le corna
da caprone e la coda, della leggenda.
Giargiatuli, bigiotterie, le buone
cose di pessimo gusto del Gozzano.
Grugiu, persona tarda, che non sa
come comportarsi.
Giücheis, vomito, cibo rimesso durante la digestione.
Gardija, fauce, grande bocca che inghiottisce bocconi giganteschi.
Ghera, brocca per l'acqua, di ceramica o ferro smaltato facente parte
del servizio di toeletta che si teneva
una volta in camera, quando ancora
non c'era il bagno.
35
I
Indricc, diritto.
Invers, rovescio.
Inquisu, incudine.
Incast, chiusino per l'acqua costruito lungo i fossi per l'irrigazione.
Inciost, inchiostro.
Iô, ramarro, lucertola verde, oppure
“io ho”.
Insi, innesto, innestare una nuova
gemma sulla pianta selvatica (por-
36
tainnesto).
Iriss, riccio, mammifero insettivoro,
che vive nei campi e nelle risaie.
Ingargnêt, questua che si faceva in
campagna quando si uccideva il maiale.
Iuma, abbiamo (verbo).
Intarlass, intervallo, spazio.
Ist - Ista, quello, quella.
L
Lümaga, lumaca, mollusco commestibile, si dice anche di persona o
mezzo di trasporto che muove lentamente.
Lêsca, falasco, erba palustre che si
usa per impagliare sedie, e fare legacci per i covoni di riso e grano.
Ligam, legaccio di paglia di segala o
di falasco, serviva per legare i covoni di grano o di riso.
Luviaton, tutulo, parte legnosa della
pannocchia di granoturco su cui sono
attaccati i chicchi.
Lughista, l’uomo che sistemava i
mattoni a cuocere nella fornace.
Losna, fulmine.
Lingassia, asola dove si allaccia il
bottone.
Lêsêgn, lucignolo, stoppino, nastro
di cotone che nei lumi a olio o petrolio era immerso nel liquido e alimentava la fiammella.
Lardin, pezzetti di lardo che si rinvenivano nella minestra quando si
usava il lardo pestato come condimento.
Liri, gigli candidi. (ciar cme ‘l liri).
Lüdaria, lontra, animale da pelliccia.
Lurgnêti, occhiali.
Lengua sleiaia, avere la lingua sciolta.
Livrà, finire, finito.
Lecia, cosa o persona che non vale
niente.
Lisa, consunta, usurata, riferita alla
stoffa quando diventa trasparente per
il lungo uso.
Ligera, girovago, uno con poca se-
rietà e poca voglia di lavorare.
Lundas, lunedì.
Lüstar, lucido da scarpe, oggetto lucido.
Liamera, letamaio.
Losi, lastre di pietra dura con cui
lastricavano le strade carraie per impedire alle ruote dei carri di sporfondare.
Lantarnon, lampione a gas o a olio
che in passato illuminava le strade.
Lüm, lume a olio o petrolio usato
per illuminare le case prima dell’avvento dell’elettricità. Era formato da
un serbatoio che conteneva olio o petrolio e da uno stoppino (lüsêgn) immerso nel liquido, che ardeva senza
consumare.
Livartiss, rampicante selvatico i cui
germogli sono ottimi cucinati in frittata.
Lingeria, biancheria che costituiva
il corredo da sposa.
Lingassijn, occhiello della giacca o
della camicetta.
Leisna, lesina, utensile usato dal calzolaio per cucire le suole delle scarpe.
Lignô, trefoli che formano la coda.
Lümassa, limaccia, mollusco infestante, sprovvisto di guscio, che di
notte fa strage di tenere verdure.
Lümaghin, piccoli gasteropodi acquatici, che vivono in acque dolci.
Lâns, erba infestante che cresce nelle risaie prima ancora del riso.
Lacià, latte scremato o siero del latte
che viene usato come alimento per i
37
porcellini.
Lamon, cerchione della ruota del carro, amo per pescare.
Logia, scrofa, la fattrice del maiale.
Fiacca.
Lümion, pesce d’acqua dolce, persona di poche parole, di carattere
schiuso, poco socievole.
Litera, mobile letto, di ferro e di legno.
Laurà, arare, arato, aratura eseguita
con trazione animale.
Lià, legare, legato.
Lambrà, rete metallica a grandi maglie, per recinzione.
Lambarin, labirinto, dedalo di viuzze e vicoli, caratteristico di antichi
paesi.
Lenni, le uova che i pidocchi depositano sui capelli delle persone di cui
sono ospiti.
Lüpon, fasci di fieno che formano la
struttura per tenere insieme un carico di fieno. Significa anche una grossa quantità di materiale.
Lavaia, lavatura di piatti, si usava
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per fare il pastone ai maiali.
Liura, tipo di legaccio usato in agricoltura.
Lümassola, piaga che si forma tra le
dita dei piedi, causata dal sudore che
rende la pelle molto sottile.
Lêch - Pià 'l lêch, gusto, prendere
gusto a fare una cosa o per un determinato cibo.
Lüssera, erba a portamento strisciante che cresce nell’acqua, risaie, o corsi d’acqua.
Largà, liberare, condurre le mucche
al pascolo.
Lacc, latte.
Lecc, letto.
Livrà, finire, terminare, avere finito.
Lavamân, catino di ceramica o ferro
smaltato facente parte del servizio di
toeletta.
Lapà, bere portando l'acqua alla bocca ocn la mano, oppure direttamente
dalla sorgente.
Losi, lastre di granito che si usavano
una volta per lastricare le strade di
transito dei carri.
M
Martel, bosso, legno di lento accrescimento, usato in particolare per
formare siepi nei cimiteri.
Mat, ragazzo.
Mata, ragazza.
Mato-c, ragazzi in genere.
Magistar, maestro.
Magistra, maestra.
Meliassi, pianta di meliga o granoturco.
Mur, muso.
Manufli, specie di guanti di stoffa o
di lana in cui le dita della mano erano radunate tutte assieme all’infuori
del pollice, che aveva un abitacolo
per suo conto, li usavano i contadini
d’inverno per fare la legna.
Murtori, mortorio, si dice con riferimento a un luogo o ambiente molto
triste.
Muri, more, frutti di rovo.
Mandich, povero diavolo, una persona
sola senza compagnia nè affetto.
Misiña, medicina.
Michêta, piccola forma di pane.
Malmuntà, male in arnese, persona
sciatta, disordinata, in cattive condizioni di salute.
Massêli, gaunce.
Maslon, guancia di maiale molto
grasso.
Miula, midollo sia delle ossa che
delle piante.
Mandicà, sgridare, riprendere una
persona che sbaglia.
Michi, pagnotte.
Mapi, foglie che rivestono le pannocchie di granoturco.
Muneida, denari spiccioli.
Matar, non aspettare altro, desiderare tanto di fare una cosa. “Avei matar”.
Murziña, morbida, soffice.
Muntà, salita.
Mincantânt, una volta ogni tanto.
Mussa, spumeggia, dicesi di vino
frizzante.
Mantila, tovaglia.
Marcandà, contrattare, tirare sul
prezzo.
Mapon, volgare di cattivo gusto.
Mors, attrezzo che si mette in bocca
ai cavalli per guidarli.
Magià, macchiato.
Mesdabosch, falegname.
Man ladiña, manolesta.
Muron, gelso da more.
Müda, vestito della festa.
Marià, sposato, sposare.
Malarvus, malefatte, bricconate.
Masnuion, bambinone.
Magatel, ragazzaccio.
Manimân, cosa fatta su due piedi.
Mangialard, girovaghi delle campagne che mangiavano sovente pane e
lardo, che una volta abbondava nelle
cascine.
Marela, matassa.
Miscal, gomitolo.
Much, mortificato, triste.
Maton, scapolo, ma si dice anche di
ragazzo ormai grandicello.
Mon, mattone, laterizio.
Marsogna, marciume.
Mesanôcc, esposizione a nord.
Manduss, noioso, insistente, uno che
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ripete sempre le medesime cose.
Mês-cià, mescolare, fare una miscela.
Mutüron, era l'uomo che portava il
grano o la meliga al mulino a macinare per conto terzi e ne frodava un
piccolo quantitativo. (mutüra).
Miteni, guanti con mezze dita che
usavano le donne quando andavano
in chiesa, per poter immergere la
punta delle dita nell’acquasantiera
senza bagnare i guanti.
Masoca, impugnatura rudimentale di
un bastone da sostegno.
Missiunà, nominare una determinata
cosa o persona.
Mustass, significa mustacchi, ma nel
dialetto antico significava faccia.
Maslar, dente molare.
Murdià, morsicata, tradotto letteralmente, ma in dialetto significa boccone, “na murdià d’ pàñ”, un boccone di pane.
Munadi, fare capricci, fare delle cose
senza senso.
Munzêt, piccolo sgabello di legno
usato dai mandriani per mungere,
aveva un sola gamba.
Manissa, manicotto senza fondo in
cui si infilano le mani per ripararle
dal freddo: da qui il detto: “falu cmè
na manissa”.
Méscula, mattarello, serve per stendere la pasta sfoglia.
Massa, vomero d’aratro intercambile fissato al vomero vero e proprio
chiamato: “Urégia d’la slôria”, è
quello che rivolta la zolla scavata nel
solco (fêta) dalla “massa”.
Malêgn, furbo, astuto.
Matoña, nubile.
Matalota, bavero della gaicca o del
cappotto.
Mascarent, avere la faccia sporca.
Mascogn, sotterfugi, imbrogliare il
prossimo, fare dei pasticci.
Menda, abitudine.
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Mêgna, pelle di coniglio o di gatto
che viene usata come guarnizione per
colletti di indumenti femminili.
Muciot, cicca del sigaro, che quando
non si poteva piu fumare, perchè troppo corta, si masticava, (cicà).
Magniot, mezze maniche, usate una
volta dagli impiegati, ma in particolare dalle mandine, per proteggere le
braccia dalle zanzare e dalle foglie
ruvide del riso.
Moiu, molle, servono a prendere i
carboni ardenti, da ciò il detto: “T’è
bon da ciapà cun al moiu”.
Malavi - Malavia, ammalato, ammalata.
Mognija quacia, santarellina, gatta
morta, donna dall’aria angelica, ma
che sotto nasconde istinti perversi.
Mariana, merenda dei bambini, una
volta, formata da zucchero e un pizzico di caffè, mescolati, in cui si intingeva il pane.
Mulion, capitello, mensola, di pietra
o di laterizio, sostegno di balcone o
di cornicione.
Müla, femmina del mulo, frutto dell’accoppiamento del cavallo con
1’asina.
Müla, salama, insaccato di maiale,
che si ottiene riempiendo l'intestino
del maiale, con carne di testa del
medesimo.
Minca, ogni, una volta, “Minca la
mort di ‘ñ papa”. Ogni morte di papa.
Martin, specie di grossa vespa, che
vive in colonia come le api, nidifica
nel cavo degli alberi e nei terreni argillosi e asciutti.
Martin, ariete, formato da un treppiede di ferro e una carrucola, sulla
quale scorre una fune, alla cui estremità è legato un peso. Serve per piantare pozzi artesiani.
Maquè, magagna, difetto che si cerca di tenere nascosto.
Monzi, mungere, praticare la mungitura a mano, delle mucche e degli
armenti.
Moncc, prodotto della mungitura,
quantità di latte prodotto procapite
alla fine di ogni operazione.
Matar, non aspettare altro, attendere
con ansia un invito o un’occasione di
piacere.
Mari, fondo di caffè, il residuo che
rimane in fondo alla caffettiera.
Mari, madre, con riferimento particolare alle femmine di mammifero o
di uccello.
Mustra, orologio da tasca o da polso.
Meracu, forse, esclamazione di meraviglia, quando si giunge ad ottenre
una cosa che si attende da tempo.
Mesa, mezza, una metà.
Manara, arma da taglio, di forma simile a una scure, era usata dal falegname per sgrossare il legno, quando si lavorava ancora tutto a mano.
Mnimi, mi è venuto.
Mascargnì, maltrattare, usare modi
scorretti sia verbalmente, sia con vie
di fatto.
Mirouda, Marasso, grossa biscia innocua, che vive di preferenza nei terreni incolti e asciutti, nei ruderi di
vecchie costruzioni e nei cimiteri.
Murigiola, gancio a forma di farfalla, di ferro o di legno, usato per tenere chiusi gli infissi delle finestre.
Mütgnon, Mütiña, persona di poche
parole con carattere poco socievole e
antipatico.
Moia, molla, spirale di acciaio che
aziona gli orologi, giocattoli e altri
meccanismi similari.
Mangiua, mangime per polli, maiali,
bovini.
Muià, bagnare, immergere, s’intende intingere biscotti nel latte o nel
vino, o il pane nel sugo.
Moia, molla, spirale di filo o piattina
d’acciaio, tipo quella dell’orologio,
Mamlent, colloso, attaccaticcio, filamentoso, con riferimento a sostanze zuccherine tipo miele, glucosio.
Muleia, mollica, la parte interna della pagnotta di pane, quella che non
viene a contatto col fuoco.
Muscardiña, coleottero che vive in
particolare sulle piante di salice, rivela la sua presenza, grazie a un odore pungente che emana.
Murdì, morsicato, addentato.
Muchêt, erba infestante della risaia
simile a un piccolo giunco, chiamata
anche “purêta”.
Manüsent, manomesso, stropicciato,
consunto dall’uso.
Magnân, stagnino, artigiano ambulante che stagna le pentole.
Mardas, martedì.
Mercu, mercoledì.
Musca, neo ornato di peli, posto sul
labbro o sul mento.
Manatera, mancorrente, corrimano
della scala.
Mas-cion, boccone masticato e non
inghiottito.
Maciavela, accorgimento per realizzare o risolvere determinati lavori o
problemi.
Macola, ha lo stesso significato della voce precedente.
Maravêia, meraviglia, espressione
d’incredulità.
Maravià, meravigliato, incredulo.
Manà, manciata, quantità contenuta
in un pugno
Mei, meglio, la parte migliore.
Magnulin, appendice della falce da
fieno, mediante la quale si innesta la
falce al proprio manico (crossa) che
serve per regolare l'inclinazione della falce.
Mass, mazzo, di fiori, di carte, di
cipollini, ecc.
41
N
Narison, uomo con grosse narici, ma
vuol dire anche ficcanaso, uno che
va a curiosare negli affari degli altri.
Nuânsi, sfumature di colore.
Nasà, annusare, fiutare.
Nata, tappo.
Nason, la parte della serratura infissa nel muro.
Nita, poitiglia fangosa che si deposita nei corsi d’acqua acquitrinosi.
Nêch, mortificato.
Nün, nessuno.
Nissoli, nocciole.
Nissa, piena di lividi.
Narg-lon, spurgo nasale provocato
dal raffreddore, dicesi anche in senso spregiativo nei riguardi di bambini e ragazzi cattivi e maleducati.
Navêta, condotta in muratura per il
42
passaggio dell’acqua di irrigazione
al di sopra di una valletta o di un’altro corso d’acqua.
Nudari, notaio, titolare di ufficio
notarile.
Nigia, nicchia, grotta, anfratto, vano
ricavato nel muro, ricettacolo di statue o immagini sacre.
Noua, nuoto, nuotare.
Nena, zia, la sorella del padre o della madre.
Nôva, notizia, novità, apprendere fatti nuovi, capitati di recente.
Narücc, spurgo nasale.
Nià, nidiata, significa anche annegare.
Nussent, innocente
Nu, nocche delle dita delle mani, significa anche le nodosità degli steli e
dei rami.
O
Orgu, organo, strumento musicale in
dotazione in modo particolare nelle
chiese.
Ostu, oste, gestore di osteria.
Orbu, moneta di nessun valore.
Oncia, unta.
Onsa, oncia, misura e peso per l’oro.
Osia, erba appena falciata che cade
in un mucchio, per la lunghezza del
prato.
Omi, vomitare, nausea.
Ongi, unghie, artigli.
Ôr, orlo, il risvolto che finisce la
stoffa dei vestiti, delle lenzuola, delle tovaglie.
43
P
Punpudogn, melacotogna, frutto profumato di sapore agro ormai quasi
scomparso, che le massaie mettevano tra la biancheria per profumarla.
Pista, riseria, luogo dove si lavora il
riso grezzo per renderlo commestibile.
Pistarô, operaio risiero, quello che
accudisce la riseria.
Puncin, cima, si riferisce alla sommita degli alberi.
Piciô, recipiente panciuto in terracotta con beccuccio in cui si conserva il vino e l’olio.
Pacioc, fango, ma anche pasticcio,
affare imbrogliato, lavoro malfatto.
Peilaghignânt, tipo scherzoso, specie di giullare.
Pürmach, soltanto.
Pruntà, preparare.
Parfuma, affumicato, affumicare.
Puciu, treccia di capelli raccolta alla
sommità della testa.
Pugiô, balcone.
Pivron, peperone.
Preia, pietra, sasso.
Previ, prete, ma in dialetto si chiama
cosi anche quel telaio di legno che si
metteva sotto le coperte del letto, con
dentro un recipiente di terracotta (sciufêta) pieno di brace per scaldare il
letto.
Pansêt, intestino di bovino o suino.
Paciada, mangiata, abbuffata.
Panada, pane cotto nel brodo di carne, era consuetudine farlo mangiare
alle partorienti.
Paiar, pagliaio, grosso covone di pa-
44
glia.
Parpeili, palpebre.
Parô, paiolo.
Patenta, fondo della camicia sporco
all'altezza del sedere.
Paiassa, pagliericcio fatto con le foglie delle pannocchie di granoturco
(mapi).
Pissur, vespasiano.
Pita, chioccia, gallina che ha covato
le uova e poi si porta dietro i pulcini.
Paliva, una piccola quantità.
Pitucà, beccare.
Prusar, aiuola.
Parà 'ñzü mar, inghiottire amaro.
Pavaraña, centocchio, erba spontanea che cresce in primavera, molto
gradita ai pulcini.
Pandin, orecchini.
Pret, mancia che si riceveva alla festa da genitori e parenti.
Pupular, marca di sigarette molto
scadenti.
Papè, carta usata per fare pacchi e
pacchetti (scartocc).
Pursision, processione.
Pentnoria, pettinatrice per signora.
Passa, appassita.
Poli, cardini, la parte fissa, quella
piantata nel muro.
Pichiñ, tacchino.
Pissacân, tarassaco, specie di cicoria, selvatica quella che fa i fiori gialli, si chiamano cosi anche quei funghi non commestibili che crescono
vicini ai letami e nei luoghi umidi.
Pressa, fretta “avei pressa”, avere
fretta.
Panêt, fazzoletto, quello per soffiare
il naso e quello che mettono in testa
le donne.
Piarda, sponda di corso d’acqua normalmente alberata.
Piüma, penna per scrivere.
Piümin, pennino, si infilava nella
penna per scrivere con 1’inchiostro.
Purchêt, maiale.
Parà, condurre le mucche al pascolo
o le pecore.
Parau, era colui che portava i cavalli alla fiera per conto dei negozianti.
Pagni, uguali
Paroli vani, parole inutili, senza senso.
Pouta, fango.
Pan-bêcc, i fiori delle acacie.
Piola, il rubinetto da cui si spilla il
vino delle botti.
Panta, pettinatura liscia con brillantina usata una volta dagli uomini.
Perci, pertiche.
Purtantiña, era 1’antenata del carro
funebre, aveva la forma di arca, dentro si metteva la cassa del morto,
veniva portata a spalla da quattro
uomini.
Poch privu, nessun pericolo.
Portabari, cinghia di cuoio che sosteneva le stanghe del carro appoggiato sul basto ancorato alla schiena
del cavallo.
Pulantin, specie di mestolo di legno,
serviva a mescolare la polenta nel
paiolo.
Papè d’argent, stagnaola, quella che
avvolgeva il cioccolato.
Pandissi, impegni costanti nei riguardi altrui, era usanza che gli affittuari
di terreni avessero degli obblighi nei
riguardi dei proprietari terrieri, appunto i cosidetti “pandissi”.
Pnass dal fur, pennacchi di falasco
(lesca), fissato in cima a una pertica,
che, inumidito serve a togliere la ce-
nere dal pavimento del forno per
pane, scaldato a legna.
Prunin, porcellino d’India, cavia.
Patanin, nidiaceo d’uccello appena
nato, implume.
Purtiot, porticato.
Pân poss, pane raffermo.
Puvraia, povera gente.
Pissêt, pizzo, guarnizione per indumenti femminili intimi e per neonati.
Pustiss, posticcio, provvisiorio.
Plenti, lamentele.
Piânca, passerella di legno sopra un
piccolo corso d’acqua.
Peciu, pettine.
Pasià, calmare, quietare, sia una persona arrabbiata che un animale imbizzarrito.
Pradarô, acquaiolo, uomo che regola l’afflusso dell’acqua nei canali
d’irrigazione.
Pevri, pepe.
Pepartera, scalzo, camminare a piedi scalzi.
Pâmpistin, pane fatto con farina di
riso.
Pâmpulenta, pane fatto can farina di
granoturco.
Picùla, gamba del tavolo e della sedia.
Picula, razione di merluzzo o di carne che si mangiava all’osteria, per
poter bere in compagnia.
Pitu, tacchino, ma si definisce così
un tipo impacciato, che è di peso alla
comunità.
Parà, pulitura del riso steso sull’aia
a seccare mediante una scopa di erica lunga e sottile, passata leggermente sulla superficie a raccogliere le
scorie leggere.
Paluch, palo di legno, della luce o
del telefono.
Plota, cuscinetto di panno o velluto,
ricamato, ripieno di lana, le nostre
nonne vi appuntavano aghi e spilli.
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Puija, callo che si forma sulla punta
della lingua dei polli, impedendo loro
di mangiare; le nostre nonne la estirpavano con le unghie e poi la facevano ingoiare al paziente, perchè dicevano, solo così non si sarebbe più
riformata.
Pistin, risino, scarto della lavorazione del riso; si dice di giovanotto che
cura 1’eleganza in modo particolare.
Paiola, minestra che comincia a raffreddare diventando più densa, con
una specie di panna in superficie:
“L’e ‘ñ paiola”.
Piâña, terreno compreso tra un solco
e 1’altro, nella risaia.
Picapreij, spaccapietre, mestiere
scomparso con l'avvento dei frantoi
per frantumare le pietre; producevano ghiaia spezzata per le strade di
campagna.
Pissà, urinare.
Piasus, piacente, simpatico, bello da
vedere.
Pioti, zampe di gallinaceo e di uccello.
Passada, suono di campane che annuncia la morte o accompagna il funerale di una persona.
Pissigà, pizzicare, stuzzicare.
Pavalin, persona dal portamento sofisticato, che veste con ricercatezza.
Papin, cataplasma, confezionato con
farina di semi di lino o con crusca, si
applica a caldo sulle parti doloranti,
per curare foruncoli o affezioni polmonari.
Para, paio, di calze, di scarpe, e tutte quelle cose che si usano a coppie
Pissarot, zampillo, quelle fontanelle
che sgorgano in continuazione nelle
piazze e nei giardini di città.
Patêrli, pantofole, ciabatte leggere
che si usano in casa al posto delle
scarpe.
Pianela, piastrella, elemento che
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compone il pavimento.
Plüch, peli, quelli che spuntano in
determinati punti del corpo umano.
Porti, paratie, quelle usate per regolare l'afflusso delle acque dei canali
d’irrigazione.
Pecc, mammelle delle mucche, delle
pecore, delle capre.
Peiar, pero, pera, si definisce così,
sia la pianta che il frutto.
Pichin, spiccioli, monetine di poco
valore.
Pandin, orecchini, ornamenti femminili, che le dome portano appesi ai
lobi delle orecchie, mediante un gancio infilato in un forellino, che viene
praticato in giovane età.
Piliot, pilastrino, in genere porta un
zampillo d’acqua.
Pêss, pesce.
Psin, pesciolini, avannotti, che popolano a frotte le acque chiare dei
torrenti.
Pari, padre, in gergo popolare.
Poncc, punti, sia quelli che si danno
con l'ago, sia quelli che determinano
una graduatoria.
Paiarot, cane bastardo, con assenza
di qualsiasi genealogia, si dice anche
di persona di scarse capacità.
Parfüm, suffumigi, per curare il raffreddore, mediante zucchero, camomilla o altri aromi, bruciati sulla brace e relativo fumo aspirato dal paziente.
Panà, impanato, impanare, cazne o
verdure bagnate nell'uovo e poi passate nella farina o pan grattato.
Parêcc, così.
Passunà, staccionata, formata da pali
di legno infissi nel terreno.
Passon, palo di legno che forma la
staccionata.
Piôcc, pidocchi, quelli classici che
vivono addosso agli esseri umani, ma
si definiscono così anche gli afidi che
infestano le verdure e le piante.
Pucêcra, terreno fangoso, melma, caratteristica di una palude.
Pela, padella di rame in uso nei tempi andati in cui si friggeva e si cucinava la “panissa”.
Panissa, riso e fagioli, cucinato
asciutto nella padella appunto, piatto
tipico piemontese: soffritto con lardo e cipolla, salame casalingo trito,
conserva. Quando prende colore si
versa il riso, si rimescola col soffritto. A parte abbiamo cotto i fagioli in
acqua e sale. Da questo momento si
comincia ad aggiungere, un mescolo
alla volta, rimestando col cucchiaio
di legno fino a cottura al dente del riso, che dovrà risultare compatto.
Plenta, noioso, persona molto pesante da sopportare, che ripete sempre
le stesse cose e cerca ogni occasione
per polemizzare.
Pagn, uguale, preciso all’altro.
Plagi, epidermide della faccia e del
collo. “Avei in bel plagi”, avere la
pelle morbida e vellutata.
Patiña, tomaia delle zoccole da donna, può essere di tela, di velluto o di
pelle.
Paciara, rimpatriata, abbuffata, per
festeggiare qualche ricorrenza.
Prè, sacco digerente dei gallinacei.
Panzin, piumino, sottopiuma delle
oche, costituito da piumette, praticamente prive di calamo, servono per
fare morbidi cuscini e copripiedi da
notte.
Pulot, girovago che sbarca il lunario
girando con un carrozzone trainato
da un cavallo, da un paese all’altro,
questuando e rubando.
Papêta, impasto di farina di segala
con acqua, oppure con chiara d’uovo, molto diluito, veniva usato come
colla per affiggere manifesti e in legatoria.
Persi, pesco, pesca, si definisce così
tanto l'albero che i frutti.
Patanà, pietanza costituita da fagioli prima lessati e poi schiacciati con
la forchetta.
Pulaia, animali da cortile in genere.
Paton, straccio ruvido che si usava
per lavare le pentole e i piatti.
Paleña, patina di saliva secca che si
forma in bocca e sulle labbra quando
fa molto caldo e si soffre la sete lavorando al sole.
Pess, peggio.
Pilsin, i due angoli del fondo del sacco, dove si afferra per sollevarlo e
metterlo in spalla.
Purtigal, arancio.
Picà, colpo di piccone, operazione di
cucitura con la macchina da cucire.
Pissaron, grande cuscino di piume
che serviva da materasso nelle culle
dei neonati.
Pissarel, cuscino di piume in cui si
avvolgeva il neonato per tenerlo in
braccio.
Plarela, malattia della pelle che colpiva le gambe delle mondine.
Parplà, movimento delle palpebre accellerato o tich nervoso.
Pasi, calmo, tranquillo.
Pasià, calmare, tranquillizzare.
Piatlera, rastrelliera di legno appeso
al muro dove si infilavano i piatti
lavati ad asciugare.
Poncia, punta, cima dell'albero d'alto fusto.
Peisa, bilancia con due piatti da tenere sul banco.
Puijn, puledrino, cavallino appena
nato.
Puleru, puledro, il cavallo non ancora domato.
47
Q
Quaciarà, stare sdraiato in posizione scomposta.
Quaciaron, individuo che passa il
tempo straiato.
Quefa, velo di pizzo leggero che le
donne portavano quando andavano a
messa.
Quaiast, cadevano, pesce d'acqua
dolce.
Quagià, si dice di grasso coagulato o
di latte scremato cagliato.
Quartiñi, strisce di cuoio che si inchiodavano sotto gli zoccoli per non
consumare il legno.
Quatassi, coricarsi.
Quataia, coricata.
Qu, cote, pietra abrasiva che serve
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ad affilare la falce.
Què, contenitore di legno o di metallo che i falciatori portavano alla cintola quando falciavano il prato, vi
riponevano la cote con dentro un poco d’acqua per tenerla umida.
Quacc, vesciche che si formano ai
piedi per le scarpe strette, alle mani
compiendo lavori inusitati.
Quarè, grosso ago ricurvo con grande cruna (al cul 'd la gügia) che veniva usato per cucire i sacchi di iuta.
Quarpiè, copripiedi, grosso cuscino
di piume o di lana che si tiene sul
letto dalla parte dei piedi in inverno.
Quagià, cagliare, condensare, prendere densità e consistenza.
R
Rampià, arrampicarsi.
Rastel, rastrello, attrezzo agricolo di
legno per rastrellare il fieno nei prati,
di ferro per sarchiare l'orto.
Rastel, cancello di ferro oppure di legno.
Ruca, rocca, conocchia, attrezzo fatto
di canna su cui si avvolgeva la canapa
da filare.
Rânsa, falce da fieno.
Rânss, acido, forte, si dice di commestibili andati a male.
Rigrêt, rimpianto.
Reid, rigido.
Rêpia, ruga.
Rüpient, rugoso.
Rubatà, gironzolare.
Ramiña, pentola di rame.
Ressia, sega, ma si denomina così la
fila di salami legati insieme con lo spago.
Ressiüra, segatura.
Ruêta, vicolo, strada stretta.
Risigà, arrischiare.
Rabaià, raccogliere.
Rümenta, cianfrusaglie.
Ruià, rimescolare.
Rüsnent, arrugginito, si dice anche di
uno sporco, che si lava poco.
Rêsca, lisca di pesce, ma anche la pula
del grano, cioè l'involucro leggero che
racchiude i chicchi del grano.
Reis, radici.
Rigulissia, liquirizia di legno oppure
quella nera.
Rugassion, rogazione, funzioni propiziatorie per la campagna.
Rimuliva, ramo d’ulivo, quello della
domenica delle palme.
Raschi, grappoli d’uva, fiori d’acacia
o glicine.
Rabaieis, raccogliticcio, mettere insieme degli avanzi.
Rês-cia, ruvida.
Ras-cia, striglia, attrezzo che si usa per
pulire il pelo delle mucche e dei cavalli.
Rastlà, cancellata, ma significa anche
rastrellare il fieno.
Rioss, groviglio di corda o di serpi in
primavera.
Rissima, odio, risentimento verso persone che ci hanno recato offesa.
Raspà, grattuggiare il formaggio.
Rifront, paragone.
Ragia, attrezzo agricolo formato da
una tavola di legno con due ganci
alle estremità per attaccarvi i tiranti
un manico perpendicolare al centro
come una T capovolta, serviva per
ammuc- chiare e allargare il riso sulle aie. Era trainata da un animale da
tiro oppure a mano.
Rubat, rullo compressore.
Riorda, fieno del secondo taglio.
Rubia, frutta matura di colore rosso.
Rissent, frizzante.
Rissà, arricciare, intonacare.
Risà, spostare.
Rudlin, attrezzo con rotellina per tagliare la pasta sfoglia.
Rista, fibra tessile della canapa.
Rusià, rosicchiare.
Rüsià, litigare.
Rusa, roggia.
Rusà, rugiada.
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Rechia, momento di pausa, di riposo,
di tranquillità.
Racula, protesta, cercare cavilli.
Rimprocc, rimprovero.
Rânda, raso, pieno fino all'orlo.
Randin, rotondino di legno che serviva per rasare, (randà) i cereali contenuti nella “miña”, unità di misura usata
una volta.
Rissadüra, intonaco di calce.
Riundela, malva, erba spontanea con
proprietà curative e medicamentose.
Rumatich, reumatismi, male alle ossa.
Raspulent, ruvido, riferito a tessuto o
all’intonaco del muro non lisciato, o
alla pelle delle mani screpolate.
Ranzai, sperie di coltello, costruito con
una punta di falce fienaia, con manico
di legno. Serviva a tagliare i legacci
(ligam) dei covoni di grano e di riso
per poter essere infilati nella trebbiatrice.
Rümà, grufalare, razzolare nel brado,
proprio dei maiali e delle talpe; era
anche sinonimo di vangare la terra.
Raminêta, contenitore con manico e
coperchio, serviva per andare a comperare il latte e portare la minestra in
campagna.
Rass, unità di misura, usata una volta
dai venditori di tessuti. Equivaleva a
centimetri 60.
Rusion, torsolo, la parte centrale della
mela e della pera dove sono alloggiati
i semi.
Rüfent, arruffato, con riferimento al
gatto o altro animale provvisto di pelliccia.
Rapulà, spigolare, raccogliere quà e
là.
Rangià, riparare, aggiustare, rappezzare.
Rapà, quel senso fastidioso che da la
frutta acerba guando si mastica.
Rümià, ruminare, l'operazione che
compiono i bovini per digerire.
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Ruieri, guazzabuglio, gazzarra.
Rin, maialino, ultimo nato di una nidiata, quasi sempre rachitico.
Rancà, estirpare, strappare piante erbacee con tutta la radice.
Rüscà, lavorare, faticare.
Racagnà, vocabolo a doppio senso,
vuol dire tanto protestare quanto rimediare.
Rablà, trascinare, ma si dice anche di
una sgridata, “dai 'na rablà”.
Rapi, vinacee, grappoli, l'uva dopo aver
spremuto il vino.
Ramass, tutori, paletti di sostegno, si
usano per fare arrampicare i fagioli e
sostenere i pomodori.
Rasparola, erba infestante dalle foglie
ruvide e taglienti, che sfregando sulle
braccia nude o sulle gambe provoca
ferite.
Ribulin, attacchi di mal di pancia, che
si ripetono con intensa frequenza.
Rüsia, lite, contesa.
Rubia, colorazione rossastra, che assumono certi frutti maturando e certe
foglie in autunno.
Rânf, formicolio che si riscontra alle
estremità degli arti quando si rimane
per lungo tempo in posizione scomoda.
Ramuà, trapiantare da vivaio a dimora
piccole piante.
Rô, crocchio, capannello, quello classico che fanno le donne nei quartieri
popolari nelle sere d’estate.
Russasu, morbillo, una tipica malattia
dell’infanzia.
Ridò, tendine; quelle corte delle finestre.
Riva, vicino, a breve distanza.
Râna bota, girino, la rana nella prima
fase di vita.
Ritela, cavillo, grana, quelle tipiche dei
piantagrane.
Ritir, casa di riposo per anziani.
Runcà, dissodare, fare lo scasso profondo del terreno.
S
Scapin, parte inferiore della calza
dove appoggiava il piede.
Scagn, sedile completamente in legno con schienale, lavorato e sedile
di forma pentagonale o esagonale che
appoggiava su tre gambe, si usava
particolarmente nelle stalle; in italiano, scranno.
Scaraboc, firma illeggibile, macchia
d’inchiostro.
Sgreiassi, svestirsi.
Sgreiti, svetiti.
Spissiarija, farmacia o negozio che
vende le spezie.
Spissiari, farmacista o commesso di
drogheria.
S-ciavendè, schiavendaio, da schiavensa, salario degli schiavi, salariato
fisso delle aziende agricole, che conduceva i cavalli nei lavori dei campi.
Socli, calzature femminili e anche
maschili; quelle femminili erano formate da una suola di legno e da una
tomaia di velluto o di pelle, quelle
maschili erano più robuste, avevano
un rinforzo di cuoio sulla punta e sul
collo del piede, entrambe erano aperte
dietro.
Suclon, scarpe con suola di legno e
la punta rinforzata di latta, erano
portati specialmente dai ragazzi.
Sparlüsin, lustrini, si usano per abiti
da sera, da ballo, costumi per teatro.
Sôli, levigato, riferito a una superficie liscia.
Sôli, si definisce un pavimento in battuto di cemento.
Sêpa, ceppo, s’intende la parte sot-
terranea della pianta, il blocco formato dalle radici.
Strugnà, si definisce una particolare
situazione fisica che può essere noia,
non aver digerito bene, residuo di una
sbornia o aver dormito male la notte.
Scartari, quaderno.
Sgorgia, airone, trampoliere che sosta d’estate nelle risaie.
Scanapêss, varietà di piccolo gabbiano che una volta nidificava nelle
risaie in primavera.
Strossa, giavone, erba infestante che
cresce in mezzo al riso.
Spalmassi, erba palustre usata per
fare stuoie, in autunno mette delle
infioriscenze cilindriche decorative.
Strüsà, strascicare, trascinare.
Sbanfon, fiatone, respiro pesante.
Spion, pizzico, “'na spion d’sal”, un
pizzico di sale.
Spiunà, pizzicare, dare pizzicotti.
Suasì, soddisfatto, mangiare e bere a
soddisfazione.
Suav, persuaso, convinto.
Sbofa, scoppia.
Sbufà, scoppiare, mangiare troppo
fino a scoppiare.
Sücara, grillo talpa, coleottero con
robuste mandibole che scava gallerie
e mangia le radici agli ortaggi.
Slessa, specie di grossa slitta che serve a trasportare tronchi d’albero e
letame nei terreni fangosi; da qui il
detto: “te cmè na slessa”, quando uno
è sporco di fango.
Sber-c, svergolo, squadrato.
Siass, setaccio per la farina.
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Slôria, aratro.
Sbrês-ci, favo delle api, nido di vespe.
Sagrinà, disperato, afflitto.
Stissa, goccia, “beivni ‘na stissa”,
berne un goccio.
Sbaruà, spaventato.
Sausissa, salciccia, cotechino.
Sacrist, sagrestano.
Saraca, aringa affumicata.
Slüra, solaio.
Scariassa, averla, uccello migratore,
minore, capirossa grigia, maggiore.
Specià, aspettare, specchiare.
Slà, gelato.
Sparlà, schiarita, quando il sole si
affaccia tra le nubi.
S-ciass, fitto.
Scagn ad fen, il fieno pressato nel
fienile.
Stupà, tappare.
Surzent, sorgente.
Scusa, nascosta.
Sêsta, cesta.
Strêcia, stretta.
Sêbri, mastello di legno, per fare il
bucato.
Sibrar, colui che costruiva e riparava i mastelli.
Sgarslin, cardellino.
Sürbi, assorbire, succhiare.
Seraia, sponda, mobile posteriore di
un tipo di carro agricolo.
Slavà, sporco.
Sgüiarola, scivolata, sdrucciolata.
Soli, suole.
Socul, zoccolo, unghia del cavallo.
Splà, sbucciato.
S-ciancà, strappato, strappare.
Sigion, piccolo mastello di legno con
manico di ferro.
Slinguà, liquefare.
Sgnarà, quando un nidiaceo d’uccello abbandona il nido per la prima
volta.
Sghni, nitrire, nitrito del cava1lo.
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S-ciupliva, scoppiettava.
Süch, ceppo.
Soma d’ai, pane sfregato con aglio e
cosparso di sale.
Supaton, scossoni, con riferimento
particolare a strade dissestate, piene
di buche e carreggiate.
Sagrin, cruccio.
Stubion, spuntoni delle piante di riso
e di grano dopo la mietitura.
Slutà, operazione di spianamento che
si effettuava nelle risaie appena messo l'acqua prima della semina. Veniva fatta mediante una tavola di legno
munita di spuntoni di ferro trainato
da cavalli il cui conduttore stava in
bilico sulla tavola per accentuare la
pressione. Nelle aziende di piccola
entità era fatta da uomini e donne
muniti di badili e zappe.
Sbriva, rincorsa per superare un ostacolo.
Scapüssà, inciampare.
Scapüsson, sbattere con i piedi contro un ostacolo.
Sgarà, sprecare, sprecato.
Sgaron, sprecone, uno che ha le mani
bucate.
Scundon, fare le cose di nascosto,
sotterfugio.
Smuraià, sfilacciato.
Sucint, silenzioso, fare le cose in
sordina.
Sôia, soglia, quella pietra sul limitare dell’uscio di casa.
Sora, soffice, vaporosa.
Sgablêta, specie di inginocchiatoio
che serviva alle donne quando si inginocchiavano per lavare sulle sponde dei corsi d’acqua.
Sül, scure, arma da taglio per spaccare la legna.
Strêpa, grande sforzo, “dag ‘na
strêpa”, fare un ultimo grande sforzo.
Stràvaca, deborda, dicesi quando un
recipiente è troppo pieno e il contenuto fuoriesce.
Schêsi, schegge, scaglie di legno.
Sürbia, pompa a mano, serviva per
estrarre l'acqua dai pozzi artesiani.
S-ciupatà, schioppettata, scoppiettare.
Suparcià, superare, essere al di sopra.
Scancrà, scassinare, scassinato.
Statarà, sciancato, disarticolato, uno
che ha le ossa fuori posto.
Sêndri, cenere.
Svers, scolorito, di cattivo umore.
Sfacc, disfatto, disintegrato.
Sbuiachent, stracotto, troppo cotto,
cibo bollito oltre i limiti.
Spataraia, spiaccicata, spalmata.
Sbarlüss, barbaglio, guizzo di luce
provocato dal sole o dalla fiamma.
Stusà, strofinare, pulire con lo straccio.
Sigala, sigaro.
Strüsà, trascinare, far scorrere un
corpo senza sollevarlo da terra.
Strüson, piccola slitta in legno sulla
quale il contadino ancorava l'aratro
per farlo trascinare dagli animali da
tiro lungo le strade di campagna.
Strüson, persona sciatta, trasandata
che cammina strusciando i piedi.
Squela, scodella.
Sübià, fischiare, zufolare.
Sübiot, fischietto, zufolo.
Scarcaià, raschiarsila gola, espettorare.
Svêgg, sveglio, furbo, intraprendente.
Sêgn, deformazione del sostantivo
seno, con riferimento alle cose che si
ripongono dentro la camicia all’altezza del petto, ne fa testo il detto
popolare: “bütà la berta ‘ñ sêgn”, che
vuole anche dire: chiudere la bocca,
zittire.
Sbardà, rovesciare, sparpagliare.
Sauin, pungiglione, riferito a vespa,
ape, ecc.
Scaviss, dispettoso, maleducato.
Sapà, zappare con la zappa.
Sigula, cipolla.
Schergni, fare il verso a una persona
che parla o si muove in modo non
normale.
Spüssa, puzza, cattivo odore.
Santè, sentiero.
Strafugnà, spiegazzato, non stirato.
Spatulà, sbrogliare, disimpegnare.
Smurtà, spegnere.
Slaia, gelata, infreddolita.
Sbriva, rincorsa, partire da lontano.
Strêcia, stretta, piccolo passaggio,
cunicolo.
Steiva, antico aratro, munito di una
lunga stanga di legno per guidarlo,
chiamata appunto “steiva”, serviva
per tracciare i solchi.
Sauri, saporito, cibo gustoso, leggermente salato.
Sürbêt, sorbetto, gelato, da sorbire,
succhiare.
Spatech, distinto, persona che si da
un portamento contegnoso, si da delle arie guardando tutti dall’alto in
basso.
Sta ‘ñ pandêta, stare sulle spine.
Sgarabija, andare a gara per arrivare primo.
Sbiriulent, sgangherato.
Sturcià, accartocciato, accartocciare.
Scartocc, pacchetto.
Süstà, desiderare qualcosa che altri
possiedono.
Scarpüsà, calpestare, non avere rispetto delle cose e persone altrui.
Spnügion, spennacchlato con riferimento ai pennuti, spettinato riferendosi a persona.
Spuà, sputare.
Sbarbisà, sfiorare, passare vicinissimo, profilare.
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Smangison, prurito, voglia di grattare.
Siassà, setacciare.
Sgiai, schifo, ribrezzo.
Smôij, ranno, acqua del bucato bollita nella caldaia di rame con soda,
scaglie di sapone e poi passata sulla
cenere di legno dolce.
Smentià, dimenticare, non ricordare.
Sapatà, scuotere, scrollare.
Strup, mandria, gregge, con riferimento agli animali.
Strassuà, sudare, essere sudato.
Sgulà, sgocciolare, scolare.
Smarinà, disgelare, sciogliere il
ghiaccio.
Sunêt, armonica a bocca.
Smort, pallido, avere la faccia senza
colorito.
Sücin-a, siccità.
Sonza, sugna, grasso di maiale.
Smurbietà, agiatezza, abbondanza,
disporre anche del superfluo.
Seif, sego, grasso di pecora.
Scanslà, cancellare, cancellato.
Spantija, diffonde, si disperde.
Smens, sementi, semi.
Sacucin, taschino per l'orologio.
Sgêta, barella montata su due ruote
da bicicletta, serviva una volta per
trasportare gli ammalati, da casa all'ospedale.
S-ciop, schioppo, fucile.
Sangiutì, singhiozzaie, pianto convulso, disperato.
Sangiut, singhiozzo, disturbo provocato da digestione difficile o da deglutizione di aria.
Stranfià, respiro affannoso simile ad
un rantolo
Sgaiada, grido di allegria.
Strapassada, sgridata, redarguire in
maniera forte, con energia.
Savieta, tovagliolo.
Sandron, tessuto di iuta molto robusto e di trama fitta che si poneva sul
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mastello (sêbri) quando si faceva il
bucato. Su di esso si metteva la cenere di legno dolce e poi si versava il
ranno (l’asmôij) lentamente, ripetutamente fin che il bucato era pulito.
Sürbija, minestra di riso o pasta fagioli a cui si aggiunge un bicchiere
di vino rosso per renderlo piccante.
Smurtà, spegnere.
Sgiaflà, schiaffeggiare.
Sutpânsa, cinghia di cuoio con fibbie che si annoda alle stanghe del
carro passando sotto la pancia del
cavallo, per tenere in equilibrio il
carro.
Strich, cinghie di cuoio fissate al
morso del cavallo e ancorate al basto
passando attraverso la collana per
costringerlo a tenere la testa alta.
Scurzêgn, resistente, duttile.
Stamêgna, ramo di salice verde attorciliato in modo da snervare le fibre e usato come legaccio.
Scoss, grembo, sedersi sulle ginocchia, “setà 'ñ scoss”.
Svarà, dicesi di temporale che lascia
il posto al sereno.
Sgarableu, rigogolo, uccello frugivoro.
Scapinêta, camminare senza scarpe,
con solo le calze da “scapin” il sotto
delle calze di lana fatte a mano.
Sraià, deragliare, andare fuori strada.
Stagera, scaffale.
Susson, calzarotti di lana, che si
mettono sopra le calze d’inverno.
Scagnêt, sgabello.
Sgüià, scivolare.
Spotich, disponibile.
S-ciufêta, recipiente di terracotta, che
si riempiva di brace per scaldare il
letto d’inverno.
Sin, sopracciglia.
Sturcion, dolci casalinghi fatti con
la pasta sfoglia e poi fritti nel grasso
o nell’olio e spolverizzati di zucchero.
Sgnarà, spiccare il volo, con riferimento agli uccellini che lasciano il
nido per la prima volta.
S-ciuplì, schioccare le dita o la frusta.
Sgrapà, graffiare, ma significa anche tribolare per fare andare avanti
la famiglia.
Sleià, slegato, slegare.
Scrussi, scricchiolare, ma intende
anche spezzare le gambe alle rane
per impedirle di scappare: “scrussi 'l
râni”.
Sgiaf, schiaffo.
Sgrôia, guscio d’uovo, d’ostrica, lumaca, ecc.
Susta, copertura, tettoia, stare al coperto: “essi a susta”.
Singra, pentola di ghisa che sostituiva il paiolo, per fare la polenta.
Smissa, smessa, dimessa, di seconda
mano.
Spramià, risparmiare.
Svercia, risvolto dei pantaloni.
Smuià, mettere in ammollo.
Sfross, frode, frodare, fare cose illegali, di nascosto.
Schivi, schifo, ribrezzo.
Snugg, ginocchio.
Speciava, specchiava, aspettava.
Sira, cera.
Sbrua, sommità di un argine, margine di un burrone, “stà ‘ñs la brua”,
essere al limite, rischiare di cadere.
Sgagiaia, camminare in fretta, fare i
lavori in fretta.
Sgarabion, calabrone.
Sareña, martin pescatore, uccello che
vive lungo i corsi d’acqua.
Sgiar, il vecchio lavandino di cemento che scaricava direttamente nel rigagnolo (ariân) ‘d la cuntrà.
Surlev, sollievo.
Sufragi, dolcetti della nostra infan-
zia.
Sfarnà, sfrenato, irruente.
Straponcia, trapunta, copriletto imbottito di cotonina.
Stumiadüra, indigestione.
Stumbul, bastone di nocciolo munito di una punta metallica, serviva al
bovaro per pizzicare i buoi.
Sei, sete.
S-ciodi, schiudere, con riferimento
alle uova quando nasce il pulcino.
Starnija, disseminata, cosparsa.
Süms, cimice.
Sana, deformazione della parola italiana “tisana” in dialetto antico significava il caffè, tisana di caffè:
“beiv ‘na sana”.
Scapà ‘i fut, perdere la pazienza.
Sercà di gatin, cercare grane.
Stümasla, darsi delle arie.
Stümetâ, esibizionista.
Sbiavà, sbiadito, cosa che ha perso il
colore.
Sgargiunassi, sgolarsi, parlare fino
a perdere la voce.
S-cinfurgnà, rovistare, trafficare con
le cianfrusaglie.
Scurata, vettura trainata da cavallo,
calesse.
Strapel, grande abbondanza, avere
più di quanto occorre.
Spigna, spontanea: “ad so spigna
vuluntà”, di sua spontanea volontà.
Sparlà, schiarita, quando il sole esce
dalle nuvole e poi torna a nascondersi.
Svens, sovente, quasi di continuo.
Scampon, longevo, persona che vive
molti anni.
Soutagat, livello di sfioramento di
vasca di decantazione.
Sacadura, giacca alla cacciatora,
munita di aperture laterali sulla parte
posteriore, dove il cacciatore ripone
la selvaggina o altri oggetti.
Scunzübia, frotta, nugolo di bambi-
55
ni o uccelli.
Stramà, nascondere in luoghi riposti
di cui poi si dimentica l'esistenza.
Sternighin, selciatore, era colui che
posava le pietre per fare il selciato,
“sterni”. Selciato deriva da selce, tipo
di pietra dura.
Sbaruv, spavento.
Sarpêi, telo, dentro cui si annodava
il fascio di erba per portarlo sul capo.
Sencia, cinghia di cuoio usata per
sollevare i cavalli irrequieti quando
dovevano essere ferrati.
S-cirpa, fascia di seta o cotone a colori vivaci che i carrettieri si annodavano intorno alla vita.
Sparavel, tavola di legno quadrata
con manico che i muratori usavano
per reggere la calce quando intonacavano.
Sana, misura da un quarto per latte e
vino.
Sonta, sterco di mucca dalla forma
caratteristica.
Sgardablà, graffiare, lacerare con le
unghie.
Schicià, strizzare, schicià 1'ôcc, strizzare l’occhio.
Saioch, grosso sasso.
Scaudinassion, insolazione.
Sgnassi, fare il segno della croce.
Siala, cicala, insetto che in estate
canta ininterrottamente una noiosa
strofa.
Somi, mucchietti di letame, che si
depositavano in fila lungo i solchi.
Stramuntì, risentito, rintronato, dicesi
di cosa o persona che ha ricevuto un
forte colpo, oppure è stato urtato in
maniera violenta; si dice anche di forti
rumori che fanno rintronare la testa:
“Al fa stramuntì 'l sarveli”.
Strafricc, soffritto, fatto con lardo
pestato, aglio, cipolla e aromi.
Spanatris, scrematrice, macchina
usata dal casaro, per dividere la pan-
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na dal latte.
Stupabôcc, tappabuchi.
Svuacà, franare, riferito a sponda di
corso d’acqua che cede, corrosa dall’acqua.
Suamân, asciugamano.
Straminom, sopranome, molto usato
per distinguere persone con cognome uguale.
Stragià, calpestare il raccolto senza
riguardo.
Sbaruausei, spaventapasseri.
Spalarô, palo di grosse dimensioni
che i lavoranti di campagna, ricevevano in inverno, oltre alla paga giornaliera, unitamente a due o tre fascine, quando andavano a tagliare la
legna. Serviva, appoggiato alla spalla a reggere le fascine posate sull’altra spalla. Da questo la denominazione “Spalarô”.
Scot, sporgenza residua di un ramo,
non tagliato raso sul tronco dell’albero.
Scot, maglia di lana che si portava
sulla pelle.
Scuton, cannuccie delle penne e piume, quando cominciano a spuntare
sul corpo implume dei volatili.
Scaron, sporgenza residua, lasciata
dalla falce, recidendo erbe infestanti
a stelo rigido.
Savati, ciabatte, in genere ricavate
da vecchie scarpe.
Strà, sotterrare, i morti, o qualsiasi
altra cosa.
Svuatrui, persona sciatta e disordinata, che non cura nè il corpo, nè i
vestiti, (si dice anche Uatrui).
Scugnüss, caldo soffocante, che preannunzia temporale.
Sgnucà, sonnecchiare, stando seduti,
con la testa penzoloni, che dondola.
Sputlì, spappolato, spiaccicato, con
riferimento a persona o frutta. Si da
la stessa definizione anche a un cibo
stracotto.
Sbargnacà, sbudellare, sbudellato.
Suà, asciugare, asciugato.
Saldalesu, timo, pianta aromatica
medicamentosa semi-spontanea.
Sücia, asciutta, nel senso di non bagnata; significa prosciugare un corso
d’acqua o le risaie: “Dà la sücia”.
Scaravel, piolo della scala di legno;
traversino della sedia dove si appoggiano i piedi.
Sgaiusa, grande fame arretrata di chi
non mangia da diversi giorni.
Sbagnassà, bagnato fradicio.
Sgürà, lucidare le pentole di rame
strofinandole con la cenere o con lolla
di riso bruciata (bülon brüsà).
Salop, sporcaccione, individuo dal
comportamento poco pulito e dal fraseggio pesante.
Stagera, scaffalatura, tipica dei negozi di generi alimentari e articoli
vari.
S-ciapà, spaccare, spaccato, speciale
riferimento alla spaccatura della legna.
Steli, tronchi d'albero spaccati con la
scure, in lunghe e grosse schegge da
ardere nel caminetto.
Scôij, dipanare, disfare il gomitolo o
la matassa.
Smangià, corroso, consunto, logoro.
Svuarminà, sformato, senza forma,
oggetti e indumenti deformati dal
lungo uso.
Spuass, sputo di notevoli proporzioni, frutto di fumatori che masticano
tabacco.
Squicià, schiacciare, schiacciato.
Suquì, questo, questa cosa.
Serni, scegliere, fare una cernita.
Squarà, sgrossatura del legno, abbozzare una forma mediante la «manara» una specie di scure a lama larga molto tagliente.
Suma, sappiamo, oppure siamo, vuol
dire entrambe le cose.
Spion, pizzico, una presa di tabacco.
Sgavassassi, svuotare il gozzo o il
sacco, dire tutto quello che si pensa
senza rispetto per nessuno.
Scavissüra, scarto del riso composto
da paglia spezzata e semi non giunti
a maturazione.
Smentià, dimenticato, dimenticare.
Surissi, particolare stato di disagio
fisico, provocato dallo sfregamento
di superfici ruvide che stridono.
Squarsà, squarciare, lacerare, stoffa
o carta.
Scarvà, capitozzatura, potatura degli alberi per il contenimento dei rami
in termini ragionevoli.
Sbatà, buttare, disfarsi di cose che
non servono.
Strija, strega, donna che nella credenza popolare era considerata in
possesso di doti paranormali.
Strija, polpetta di carne cruda macinata, condita con spezie poi avvolta
in carta spessa bagnata e cotta nella
brace.
Sarzì, rammendare, rammendo praticato in maniera superlativa che fa
sparire ogni lacerazione dei tessuti.
Surzi, zampillare, sorgente che scaturisce dal suolo spontaneamente.
Scüfia, pianta parassita che cresce
sui cereali e sulle erbe prative, in
particolare sul trifoglio ed erba medica. È formata da filamenti carnosi
di colore giallo che emettono capolini bianchi; vive senza radici, solo
aggrappandosi alle erbe suddette.
Smerdà, fare brutta figura nei confronti di persone più istruite o più in
gamba di noi.
Suagnà, lisciare, accomodare a dovere. Si dice di persona sempre molto curata nel vestire e nel fisico.
Surtüm, acquitrino, terreno paludoso.
Sarvela, cervello, tradotto letteral-
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mente, ma vuole significare giudizio: “Avei sarvela”, avere giudizio.
S-ciêt, schietto, genuino: uno schietto è quello che dice sempre quello
che pensa.
Svigià, svegliare, dare la sveglia,
sollecitare una persona che temporeggia, che non sa mai decidersi.
Sfartulada, scrollata, scuotere, sollecitare, incitare.
Svarsliña, bandella metallica, sottile
e resistente, che veniva usata per
imballaggi, al posto dell'attuale fettuccia di nailon e di plastica.
Sià, falciare, tagliare l'erba con la
falce.
Strauardà, strabismo, avere gli occhi strabici, cioè avere gli occhi puntati da una parte e vedere tutt'altra
cosa.
Suross, malformazione delle ossa,
causata da fratture guarite male perchè curate e sistemate in maniera
poco ortodossa.
Scrêp, prodotto puro, non mescolato
con altre sostanze, es.: cafè scrêp,
caffè solo, senza zucchero nè latte,
nè altre sostanze.
Suassi, asciugarsi, sia quando si è
bagnati, sia per detergere il sudore:
«Suassi 'i gusson».
Savei, sapere, verbo infinito.
Squarsasach, piccolo pesce d'acqua
dolce che vive di preferenza nei fondi sabbiosi, oggi quasi scomparso
causa l'inquinamento delle acque,
molto ricercato dai buongustai per la
sapidità della sua carne e per il pregio di non avere lische. Famosa la
“frità da squarsasach”.
Sarass, latticino ricavato dal latte di
pecora.
Svigiarin, il classico orologio a sveglia, quello che si tiene sul comodino.
Sücc, asciutto; dicesi anche di persona alta e magra.
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Sorti, uscire di casa, anche nel senso
di andare a divertirsi o a passeggio.
Serà, chiudere.
Strach, stanco, “robi strachi”, cosa
senza senso.
Smorbi, incontentabile, persona che
non trova mai niente di suo gradimento, eternamente insoddisfatto.
Strêcc, stretto, pesce d'acqua dolce.
Scrôbi, scoprire, ritrovare.
Sücri, zucchero, si dice anche di persona poco sveglia “L'è ñ povri sücri”.
Suplì, sepellire, quando ci si riferisce a persone umane defunte.
Sacucion, tasca interna della giacca
o del cappotto dove si tiene abitualmente il portafiglio.
Scugnà, soffocare, morire dal caldo.
Stupà, tappare, sia i buchi che le
bottiglie.
Svuens, sovente, molto spesso.
Stron, seppellitore, becchino, l'uomo che sotterra i morti.
Scarvantà, sparire.
Sprendi, disimparare, dimenticare.
Stavira, questa volta.
Svuass, abbondanza, averne da buttare, fino alla nausea.
Snebià, schiarire, rendersi chiare le
idee.
Svarà, attenuare, svanire, riferimento al temporale che smorza la sua
violenza e si allontana.
Scantira, carne dura che non cuoce
in massima parte nervi e pelle, che si
tira come elastico.
Sêp, ceppo, radici, origini di una famiglia.
Snària, zenaria, area di bosco formata da numerosi lotti o punti. Si
dice di famiglia numerosa: “Ai son
'na snaria”.
Spatulà, sbrogliare una situazione
intricata.
Sclent, limpido, si dice del cielo sereno, e di ogni cosa di cui si può
leggere e capire il significato.
Scüsà, farne a meno.
Sgugnà, essere fuori posto, essere
una stonatura, in un ambiente allegro
essere triste, o essere malvestito tra
persone vestite bene.
Snugêt, quando le gambe si piegano
per stanchezza o per debolezza: “fare
giacomo giacomo”.
Svers, scolorito, sbiadito, ma anche
persona di cattivo umore, che si è
alzata con il piede sbagliato.
Sgiai, ribrezzo, schifo, di cose che
fanno rivoltare lo stomaco.
Sternì, cosparso: “prà sternì 'd margariti”. Prato cosparso di margherite.
Svercià, rimboccare, rivoltare.
Smanatà, gesticolare in maniera
scomposta.
Scamucià, spuntare, sforbiciare le
siepi o le bordure delle aiuole.
Sgarbiassi, districarsi, uscire da situazioni difficili.
Sgarbià, sbrogliare la matassa.
Stris-Strisà, longilineo, magro, gracile, affusolato.
Surzi, sgorgare, zampillare, si dice
di acqua che scaturisce dal terreno.
Sbumblì, rimbombare, si dice di locale vuoto che produce echi enormi
ingigantendo i suoni e le voci.
Spiarà, spigare, emettere la spiga,
fase in cui il cereale (riso, grano,
miglio, ecc.) comincia a fiorire la
spiga.
Sbruss, ruvido, superfice granulosa
o abrasiva, quale intonaco grezzo,
carta vetrata, ecc.
Siau, falciatore, l'uomo che falcia il
prato.
Sbaridà, scamiciato, persona con gli
abiti sbottonati e scomposti.
Sburs, bolso, persona con tosse persostente e profonda.
Sarducà, sobbalzare, squassare del
carro, le cui ruote percorrono strade
sconnessee.
Sarducon, scossoni che si subiscono
transitando su strade interrotte da
buche profonde che rovinano il piano di scorrimento asfaltato.
Smeia, sembra, pare, somiglia.
Spatarà, spalmare, es.: il burro o la
marmellata sul pane o sulle tartine.
Süst, desiderio di una cosa che non
si può avere.
Stalü, condizione di un animale bovino o equino che è rimasto a lungo
nella stalla, specie nei mesi invernali.
Sfrasà, abortire, interrompere la gravidanza, con riferimento ad animali
gravidi.
Smasì, macerare, ammollare, tenere
i panni a bagno per sciogliere lo sporco, o i fagioli per facilitarne la cottura, ecc.
Suêt, polenta molto tenera da mangiare col cucchiaio. Si cucinava per
colazione quando ancora il caffelatte
era un lusso.
Sareña, rugiada notturna che si posa
sulla campagna.
Sbufà, scoppiare o bucare una gomma della bicicletta.
Scopia, cappello di carta portato da
imbianchini e operai che lavorano in
ambienti polverosi.
Sut, sotto.
Smoñi, offrire, da parte del venditore al cliente, o da chi vuol fare un
regalo.
Scurzin, striscia di cuoio morbido
che si usava per i finimenti dei cavalli, e come snodo per il correggiato la cui verga doveva ruotare e oscillare.
Smorbi, schizzinoso, persona mai
contenta di niente, si dice anche di
cavalli da tiro dopo lungo periodo di
inattività.
Sgugliardà, prelibatezze, che porta-
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no a peccati di gola.
Slacià, svezzare, togliere il latte a
una certa età a bambini e cuccioli.
Straplà, stracciato, malmesso.
Stradvis, cosa che fa senso, che fa
impressione.
Scarà, scalzare le erbacce con la zappa.
Smurbà, dare il chi va là, mettere
sull'attenti.
Sfaià, esausto dalla stanchezza.
S-ciapassà, sculacciare, sculacciata.
Stramass, impurità ammucchiate dall'acqua agli invasi.
Stravassà, sferzata, essere colpito da
ramo verde o da spighe di cereale.
Scarpüsà, calpestare, le aiuole, i diritti del prossimo.
Sangiut, singhiozzo, il caratteristico
disturbo provocato da ingestione
d'aria.
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Sangiutì, singhiozzare, piangere in
modo irrefrenabile.
Savruma, sapremo, futuro verbo sapere.
Stusà, pulire, strofinare.
Sbefi, farsi beffa, sbeffeggiare.
Sbela, scavezzacollo, discolo.
Sfuià, sfogliare la margherita, voltare le pagine del libro.
Sfurfuià, fruscio, frusciare.
Sertiera, giarrettiera, il classico reggicalze delle donne.
Sürbi, assorbire, aspirare.
Sgiai, schifo, ribrezzo.
Sfrusà, frodare, evadere, non pagare
le imposte, frodare il dazio: “sfrusà
la bula”, non passare dal daziere a
fare la bolletta.
Sfrusin, evasore, contrabbandiere.
Colui che contrabbanda merci di
monopolio: “sfrusin da tabach”.
T
Tabalôri, uomo bonaccione non molto furbo.
Tardoch, appellativo affettuoso usato nel riguardo dei bambini sempliciotti (povri tardoch).
T-nebra, tenebra, definizione popolare di uno strumento a percussione
usato durante la settimana santa al
posto delle campane, detta appunto
la settimana delle tenebre; si dice
anche di donne che spettegolano ad
ogni angolo di strada.
Taratatac, specie di scacciapensieri
che si ricava dalle unghie del maiale,
con uno spago attorcigliato e una
stecca di legno che fa da percussione
e produce appunto questo suono: taratatac.
Trent, tridente, attrezzo agricolo.
Trabüchêt, piccolo carro agricolo ribaltabile che serviva per trasportare
la terra negli appianamenti in risaia.
Tumbarel, grosso carro agricolo ribaltabile che serviva a trasportare
ghiaia dal greto del fiume alle strade
campestri.
Tüpè, oggi significa parrucca, ma nel
gergo popolare vuol dire: faccia tosta: “t’à ‘ñ bel tüpè”; hai una bella
faccia tosta.
Torcia, ramo verde di salice, che attorcigliato si usa per legare le fascine.
Traghêt, traghetto, quello che trasborda la gente sul fiume.
Traghêt, passaggio difficile, considerato una trappola.
Trabatel, scaletta rudimentale usata
dai muratori nei cantieri.
Trêsch, correggiato, attrezzo agricolo formato da due bastoni uniti ad
una estremità da un legaccio di cuoio, uno veniva impugnato e l'altro veniva fatto ruotare in aria e poi ricadere sui cereali stesi sull’aia che, percossi ripetutamente, lasciavano cadere i semi. Era una trebbiatrice rudimentale antichissima.
Tumatica, pomodoro.
Tê-c, tetto, significa anche uomo con
le spalle curve.
Tambüssà, bussare, battere all’uscio.
Tacunà, rappezzare, rappezzato.
Tissà, attizzare il fuoco, aggiungere
legna al fuoco.
Tacaia, crosta che si forma sul fondo della pentola cuocendo la “panissa”.
Trüss, truccioli di legno molto corti.
Tabaru, caratteristico mantello nero
usato una volta dagli uomini.
Tlara, ragnatela.
Tupi, semibuio.
Trantulà, barcollare.
Têbia, tiepida.
Tripé, treppiede, supporto che si
metteva sulla brace per appoggiare
la casseruola da scaldare.
Trantarô, uccello insettivoro chiamato pendolino, che costruisce un’artistico nido appeso a un ramo, appunto come un pendolino.
Tirêt, cassetto.
Tarbulenta, torbida, acqua putrida,
limacciosa.
Tnaion, mollusco, che prolificava
61
nelle risaie prima dell’avvento dei diserbanti, provvisto di una terribile
mandibola.
Tramuà, traslocare, spostare.
Tarlandiña, stoffa leggera usata
come fodera.
Trabudinà, fare un concerto con le
campane.
Turba, torbida.
Tossi, semi, bacche rosse considerate velenose.
Tichêta, etichetta.
Tirenta, rapida, vortice d’acqua particolarmente impetuoso.
Tirânt, tiranti, catene o corde munite di ganci che servivano ad attaccare il cavallo di punta al carro.
Trombi, passanti di cuoio in cui si
infilavano i tiranti affinchè non sfregassero pui fianchi del cavallo.
Tapiss, tappeto.
Têta, mammella, “pià la teta”, succhiare
il latte dalla mammella materna.
Turcêt, torcetto, dolce paesano di pasta sfoglia a forma di cravatta.
Tabuij, cane randagio senza alcuna
genealogia.
Talon, tacco, ma è definito così anche l’ultimo piatto giocando a scopone.
Têma, timore, temere.
Tirison, maschera popolare del nostro carnevale.
Tond, piatto per la minestra.
Taschêt, sacchetto, piccolo sacco.
Têndri, tenero.
Taplin, scheggia di legno prodotta
dalle scure nell’abbattimento degli
alberi.
Turna, vasto appezzamento di terreno coltivato a riso.
Turna, ancora, di nuovo.
Taburna, casa diroccata, spelonca,
catapecchia.
Trêmu, albero d’alto fusto della famiglia del pioppo, tremolo.
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Tarpon, talpa.
Trà, spago impeciato che i calzolai
usavano per cucire le suole delle scarpe.
Topia, pergolato su cui si arrampica
la vite.
Travà, portico, rimessa per carri agricoli.
Taref, malandato di salute, pieno di
difetti.
Taragnà, tergiversare, tirare per le
lunghe.
Ten-c, avere la faccia sporca di nero,
di fuliggine.
Traondi, inghiottire.
Truss, torsolo di mela o di cavolo.
Tessiur, tessitore, artigiano che tesseva la tela di canapa con il filo che
le donne filavano con la rocca, d’inverno nella stalla.
Tensiur, tintore, artigiano che colorava la lana e la canapa filata d’inverno.
Talocia, tavoletta di legno con manico di forma rettangolare, serviva ai
muratori per pareggiare la calce dell’intonaco.
Torcianas, serranaso, attrezzo formato da un manico di legno che ad
una estremità ha fissato un anello di
corda, il quale anello si infila al muso
dell’animale, tipo cavallo, maiale,
ecc., all’altezza delle narici. Quando
l’animale scalpita, si torce la corda
che stringe le narici costringendolo a
fermarsi.
Tavân, tafano, insetto estivo che si
accanisce in particolare contro i bovini, provocando loro delle piaghe
sanguinanti.
Tanavela, mosca verde dotata di acuto pungiglione.
Trêtuli, grumi di sterco, che si attaccano alla lana delle pecore, al pelo
delle capre, alla coda dei bovini.
Têia, baccello, l'involucro che con-
tiene i piselli e i fagioli.
Tüsu, avaro, persona parsimoniosa
che ama il denaro.
Tarducà, parlare sottovoce tra due
persone, facendosi delle confidenze,
raccontarsi i propri dispiaceri.
Teñadament, delusione, fregatura,
cosa da legarsi all’orecchio, per ricodare nel tempo.
Taraud, madrevite maschio, serve
per fare la vite femmina.
Tissuniè, attizzatoio.
Türcia, sterile, con riferimento a donna, o femmina di manimifero, che
non genera figli.
Tiron, coscritto di leva.
Trapulin, abitante della zona tra il
Po e il Lino, quel fiume fantasma
che dovrebbe scorrere sotterraneo
sulla costa che sovrasta Trino.
Turciarô, imbuto, quello che serve
per travasare liquidi. Gorgo che si
forma negli invasamenti dei corsi
d'acqua.
Trapanà, trapassare da parte a parte.
Taia, l'imposta che si pagava sui terreni e fabbricati.
Tron, tuono, la voce del temporale.
Trisià, frequentare, determinati ambienti e determinate persone.
Tarbulà, intorbidire, sporcare le acque limpide.
Tiraout, fionda, arma già conosciuta
nella preistoria oggi usata dai ragazzi scavezzacollo. È formata da una
forcella di legno a forma di V, due
elastici di camera d'aria, legati per
un'estremità alla forcella, le altre due
estremità, unite a un pezzo di cuoio
portasasso. Tirando gli elastici e poi
mollando si scaglia la pietra.
Tacà suri, aggiogare gli animali al
carro o all'aratro.
Tera crea, terra argillosa, quella usata per fare mattoni.
Tirela, filo metallico che regge il
filare della vite.
Tuch, avariato, frutto bacato nell'impatto col terreno su cui cade quando
è maturo. Si dice di persona non
molto equilibrata nella mente.
Tuiot, bocchino in cui si infilava la
sigaretta per darsi un contegno in una
certa epoca, quella delle donne fatali.
Taiola, carrucola su cui scorreva una
fune, che mediante una trazione manuale serviva da montacarico.
Tumêt, dispiacere, peso sullo stomaco, pena che non si riesce a sfogare.
Tarpunat, talpaio, cacciatore di talpe. Catturava le talpe mediante trappole che collocava nelle gallerie scavate dalle medesime.
Trasà, sprecare, sciupare, usare a
piene mani, senza parsimoniaa.
Trücià, imbrogliare il prossimo negli affari.
Trücion, sensale, mediatore, colui
che faceva da tramite tra le due parti
nella conclusione degli affari.
Tastà, assaggiare, prendere un assaggio.
Tasson, grosso bicchiere di vetro col
manico, della capienza di un quarto
di litro, per servire nei locali pubblici vino o birra.
Tnaia, tenaglia, quella usata per levare i chiodi dal falegname, e quelle
di forme diverse usate dal fabbro per
maneggiare il ferro rovente.
Travinà, infiltrare, tracimare, recipiente pieno d'acqua che trasuda o ha
piccole perdite.
Tâmpa, fossa settica, pozzo di decantazione, serbatoio di pozzo nero.
Tardià, ridardare, arrivare in ritardo, orologio che rimane indietro col
tempo.
Traulizà, oggetto con colorazione
tigrata o marmorea.
Trêsca, piazzola formata da covoni
63
di grano o di riso, che vengono così
disposti e poi fatti calpestare da animali bovini ed equini onde far cadere i chicchi che saranno poi usati
come semente.
Trüssà, incornare, caricare, sistema
di difesa di bovini ed equini, sia contro gli uomini, sia contro i loro simili
nelle lotte amorose, per la conquista
del territorio e delle femmine.
Trià, tritare, tagliuzzare verdure,
carne, ecc.
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Tedia-da tedia, dare ascolto, ascoltare per dare soddisfazione all'interlocutore.
Tola, latta, faccia tosta.
Turututena, squinternato, fanfarone.
Tramuà, traslocare, cambiare di posto.
Tensi, tingere, sporcare di fuliggine.
Trapanà, trapassare, passare attraverso uno spessore.
Troua, condotto in legno o muratura
per l'acqua.
U
Uacià, stare sdraiati a prendere il
sole.
Uast, guasto.
Uiss, acuto, aguzzo.
Ugin, occhiolino.
Uchêt, papero.
Urciunà, spingere, spintonare.
Urm, olmo.
Uastà, guastare.
Uregia, orecchio.
Uata, indumento femminile, sorta di
corta giacca stretta in vita con piccolo volant arricciato.
Uluch, allocco, uccello rapace notturno, ma si dice anche di persona
non molto sveglia.
Uernà, conservare, governare.
Urba, polvere di fieno.
Uari, uari, così, così.
Ufela, ciambella col buco.
Umbrija, luogo ombreggiato dove
non batte mai il sole.
Ungià, unghiata.
Uernaquatrin, salvadanaio.
Umnêt, attaccapanni, gruccia per
appendere gli abiti dell'armadio.
Uatrui, persona sciatta e disordinata, che non cura nè il fisico, nè i
vestiti.
Ueva, vedova.
Ufela, la crosta della polenta che si
staccava dal paiolo.
Uernì, addobbare, guarnire.
Uvara, ovaio, l'apparato della gallina che fabbrica le uova.
Ugiai, occhiali.
Uason, uatu, due parole che indicano la stessa cosa: grossa zolla di terra indurita dal sole.
Uari, quanto; uari uari: così così.
Ursüm, cipiglio, maniere rudi, tono
perentorio e autoritario.
Urêgia, orecchio umano o animale,
ma anche la piega che si fa alla pagina del libro, rivoltando l'angolo verso l'interno per tenere il segno.
Uieist, lunga verga con la quale si
guidavano e si punzecchiavano i buoi.
Uiciu, piccola moneta: “l'a nen in
uiciu”, è senza una lira.
65
V
Valospi, scintille che si sprigionano
da un fuoco di legna e volano nell'aria.
Vardurè, venditore di verdura.
Vegia, gibigiana, illuminello,
barbaglio, vecchia, raggi del sole
concentrati sullo specchio e diretti in
determinata direzione.
Vistimenta, vestito della festa.
Visassi, ricordarsi.
Visà, avvitare.
Vira, una volta.
Visca, accesa, accendi.
Vêndri, venerdì.
Val, vaglio, ampio contenitore di vimini aperto su un lato con due manici, serviva a dividere i cereali dalle
impurità, imprimendogli un continuo
movimento dal basso all'alto, comee
agitare un ventaglio.
Vei, vero.
Vasivà, versare.
Vasivon, individuo che parla a vanvera.
Vâña, inutile.
Vessa, animale simbolo della pigrizia.
Vêssa, veccia, erba infestante che
matura baccelli di semi neri, molto
appetiti dai piccioni.
Varì, valere.
Vansruij, avanzi, rimasugli.
Vümnà, steccato, staccionata.
Vitiprà, infastidire, infastidito.
Visigà, essere continuamente in movimento come le api.
Vacadi, stupidaggini, fesserie, discorsi senza senso.
Vassela, botte per il vino.
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Venta, bisogna, aggettivo che precede un verbo, tempo infinito: “venta
fa, venta dì”, bisogna fare, bisogna
dire.
Vêghi, vedere: “Va vêghi”, vai a vedere.
Vidon, grossa vite, tipo quella della
morsa.
Vêru, cocci, frantumi, oggetto di vetro o ceramica che cade e va in mille
pezzi.
Veru, verro, il maiale maschio da
riproduzione.
Vilì, disprezzare, calpestare, odiare.
Visà, ricordare, riportare alla memoria.
Ventula, attrezzo agricolo usato per
impalare i cereali. Era fatto interamente di legno ricavato da un tronco
di legno dolce, aveva la forma di
coppa e terminava con una lunga impugnatura.
Ventulot, attrezzo come il precedente ma più piccolo, veniva impugnato
con una sola mano. Veniva chiamato
anche “palot“ o “sissulot”.
Viru, oca maschio, e anche il richiamo usato per radunare le oche: “Viru,
viru”. Si definisce con questo appellativo una persona un po' tarda: “T'è
'ñcantaà cmè 'ñ viru”.
Veia, mozzicone di sigaretta, la
cosidetta cicca, ma ancora un po'
consistente, da cui si potevano ancora tirare alcune boccate di fumo.
Vaca doma, mucca nostrana, addestrata a trainare il carro (barossa),
l'aratro (sloria) e lavorare nei campi.
Vuiacc, voialtri, pronome indicativo.
Vôia, voglia.
Vôia, vuota, senza contenuto, persona che fa discorsi senza nesso. “La
va d'an val an curbela”.
Varnaia, foraggio, provvista di foraggi per l'inverno.
Vargion, pertica lunga e sottile di
legno forte e ancora verde che si usava in particolare per incitare e sollecitare gli animali.
Vargiunà, percossa inflitta con la
pertica suddetta.
Voti, bighellonare, andare in giro.
Valantisa, bravata, azione che si
compie cercando di mettersi in evidenza, magari a scapito di altre persone.
Veria, rondella di ferro usata come
spessore, oppure braccialetto di ferro che si usa per rinforzare le estremità delle mazze di legno e dei manici di determinati attrezzi agricoli.
Vasêt, piccolo vaso, panzana, battuta di spirito.
Valuspà, inizio di una nevicata,
quando cadono i primi radi fiocchi di
neve.
67
Z
Zigula, erba acetosella, cresce nei prati
a primavera, di sapore acidulo, viene
masticata volentieri dai ragazzini.
Zigulon, romice, erba infestante dei
prati, che si estirpa in primavera:
«rancà 'i zigulon».
Zibech, uva passa, uva sultanina, da
mettere nelle torte.
Zachè, giacca.
Zuri, sopra, al piano superiore.
Zoncli, cinghie di cuoio che si infilavano alle corna dei buoi per
aggiogarli al carro.
Zasün, digiuno.
Zilêt, bambino che va all'asilo.
Zuvu, giogo di legno, semplice o
doppio, serviva per aggiogare i bovini al carro.
Zêbia, ferita che si forma nel midollo di un albero.
Zà, già.
Zanzivia, gengiva, persona con poco
sale in zucca.
Zü, giù, di sotto.
Non ho la presunzione di ritenere questa raccolta di vocaboli in dialetto nè
completa nè esauriente.
Pertanto invito altre persone più giovani e più brave di me a completare
l'opera di conservazione del nostro dialetto trinese, quello autentico, non
ancora inquinato da italianismi.
Grazia a chi raccoglierà l'invito.
Olimpio Ferrarotti
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MODU 'D DÌ
E PRUERBI TRINEIS
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MODU 'D DÌ E PRUERBI TRINEIS
Trist cul'ann, che 'l Dominu 'l ciapa 'l
Giuan.
Se 'l fioca 'ñs 'la fôia dal muron, l'è
n'iver da cuion.
I'omni iân l'anas cmè 'i cân, antè ca'i
trou duert ai vân.
Specià ca'i riva la smâña di set giobia.
Quând che l'omu 'l fa tera, la dona la
ven bela.
Se l'omu l'ass tâncc ôcc cmè che 'l cribi
l'à tâncc bôcc, la dona glià fareia 'ñcù
'ñs i'ôcc.
Se la merda la monta 'ñ scagn, o la
spüssa o la fa dagn.
Pasqua la veña quând ca l'à vôia, la
gaba l'à la fôia.
Ogni crava 'l so paluch, ogni socla 'l so
suclon.
Spusa bagnaia spusa furtünaia.
La Madaleña, gran aua la meña.
Nadal sensa lüña, chi l'à dü vachi nu
vend i'üña.
Quând la nebia la crôb al ciel, dop, al
sul al ven pü bel.
Ai ven nen carvà sensa la lüña nôva 'd
favrà.
Mars, ventreia che nânca 'ñ rat al pissass.
Avril, nà rusà tücc 'i dì.
Avril l'à tranta di, se 'l piuviss trantün
ai fa mal a nün.
Magg, la biava 'l lacc.
La galiña ampnija la manten al nil.
Nus e pân l'è mangià da cân, pân e nus
l'è mangià da spus.
Tüt al ven a tai, fiña i'ogni da plà l'ai.
Augià cürta ben as cüs, augià longa 's
tura ben al füs.
L'Ascension, as porta 'i bigat an pursission.
Se 'l piôv la rimuliva al piôv set festi la
fila.
La Madona Siriola, quaranta di pô suma
fora, se 'l piôv o 'l tira vent, quaranta di
suma 'ñcù den.
Fioca d'amnua, la düra fiña tacà la cua.
La lüna l'à 'l rò, o vent o brô.
Fioca 'd zembriña, tre meis la cunfiña.
Se 'i cânta 'l gal al giuch, 'dmân i'uma
71
l'aua sut.
Sân Lurens, l'ua la tens.
Al seren 'd la nôcc, al düra tâhnt cmè 'ñ
püm côcc.
Nadal cun al sul, Pasqua 'l tisson.
Sân Michel, la marenda la vola 'ñ ciel.
Al vent al môr mai 'd la sei.
Tampural 'd la matin, l'à nè prinsipi nè fin.
La Pifania, tüti 'l festi la meña via, dop
disnà l'è Carva iù meña turnà 'ñ sà.
Quând che 'l sul al turna 'ñdrè, 'dmân
iuma l'aua 'i pè.
Al mantel, l'è nen bon almach per na
piôva.
Sold e capon ai son bon tüti 'l stagion.
Asu vecc, bast nôv.
Se 'l piôv l'Ascension, la paia a bei
baron.
Se l'è gram l'ann bisest, trist l'ani ca 'i
ven apress.
Quând che 'l cül al ven früst al Patarnost al ven giüst.
Ant l'ort dal Dêdi, iè tâncc pivron ca 'l
smeia nen da crêdi.
Sân Bartramè, l'aua l'è pü nen boña da
lavassi 'i pè.
Sânt'Antoni, n'ura boña.
L'à nen tânt lard da daij la gata.
Ogni d'ün a cà sua, 'l meña 'l cül e la
cua.
Nivu facc a pân, se 'l piôv nen añcô 'l
piôv admân.
Par cunossi la gent, venta mangià la sal
ansema.
La galiña vargugnusa, la va dromi cun
al gavass vôi.
Uardà chi ca l'à la testa pü grossa.
Uflè uflè, ogni d'ün al so mistè.
L'Ascension, al gati 'i veñu a baron.
Grân e fen, an quindas di 'l ven.
Se 'l sul al cala drera 'l caplon, 'dmân
l'aua a baron.
Suchi a amlon, ogni früta la so stagion.
As pol nen teñi dui gal ant'in pular.
Sânta Lüsija, 'l pass 'd la furmija.
Al ris dal Barba Steu, 'l fa 'l bavi longhi.
Sânta Cataliña, 'l vachi sut la cassiña.
Ai tuca cantà e purtà la cruss.
Sânt'Andrea, 'l frêcc al monta 'ñ careia.
L'erba 'd l'avsin, l'è semp pü verda che
la nosta.
Sân Bastiân, la viulêta 'ñ mân.
Fami nen stapà 'i fut.
72
Par nen, iè nânca 'l cân ca 'l meña la
cua.
Al Giuan 'dla vigna, 'ñ poch al piâns e
'ñ poch al ghigna.
Ogni d'ün, al tira l'aua 'l so mulin.
L'è cmè 'l bô 'd Bassach, che par nen
bagnassi l'andava 'ñt l'ariân.
Par uardà la mica, 's gionta la brica.
Le meij l'ôv ancô, che la galiña 'dmân.
Chi 'l uarda 'l büschi 'd i'acc, l'as-ciara
nen i so trav.
Chi 'l và 'l mulin a s'anfariña.
Al past l'è nen facc, fin che la buca la
sà 'd furmacc.
Sbatà via la fioca e massà la gent, l'è
travai inütilment.
Par 'na pica, 's gionta fiña la burica.
Par aveini sè, venta vansani.
Iè nen tânt da fa l'erlu.
Taca nen tâncc cantin.
Genar al fa 'i pont, Febrar o ca iù romp,
o ca iù'rzonz.
Tà 'ñ fa stami 'ñ pandêta.
In pari 'l manten set fiôi, set fiôi ai
manteñu nen in pari.
Maton 'd munfrà, cun trant'agn e 'na
giurnà.
Vin e brô, as nu pol fa fin ca's nu vôl.
Cun al but 'd la mel, as ciapa 'l muschi.
L'è cmè 'ñ cân sensa padron.
La fam, la fa sorti 'l lüv da 'ñt 'al bosch.
Quând che la barba la ven bianchin, as
lassa perdi 'l doni e 's serca 'l vin.
Guai a cul ca s'ancaprissia, da vêghi
giüsta la giüstissia.
Se 'l travai al füis nen fatiga, ai travaireia fiña Madama Ludviga.
Chi 'l travaia 'l mângia la paia, chi 'l
travaia nen al mângia 'l fen.
Al butal cit, l'à 'l vin pü bon.
L'è meij al vin coud che l'aua frêsca.
Venta daij 'ñ culp al sercc e l'at la
dua.
Vistissi, svistissi, 'ñdà spusi sens'ampissi.
La melia rara, l'ampiña l'ara.
Al pân dal padron, l'à set crusti.
Al va da 'ñ val an curbela.
Se 't vôli 'ñ cân da cassa, venta pialu 'd
la rassa.
Chi 'l mângia la muleia cun i dencc, al
mângia la crusta cun al zanzivij.
La fioca la meña 'l saren.
Da 'ñt'in pum, ai pol nen sorti 'na brigna.
As lassa tirà cun 'na bavela.
73
La galiña ca la cânta, l'è cula ca l'à facc
l'ôv.
stra.
Son fortünà cmè i cân an geisa.
Chi 'la fa, 'la specia.
Quând iè via 'l gat, ai rat ai balu.
L'è meij n'andà che sent anduma.
La gata füriusa la fa i gatin borgnu.
L'è viv cmè la puvri.
Mantni lü, mantni 'l so caval.
Par daposta o par dabon, lasti mai bütà
'ñ parson.
Al gava l'ôv da sut la pita sensa fala
crià.
Chi ca 'la 'ñ mistè par mân, ai mancrà
mai al pân.
Se 's ruia la brasca, ai scapa 'l valospi.
Antânt che 'l cân as grata, la levra la
scapa.
L'è gram cmè la tuss.
La strà bela l'è mai longa.
Mal i dencc, l'è mal d'amur.
Ogni sânt ai va la so candeila.
Tra fà e disfà, 's ten ampè la cà.
Tücc i dì 'i nu passa i'ün.
Al ris, al nass ant l'aua e 'l môr ant'al
vin.
Chi 'l va piân al va sân e 'l va luntân.
Tücc i'üss, iân al so tambuss.
L'ôv sensa sal, al fa nè ben nè mal.
Sold e amicissia, 'i rompu 'l col a la
giüstissia.
Du doni 'i fân in marcà, tre doni 'i fân
'na fera.
L'è meij essi 'ñ gram padron, che 'ñ bon
garson.
Quând ca s'è 'ñ bal, venta balà.
La galiña vegia la fa 'l brod bon.
L'è surd cmè 'ñ tarpon.
Al souta da 'ñ val an curbela.
Tra tüta l'urtaia, la pü boña l'è la pulaia.
Quând che l'ostu la sta 'ñs la porta, ad
vin ai gnè da scorta.
La vegia 'i rincrêss muri, parquè
nu'mprend i'üña tücc i dì.
L'è riss cmè la cua 'd na berta.
Al gira cmè añ vuindu.
Tücc i cân ai bugiu la cua, tüc i cucu 'i
vôlu di la sua.
Asu 'd natüra, al sa nen lesi la so scritüra.
O mângia s'amnestra o souta sa fne-
Mângia e spua via i''oss.
74
La grassa la sta nen ben, fin che magra
la ven.
Bel an fassa, brüt an piassa.
A l'è meij in bon amis che sent parent.
L'è ciar cmè 'l liri.
Se 'l nivuli 'i vân an muntagna, pia la
sapa e va 'ñ campagna.
Vendi par set o par disset.
Dop ca iè scapà 'i bô, 'i seru la stala.
Ai parent ai son cmè ià scarpi, pü 'i son
strêcc pü 'i fân mal.
Mort al cân, morta la rabia.
La roba, l'è nen ad chi 'la fa, ma 'd chi
'l la god.
L'è nen bel lon ca l'è bel, l'è bel lon ca
'l pias.
Prüma da fassi iütà, l'è meij fassi strüsà.
La cativa lavandera, la troua mai la
boña preia.
Al Signur al lassa fà, ma nen strafà.
L'à vôia 'd mangià, cmè 'l gat barlicà 'l fô.
Chi 'l vêgh, al sent e 'l tas, al lassa 'l
mond an pas.
La bela Maria, tüti 'la vôlu, ma nün al
la pia.
Al vôl mustaij 'i gat rampià.
Pelu russu cativa bestia.
Chi ca l'à tort, al crija pü fort.
Tropa confidensa, as perd al rispet e la
riverensa.
Al pia 'l lüv par in süch.
L'à poca paia 'ñt la bastiña.
Grâmd e gross, ciula e baloss.
L'è longh cmè la Quaresima.
Ventà parà 'ñ zü e spuà duss.
Ai va tüt a toch cun tumatichi.
Usel an gabia, se 'l cânta nen par amur,
al cânta par rabia.
Pagà e môri, iè semp a temp.
L'è meij n'asu viv, che 'ñ medi mort.
La maia barnarda, pü 't la tiri pü sa
slarga.
La dona, nu sà i'üna pü che 'l diau.
Fa 'ñ bon past e 'na cativa smâña.
Al diau, al fa 'l ramiñi, ma nen i
quercc.
L'ôcc dal padron l'angrassa 'l caval.
Venta mai büta 'l car dadñan di bô.
La mnestra, l'è la biava 'd l'omn.
Chi l'è schivius a l'è scarus.
An mancânsa di cavai, ai fân trutà i'asu.
Savei la rava e la fava.
75
Venta semp grupà l'asu 'ñtè ca 'l vôl al
padron.
Al mistè dal Miclass: mangià, beivi e'
ñdà spass.
La pü boña misiña, pulpa 'd galiña e
brod ad cantiña.
L'à facc n'ôv fora 'd la cavagna.
L'è pü neij che 'l tabaru dal diau.
Ai var pü tânt la pratica che la gramatica.
L'à nè puvri, nè bali, nè s-ciop da sparà.
Agust l'è cap 'd l'inver.
Ai custa pü la corda che 'l barlêt.
Chi pü 'l spend, menu 'l spend.
Blagà cmè n'anciua.
Par cumparì venta sufri.
Lüstar cmè 'ñ pavon.
L'è grusser cmè la stubia.
Chi 'l büta buchin, al büta quatrin.
Fati 'ñ là parô, ca 't tensi la me ramiña.
Se 't vôli la verità, 't devi sentla dal
masnà.
Al fa 'l cuion, par nen pagà la sal.
La roba vegia 'i fa unur la cà.
Chi l'è ciula al paga la buta.
La vaca 'd Valensa, cmè la fa la pensa.
Nebia bassa, bel temp al lassa.
Sân Simon, uardemi 'd la losna e da 'l
trôn.
L'istà 'd Sân Martin, al düra da la seria
a la matin.
L'è scricc ans la preia dal Dom, che 'na
bela dona la pia 'ñ brüt omm.
Chi l'à passiensa cun al fi, l'à passiensa
cun al mari.
L'omu, l'asu e 'l pulon, ai son tre cuion.
Iè nen 'na bela scarpa, ca la veña nen
'na brüta savata.
Al sach vôi, la sta nen an pè.
L'è cmè ciamaij la curoña n'abrè.
Al cân ca'l boula, 'l mord nen.
Lengia 'ñ buca, a Ruma 's va.
Ciamà l'è metà vivi.
'Na vira 'i cur la levra, n'atra vira 'i cur
al cân.
I cavai 'i son nen tücc da posta, nen tüti
'l paroli 'i meritu risposta.
Ragn ad matin, al porta sagrin, ragn ad
sera, bona nôva sa spera.
Al pü brav di russ, l'à sbatà so pari 'ñt
'al puss.
Al düra da Nadal fiña Sân Steu.
Tera neria, la dà bon früment.
76
Al sbaglia fiña 'l previ di mêssa.
L'è cmè 'ñ sach sensa fond.
Chi 'l giôga 'd testa al paga 'd bursa.
L'è bon da fa 'd l'ôli.
Chi l'à 'l difet, l'à 'l suspet.
At mângiu fiña la s-ciânch dal gâmbi.
La canson par essi bela, la va cürta.
T'e nânch padron 'd la ciav di canavôi.
La farina dal diau, l'adventa tüt brên.
Venta mai fa 'l pass pü longh che la
gâmba.
La sêgia la va tânt al puss, fin ca 'i lassa
'l mâni.
Al lüv al perd al pel, ma mai al vissi.
Al paroli 'i son cmè 'l ciresi.
'Na grama cuia iuma mangiala 'ñ vêndri.
Al va tânt l'usel a l'aua, fin ca 'i lassa 'l
bech o l'ala.
L'inver, l'à mai mangialu 'l lüv.
Tücc i grup ai veñu al peciu.
Al cân magar, tüti il muschi 'i curu press.
Tücc i trop ai uastu.
La roba 'mprastaia l'è mesa regalaia.
Vissi 'd giuvantüra, 'i meñu prestu la
sipultüra.
'Na vira prüm caval 'd l'asu.
L'è nen tüta fariña dal so sach.
Chi 'l fa cmè 'l previ 'l fa, cà dal diau al
va, chi 'l fa cmè 'l previ 'l diss, al va 'ñ
paradis.
Amur 'd fradel, amur 'd curtel.
Al sul 'd favrè, 'l fa môri la nona e
l'amsè.
Al pân ampramuà, l'è bon da rendi.
Se 't vôli truà i'ün anteressà, venta ca't
serchi 'ñ previ, o 'ñ fra, o i'ün sensa
masnà.
Ciavatin cun i'à scarpi furaij, sartur cun
al braij s-ciancaij.
L'è meij cariati che 'mpiti.
Par ogni usel, al so nil l'è 'l pü bel.
Al dui febrar, l Madona Siriola, quând
ca la ven?
Se Sânt'Urss al fa suà la paia, o ca l'è
fioca o aua slaia.
La roba rubaia la fa nen bon arquist.
L'è nè da futi, nè da fa ciar.
Al piâns acmè 'na vi.
Ai taiu l'erba da sut i pè.
At cunossi nen l'erba ca la fa 'l gran.
Iân semp pagüra ca 'i mânca la tera da
sut i pè.
At sa nen antè ca'i vendu la sal.
77
Chi l'è busiard, l'è ladar.
L'è vôi cmè 'na cana.
Cmè 'i fa la giôbiâña 'i fa tüta la smâña.
Ai resit fiña 'l porch ans l'arbi.
Se t'à mal la pânsa, va cagà 'ñ Frânsa, tra 'ñdà e mnì, mal la pânsa l'è
uarì.
L'à la ghigna cmè 'l cül.
L'è cmè 'l mulin 'd la Cantarâña, quând
ca iè l'aua 'i mânca la grâña.
Va ciapà di rat cun la cana.
Temp e cul, al fa cmè ca 'l vôl.
Vati scondi 'ñti prà taià.
Suma pulid cmè n'anel.
Al pol pü nè fügi nè curi.
Venta piani i'ün par bati l'at.
Al sa nè parlà nè tasi.
Se ta s-ciari 'na caria 'd paia, la giurnà
la finiss an bataia.
Al mang-reia 'l ben ad set gesij.
La roba truaia l'è mesa rubaia.
Chi 'l cünta 'i so uai an piassa, chi 's nù
sbüsa e chi 's nù spassa.
Suta 'na lantia, iè 'na bela fija.
Faij schergni la lüña.
Dona giuvna e omu d'età, 'd masnà i'ampinissu la cà.
L'è 'ñcò 'ñca 'ñcô.
Venta fa pular nôv.
Al sa pü nen che sânt arcmandassi.
Chi d'amur as pia 'd rabia 's lassa.
Anduma ciapà da cul cò.
L'è nè da futi, nè da fa ciar.
Pân e vin e oca, se 'l vôl fiucâ ca 'l
fioca.
Al Signur ca 't cunserva la vista, che
l'aptit at mânca nen.
Chi 'l lassa la strà vegia par la nôva,
'ñganà si trôva.
L'è biut cmè 'ñ verm.
La vulp ai fa la predica 'l galiñi.
L'à fami fa 'na figüra da ciculatè.
Al tort l'è mort maton, parquè nün a lu
vol.
L'è svers cmè 'na manissa.
Suma Peru cmè chi i'eru.
L'è surd cmè 'na büss.
Al gerna cmè 'ñ Catalân.
L'è borgnu cmè 'ñ pum.
L'è gnurant cmè 'na sêpa.
78
A l'ombra dal campanin, ai manca mai
nè pân nè vin.
L'è maru cmè 'l tossi.
fiña 'l Signur.
A l'è 'na gussa d'or.
Lu ten cmè 'ñ papè 'd müsica.
Iè da fassi cmè 'ñ babi.
Se 'l pol nen bati 'l caval, al bat la
sela.
Ai crêdu d'andà 'ñ gloria 'ñt 'in sistin.
Par i'ün trist, lu pagu sent giüst.
A l'è scüri cmè 'ñ buca 'l lüv.
L'è ardì cmè 'ñ sigulin.
Ai pias dromi fin che la vaca la cânta.
Venta mai lassassi büta 'i pè 'ñs 'al
col.
Mangià 'ñ pum al dì, sensa medi sa sta
ardì.
A sân Giuan as rânca l'ai.
At vari nen in'orbu.
A sân Valentin, as samna 'i piantin.
L'è cmè bütà na caramela 'ñ buca n'asu.
La ven a verssi sêgi.
Par stà vira, iuma tacaij na ciapa.
Al Signur iù fa e pô iù cumpagna.
Nas ca 'l pissa 'ñ buca, guai a chi lu
tuca.
Truassi 'ñ mes l'inquisu e 'l martel.
Carn ca sa stira, la var nen 'na lira,
dopo ca l'è stirà iè nün sold ca 'l la
possa pagà.
Fra Mudest, l'adventa mai Priur.
Carn ca la crêss la sta mai ferma.
Se 't vôli nen che 'l carton al sübia,
venta onsij 'l roui.
La vôia dal marià, la ven cmè la vôia 'd
cagà.
Ai ven la vista ca la fa Batista.
Chi la pü fil, al fa pü telia.
T'à slargami 'na spana 'd côr.
A Sân Martin, al must l'è vin.
L'è 'ñcantà cmè 'ñ viru.
Se 'i cânta la râña, la piôva l'è nen
luntâña.
Venta sgnassi cun la mân manssiña.
Drucà da 'ñt la pela ant la brasca.
Sach papè, pistola 'd paia.
Chi 'l dovra nen la testa, al meña 'l
gâmbi.
Antè ca 'i riva 'i müradur, 'i fân scapà
L'ann ad trêdas lüni 'l fa piânsi 'l masnà
'ñt al cüñi.
Magg urtulân, tânta paia e poch grân.
Se 'l fa bel a sânta Bibiâña, 'l fa bel
quaranta di e 'na smâña.
79
Quând ca l'è nivu, l'è privu.
Mort in Papa, nu fân in'at.
Se nuvembar al troña, l'è n'anada
boña.
Quând che mal a l'à d'andà, fiña 'l galiñi 'i fañ fora 'd cà.
Uarti chi 't uardrô.
O tüt câmp, o tüt prà.
Chi l'à pagüra 'd l'infer, al fa la fam istà
e inver.
Robi giüst, mai al mond.
Sânt'Anzêgn-ti l'è ñ grân sânt.
Al clomb, al mângia l'or e 'l caga 'l piomb.
Iân rangià cula dal bütir.
Chi 'l manten nen cân e gat, al manten
ladar e rat.
Iè 'lmach al muntagni ca 'i stân fermi.
Ca dal frè venta nen tucà, cà dal spissiari venta nen sagià.
Quand che 'l clomb l'è pin,. la vêssa l'è
mara.
La nôcc l'è la mari di pensè.
Temp e paia, 'i madüra 'l nespuli.
L'è mei têmi che trêmi.
Al mal al ven an carossa e 'l va via a
pè.
Par in poncc Martin l'à pers l'asu.
Ampramuà sensa rendi, l'è vivi sensa
spendi.
As pol nen gavà 'l sângh da 'ñt na rava.
Ai var pü la pratica che la gramatica.
Venta nen vendi la pell 'd l'urss, prüma
d'aveilu massà.
Buton ca 'i lüsu, o ca 'i tensi o ca 'i
brüsu.
La scua nôva, la scua ben la cà.
Fin ca 'i gnè viva 'l Re, quand ca 'i gnè
pü viva Gesü.
Chi 's leva prêstu la matin e 'l va dromi
bunura, 'l mânda 'l spissiari 'ñ malura.
La pulenta, pü l'è oncia pü 'la va zü
cuntenta.
La dona l'è cmè 'l cutlêti, pü 't la bati e
pü la ven têndra.
Fin che 'l fich l'è nen visti, svististi nen
nânca ti.
L'è mei cunsümà 'l scarpi che 'i lansô.
Pânsa vôia la vol quaicos, pânsa piña
la vôl ripos.
Par fa 'i taiarin, se t'à nen l'ôv, fatlu
'mprastà 'd l'avsin.
Mei in bon amis, che 'ñ gram parent.
L'è nen bon fa n'o cun in bicier.
Tantu furtünà, che se 'l feisa 'i capei ai
nassu sensa testa.
80
L'è nen fariña da fa 'd i'ostij.
Nüñi nôvi boñi nôvi.
Al va cmè 'i bô 'ñt la melia.
La sucieta l'è boña par na marenda.
Chi 'l vânsa par admân al vânsa par al
cân.
Venta mai di quat, fin che l'è nen ant'al
sach.
L'è scanà cmè 'l fânt da pichi.
L'è 'ñtrei cmè 'na sepa.
Tra mari e fia, iè nün ca s'asgarbya.
Cuntadin, bray 'd früstâña e sarvel fin.
Purtà 'i baston sleià, iè d'amprendi giernà.
L'è russ cmè la losna.
T'è 'ñt al mond parquè iè tânt post.
Ai son cmè cül e camisa.
Ai son vira couss e 'ñ cua.
L'è tântu grossa ca l'asmeia na barossa.
La ven pü larga che longa.
L'à bütà 'i furniment da vitüra.
Al parent l'è cmè 'l pess, dop tre dì 'l
spüssa.
L'è fürb cmè Garabuia.
L'è 'ñdà 'ñ tera cmè 'ñ lardon.
L'à fani da vendi e da pendi.
L'è plà cmè 'na gaia.
Parola 'd buca, tânt la var cmè poch a
la custa.
Ott etu a tücc, novetu quaidün, in chilu
a nün.
Chi 'l drom a magg, al zazüña a setembar.
Quând l'omm al meur la dona la fa
deur.
Dona e teila 's uardu nen al ciar 'd la
candeila.
L'è n'at para 'd mâgnii.
Chi 'l sta ben al bugia nen.
Quând al puss l'è sücc, as capiss què la
var l'aua.
L'ha tânt ant la ment Diu, ca'l perd fiña
l'anima.
Par ancô, suma 'ñtè chi suma.
Chi 's bagna 'l meis d'avust, al riva nen
a beivi 'l must.
Chi 's seta 'ñs la preia 'l fa tre dagn: al
ven anfargià, al früsta 'l bray, al cül al
fa nün uadagn.
Fa dal mal as fa apcà, fa dal ben l'è
temp sgarà.
L'è bon bati e virà mân.
La smurbietà la meña vissi.
La dona ca la piâns e 'l caval ca 'l süda,
ai son pü 'mpüstur che Giüda.
Fami ne andà fora 'd carzà.
81
Ai mânca semp disnov sold par fa 'na
lira.
Chi 'l sta 'ñt al so desert, nè 'l uadagna
e ne 'l perd.
L'omm quaând al nass l'è bel, quând sa
spusa l'è cuntent, quând al môr l'è brav.
L'è scüri cmè 'ñ buca 'l lüv.
Al sa pü tânt in fol cà sua che n'ansantur cà 'd i'acc.
Al tort l'è mort maton parquè nün lu
vôl.
Venta bati 'l fer fin ca l'è coud.
Al risot l'è la biava 'd l'omm.
Par Sânta Crus ogni percia la so nus.
La buntà 's dovra cmè cüra, parquè la
blêssa poch la düra.
La dona l'è cmè l'onda, o ca's suleva o
ca la fonda.
San Michel dnân o drè 's lava 'i pè.
S'arpya set viri cmè la tampesta.
A grân as samna 'ñt al puvrass, al ris
ant al pautass.
Ai bugia nen 'na fôia sensa che Diu
vôia.
Piôva d'avust, l'è or ca l'adventa must.
Parola 'ñt l'urya l'ufend la cumpania.
Posa piân dal bot fort.
Và zü pân che la cumpanà l'è zà dadnân.
L'è cmè Madama Ciribouda, 'ñ poch l'è
frêgia 'ñ poch l'è couda.
Travai 'd la cheña 'l fa nen mal la
scheña.
Venta 'ñvudalu Sân Fransêsch, se'i taca
nen al verd ai taca 'l sêch.
Par in poncc Martin l'hà pers la capa.
L'è giuvu cmè 'na preia cita.
I'amiss as cunossi 'ñt la svantüra.
Dami, dami nen, pü che 's pass vagh
nen.
Ai carabiniè cun i fer, ai previ cun l'infer, ai teñu 'l mond ferm.
La roba l'è nen ad chi 'l fa, ma 'd chi 'l
la god.
Ai sânt la fioca 'ñti câmp, ai mort la
fioca 'ñt l'ort.
La cà grânda la cunoss nen miseria.
Suma 'ñtrames tnaia e martel.
Chi l'hà 'na cà, l'è sgnur se lu sà.
Par al caval al spron, par la dona 'l
baston.
Par fa 'ñ kirié 'i va 'ñ sach pin ad
diné.
Chi l'arnunsia a la so roba prüma 'd
murì, 'l merita nen d'essi cumpatì.
L'è scuri cmè 'l limbu.
Tre robi dulurusi 'ñ famija: al camin
82
ca'l füma, al tecc ca 'l piôv, la dona ca
la crija.
Chi 'l drom cun i cân as leva sü cun al
purs.
ca'l cur».
Du nus ant in sach e du doni 'ñt na cà
ai fân scapà.
Doni e ochi venta teñ-ni pochi.
Al doni e 'i cavai s'amprêstu mai.
As fa pü prest ciapà 'ñ busiard che 'ñ
sop.
Cun al but 'd la mel as ciapa 'l muschi,
cun la zil as fân scapà.
L'amur, la tuss e la fam, ai son robi ca's
fân senti.
Ai porch e 'i negussiânt as sà què 'i
varu 'lmach dop mort.
Ura 'd pagà venta andà dasi, ura 'd pià
venta curi.
Chi 'l vôl vivi sân e lest, al mângia
poch e 'l va dromu prêst.
Tücc i sânt ai vôlu la so candeila.
Crêpa pânsa, pütost che la roba 's vânsa.
Chi 'l fa mal an n'ha 'ñ butal, chi 'l fa
bin in quartin.
Chi l'ha tâncc fiôi, al va dromi cun al
stomi vôi.
Ai bicier crêp ai düru pü che cui nôv.
A essi galantom 's adventa mai
sgnur.
Furtüna cmè 'i cân an gesia.
Cun l'art e cun l'ingann as viv metà
l'ann, cun l'ingann e cun l'art as viv
l'atra part.
Ai var pü n'onsa 'd furtüña che 'na lira
da scienza.
Trav an pè e dona 'ñ piân ai susteñu 'l
Dom 'd Milân.
Chi 'l nass sfurtünà ai piôv ans al cül
beli da setà.
Dulur ad gumi ed dona morta, 'l düra
da l'üss fiña la porta.
Diu ma scâmpa d'an cativ avsin e da
chi l'amprend sunà 'l viulin.
Diu iù fa, dop iù cumpagna, la fin as
trou 'ñt la bagna.
A la barba grisuliña ai fa ben al brod ad
cantiña.
Quând la fâm l'è tântu grânda, l'amur al
sta 'd na bânda.
Pissà sensa tirà 'ñ pêt, l'è cmè sunà 'l
viulin sensa l'archêt.
Nè dona nè teila, as uardu mai al ciar 'd
la candeila.
Nè malatia ne parson ai rendu l'omm
pü bon.
Ai fân pü schivi che sgiai.
Al diss al dutur: «Venta nen teñi lon
La cumpania 'd la dona: da giuvu l'è da
caprissi, a vecc l'è da servissi.
83
Al bôcc 'd la gula l'è strêcc, ma 'i passa
cà e têcc.
L'è or dublè garantì dal tulè.
Apcà cunfessà l'è mes pardunà.
La regula la manten al cunvent.
Se l'è nen süpa l'è pân bagnà.
A quat robi venta crêdi: al sul d'iver, al
nivuli d'istà, a l'amur 'd la dona, che
dop la piôva l'è bagnà.
Venta mai bütà la paia 'vsiña 'l feu.
Chi 'l samna vent al rabaia tampesta.
Se 'l piôv par San Vì, 'l racolt ad l'ua 'l
va falì.
Cmè 'i fa la giübiâña 'i fa tüta la smâña.
Iuma tiralu bass.
L'à semp al bulin an mân lü.
Al crêd da fa munarca.
Lon che Diu vôl l'è mai trop.
La sunada, per essi bela la va cürta.
L'è bianch e russ, l'è bon da insi cun
in'ongia.
Anima tua, bursa tua.
L'è murzin cmè 'ñ pân 'd bütir.
O tüt prà o tüt camp.
L'è drolu cmè 'ñ ciuchin 'd bosch.
L'è pü numinà che la bicornia dal magnân.
Se 't fa mal tira 'ñ ual.
Ai capissu nè stì nè uist.
Chi 'l barata 'l grata.
Al capiss semp ciò par brocla.
Al ten al pè denta du scarpi.
Sapà la vigna d'avust par avei bon
must.
Ant la prüma, tuta l'erba ca l'oussa la
testa, l'è boña da fa la mnestra.
Chi 'l drom d'avust al drom a so cust.
La Quaresima l'è greva par sêndri e
vêndri, ma la pias la so pas.
Venti essi bon bati e virà mân.
Ai nussent ai pagu par i pecatur.
La tenca 'ñ camisa, al lüss cun la plissa.
L'è pulid cmè 'l baston dal giuch.
L'ha i'ôcc anfudrà 'd pel ad salam.
Chi 'l fa 'l fala.
La culomba l'ha la cua, chi 'l la ciapa
l'è la sua.
L'à nè dnân nè dreda, cmè 'l mâñi dal
cassül.
L'è cmè l'or 'd Bulogna, 'l ven russ 'd la
vargogna.
Chi 'l scua 'l ciar 'd la lüña, 'l scua fora
la furtüña.
84
L'è sôlia cmè n'ass da lavà.
La dona e l'umbrela, 's lassa nè al fradel nè a la surela.
L'à bandunami cmè 'na gaia.
Al pân l'à tropa fariña.
Al fa tânti viri cmè 'ñ stur.
As lassa tirà cun na bavela.
Quând l'omm l'è 'ñ pension, la dona l'è
'ñ parson.
Fin che i'ün l'à 'i dencc an buca, 'l sa
nen lon ca 'i tuca.
Al sa nè 'd ti, nè 'd mi.
Iè semp al vendri ca 'l mângia 'l saba.
Suma a cürti büschi.
La roba trop desideraia o ca l'è tampesta o aua slaia.
Fami nen amnì i'omi.
L'è slaia cmè la tampesta.
La furziña la taia cmè 'ñ borgnu.
Mars, chi l'à nen ià scarpi 'l va scouss,
ma chi ca 'i ià, ca ià porta 'ñ poch pü 'ñ
là.
La ressia di müradur la taia cmè 'ñ sülot,
al sülot al taia cmè la ressi\a.
Antè ca 'i gnè 'i nu va.
Sessanta, pü nè 'l sübia, pü nè 'l cânta.
In toch sul al fa nen fiama.
Al va cmè cul di sinch.
Venta semp lassà che l'aua la vaga 'l
bass.
Al nôvi beli 'i stân ans l'uss, culi brüti
'i vân dapartüt.
Venta nen tüti 'l muschi daij 'ñ sgiaf.
Lacc e vin, ai ven al plagi fin.
Suma 'ñt al mân la mari madrêgna.
L'ültim rivà a toula, 'i son i prüm a
piânsi.
L'à nen in uiciu.
Ciar cmè dencc ad cân.
Avril, che bel drumì, i'usei a cantà, al
piânti a fiurì.
Quând la va mal, la va mai mal par
tücc.
Al sa mai antè teñi 'l cül.
Chi 'sla pia greva, al la meña greva.
Al troua pân par i so dencc.
La dona unesta tüt l'ani 'ñ cà la resta.
L'è mei in gram istruì che 'ñ brav gnurânt.
L'è rara cmè la boña gent.
85
86
PENSÈ 'D LA SERIA,
FORA 'D LA REALTÀ
87
OMNI SUL
Seria frêgia d'inver, piôva cmè gügi la trapàna
la ghigna 'd la gent ca'i traversu 'na sità grisa
cmè 'l ciel di sa stagion; na sucietà ca's fana
prüma 'd nôcc, par truà cul nà cun la camisa.
Omni sul, ai vân nân par marciapé slavà
'd puvri neria, bagnaia 'd la piôva, cichi, spuass,
cun al spali ca's piegu suta 'l peis 'd la realtà,
al trafich faraginus al scansela 'l vers di pass,
ca's montu 'doss i'ün cun l'at sensa diression.
Pass incert ad gent ca l'ha pagüra 'd la seria,
parquè iù porta vers cà piñi 'd disperassion,
antè l'ünica cumpania l'è l'ombra 'd la miseria.
A uardà ben si omni 'i son nen sul, tânta gent
iù urcioña, iù sbalota d'an cânt a l'at 'd la cuntrà,
epüra 'i vivu la suferensa, sulitüdine, turment,
ad chi 's sent spers, ant l'indiferensa 'd la sucietà.
Sul vlong la strà, 'ñ mes la cunfüsion culuraia
'd l'ura che la giurnà 'i lassa 'l post la nôcc,
sul pü tardi 'nt na stânsa 'd la vota parfümaia,
antè na stivia pü che scaudà la fa brüsà i'ôcc.
Ai son omni ca'i traversu diversi stagion e età,
parquè l'è nen dicia che tücc cui sul ai siu vecc,
primavera o autügn, ai sân nen cun chi parlà,
svuens ai mânca 'l curagi 'd uardassi 'ñt al specc,
par pagüra 'd vêghi 'na ghigna par lur frustera.
Cust l'è 'l mond d'adess, t'ancontri gent, na vira
t'eri amis, adess at uardu 'doss ant na manera,
cmè 't füissi 'ñ marziân, l'è na roua ca la gira,
ma la fin t'è semp al medem post, ant la cunfüsion,
an mes al tran tran ca'l sgüia via indiferent,
tânt da ciamati se l'amur l'è 'lmach n'invension,
al calur ümân, se s'ancontra l'adventa aveniment.
88
Tânti giuieri lüsenti 'd ciar tânta gent la bragâla,
ma tücc as fân i so afari, 'i tiru dricc la so strà,
i'omni sul ai passu, cun 'na crus greva spala,
al la bütu tüta par supurtà 'l peis. Püra la sucietà
l'è piña 'd crus, ma tâncc ai riessu scrulassi
da doss cul peis, opüra 'rfilailu a quaidün d'at,
magara cui sul ca'l l'hân zà, e'ñveci d'arfüdassi,
as fân carich ancà 'd l'atra, parêcc al so piat
'd la balânsa 'l va fiña 'ñ tera. Parêcc la seria
semp pü sul e strach, ai strüsu 'l peis sut la piôva
fiña es ciassa, ca la fura la ghigna, la miseria
iù specia 'ñt la cà vôia, cun 'na suferenza nôva.
Omni sul, ant al tran tran 'd na seria d'inver,
frêgia, vlongh marciapè slavà 'd cichi, spuass,
tânti lüci lüsenti, ma denta l'anima iân l'infer,
antânt che sa sucietà civil l'arvitula 'ñcù pü bass.
Mi entr ant na ca couda dal calur ad sentiment,
ma mi son nen sul cmè si omni sul, l'indiferensa
mi 'l la ser fora, trou al cunfort ad la me gent.
Tropa gent, ant sa sucietà, la sent pü la cussiensa.
21/01/97
h 23,15/0,15
89
L'UDUR DAL PRUGRESS
Al massim riess carêssà cun la ment i'udur
ca'i caraterizavu la seria, tüti 'l stagion,
ad primavera 'l pudiva essi 'd viulêti, o atri fiur,
opüra cul dal mangià 'l fa traondi gulon.
D'istà l'era l'udur dal fen, at pensavi 'l gril
ca'l gratava 'l so viulin, o l'arsgnôl al cantava
l'amur, ai frà e 'l rundâñi 's pusavi 'ñs al fil
antânt che 'i cavai al scüri 'i rusiavi la biava.
La seria d'autügn la spüssava 'd paia 'd ris,
ad fich mamlent, ad pulenta cun la pivrunà,
ad füm ad sigala, ad mucc ca'l brüsa 'i barbis,
ad must ant al butal, d'omni ca'i sân da strassuà.
Fiña l'inver, beli ca 'l smeia, l'ava bon udur,
par esempi la füm di camin, la purtava cunfort,
cun al bosch ca 'l brüsava, t'añmaginavi calur
sân ant la cüsiña, par i povri l'era 'l port.
Suquì 's parla 'd tânt temp fà, n'eternità,
parquè iè passà 'na vita da si sensassion,
tânt chi dübit fiña da essi stacc masnà,
la manera ca l'è svapurà 'l calur 'd i'emussion.
Adess, qualunque seria, ant qualsiasi stagion
i'udur ai son pagn, talment gram da scanslà
cui bon, l'udur dal prugress l'è nen invension,
girlu cmè ca't vôli 'i barata nen la realtà.
At ven fiña 'l dübi: “Ma i'esistu 'ñcù 'l fiur?”.
Certu 'i fatigu tânt restà vivi e tüt al parfüm,
as perd ant l'aria 'mpestaia, 'ñsema 'l calur,
la magiur part di camin la fa nen 'd füm,
o se la sort la sa 'd nafta oncia, opüra 'd gas,
grassa e gialda 'd carbon, la taca 'ñt la gula,
i'ôcc ai piânsu, et gula la stissa dal nas,
propi cmè quând t'è custret trià la sigula.
90
L'udur dal prugress, semp pagn tüti 'l stagion,
sia ca 'l veña 'd la risera, diserbânt o camin
dal cà, o cimineia 'd la fabrica, l'è n'ussession,
inquinament, adess at massu nen i sassin
almach, ma l'inquinament al va nen an parson,
se l'è par sulì nânca 'i sassin, ma l'aria 't respiri
et crêpi, timur ant i pulmon, at brüsa 'l gargion,
nün al vôl amêtlu, antânt mandich at tiri
'i bacc. T'at iù sogni cui udur ad mangià bon,
tüt al ven sacrificà al prugress, che cun i'udur
am sacrifica ans cul altar 'd la disperassion,
antè la vita la düra 'l temp ca'i viv 'na fiur.
Suquì pensava stasseria, pedalând vers la me cà,
respirând l'aria frêgia, ampestaia 'd prugress,
la ment la caressava l'udur 'd pulenta pivrunà,
ma 'l me nas, povri nas, al nasava l'udur dal cess.
Certu, i'era 'ñcà 'na vira, ma iè nen paragon,
l'era n'udur pü genuin, l'era genuiña l'aliam,
parquè tüt l'era amzüra d'omm, sens invension.
Suquì l'ha purtà 'l prugress: mond e udur gram.
25/01/97
h 23,25/0,20
91
SVISTISSI DI SOGN
Lu suma che par supurtà la düra realtà
d'is mond venta vistissi 'd sogn e d'ilüsion,
parquè altimenti 'l viagi l'è dür da supurtà,
l'anima la s-ciopa, suprafacia da i'emussion.
ma 'l vistì facc ad sogn l'è debal, sa s-ciânca
al prüm impat cun i prublema 'd l'esistensa,
al prümi delüsion riessuma nen fala frânca,
t'ancontri l'indiferensa et da nen precedensa.
T'at troui cun i to sogn a fruntegià la viulensa,
i 'ün par vira 'i svanissu, ti 't resti disarmà,
t'ha vôia da daij dament ai scupul 'd cussiensa,
daspartüt ai spontâ ustacul, at riessi nen passà.
Alura t'at rendi cünt ca'i va n'atra vistimenta
par afruntà 'l mond, cun cula 'd sogn t'è biut
an pienu invernu, at sucombi 'ñt la turmenta,
alura 't capissi che par spuntala, rut par rut,
at cunven lassà dreda cül vistì, l'è fora moda,
la realtà 'ñt al mond d'adess, s'afronta cun grinta,
ai dritu 'ñveci 'd l'aua, ai beivu vuischi e soda,
par prosegui 'l viagi, ai va mincantânt 'na spinta.
Ai son nen certu 'i sogn ca't fân vensi 'i traguard,
venta bütà da part i scrupul, duvrà viulensa,
i'ubietiv at iù centri nen certu duvrânda riguard,
e nânca speciânda che 'l prossim at daga precedensa.
Svistissi di sogn, l'è 'l sistema par rivà l'ubietiv,
la sucietà l'ha nen rispet per vistimenti fantasiusi,
ma 'd chi l'ha vistimenti cafoñi, sguard cativ,
i'ansültu, t'afrontu cun paroli brüti, rabiusi.
Vistissi 'd sogn al pol vari par al poeta sugnatur,
ca'l pensa 'd uardà 'l nivuli cai curu per al ciel,
duvrânda 'l beli maneri, magara parlà d'amur,
sensa mai smuntassi; par grev ca'l sia 'l fardel.
92
No, cust l'è pü 'ñ mond, antè iè post par i sogn,
antè chi 'l cultiva 'l fiur l'ha diritu a rispet,
l'è passà 'l temp, ca s'uernava 'i pumpudogn
an mes al fardel da spusa! Dess ai son difet
gravi; il poeta 's troua navigà mar bürascus,
antè 'l paroli 'i devu essi grevi, düri cmè preia,
altrimenti t'è cundanà par semp purtà la curs,
ai dritu, quând t'ancontru, 't pistu cmè veia.
Venta svistissi di sogn, at portu nün ubietiv,
ai va mur grintus, parlà cun ton arugânt,
altrimenti dificilment at rivi 'l traguard viv.
Ant al carti 'i var al re, se t'ha 'lmach al fânt
t'ha pers, t'è
a vêghi 'i to
alura 't resti
l'è longh, al
cundanà pagà 'l pedagi,
sogn svanì, i'ün dop l'at cmè füm,
biut, fora 'l fa frêcc, al viagi
ciar sa smorta, l'è sens'ôli la lüm.
Svistissi di sogn, l'è necessari par supravivi,
par nen truassi biut afruntà la brüta stagion,
se t'ansisti, t'at troui cun ant al sach al pivi.
Ant is mond, pü nün l'è dispost vivi d'emussion.
01/02/97
h 0,15/1,10
93
SUCIETÀ MUDERNA
Mi chi ven da n'epuca cunsideraia antica,
travers is mond cmè 'ñ mar an bürasca,
ant la miseria 'd sa sucietà ca's crêd rica,
resiguma semp drucà da la pela 'ñt la brasca.
Sucietà muderna 'l la ciamu, ma 'd mudern
iè 'lmach al modu d'andà finì la perdission,
par cunquistà richêssa, s'andareia finì l'infern,
a pagà pressi out, as rinunsia ogni emussion,
an câmbi d'in cünt an bânca, opüra 'd traguard
ca's cunquistu, sensa uardà trop par al sutil,
par prosegui 'l viagi venta mai duvrà riguard,
as riva a nün ubietiv se 't curi nen ans al fil.
Parêcc, cui antich cmè mi, as trou 'ñt n'ingranagi,
antè o's sua o's neia, par riessi a supravivi
venta pudei dispoñi 'd na bela dosa 'd curagi,
se 't vñli nen ogni mument bütà 'ñt al sach al pivi.
Sucietà muderna 'l significa acetà situassion
che la nosta cussiensa ñ temp l'avreia mai acetà,
uardânda vers l'ubietiv, sensa mai cedi i'emussion,
scarpuzânda cui valur chi iuma semp rispetà,
sensa fassi scrupul da duvrà sistema pervers,
cun la cussiensa ciara e 'l rispet par i valur,
at sarà cun l'anima 'ñ pas, ma vistì da svers,
par fa dal camin, mai preocupassi da pistà 'l fiur.
Al mond as cunquista 'ñs la pel di nost aversari,
rubânda l'aria 'l prossim, al sul ca'l fa ciar,
cumbati l'ültim respir, par fa quadrà l'inventari,
sensa pruà rimors, se a beivi 'l bicier pü mar
al sarà 'l viandânt, ca'm cumpagnava par la strà.
Ant sa sucietà, par emergi, venta mai duvrà rispet,
se l'aria l'è scarsa, preocupti d'essi ti a respirà,
se l'at al scogna, sicürament parquè l'ava 'ñ difet,
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pensa mai d'essi 'ñ culpa, l'equival a'na cundana.
Se ti 't rivi 'l traguard, l'è parquè t'eri 'ñ gâmba,
cul sensa grinta, l'ha semp al fià longh 'na spana,
pensa mai d'essi la causa di so uai, l'è n'idea strâmba,
che mai par in mument la dev frulati 'ñ testa.
Roba l'aria 'l prossim, roba püra 'l spassiu par vivi,
sensa pruà rimors, cur ancontra la vita cmè festa,
e se quaidün admân ai ven an ment da scrivi
che ti t'è egoista, ca't sa pü què 'i son i valur,
sapata 'l spala, l'impurtânt l'è rivà cul ubietiv
ca t'avi prugramà. Altrimenti t'avrà vistì culur
svers, a difarensa 'd cui ca't cunsideri cativi,
ma che 'ñ barba la to cussiensa pulida 'i son rich,
ti 'ñveci 't seguiti fa 'l gir, par nen pistà 'l fiur,
dal to cumpurtament i'acc ai n'umporta 'ñ fich.
Ti 't resti i'ün antich, ca'l seguita regalà l'amur,
ant 'na sucietà muderna ca lu calcula fora curs.
La fin i'acc ai passu, ti 't frêmi, 't resti 'ñdreda,
at curi, ta sbanfi, at tussi cmè 'ñ caval sburs.
Al to vistì l'è svers, la sucietà l'ha lassati 'ñdreda.
05/02/97
h 23,25/0,25
95
DISEGNÀ 'L SILENSIU
Cun la fantasia 's pol realizà pruget grandius,
fiña trasferì 'ñs la carta què 's sogna la nôcc,
distacà la lüña dal ciel e bütala 'ñt al puss,
trasfurmà realtà què 's vêgh nen cun i'ôcc.
La fantasia la vistiss a culur ogni invension,
sensa che mai cui culur ai siu esistì 'ñ natüra,
fiña a tucà cun mân i sogn, pruà emussion,
vulà par al ciel, ampinissi traondi aria spüra.
Ma la dev rivà livel, ca 'i vân ultru 'l nurmal,
par disegnà 'l silensiu, venta superà l'inventiva,
parquè 'lmach n'inteligensa cun rifless special,
la riss da furma a 'na roba, che se l'è viva
nün l'è 'ñ gradu da garantì. Cmè 'l sarà mai facc
al silensiu, se's sent nen e mai nün al l'ha vist?
L'ha 'l culur 'd la nôcc o l'è biânch cmè 'l lacc?
L'ha 'l mur alegar o la ghigna 'di 'ün ca l'è trist?
As pudreia añmaginassi cmè parpaioli a culur,
culi parpaioli ca'i volu 'ñ ciel sensa fa burdel,
opüra quând par arpusassi 's postu 'ñs na fiur,
e che 'l mach in pitur al pol stampà cun al pnel.
Al silensiu 'l pudreia vei sembiânsi 'd masnà
nussenti ca'i dromu e'i cunossu nün sagrin,
opüra 'd la füm di camin, od l'aria 'd la cuntrà
'ñt al nôcc da istà. Disêgna müsica 'd viulin,
se 't riessi 't pudreissi 'vsinati al so sembiânsi,
ma certament l'ha culur dificil d'añmaginà.
Cmè disegnà 'na roba che tüti 'l stânsi
iè, e nün l'è mai stacc bon vêghi, futugrafà.
Disegnà 'l silensiu l'è 'n impreisa da artista
cmè disegnà l'aria, che nè 's-tuca, nè serassi
ñt al pügn as riess nen, i'esist l'aria trista
o alegra? Parêcc l'è 'l silensiu, 's pol anmaginassi
96
vistì 'd culur tranquil, cun nuânsi meravigliusi,
ma 'l sarà parêcc dabon? Opüra l'è gris cmè ciel
d'autügn, cun rundâñi ca 'i volu lamentusi,
parquè la stagion ai büta 'ñ spala gross fardel?
Pens nen che quaidün al riessa creà 'ñ turment,
al silensiu riessuma 'ñmaginalu 'ñ modu divers,
ognidün second al spirit ca 'l proua 'l mument,
al pudreia smeià 'ñ sogn, o a l'amur ca s'ha pers,
second se l'anima l'è 'ñ pas, o cariaia 'd turment.
Sigürament al pudreia essi 'ñ fôi biânch, sensa
nè righi nè culur, cmè 'ñ pensè che la ment
la parturiss, e nün al riess nutà la presensa.
Al silensiu, l'aria ca la carêssa 'l fiur la seria,
e nânca l'urêgia pü fiña la sent nen al respir,
la malincunia ca la passa, la vistimenta neria,
e la spariss ant la nôcc, ligera cmè 'ñ suspir.
Disegnà 'l silensiu, cmè disegnà l'ombra di sogn,
ca 'i vivu n'atim e 'i svanissu cmè 'l ven ciar.
Al silensiu 'l pudreia essi udur ad pupudogn.
No, l'è quaicos ca'l lassa 'ñ buca 'lmach güst mar.
08/02/97
h 23,30/0,30
97
TRAVERSÀ LA PAGÜRA
Ampustuma la vita ansuma sogn, aspirassion,
diversament che sens l'avreia mai l'esistensa?
Al sareia cmè vivi serà sü ñt na parson,
uardà 'l ciel a quadrêt, sensa mai avei precedensa.
Ma 'i sogn ai svapuru cmè 'l sul al ven ciar,
i'aspirassion as realisu cun sacrifissi, suferensa,
an cuntinuassion sa spua duss dop traondi mar,
s'ancontra tâncc turment par salvà la cussiensa.
Turment, suferensa, surzent ad pagüra, l'umanità
l'è parsunera 'd la pagüra, dal mal e dal dulur,
par pagüra 's rinunsia a traguard da cunquistà,
i'omni i'acetu 'lmach realtà faci 'd rôsi e fiur
a la pruspetiva da sofri 's preferiss n'esistensa mudesta,
serà sü 'ñt la parson 'd l'indiferensa e dal distach.
La pagüra la scava 'ñ mar agità 'd la tampesta,
ca m'ampediss da traversà 'l pagini d'armanach,
ca'i separu la nosta vita da ogni bela stagion.
Al smeireia 'ñ contrasens, ma l'ümanità l'è parêcc,
la pagüra dal resigh la cundissioña 'l nosti assion,
desideruma 'l calur, ma acetuma da stà 'l frêcc,
pütost che afruntà ustacul ca'i separu 'l brascal,
dal percurs nurmal, par rivà 'l cumporta disagi,
fatiga, alura rinunziuma, par pagüra dal mal.
Par is mutiv, la nosta vita l'aceta 'ñ paesagi,
che mal s'adata al nost modu 'd uardà l'urizont,
sugnuma spassiu grandius e acetuma cui mudest,
al sareia necessari cumbati, ma dal front
sercuma sta luntân, cmè 'l füissa pest,
e tranquil, restuma parsuné 'd la pagüra.
Rinunziuma a pruget, 'i sogn ai restu 'ñt al tirêt,
al nost cit mond am garantiss n'esistensa sigüra,
is cuntentuma 'd spetacul ca's paga nen al biêt.
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E la vita la passa, seruma fora la suferensa,
al sbari 'd la parson am difendu da i'agression,
ma finuma d'acetà percurs ca'i dân precedensa
semp a i'acc, cui ca i'evadu da cula parson,
che nui medesim iuma fabricà, contra 'l dulur.
Uarduma i'acc traversà la pagüra, sbati 'l porti
'd la suferensa, andà 'ñcontra l'arcabilesta 'd l'amur,
nui restuma lì, sentuma d'essi animi morti,
ma fuma nen dal tüt par scapà vers la libertà.
Traversà la pagüra, par ragiungi nôv urizont,
antè l'è 'ñcura pussibal andà ñcontra realtà
chi pensavu ormai fora discüssion. Al front
antè cumbati 'l rend pussibal cunquistà ubietiv
rich ad surpreisi, che la pagüra 'm pruibiva
rendsi cünt 'na vira traversà, d'essi 'ñcù viv.
E pensà che restà dreda la pagüra, la piva
l'era ormai ant'al sach, rinunziavu 'l prugress,
quând anveci la vita m'ofriva nôvi emussion.
Traversà la pagüra, sensa dabsogn ciamà parmess,
s'ancontra cerntament suferensa, ma che sufisfassion.
13/02/97
h 23,15/0,15
99
QUÈ L'È L'AMUR?
Pensuma tücc da savei què 'l significa amur,
ma prêst s'ancurzuma nen cunossi 's sentiment,
al mond d'adess l'ha poch rispet par sa fiur,
l'è pront s-ciancala 's preocupa nen di turment
ca 'l prucüra, tüti 'l viri ca 'l la s-ciânca,
sensa uardà se l'è zerba, se 'l büt l'ha 'l culur.
L'impurtânt l'è rivà l'ubietiv e fala frânca,
se'l brascal sa smorta, e nui restima sensa calur,
l'ha nen impurtânsa, dmân sercuma n'at brascal,
n'atra fiur zerba da s-ciancà, 'ñ barba 'i sentiment
chi scarpüzuma, a la fiur, se la sentrà mal,
basta 'vei in mutiv da vantassi 'dnân la gent.
Què l'è l'amur? Par la magiur part piasì material,
quaicos da cunsümà cmè 'l gelato, senti 'l güst,
e dop in mument smentiassi, nen da special,
la buca la turna couda e nui m'armagn al süst.
Ma l'è nen parêcc. Amassi l'è dividi la suferensa,
scambiassi 'l feriti che l'esistensa 'm lassa doss,
iütassi supurtà 'l brüsur, 'l turment 'd la cussiensa,
misinà 'l piaghi duerti ca i lassu vêghi i'oss.
Pü
l'è
pü
pü
'l piaghi 'i son tânti pü l'amur l'è tânt,
travers la suferensa ca 'i madüra 's sentiment,
s'è malandà, brüt da vêghi, scanà cmè fânt,
la vita 's divert maltratami, prucürà turment,
pü l'amur al crêss da ragiungi livei impensà.
L'è travers al scâmbi dal feriti ca s'adventà ünì,
parquè 's riva vêghi l'amzüra esata 'd la realtà,
l'aumenta 'l limit ad supurtassion, ura 'd sufrì.
Chi 'l traversa l'esistensa sensa pruà turment,
chi 'l passa 'n mes al fiami dal brascal 'd l'amur
sensa brüsassi, 'l viv nen in ver sentiment,
parquè venta ca'i resta 'l piaghi, pruà dulur.
100
par savei què l'è verament. Chi 'l
l'ama nen, l'amur, par essi tal, as
Chi'l traversa cun indiferensa e 'l
sensa vêghi chi 'l sofr, certament
sort sân
dev sufrì.
uarda luntân
l'ha nen capì
la passion ca'm dev brüsà, par cultivà sa fiur.
Sensa feriti 's traversa brascal sensa fiama,
sensa fiama ca la brüsa i'esist nen l'amur,
o l'è amur material, cul ca'l lassa la buca grama.
L'amur l'è n'anima turmentaia 'd la suferensa
cun piaghi vivi ca'i sanguinu, bsugnusi d'unguent,
ca l'è pronta scambià 'l dulur, cun n'atra presensa
turmentaia, ünissi par pasià tücc i turment.
Ai sarà nen ombra d'amur sensa piaghi vivi,
chi l'ha n'anima refrataria, ca la riess traversà
l'esistensa sensa ferissi, l'ha tendensi cativi
par l'amur as passa nen sensa brüsassi. La realtà,
l'è facia 'd sentiment ümân, 'd mancânsa d'afet,
d'emüssion, dificil rivà dadlà sensa ferissi,
chi l'ama l'ha anima sensibil, magara cun difet
da cumün murtal, ma 'd l'amur l'è al servissi.
17/02/97
h 23,30/0,35
101
LESSION D'ECUNUMIA
Monti, Modigliani, parluma nen ad pitur,
ma 'd gent ca'i ciamu ecunumista, ben pagà,
che a pânsa piña 'i vivu 'ñt in mond a culur,
ai spiegu la gent povra cmè 's fa risparmià,
ai spiegu scola cmè 's fa 'ñdà nân la nassion,
cmè fa par che la lira la tira mai al ribass,
ai sacrifissi ca's dev fa par fa calà l'inflassion,
antânt che par lur ans l'armanach l'è giobia grass.
An virtü da stüdi e d'esperiensi a livel mondial,
iân ragiungì pusission outi, d'antè i uardu la gent
tirà la cureia, cmè steili da l'out ai mându segnal,
a cula categuria 'd disperà, che tra mila turment
ai tiru la carêta, e sensa binari rivà la stassion.
S'ampinissu la buca d'ant i'università a la lession
cmè fa funsiunà l'ecunumia, quadrà inventari,
sensa che mai na vira i'abiu vivì situassion,
cmè vivuma nui mandich 'd la minima pension.
Lur ai sân calculà la cifra minima par vivi,
ca l'è ben luntân da cula ca'm passa la nassion,
ad nuiacc mandich, che par nen savei lesi e scrivi,
suma custret sbarcà 'l lünari, cun cula miseria
che ogni dui meis tnuma strêcia, dop na fila
dnân la posta. Ai sân nen sa gent che roba seria
la sia la vita, 'rparassi dal frêcc cun la querta sutila.
A l'è facil spiegà che 'l cust 'd la vita l'è tre milion
per na famija media, se cui nu ciapu la metà,
e par rivà la fin dal meis as viv situassion,
che lur, da l'out 'd la so careia i sân nen añmaginà.
Al nosti doni 'i duvreiu vei na catedra d'ecunumia,
lur che tücc i dì 'i fân miracul par sbarcà 'l lünari,
par cui 'd la pânsa piña 'i va nen tânta fantasia,
lur ai risülta facil fiña scondi scheletri 'ñt l'armari.
102
Proua essi 'l nost post,, ot sent mila 'ñveci 'd tre milion,
epüra 'l nosti doni ai quadru bilanciu nassì 'ñ russ,
sensa laurea 'i pudreiu brevetà la so invension,
ai riessu 'ñdà nân drici beli cun an spala la crus.
E suquì nen na vira sula, ma par meis, par agn,
sensa picassi d'andà fa scola e mustaij 'i gat rampià,
ai riessu fa sogn a culur ant in panurama semp pagn
e fiña essi cunvinti ca l'è nen trop neria la realtà.
Monti, Modigliani, riva 'l nosti doni 'i son zilêt,
e si che lur ai polu vantassi d'esperiesi mundial,
ma par viagià 'ñsema nui, ai sân nen antè catà 'l biet,
parquè la nosta ecunumia la richied essi special.
Al basta nen trancià prugrama da realizà da i'acc,
qui venta fa miracul beli sensa essi Gesü Crist,
qui i'anvartiu 'l mâgnii ant al mân iân quacc,
ai teñu 'i sagrin a denta sensa fa vêghi 'l mur trist.
Cun cui poich sentmila, ai realizu pruget da milion,
e nu vânsu püra quaidün, al guvernu 'l pol falì,
ai trucreia 'ñventà n'ecunumia ca la va a dubion.
Iuma mai vist tre milion al meis, e suma 'ñcura qui.
20/02/97
h 23,10/0,05
103
PENS AL PASSÀ
Chissà parquè tüti 'l viri chi uard la television
cun cui spetacul ad mort, cmè quaicos da special,
poss nen fani a menu, am ven ant al gargion
in grup ca ma strenz e ca 'm fa senti mal.
Mort massà 'd la uera, mort massà 'd la viulensa,
cmè la roba pü nurmal, la vita sensa valur,
ma dabon i'omni 'i son restà sensa cussiensa?
Alura i'esitu pü 'i sentiment? L'estist pü l'amur?
Tüti 'l viri chi mangiuma, cun cui quadar dadnân,
pens al passà, pens cmè 'i vivivu 'i nost vecc,
sensa nânca la fel mara e cun al côr an mân,
che la seria strach, ai drumivu, peña ñs 'al lecc,
sensa che mai la cussiensa 'i feissa senti rimors,
sensa mai in rimprocc, parquè ogni so assion
l'era ciara, pulida, fa 'l ben l'era mai in sfors,
parquè 'i cunsideravu sentiment amur e cumprension.
Ogni seria pens se 'i turneissa 'ñdreda 'i me vecc,
dadnân 'd si spetacul, certament ai sareiu terurizà,
as ciamreiu cmè 'i polu la seria 'ñdà 'ñ al lecc
si omni e dromi, dop essi stacc autur 'd sa realtà?
Anca mi 'm fagh sa dumânda: “L'ha pü nün valur
la vita, se sa s-ciânca cun tânta indiferensa?”
Què 'i son 'dventà 'i sentiment? Antè l'è finì l'amur,
se cun tânta facilità 's massa e 's da precedensa
l'intaressi e la pusission? Què 'i gireiu la me gent,
che par tüta la vita iân cultivà certi valur,
e adess vêghi 'l mond cmè l'è dventà indiferent,
e cui ca i'eru 'i so brascal iân pers ogni calur?
Sagh nen se 'i pudreiu supurtà certi situassion,
lur che 'd la vita iân semp uernà rispet particular,
què 'i pensreiu d'is modu 'd vivi sensa emussion,
la vita l'è 'lmach 'na candeila, la brüsa 'ñs al candlar,
104
'na vira smorta n'atra la pia 'l so post, as va press
cun n'indiferensa, cmè se la pel la fuissa 'ñ strass,
'na vistimenta, na vira lisa sa sbata. Ai cungress
sa sgaru cunferensi, discurs ca'i fân drucà 'i brass,
ma da tânti paroli 'i gavu nen in ragn dal bôcc.
Dmân la gent la turna massà, se no la television
l'avreia pü nün argument, cmè 's fareia fa mnì nôcc,
sensa mort da presentà, iè zà tânti pochi emussion,
se 'm gavu 'ñcà 'i mort, ad què parluma, 'd sentiment?
No, 'i son robi früsti, 'i fân ormai pü nutissia,
la va tüt atra diression la realtà dal present,
smeia che ormai la viulensa la sia l'ünica primissia.
Pens al passà, pens ai me vecc, al so mond tranquil,
antè 'l massim as muriva d'avgiaia, strach ad travai,
as traversava la strà, la pel l'era mai tacaia 'ñ fil,
la fam, la miseria, cui i'eru 'i so ünich uai.
Iuma bütala tüta par prugredì, eccu la situassion,
ogni seria ura 'd mangià cüntuma 'i mort.
Fati nüñi ilüsion, suquì 'm fa nen la pü cita emussion.
Al vantagi dal prugress: indiferent cun al stomi fort.
27/02/97
h 23,25/0,20
105
AL GIARDIN DAL TEMP
Chissà parquè pensuma, rivà 'na certa stagion
che tirà 'i rêm an barca 'l sia roba nurmal,
suma cunvint che 'l côr al ceda a i'emussion,
ad na seria 'ñticipaia, ricevuma certi segnal,
ca 'm cunvinciu lassà zerb al giardin dal temp.
Ma l'è n'erur enorme, la fin ad tâncc pruget,
al sbagliu 'l cunsist ant al lassà dreda par semp
ogni ambission, anviaruma la stagion di difet,
dal mument ca 's frêma da prêsta i'atension
a cul giardin che fiña ier al parfümava d'amur,
ans al nost santè 's prufila ombri 'd disperassion,
e da ogni prôs ai spariss giurnà piñi 'd culur.
Al temp sensa 'na guida al va prêst fora 'd carzà,
as pol nen pensà da mulà tüt parquè l'è autügn,
al trenu 'l dev andà dricc al binari, qualunque età,
parquè cmè s'azarduma lassa duert al pügn,
tüt què l'era or l'adventa puvri, la brasca sêndri,
ai sogn ai svapuru, la nebia l'ascond al saren,
l'ünica cuia ca 'm restava 'l la mangiuma 'l vêndri,
am resta nè at che traondi gulà mari 'd velen.
As pol nen pensà che rivà 'l fôi d'armanach
cun al giurnà cürti, as deva lassà 'ñdà desert
al giardin dal temp, peña frêm is sentuma strach,
an cà i'entra 'i ladar, se lassuma l'üss duert,
tüt què iuma custruì 'ñt na vita longa 'd travai
al va a ramengu, pusà la sapa 'i sort la gramêgna,
cmè 'i svapura 'l spirit, i'aumenta 'i uai,
l'amur al fiuriss, fin che l'omu s'ampêgna.
Cmè 'l pensa ca'l sia inütil puntà 'l traguard,
la malincunia s'ampadruniss d'ogni pensè,
l'arlogi dal temp al seguita scüri se s'ha riguard,
se s'asmentüma 'd tiralu sü, 'l resta sübi ñdrè.
106
Guai smentiassi 'd cultivà 's guardin miraculus
's da modu la briña da brüsà i'ültimi fiur,
ant al giardin desert al nost arsgnôl al perd la vus,
cmè 'l brascal nen tissà sa smorta e adiü calur.
Ant la tarda stagion, quând pensuma che 'i pruget
ai siu tücc realizà, venta nen fermassi uardà,
uardà 'l piânti ca sa svistissu, si früt perfet
ai son nen perfet, se'i duma nen calur par madurà.
Al svigiarin zü 'd cadeña 'l frêma, nui suma pers,
parquè sensa temp is renduma nen cünt 'd la seria,
anveci d'andà dricc percuruma la strà da l'invers,
rivà 's puntu qui, la nosta vita l'è piña 'd miseria.
I'avreiu mai duvü smêti da cultivà 'l giardin
dal temp, parquè la vita s'ampiniss ad disperassion,
sêca la pianta 'd l'amur, ai fiuriss cula di sagrin,
la nôcc la cala l'ombra 'ñs al nosti emussion.
i'ültimi, culi ca i'avreiu facc vivi la sperânsa.
Iuma sbaglià fermà, lassà la gramêgna piantà
'l reis. L'erba grama sa svilüpa cun baldânda.
Guai pensà che 'l guardin dal temp al pol essi bandunà.
03/03/97
h 23,45/0,35
107
LA PRIMAVERA CA IÈ PÜ
Al vent ad marz l'ha ramassà 'ñ ciel lüsent,
antè 'ñ sul ciar al scouda rami piñi 'd fiur,
'd persi rosa, al fa alegar 'l côr 'd la gent,
usei ca i'anciarlatu, cun tânta vôia d'amur.
La primavera l'è turna qui, cula 'd l'armanach,
sa s-ciara 'ñs al piânti verdi, cun i prüm buton,
ant al viulêti vargugnusi, ant al fiur d'armugnach,
lu cunferma 'l merlu, cun al noti 'd la so canson.
S'ha lassassi dreda l'inver, cmè tücc i'atr agn,
l'è ricord luntân l'autügn carià 'd tristêssa,
ca'l smeiava par semp, anveci 'i turna tüt pagn,
l'ingranagi dal stagion l'è l'ünica certêssa.
Tücc i'agn ai finiss in ciclo, tüt al smeia mort,
ma l'ann nôv nu 'ñviara n'at, tüt al turna vivi,
la barca la naviga sensa perdi 'd vista 'l port,
la natüra l'è 'ñ scartari cun atri pagini da scrivi.
Dop in longh silensiu, la tera la turna svigiassi,
ai prà i'adventu verd, al piânti 'i turnu vistissi,
al doni 'i bütu gali russi quând ai ceñu 'l quassi,
parquè la primavera la ven ufrimi 'i so servissi.
Mi uard tüt suquì, da l'out dal me tânti stagion,
ma denta mi 'i piâns i rigret, par tânti stagion,
parquè 'l temp l'ampuvrami sensa religion,
l'armanach 'd l'esistensa, s'ustiña a nen girà
'i fôi, la me stagion la restà frêma l'autügn,
al rami 'i restu biuti, pü nen 'na fôia nè 'ñ büt,
ai culur 'd la primavera iù strenz an pügn,
ma sensa fiur, al rami 'i restu sensa früt.
La primavera 'd l'armanach, miracul natüral,
ogni autügn la môr, par arsüssità 'l prüm calur,
mars ai büfa 'l vent, ogni creatüra as segnal
sa svêgia, sa stira e la cânta la so canson d'amur.
108
Ma la mia primavera, l'è morta tânt temp fà.
L'ha vôia la natüra vistissi 'd parpaidi a culur,
ad rami 'd persi rôsa, ad prà verd tücc fiuratà,
la me prôs la resta biuta, ai son sêchi 'l fiur
che 'ñ temp ai vistivu d'arlechin la me prôs.
Magara n'arsgnôl al turna cantà la me canson,
cula ca 'm fa bati 'l côr, ma 'l zel l'entra 'ñcrôs
na certa età, pü nün sul al svêgia i'emussion,
ca 'i favu trêmi 'l cordi dal viulin 'd la giuventü.
Al nost armanach l'ha 'na pagina sula, giraia
cula la stagion la finiss. Inütil sperà, mai pü
i'avruma prà verd, l'autügn l'ha trasfurmà paia
tüta la me erba, al rami 'i son sêchi, sensa büt,
magara ta speri che par sbagliu 'i sia 'na fiur,
no, sta püra tranquil, ai madüra pü nün früt,
parquè 'l sul l'è smort, l'ha pers tüt al so calur.
La primavera ca iè pü, quând i'era 'ñnamurà,
e l'anima 's vistiva 'd parpaioli a culur ed fiur.
Pudreia semp ampramuani quaidüña, basta pagà.
Ma què 'l var, l'è denta ca'i fiuriss pü l'amur.
08/03/97
h 23,45/0,40
109
CMÈ CHI I'ERU
Visassi cmè chi i'eru 'l svêgia diversi emussion,
parquè 'i son divers 'i mument dal diversi età,
nen semp ant la vita l'ha capitami ucasion
boñi, svuens suma stacc trist, fiña disperà,
e si mument la memoria s'arfüda 'd visassi,
parquè i'arvivu piaghi mai uarì cumpletament,
passagi strêcc, che par entrà 's pagava dassi,
e'l pressi l'era out, parquè l'era calculà 'ñ turment.
Cmè chi i'eru la stagion ca'l fiuriva 'l giardin,
visassi 'l culura lavri 'd suris e 'l côr d'emussion,
l'amur l'era persi rôsa e ciel lüsent sensa sagrin,
i'inver i'eru scanslà da brascal visch ad passion.
Is visuma 'lvuantè, sensa sfors, l'archiviu l'è ciar,
la puvri 's posa mai ans ai mument miraculus,
sa stufa mai d'anluminà la memoria 'l candlar,
l'è 'rparà da l'aria, ancò 'd la strà 's vêgh nüñi crus.
Ma 'l stagion dificil, cun percurs stort, acidentà,
la memoria s'arfüda 'd uardà l'archivi dal passà,
vüluma par esempi nen visassi quând la seria
ñdavu dromi cun la fam. L'ha culur la miseria,
ca'i rendu tristi, fiña 'l giurnà cun viv culur,
figürumsi culi grisi, ciel ad piomb ans la testa,
ant l'anima l'impression ca'i esista pü l'amur,
cmè 's fa cumpurtassi cmè la vita la fuissa festa,
se 'l ritrat ca's nu rigava l'è ne at che ricord brüt?
Cul ciar ca l'anlümina l'archivi l'è sens'ôli 'l lüsêgn
l'è sücc, cmè pretendi che rami sêchi i'abiu 'i früt,
certi stagion 'd la vita 'i passu e 'i lassu 'l sêgn,
piaghi che nânca 'l temp al riess nen cicatrizà.
Visassi cmè chi i'eru cui mument ad disperassion,
al significa ruià denta culi piaghi sensa pietà,
antânt che i'acc ai uardu sensa pruà cumpassion.
110
E cmè 'i pudreiu vei cumpassion, se cul curtel
ant la piaga lu giruma nui? L'è par sulì che nui
s'asmentiuma di ricord ca s-vistussu cmè ciel
culur piomb, e'l masnà 'm ciamu e 'm dân dal vui,
parquè 'i lavri iân pieghi mari, sensa suris,
di mur rüpient ai fân nen pensà a persi rôsa,
ma ad autügn sensa rundâñi, culurà 'd gris,
quadar sensa curnis, i'ispiru disperassion ancrôsa.
Cmè chi i'eru a vint'agn, n'archivi semp duert,
al temp l'è passà, sensa pusà puvri nè stagion,
al nivuli 'l vent iù spassa, al ciel semp squert,
denta l'anima 'i restava culur 'd vivi emussion.
Cmè chi suma dess vüluma nen visassi, nè uardà
cul ciel culur malincunia bandunà dal rundâñi,
vüluma nen vêghi cmè l'è 's mond, al so realtà,
parquè 'l prà l'è pü nen verd, 'l sperânsi tüti vâñi.
Is visuma 'd lavri culur suris, buchi culur frola,
par aussà 'l mural a denta, ura che la stagion
l'ha pü nen da ofri, al nost castel an aria 'l crola.
Visassi cmè chi i'eru, par vivi l'ültima emussion.
17/03/97
h 23,20/0,15
111
VENT AD PRIMAVERA
Al piânti iân ancù nen livrà 'd vistissi,
che zà 'l vent ai s-ciânca 'i prüm cavêi d'an testa,
nen par necessità, ma par gavassi 'ñ caprissi,
al var nen ca'l sia di 'd lavur, ancù menu festa,
al
al
al
al
büfa cun tüta la so forsa, cmè fa 'ñ travai,
s-ciânca 'l sgiafela, sensa cürassi da dament
piânsi dal rami ca's rompu, cuntent ad fa uai,
smeia sudisfacc quând al riess purtà turment.
Ma a seria 'l ciel l'è sclent, dop sa bela ramassà
al prôs ai son pulidi, 'd l'inver pü nen in segnal,
ai testimoni 'd sa bataia, as trou tücc ambarunà
'ñti canton, ai camin ai fümu, suta iè 'ñ brascal.
Passà sa füria, ognidün as barlica 'i so splon
al piânti 's ceñu, e'i sercu d'asmentià 'l tribülassion,
ai sapatu via la puvri, dmân al sarà n'atra giurnà,
l'è nen na giurnà 'd vent ca l'ampediss da cuntinuà
vivi, tüt al turna cmè prüma, as cüs cui squars
facc da la primavera, al piânti 'i fân di 'acc büt,
ad i'atri fiur, ant al sparzeri 'i sponta 'i spars,
prêst d'is matrimoni i'avruma modu vêghi 'i früt.
Ma 'ñt al giardin 'd la vita, nen tüt al scur sôli,
què 'l vent di turment al s-ciânca 'i resta 'l bôcc,
se la lüm sa smorta, 'l var nen arzonzi 'd l'ôli
's finiss da restà scüri 'ñcà quând ai cala la nôcc.
La nosta piânta la ven verda par 'ña fiuridüra,
se 'l vent al s-ciânca 'l rami, i'amnirà pü nün büt,
restuma biut par al rest 'd la vita, cun la pagüra
che l'autügn al sarà trist, se 'l madüra nün früt.
La nosta primavera l'avreia nen dabsogn ad vent,
parquè resiguma vêghi 'l nosti sperânsi distrüci,
peña 'l present l'adventa passà, fiña la nosta gent
s'asmentia 'd nui, la seria 'm troua sensa lüci
112
denta cà frêgi, cun pü nün dispost dami cunfort,
la vistimenta s-ciancaia, l'è s-ciancaia par semp,
remuma, ma la barca s'asluntâña da pü dal port,
puduma fa nè at che pregà ca 'i düra 'l bel temp.
La vita la suporta nen al vent, specie 'd tramuntâña,
puduma nen resta biut, la primavera la finiss,
nui seguituma bati 'i dencc, la frev barbantâña,
da qualunque part as uarda, sa s-ciara nün amis.
L'è trista la primavera, se denta iuma l'autügn,
al vent ma sgiafela, 'l nosti rami i'armagnu biuti,
am resta n'ünica fiur, da trenzi fort an pügn,
al mument che tânti rami ai restu 'ñ tera ruti,
vürreia vêghi se riess ancura madürà 'lmen in früt.
Al sareia cul cal duvreia garantimi par l'avgiaia,
dal mument che la me stagion la pruspeta temp brüt,
ma la me pagüra l'è: “'L madüra pü nânca 'ñs la paia”.
L'avreia stacc l'amur, ca'm ten viv rivà la fin,
ma cmè slargh la mân, al vent lu porta via.
Uard al ciel lüsent, par mi 'l parla 'lmach 'd sagrin.
Lu sava che la primavera, la me età, l'è sensa puisija.
20/03/97
h 23,25/0,15
113
LA BAVELA DAL RAGN
Chissà uari viri t'ha vist al ragn antarsà
la so teila, cun cul fil sutil, lüsent e fort,
al fila la so bavela d'ant cânt e l'at 'd la strà,
e ti 't resti 'ñcantà a uardà d'antè la sort,
cmè 's lassa purtà dal vent, cmè barca a vela
ant in viavai travers al mar a ogni viagi
la teila la crêss, al ragn, al fagot sut l'assêla
al cur ans al fil. Chissà se l'è indiferensa o curagi?
Certu 'i va dal curagi, avei la vita semp suspeisa
a cul fil a ogni büf ad vent al pudreia s-ciancassi,
ad sigür ogni mument ai riserva 'na surpreisa,
al sa mai a què 'l va 'ñcontra, 'l pudreia paga dassi.
Epüra, se's pensa ben, la nosta vita l'è parêcc,
suma suspeis par 'na bavela, as pudreia drucà
tücc i mument, se 's riflet am ven al frêcc,
venta essi incunssient par andà contra la realtà,
ant 'na cundission pustissa, sensa nüña garansia.
La difarensa da nui al ragn, l'è tüta 'nt la bavela,
al ragn al la fabrica lü, l'è nen facia cmessissia,
l'è prudütur, la fabrica 'i mânda nen la parcela.
Nui suma suspeis a 'na bavela facia 'd la sucietà,
adess tücc i'amu 'l resigh, 'i piass vivi da incussient,
as sa quând partuma, mai se suma sigür rivà,
par is mutiv la nosta vita l'è tüta 'ñ turment.
An temp i'omni i'eru quadrà, 'i scartavu l'imprevist
ogni assion l'era prugramaia, cun certêssa 'd riessi,
adess al robi sigüri 'i piasu pü, 'i rendu trist,
al dmân ad dev'essi incert, l'amporta nen al pressi
ca's duvrà pagà, par al ragiungiment ad l'ubietiv.
L'omm, acmè 'l ragn, l'è 'ñcantà da l'incertêssa,
'd la precarità, al büta mai an preventiv d'essi viv
a la fin 'd la giurnà, l'ama l'emussion 'd na carêssa,
114
dal pericul, cunvint che la vita l'à güst divers,
nen al solit güst fat, at giurnà piati tüti pagni,
suspeis a 'na bavela, 's pensa 'lmach què s'ha pers,
al mument che la bavela sa s-ciânca e ti t'armagni
sêch. As puntu lì iè pü poch da pensà, 'i finiss
i sogn, i'ilüsion, chi 'l resta 'l fa na riflession
ans la precarietà 'd la vita, chi 's cardiva 'ñ barbiss,
ma rivà 'l traguard trop prêst, l'è risültà cuion.
Epüra, ant s'epuca l'adventa 'na moda 'ñ balin
che tâncc ai vôlu gavassi, par essi cmè i'acc,
sensa mai bütà 'ñ preventiv al nümar 'd sagrin
ca's lassa n'eredità, a cui che la vita m'hân facc.
Què l'amporta vivi quadrà, se'l dà nüñi emussion,
la vita la risülta bela, a spendla parquè la var,
chi 'l fa razunament quadrà l'è cunsiderà cuion,
l'è mai passà par fürb, beli se i'acc ai traondu mar.
La bavela dal ragn, l'è 'l simbul d'is mond prugredì,
antè tüt al dev essi brüsà 'ñs l'altar 'd la trasgression,
la magiur part as nu frêga se la giurnà 's sera mesdì.
Mi la vita lu stim, m'amporta 'lmach la me upinion.
24/03/97
h 23,30/0,20
115
T'AT VISI DAL RUNDÂÑI?
Uard n'atra vira 'l piânti bütà la vistimenta
nôva d'in bel verd têndri, 'i riva la stagion
ca 'm büta 'ñt l'anima cula sensassion cuntenta,
an gradu da slinguà ogni turment, tücc i magon.
La primavera. Ai son tânti culi dal me armanach,
talment tânti chi fagh fatiga fiña visami,
parquè forsa 'd cüntà m'ancors da essi strach,
'na strachêssa ca la passa pü, nânca setami
riess nen truà surlev. Uard atur, al smeia tüt pagn,
ma 'na sensassion drola 'm fa capì ca iè cambià
quaicos. Al prugress l'ha facc talment tâncc dagn,
ca l'è nen facil rendsi cünt, quala nôva realtà
duvuma afruntà. Tâncc ai son stacc i cambiament,
da quând al me taquin al cüntava pochi stagion,
prüma 'd tüt l'è diversa la gent, ogni cumpurtament
l'è calculà, 's cunoss pü nè sentiment nè emussion.
Eccu, i'emussion. Pü nün s'emussioña uardà 'l fiur,
tântu menu 'l ciel, iân tücc 'd i'acc impêgn impurtânt
al puntu, ca's vânsa pü nen temp pensà l'amur.
La natüra, l'ünivers, ai fân part d'in pianeta distânt.
A pruposit, missiunà 'l ciel am ven natüral uardà
'ñt l'aria, al ciel l'è biut, s-ciar nün vol ad fantasia,
eccu i'ün di tâncc cambiament ad sa nosta realtà.
Im rend cünt ca l'è pü nen pussibal truà la puisijaa.
T'at visi dal rundâñi? Eben, al prugress l'ha scanslà
cul miracul pü nün ad cui usei 'd la divisa neria,
che da matin a seria sa stufavu nen disegnà
cui percurs imaginari cai scunfigivu la miseria,
e i'ampinivu l'anima 'd puisija e sentiment.
T'at visi dal rundâñi? E ben, va nen a mat uardà
t'iù s-ciari pü, pü 't uardi, pü 'i crêss i turment,
parquè 't capissi che 'l mond l'è pü trist e disperà.
116
Sparì 'l rundâñi 'l vôl dì ca iè tânta suferensa,
purtaia da l'inquinament, che l'aria da respirà
'i lassa pü nen spassiu la fantasia, la presensa
'd cui uslin 'd la vistimenta neria e strêcia, facià
tirà righi, che nün al s-ciarava, 'm dava forsa
par cumbati tücc i dì la bataia 'd l'esistensa.
Adess at uardi 'l ciel, la to anima seraia 'd na morsa
ca i'ampediss da sugnà. Al prugress al vôl precedensa.
Ma che puisija, ma che sentiment, roba d'acc temp,
quând la gent la stava lì uardà par aria, par mutiv
che cui d'adess ai cumprendu pü, smentià par semp.
Cun al ciel sensa rundâñi, bütuma püra 'ñ preventiv
primaveri sensa amur, parquè cui vol ad fantasia
i'atnivu viva la sperânsa, se 'spol pü nen sugnà
'l sarà dificil supravivi. Al mond l'ha bsogn 'd puisija,
sensa, nüña invension am fa resisti si realtà,
ogni giurnà pü turmentusi. T'ati visi dal rundâñi?
Si? E ben, fa cünt ca t'abij sugnalu. Al stagion
ca i'amnirà 'i purtrân primaveri barbantâñi.
Fa cünt vêghi balà la vegia. L'è nè at che ilüsion.
31/03/97
h 23,25/0,20
117
MI SON ANCURA QUI
Vachi grassi, vachi magri, stagion coudi e frêgi,
garmêt dal pân semp vôi, la seria tânta fam,
campagni 'd uera, palotuli ca 'i favu sübià i'urêgi,
tânta miseria, tribülassion, la buca dal güst gram,
forsa 'd traondi rospu, mai pudì dì 'l nosti razon.
Sugnà cun i'ôcc duert, tâncc sogn mai realizà,
tâncc sagrin da têñi denta, grup-ant al gargion,
par la vôia 'd piânsi, nen savei ansema chi parlà.
Mi son ancura qui, cun al spali têci forsa 'd purtà
fardel trop grev, e mai nün ca 'm daga 'na mân,
frisi 'd cuntantêssa, par longh mument disperà,
che da qualunque bânda chi uarda son sul, cmè cân.
Supurtà l'è na parola früsta, chi sagh a memoria,
supurtà 'ñt la sperânsa ca 'i riva temp migliur,
specià che micantânt 'i salm ai finissu 'ñ gloria,
che 'ñ mes câmp ad gramêgna 'i fiurissa l'amur.
L'amur, mi son ancura qui, grassie 's sentiment,
che 'ñti mument ad vachi magri m'aussava 'l mural,
e che se speciava che l'aiüt am riveissa 'd l'atra gent,
st'ura sareia disperà, n'ateisa che dal me brascal
smort ai veña fora na valospa, segnal ad fiama
ca la duvreia scaudami, ma la resta sensa calur.
Mi son ancura qui, 'na stagion dop l'atra grama,
cun la briña tardiva ca la seguita brüsà 'l fiur
dal me giardin, ad cunseguensa autügn sensa früt,
inver da afruntà sensa 'ñs pion 'd farina 'ñt l'arca,
primaveri cun al zel, rami dal piânti sensa büt,
vent cuntrari, ca la sluntâña dal port la barca.
Son ancura qui, dop tânta suciña ca l'ha scà 'l prà,
quând i'avreia vülilu verd, e la sperânsa l'è mort,
al vent al seguita essi cuntrari, purtà tristi realtà,
cun i'ongi früsti a sgrapà la tera, vêghi se 'i sort
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l'aua, ma la surzent la seguita restà sücia cmè
'l brênn. Barlich tacà 'na preia, al frêsch an buca
'l düra 'ñ mument, port i me pass press al santè,
fin chi droch sfinì, dreda 'na mân frêgia 'm tuca.
In gir nen, la pudreia essi la mort, ma 'l temp
l'è 'ñcù nen scadì, vürreia sta qui 'ñcù 'ñ poch,
l'amur al fiuriss ancura, prüma ca 'l sia par semp
al mument ad la fin, serch da teñi 'ñsema 'i toch,
vürreia nen che tüt al finijssa sensa nün preavis,
beli dop tânti stagion, am resta quaicos da regalà,
in quaicos pressius da pudei regalailu i'amis,
cui ca m'hân semp dacc 'na mân, ura 'd tribülà.
Mi son ancura qui, se par poch o tânt chissà,
nui saruma mai an gradu da stabilì la durata,
di 's nost mecanismo, suma quând l'acmensà girà,
ma nen quând al frêma. Diu 'l stabiliss la data,
ca'm piasa o ca 'm piasa nen, se 'i riva 'l mument,
beli se vurreiu ñen essi quì, suma custret andà.
Magara, cul dì, 'i tira 'ñ suspir ad surlev la gent.
Ma via da qui, mi seguit al viagi 'ñt l'eternità.
03/04/97
h 23,40/0,30
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ANTICHE
TRADIZIONI
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ANTICHE TRADIZIONI
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3)
4)
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La mattina di Pasqua, si mangiavano le uova che le galline deponevano il Venerdì Santo, fatte cuocere sode, una per ogni componente della famiglia. Si diceva avessero il potere di salvaguardare
chi le mangiava dal pericolo di morire annegati.
La notte di Natale si bruciava nel camino un grosso ceppo d'annata. Doveva ardere tutta la notte da solo, se al mattino era ancora
acceso, si toglieva dal fuoco e si metteva fuori dall'uscio di casa.
Una volta spento, quel che ne rimaneva si appendeva al muro
della casa, esposto all'intemperia, avrebbe avuto il potere di tenere lontano i fulmini durante i temporali d'estate.
Negli orti si contivava un'erbacea perenne, che in dialetto era
chiamata «erba di San Pietro». Durante la processione del Corpus
Domini veniva sparsa sul percorso dove si portava l'ostensorio
con l'ostia consacrata. Alla fine della processione veniva raccolta
in mazzetti e fatta essiccare all'ombra. Veniva poi appesa fuori
dalle case per proteggerle dai fulmini.
La festa di S. Isidoro (prima domenica di agosto) si benedicevano
i bovini e gli equini. Si benedicevano anche dei cordini di canapa
che poi venivano legati alle corna dei bovini oppure al collo degli
equini e degli altri animali domestici (suini, cani, gatti) per proteggerli dalle epidemie.
Dopo l'autunno, in chiesa, veniva fatta una questua di cereali e
legumi (risone, grano, granoturco, fagioli). Dentro sacchi e mastelli, gli agricoltori deponevano a discrezione, un certo quantitativo di prodotti della campagna. Il giorno dei morti venivano
messi all'asta; il ricavato andava al sagrestano che d'estate suonava “il tempo”, ovvero suonava a lungo le campane durante l'infuriare dei temporali per sollecitare i contadini a pregare, affinchè
il Signore allontanasse il temporale e salvasse i raccolti.
Pare che avesse una grande efficacia, o perlomeno, tale era la
convinzione della gente.
Era usanza durante la processione del Corpus Domini che le spose
tirassero le corde per stendere il bucato e sopra di esse venissero
stese le lenzuola ricamate del corredo, lungo tutto il percorso
della processione.
Venivano anche stese per terra le tele di canapa grezza che servivano per fare le lenzuola, affinchè il sacerdote che portava il
Santissimo vi camminasse sopra, ad imitazione della Domenica
delle Palme, quando Gesù Cristo entrò a Gerusalemme.
7) D'inverno, quando si macellava il maiale, si conservava la vescica del suino ben gonfiata, appesa sotto il portico, molto in alto
affinchè non fosse raggiungibile dai gatti. Una volta seccata a
dovere si riponeva, serviva in caso di malattie gravi come borsa
del ghiaccio quando gli ammalati avevano la febbre.
Veniva conservata anche la sugna del maiale, che si usava per
massaggi in caso di distorsioni, anche se col tempo acquistava un
forte odore di rancido. Pare fosse molto efficace per curare le
slogature, sia dei cristiani che degli animali bovini ed equini.
8) Per i dolori articolari dei bovini e degli equini si usava fare
cataplasmi di argilla impastata (antrunà). Si ricopriva la parte
dolorante con un pastone di argilla e si lasciava asciugare ricoprendola con uno straccio. Era una maniera empirica per fare i
“fanghi” a domicilio senza alcuna spesa.
9) I raffreddoti si curavano con suffumigi di fiori di camomilla. Si
prendeva un recipiente di terracotta (s-ciufêta), si riempiva di
brace, sopra si spargevano fiori e semi di camomilla, si faceva
aspirare al paziente, uomo o animale, il fumo che ne scaturiva.
Liberava prontamente il naso, anche se faceva lacrimare e tossire
in maniera tremenda.
10) Quando si avvevano i bachi da seta, per la riproduzione, si selezionavano i bozzoli più grossi, pesanti, consistenti, perchè dentro
a quelli si sarebbero formate le crisalidi più grosse, di conseguenza anche le farfalle più prolifiche, le quali venivano poste a
deporre le loro uova sopra pezze di tela.
Queste pezze di tela con le uova, venivano portate in processione
il giorno dell'Ascensione. Le donne le ponevano in seno e lì le
tenevano durante tutto il tempo della funzione e anche successivamente, finchè nascevano i piccoli bachi, i quali erano messi
sopra un letto di foglie tenere di gelso, tritate finemente e qui
iniziavano immediatamente a divorare le tenere foglioline, alternando periodi di alimentazione ad altri di letargo, durante i quali
cambiavano pelle, fino a raggiungere il massimo sviluppo, per
poi salire sui rami e fabbricare il bozzolo.
11) La sera della festa di Tutti i Santi, si lasciava sul tavolo di cucina
una scodella di castagne lessate, un bottiglione di vino aperto e un
bicchiere, perchè i nostri morti che in quella notte venivano a
farci visita, potessero mangiare e bere. Questa era la credenza
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popolare.
12) La seconda settimana di maggio si facevano le rogazioni. Per tre
mattine consecutive il prete, al mattino presto, faceva una processione per le vie del paese, cantando le litanie dei santi. Queste
cerimonie avevano lo scopo di implorare da Dio una buona stagione agricola, un abbondante raccolto, tenendo lontano la grandine.
13) I giovani di leva, ovvero al compimento del ventesimo anno,
avevano il compito, per tutto quell'anno, di presenziare alle funzioni religiose più importanti, portando in processiona la Madonna o il Santo Patrono nelle varie ricorrenze, il baldacchino alla
Processione del Corpus Domini, che proteggeva l'Ostensorio con
il Santissimo, ovvero l'Ostia consacrata. Avevano pure il compito
di fare procedere allineati gli uomini e le donne, che procedevano
su due file.
14) La settimana di Pasqua, nei giorni dal giovedì Santo al sabato
Santo prima che suonasse la gloria, ovvero nei giorni in cui le
campane rimanevano mute, i ragazzi andavano in giro a suonare
mezzogiorno, l'Ave Maria alla sera e a preannunziare le funzioni
in chiesa suonando le raganelle (cantarâñi), strumento di legno
con un ingranaggio rudimentale e una linguetta, tutto in legno,
che facendolo girare produceva un rumore simile al gracchiare
delle rane; si suonava pure la “tnebra”, uno strumento formato da
una tavola di legno massiccio, lungo circa 60 cm., spesso 5/6 cm.,
sul quale erano infisse delle specie di maniglie di ferro mobili, le
quali, agitando la tavola di legno vi sbatacchiavano contro, producendo un sordo rumore. Rimpiazzavano le campane nei giorni
che il Signore era morto.
15) Al giovedì Santo era usanza turlupinare i ragazzi mandandoli a
portare al Parroco una grossa e pesante fune. Doveva servire a
legare le campane, perchè si diceva che in quei giorni le campane
venissero legate per impedirle di suonare.
16) A metà quaresima si mandavano i ragazzi in giro con una grossa
sega (arsion) da un capo all'altro del paese, dicendo che doveva
servire al tale o al tal'altro. Se chiedevano spiegazioni sull'uso,
veniva loro risposto che serviva per tagliare a metà la Quaresima.
17) Si consumava pure un altro genere di scherzo: quando si uccideva
il maiale, al momento di insaccare la carne del suino, si mandava
un ragazzo da un conoscente che abitava all'altra estremità del
paese, a prendere la misura dei salami. La persona, che era già
d'accordo, rifilava al ragazzo un sacco con grossi pezzi di legno
(rotondini), oppure di mattoni.
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Alla fine il ragazzo, dopo avere trascinato il pesante sacco, arrivato a casa tutto sudato, veniva preso in giro dai parenti, che si
divertivano un mondo a questo stupido scherzo.
18) Era consuetudine che le ragazze da marito ricamassero il corredo
da sposa, il cosidetto fardello, più o meno ricco, con capi più o
meno numerosi, a seconda delle possibilità delle loro famiglie.
Era scontato che le figlie uniche avessero corredi più ricchi, sia
per numero di capi, sia per qualità dei tessuti. Dove le figlie in
famiglia erano numerose, era gioco forza dividersi tra di loro in
numero equo i capi di indumenti intimi che le disponibilità economiche permettevano di acquistare.
Un segno di distinzione era il letto di piuma d'oca. Più la sposa
era abbiente, più il letto era pesante; il numero di chilogrammi di
piuma erano le credenziali della sposa. Dal peso delle piume si
valutava la ricchezza della sposa. Anche il copripiedi “al quarpiè”, le figlie uniche l'avevano di piumino, ovvero la parte più
leggera e più costosa di quanto producevano le oche dalla spiumatura. Le spose meno abbienti usavano piume normali, quelle
più povere addirittura piume di gallina.
L'impegno di ricamare il fardello, coinvolgeva le ragazze fin dai
tempi della scuola, già alle elementari, nei giorni di vacanza.
Negli anni successivi, quando cominciavano a lavorare nei campi,
dedicavano la stagione invernale, quando nei campi le donne non
lavoravano, e proseguivano fino al matrimonio.
19) Altra tradizione, che se vogliamo essere precisi nella definizione
si trattava di un tabù, era la verginità. Le ragazze da marito
dovevano arrivare al matrimonio illibate, dobbiamo dire che la
quasi totalità venivano deflorate la prima nottte di matrimonio,
alcune anche nelle notti successive, perchè non tutti i mariti erano
in grado di completare il rapporto la prima volta.
Nei tempi andati era un punto d'orgoglio per le donne, ma anche
per gli uomini, che così avevano la garanzia di essere il primo
uomo per la loro sposa.
Oggi il mondo si è capovolto, per una ragazza arrivare al matrimonio integra, senza avere avuto esperienze, è una cosa da vergognarsi, perchè non si è più considerate normali.
20) Quando ancora non esisteva il vino D.O.C., gli abitanti della
collina, d'autunno, quando vendemmiavano, il sabato mattina
venivano a Trino al mercato, con il carro trainato dai buoi con
sopra la bigoncia (l'arbi), piena d'uva appena raccolta dalle loro
vigne.
Ogni famiglia contadina, seguendo una consuetudine, andava in
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piazza a comprare un carico d'uva per fare il vino, da imbottigliare e da conservare per le annate successive. Il produttore venditore portava il suo prezioso carico fino al domicilio del compratore, il quale in precedenza aveva preparato i tini, lavati e aromatizzati con erba menta e foglie di pesco.
Qui giunto, il vignaiolo pigiava l'uva con i piedi e la riponeva nei
tini, dove successivamente il mosto sarebbe fermentato e sarebbe
diventato vino. Dopo la spillatura del primo vino, si aggiungeva
nei tini un poco d'acqua e un altro poco d'uva e si ricavava il
secondo vino, di bassa gradazione, che si doveva consumare al
più presto, perchè altrimenti ai primi caldi si sarebbe deteriorato.
Ma non era finita qui, gli acini e i graspi rimanevano nei tini, si
tornava ad aggiungere acqua addizionata a zucchero ed acido
citrico e si estraeva la “Cinciña” di un bel colore rosato e dal
gusto frizzante, si spillava direttamente dalla “piola”, si beveva
fino a primavera avanzata, dopo di che era veramente finita, l'uva
ci aveva dato tutto, i graspi fermentati e sfruttati finivano a concimare l'orto.
21) In campagna era radicata la convinzione che se il datore di lavoro, ovvero l'agricoltore, iniziava la campagna di monda o di mietitura del riso di lunedì, portasse male. Si diceva persino che in
caso non fosse rispettata questa regola, il padrone sarebbe morto
entro l'anno. A scanso di equivoci, qualsiasi ciclo di lavoro veniva iniziato al sabato (un tempo non vigeva l'uso della settimana
corta) oppure di martedì. Così l'agricoltore salvava la pelle.
22) Quando ancora gli uomini non avevano preso la brutta abitudine
di passegguare sulla luna, questo astro godeva la massima considerazione da parte dei nostri antenati. La luna, con le sue varie
fasi, regolava la vita della natura e quella dell'uomo.
Innanzitutto le semine, non si doveva mai seminare, qualsiasi
raccolto, se non era luna piena o luna vecchia, come dicevano in
gergo i contadini; solo il prezzemolo e la cicoria da taglio si
seminavano a luna nuova, perchè doveva ricrescere in fretta, dopo
tagliata.
Tutte le altre verdure dovevano essere seminate a luna vecchia,
altrimenti montavano, ovvero emettevano le infiorescenze da seme
ed erano da buttare.
Il vino veniva imbottigliato a luna vecchia, altrimenti buttava via
il tappo o rompeva le bottiglie.
L'abbattimento delle piante da legno da lavoro, oppure del ceduo
da ardere, eseguito a luna nuova, esponeva il legno all'attacco dei
tarli (gamole).
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Pure la spiumatura delle oche, il cui piumino era destinato ai letti
da sposa, doveva avvenire a luna vecchia, per evitare di vedere
quel tesoro divorato dalle tarme e ridotto in polvere.
I vitelli, i puledri, i pulcini, le papere, nate a luna vecchia erano
molto più arzilli e robusti, stavano subito in piedi, per tale motivo
gli accoppiamenti e le cove venivano programmati di conseguenza.
Anche la nascita dei bambini era subordinata alla luna. L'astro
notturno condizionava la vita.
Oggi nessuno bada più a queste cose, tutto viene programmato dai
computer, con quali risultati è facile da verificare.
Il mondo di oggi considera fisime queste regole, ma i vecchi
basavano i loro criteri su esperienze consolidate e alla fine guardando come funziona la nostra società, non si può fare a meno di
dare loro ragione. Senza dirlo forte, per non essere considerati dei
pazzi.
23) La mattina del sabato Santo, in chiesa si benediva l'acqua destinata al fonte battesimale e per le acquasantiere, quelle di marmo
sistemate all'ingresso delle chiese, dove i fedeli inumidivano la
punta delle dita della mano destra per fare il segno della croce, al
momento di entrare e di uscire, per presenziare alle funzioni.
Contemporaneamente veniva benedetta anche l'acqua di un grosso mastello, dove poi, a cerimonia ultimata, i fedeli andavano a
riempire ognuno una bottiglia, per portarsela a casa; detta acqua
benedetta sarebbe servita ad alimentaer il benedettino che ogni
coppia sposata aveva all'epoca appesa a capo del letto, assieme al
crocifisso, per intingere la punta delle dita e fare il segno della
croce al momento di andare a dormire.
Ora i benedettini non sono più di moda, però quelli di una volta
sono molto ricercati dai collezionisti di oggetti d'epoca; purtroppo non è nemmeno molto più di moda fare il segno della croce
quando si va a dormire.
24) Ai tempi in cui ero bambini, si andava molto soggetti alla verminosi, ovvero a quei vermi intestinali che creavano non pochi
problemi ai bambini in tenera età.
Ebbene, il rimedio, all'epoca, era costituito da una collana di
spicchi d'aglio che si fabbricava infilando in uno spago numerosi
spicchi staccati dai bulbi di questo ortaggio aromatico, e fatto
portare al collo dell'interessao fino a quando il disturbo non era
sparito.
Pare che il rimedio fosse molto efficace e soprattutto pure a buon
mercato, perchè allora l'aglio era coltivato in ogni casa contadina.
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finito di stampare
giugno 1997
Tipografia AGS - Trino
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