Ha saputo dialogare con il mondo

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Ha saputo dialogare con il mondo
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
RESTO
CON VOI
Temi, voci, parole
di un pontificato luminoso
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
ISBN 978-88-908433-2-7 (PDF)
ISBN 978-88-908433-0-3 (EPUB)
direttore responsabile Marco Tarquinio
Avvenire Nuova Editoriale Italiana S.p.A.
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Prima edizione digitale 2013 Realizzato da Avvenire
Per i testi di Papa Benedetto XVI: © Libreria Editrice Vaticana
Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e
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Guida alla lettura
I testi raccolti in questo e-book sono stati pubblicati da Avvenire tra il 12
febbraio e il 3 marzo 2013.
La prima parte ospita in ordine cronologico cronache, interviste, editoriali e contributi che hanno raccontato la notizia della rinuncia di Papa
Benedetto e quanto accaduto nei giorni successivi, fino al termine del
pontificato.
Nella seconda parte è possibile trovare un’ampia selezione dei contenuti
del supplemento speciale ad Avvenire di domenica 24 febbraio, diffuso
non solo in edicole e parrocchie e agli abbonati ma anche in piazza San
Pietro tra la gente accorsa all’Angelus e, tre giorni dopo, anche all’ultima
udienza generale di Benedetto XVI. L’inserto è ancora acquistabile sul
sito www.avvenire.it.
Infine, la terza parte propone i discorsi pronunciati da Papa Ratzinger in
quest’ultimo scorcio del suo ministero petrino.
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I pilastri della cattedrale
di Marco Tarquinio
A
bbiamo imparato ad ascoltare e ad amare Joseph Ratzinger, il nostro
Papa Benedetto XVI, come uomo di fede e di ragione, innamorato
di Cristo e, perciò, saggio cercatore e difensore della verità profonda che
unisce e fa bella e degna la vita degli uomini e delle donne. Per questo,
spesso e con ammirazione, anch’io mi sono ritrovato a pensare a lui come
a un grande “costruttore di cattedrali”. Un costruttore gentile e forte, che
s’è messo all’opera senza paura in anni segnati dai distruttori che hanno
insanguinato il cuore del Novecento, che hanno raggelato di vuoto e di
terrore i decenni del dopo-atomica, che hanno preteso di fare dell’«io»
il nuovo «dio». Un costruttore lucido e paziente, capace della perizia e
della gioia, dell’onestà e dell’assoluta pulizia necessarie per tenere aperto, nel tempo e nella città dell’uomo, il cantiere infinito della “casa” di
Dio e del “cortile” di civiltà, offerto a tutti, che le sta sempre accanto. Un
costruttore così consapevole dell’importanza di coronare l’opera – per
Colui al quale è destinata, e per la comunità che ha guidato per anni nella bella fatica – da coronare di rinuncia e silenzio la propria dedizione,
consegnandosi al lavoro cristiano più prezioso e nascosto, quello della
preghiera. Passano i giorni, e la scelta del Papa continua a toccarci nel
profondo, a commuoverci, a scuoterci. E fa risaltare il nitore e la saldezza
dei pilastri della “cattedrale” che Benedetto XVI ha costruito con noi e
per noi e che ci chiama a continuare a costruire secondo il piano del Padre
e con infinito amore per l’umanità che il Figlio ha fatto per sempre sua.
Qui, oggi, raccontiamo di tutto questo. E per tutto questo, semplicemente, diciamo grazie.
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Nulla per sé tutto per Cristo
di Angelo Bagnasco
D
opo l’inattesa rinuncia di Benedetto XVI che ha commosso la Chiesa e il mondo, affiorano d’impulso ricordi e sentimenti. Anche nel
mio animo si affollano pensieri e immagini, gesti e parole che hanno
segnato il mio servizio alla Chiesa e, innanzitutto, la mia vita di credente.
In quanto cardinale e come presidente della Cei, ho avuto la grazia e la
gioia di poterlo incontrare più volte. Ogni volta, sentivo che il carisma
petrino di confermare la fede mi aveva segnato. E quanto più l’attenzione affettuosa sulla Chiesa che è in Italia, e la mitezza della sua parola
erano visibili, tanto più la conferma era chiara e vigorosa. Rincuorava il
cammino con il calore della sua paternità universale e sollecitava nella
verità del Vangelo da vivere con radicalità e da annunciare con gioia. Se
posso osare, mi ha da subito colpito la libertà interiore di quest’uomo
venuto dal nord, che Cristo aveva scelto come Successore di Pietro. Una
libertà - pensavo - possibile solo quando il cuore batte con quello di Dio
e non si ha nulla da affermare di sé. La discrezione del tratto, la naturale
riservatezza sembravano il desiderio di distogliere l’attenzione dell’interlocutore dalla sua persona: come un dito puntato su Cristo. L’urgenza
di annunciare che Gesù è il Signore della vita e della speranza, infatti, è
l’urgenza che ha ispirato tutto il suo pontificato. L’annuncio in un mondo
che cambia vorticosamente, fino a voler ridefinire i fondamenti dell’umano, richiede una fede pensata capace di parlare alla modernità con serena
chiarezza. I suoi interventi - dalle omelie ai discorsi, dalle encicliche ai
libri - sono un esempio di amore, di lucidità di pensiero e di metodo, a cui
guardare come luminoso riferimento per continuare nel dialogo con l’uomo contemporaneo. Egli è alla ricerca - magari inconscia - del senso ultimo del vivere e delle ragioni del credere con le sue implicazioni morali.
L’emozione con cui viviamo la decisione umile e ferma di Benedetto
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XVI si associa a un profondo senso di riconoscenza per il suo ministero a
servizio della Chiesa e del mondo. Vorremmo che il Santo Padre sentisse
ora, più forte che mai, l’abbraccio dei Vescovi italiani. Insieme alle loro
comunità, si stringono a lui con affettuosa gratitudine per l’ esempio, e
per la parola segnata dall’autorità di Pietro e dalla dolcezza di Benedetto.
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CAPITOLO 1
La notizia, i commenti, le voci
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12 febbraio
L’eco dell’annuncio
Totale passione, totale distacco
di Pierangelo Sequeri
D
ovrete essere indulgenti. Da secoli, neppure i teologi sono preparati
a commentare la rinuncia di un Papa. E per dirla tutta, io mi sento
del tutto impreparato alla rinuncia di questo Papa. La sua lucida e penetrante padronanza della dottrina, il suo stile a un tempo così immediato
e così poco mediatico, la sua pratica così sincera del ministero della mitezza e della fermezza della fede, mi hanno talmente abituato alla forza
del suo spirito, da rendermi impreparato alla grandezza del suo distacco. Però, intuisco che la passione ecclesiale del suo servizio, che ora - e
proprio così - si illumina così fragorosamente, è destinata a diventare
lezione epocale di stile per il ministero - potere e servizio - nella comunità di fede. (E non solo nella comunità della fede). Cerco di balbettare
parole, per restituire quello che intuisco, a caldo. Del ministero petrino,
nella Chiesa e per la Chiesa, si è servitori, non padroni. Per dimostrarlo,
non è necessario che morte sopraggiunga. E così noi, dopo aver ricevuto
innumerevoli doni e prove della sua custodia e del suo onore, siamo testimoni, emozionati e sbigottiti, del gesto della sua restituzione. Il cristiano
Joseph Ratzinger, il servitore fedele della Chiesa, restituisce - da vivo - il
ministero petrino alla Chiesa, perché, ascoltando lo voce dello Spirito
e interpretando l’indicazione del Signore, essa lo assegni all’uomo che
sembrerà più adatto a infondergli il nuovo vigore che la conferma della
fede e la guida della Chiesa richiedono. Un gesto estraneo alla nostra immaginazione banalmente clinica, un segno di responsabilità che anticipa
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il distacco da sé, interiormente richiesto: in questo ministero, più che in
ogni altro. Per comprenderlo appieno, però, al di là dell’abnegazione di
un animo grande, dobbiamo intenderne la lucidità nei confronti dell’ora
presente della Chiesa e del mondo. È pur questo un pronunciamento del
Papa. Un pronunciamento nei confronti della speciale congiuntura della
fede e della storia in cui viviamo. Non per caso, su questa congiuntura
Benedetto XVI ha concentrato, con grande determinazione, il fuoco della sua parola e dei suoi ultimi ammonimenti. Il congedo è annunciato
nel cuore dell’Anno della fede e dopo il Sinodo dei Vescovi sulla nuova
evangelizzazione. Un gesto epocale, per una svolta della vitalità della
fede. Il Papa coraggioso fa il suo ultimo passo, camminando - proprio
così - avanti alla Chiesa, che dovrà seguire. Con che cuore, dunque, potremo limitarci a un semplice gesto di comprensione e di condiscendenza?
Benedetto XVI merita - e ha meritato - infinitamente di più. Il suo ultimo
atto di ministero rende onore al carisma petrino. E come tale deve essere
onorato. L’evidenza del gesto ci fa traballare, certo. Ci lascia con il fiato
sospeso. Sentiamo però che mai così efficacemente siamo stati messi di
fronte alla nuda fede che ci è necessaria, affinché la Chiesa - la Chiesa,
sì, il vangelo che è affidato agli umani! - lasci spazio a nuove energie e a
nuovi chiamati. Perché le sia concesso di mostrare, in modo totalmente
persuasivo, la sua totale passione per il vangelo insieme con il suo totale
distacco da se stessa. Dovremo al gesto del Papa Benedetto - ci verrà
in mente per secoli - la riscoperta ecclesiale della forza che viene da
questa perfetta sovrapposizione di totale passione e di totale distacco.
È per questo che esiste, un Papa. E che cosa può fare di più, un Papa,
per convincerci ad abbandonare una volta per tutte le passioni tristi e gli
ambigui interessi che ci distolgono dall’appello del Signore alla Chiesa?
Non potremo mai più dimenticare il modo con il quale ci è stata spalancata la porta di una fede totalmente disinteressata, alla quale restituire
appassionata evidenza per tutti coloro che ne hanno perso l’immagine. E
non avremo scuse, se non faremo tesoro, di fronte alla storia, di questo
splendido magistero del congedo di un Papa.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
L’albero che cresce sempre di nuovo
di Marina Corradi
N
on accadeva da secoli. E si pensava non potesse accadere. Il mondo,
da un capo all’altro, sbalordito. «Ad cognitionem certam perveni
vires meas ingravescente aetate non iam aptas esse ad munus Petrinum
aeque administrandum». L’austerità del latino rende appieno la drammaticità e l’essere già storia di quelle poche righe: «Sono pervenuto alla
certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per
esercitare in modo adeguato il ministero petrino...». Le parole a lungo
ponderate in silenzio, maturate in un confronto serrato fra la coscienza di
un uomo e Dio, erompono, inattese.
Il web impazzisce. I potenti dichiarano. Ma noi credenti, noi che amiamo
Benedetto XVI, che ne ascoltiamo da anni le parole e ne conosciamo il
profondo amore per la Chiesa, siamo rimasti, ieri, profondamente smarriti. Tu, te ne vai? In quanti conventi e cattedrali e chiese e missioni e case
e favelas in tutto il mondo questa domanda è risuonata ieri, dolorosa. Tu,
Pietro, rinunci. E noi nelle nostre fatiche e sofferenze ci siamo sentiti più
soli, come un esercito il cui generale, gravato dagli anni, lasci il campo.
Semplicemente, dolore: un dolore filiale è ciò che milioni di fedeli hanno
sentito addosso, ieri. Noi, non sappiamo. Non conosciamo in che modo
la «ingravescens aetas» abbia incalzato il Papa, sempre più da vicino, e
come, rodendone le energie, abbia avuto la meglio sulle forze dell’uomo.
Nemmeno possiamo immaginare quale carico di responsabilità e sfide
gravi oggi sul Papa. Se sapessimo, forse capiremmo. Ciò di cui non dubitiamo è che questo gesto sia ancora e sempre di amore per la Chiesa;
che Benedetto abbia pensato al bene Chiesa, prima che a sé, nel decidere.
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Ci sono, fra le righe degli ultimi discorsi, parole che lette oggi sembrano
quasi voler consolare quelli come noi, gli smarriti. «Essendo cristiani
- aveva detto il Papa nella lectio divina al Pontificio seminario romano
maggiore, venerdì scorso - noi sappiamo che nostro è il futuro, e che
l’albero della Chiesa non è un albero morente, ma albero che cresce sempre di nuovo». Pensava già anche a noi Benedetto XVI, quando scriveva
queste parole? Come un padre che avverta il declino, e al dolore dei figli
risponda facendo memoria che, in Cristo, nulla muore per sempre; e che
se qualcosa sembra finire, è per rinascere ancora. Dentro una immensa
storia che continua possiamo farci una ragione, nel nostro smarrimento,
dell’andarsene di un padre. Non lo ameremo, per questo, di meno; anzi
forse di più, come quando sulla faccia di tuo padre un giorno d’improvviso vedi quanto pesano gli anni, e i dolori. E vengono in mente le ultime
due pagine di “La mia vita”, autobiografia di Ratzinger prima del pontificato, in cui spiegava perché, nel suo stemma di arcivescovo di Monaco
e Frisinga, avesse messo un orso. Secondo la leggenda, Corbiniano, fondatore della diocesi di Frisinga, stava recandosi a Roma quando un orso
aggredì e sbranò il suo cavallo. Allora il santo ordinò all’orso di caricarsi
il fardello del cavallo, fino a Roma. Alla leggenda il futuro pontefice associava un commento di Agostino al Salmo 72, in cui il santo scriveva:
«Sono divenuto per Te come una bestia da soma, e proprio così io sono
in tutto e per sempre vicino a Te». Che non sia questa, di domandava
Ratzinger, un’immagine del mio personale destino? Come già avvertendo sulle spalle il giogo incombente. Il libro finiva così: «Quando sarà
lasciato libero l’orso, non lo so, ma so che anche per me vale: “Sono
divenuto la Tua bestia da soma, e proprio così sono vicino a Te”». L’orso
ha portato un carico grande. Ora cede agli anni, e al gran peso; per ciò che
ritiene il bene della Chiesa, umilmente cede. Ci resta, luminosa, quella
parola sull’albero che non muore, ma germoglia sempre e di nuovo. Sotto
al cielo di piazza San Pietro, grigio in una mattina di febbraio, la Chiesa
continua. E invisibili si incrociano promesse e vocazioni e destini, come
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fili di una trama che non sappiamo; ma che attende noi, e i nostri figli, e
il Papa che verrà, in un disegno buono.
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La ragione della fede tra gli atei nativi
di Salvatore Natoli
I
n un film recente e controverso - «Habemus papam» - il regista Nanni
Moretti ci raccontava di un cardinale restio a diventare Papa perché
non si sentiva idoneo a prendere su di sé il grande peso di governare la
Chiesa, schivato peraltro anche dagli altri; oggi Papa Benedetto XVI che
si dimette dal pontificato perché non si sente più nelle condizioni fisiche
o spirituali - o spirituali e fisiche insieme - per potere stare ancora alla
guida della Chiesa. Nella storia della Chiesa ci sono state dimissioni celebri - tutti ricordano quella di Celestino V - tanto che il diritto canonico
le prevede, anche se non appartiene alla prassi ordinaria. Da laico non voglio entrare nel merito della teologia - e visto che si parla di papato neppure della teologia politica - ma mi limito a notare come in genere e per
lo più si tenda a identificare la Chiesa con il Papa, anche se il papato è un
servizio alla Chiesa nella Chiesa. Non voglio neppure affrontare la questione circa il rapporto tra persona e funzione in questo caso direi meglio
mandato, ma mi pare che nelle dimissioni del papa motivo di riflessione
siano le ragioni da lui avanzate. Nel momento in cui per motivi diversi
non ci si sente all’altezza del proprio compito è giusto riconsegnarlo a
coloro da cui lo si è ricevuto; e in questo caso alla Chiesa. Una decisione degna di grande apprezzamento perché indica come non bisogna mai
confondere il compito con il potere e perciò sulla necessità di intendere
il potere come servizio. In una società in cui si tende ad identificare sé
con il potere - tanto che nessuno si dimette se non sconfitto - le dimissioni del Papa mostrano un senso alto di responsabilità nei confronti del
proprio compito e perciò anche di dedizione alla Chiesa. L’erogazione di
un servizio presuppone la consapevolezza del limite e perciò il dovere di
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ritirarsi quando si ritiene di non essere più in grado di espletarlo al meglio. Dimettersi in questo caso oltre ad essere indice di una grande qualità
morale, è anche un atto razionale, consapevole di quello che si è in grado
di fare o meno.
D’altra parte Benedetto XVI, nel corso del suo pontificato si è sempre appellato alla ragione fino al punto da impegnarsi, da teologo, a mostrare la
ragionevolezza della fede senza nulla togliere al suo mistero. Certo quel
che seguirà a queste dimissioni non è facile da prevedere: quanto una presenza così importante come quella dell’ex Papa influirà sul conclave e,
ancorché silente, condizionerà l’elezione del nuovo Papa? Come è noto
certe conseguenze insorgono anche quando non si vogliono. Ma ciò nulla
toglie al valore etico di chi declina un mandato e si mette a disposizione
per altro servizio che può meglio sostenere. Certo il peso che Papa lascia
in eredità al suo successore non è lieve: la Chiesa si trova oggi per la
prima volta ad operare in un ambiente totalmente secolarizzato; possiamo dire di “atei nativi”, come nei processi cognitivi si parla di “nativi
digitali”. Non più contro Dio, ma senza Dio, almeno secondo il modo
tradizionale di concepirlo. Di questo il Papa stesso se ne era reso perfettamente conto quando ha lanciato l’idea di una nuova evangelizzazione,
consapevole che il regime di cristianità sia definitivamente consumato e i
cristiani sono divenuti minoranza. Per questo o tornano ad essere lievito
o periscono.
Per questo quel che Benedetto XVI non farà più da Papa continuerà a farlo nella forma in cui lo ha sempre fatto, educando all’intelligentia fidei,
da teologo. E su questo piano i non credenti restano ancora interlocutori
possibili.
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Maestro e testimone
di dedizione alla Chiesa
di Elio Guerriero
P
er quanto inattesa, la notizia delle dimissioni di Papa Benedetto non è
estranea all’insegnamento e alla testimonianza del pontefice tedesco.
Vi è anzitutto la sua reiterata insistenza sul concetto di ministero petrino.
Naturalmente il pensiero del servizio associato al compito dei successori di Pietro non è nuovo nella storia della Chiesa. Vi fa riferimento il
titolo di servo dei servi di Dio con il quale i Papi da Gregorio Magno in
poi hanno concepito il loro incarico. È certo, però, che già da cardinale
Ratzinger aveva insistito sulla struttura martirologica, testimoniale del
ministero del successore di Pietro dove l’idea del martirio non faceva
tanto riferimento alla testimonianza cruenta, quanto alla dedizione totale,
quotidiana richiesta al pontefice. Egli sottolineò poi questo concetto fin
dalla Messa inaugurale del suo pontificato, che volle definita Messa per
l’inizio del ministero petrino. Il pensiero a questo punto va spontaneamente al capitolo conclusivo del Vangelo di Giovanni, tanto caro al Papa,
con il triplice quesito rivolto da Gesù a Pietro: «Simone di Giovanni, mi
ami tu più di costoro? Mi ami tu, mi ami tu?». E poi l’annuncio: «Quando
eri giovane, ti cingevi la veste da solo e andavi dove volevi, ma quando
sarai vecchio, tenderai le tue mani e un altro ti cingerà la veste e ti porterà
dove tu non vuoi». Con questi sentimenti Papa Benedetto ha affrontato
il suo pontificato e con gli stessi ha fatto la scelta delle dimissioni in un
estremo gesto di obbedienza e di sequela alla chiamata del Maestro. Papa
Benedetto non è l’uomo dalle decisioni improvvise e non è abituato a
sfuggire alle difficoltà. La sua determinazione nasce dalla visione molto
elevata del compito del Papa come servitore dell’unità, ma anche dalla
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profonda convinzione maturata negli anni della presenza viva di Gesù
nella Chiesa. Si spiega così la tenacia con la quale ha voluto portare a
compimento i suo tre volumi su Gesù di Nazaret, a delineare una cristologia e una ecclesiologia spirituale. Dove l’aggettivo spirituale sta a
sottolineare l’aspetto personale di Gesù. Nella parola e nei sacramenti, in
particolare nell’Eucaristia, con il suo Spirito d’amore Gesù è presente e
vivo nella comunità cristiana che da lui riceve vita e giovinezza. Egli non
è solo il profeta vissuto duemila anni fa, ma il Figlio che siede alla destra
di Dio. A lui i fedeli possono rivolgersi in ogni momento per far giungere
al Padre la lode e il ringraziamento per la sua magnanimità nell’opera di
salvezza e per chiedere aiuto e sostegno nel cammino della vita. È ancora
lo Spirito di Gesù che guida la Chiesa e la governa, che calma le tempeste
della storia. Vi è un’ulteriore riflessione degna di attenzione: Benedetto
XVI ha preso la sua decisione nell’Anno della fede da lui stesso convocato. Fede in questo caso vuol dire fiducia riposta nello Spirito. Il Papa
può compiere, dunque, questo gesto sapendo di rimettere il suo mandato
nelle mani del Paraclito, il quale guiderà i cardinali a eleggere un successore che sappia servire con rinnovato vigore all’incarico di tenere unita
la comunità dei credenti. Vorrei ricordare che se il Papa lascia la guida
della Chiesa, egli resta un padre che mette a disposizione la sua preghiera
e la sua testimonianza in unione profonda con il suo successore e con
tutta la comunità credente. A lui vanno dunque l’augurio che già Origene
rivolgeva a un anziano: «La tua età matura sia feconda come la tua giovinezza», così come la gratitudine e la preghiera dei fedeli tutti.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Tutto ci è dato
di Marco Tarquinio
S
iamo sorpresi e scossi. Siamo commossi. Ed è naturale. Anche se i
libri di storia dicono altro, è la prima volta – a memoria d’uomo e
di cristiano – che un Papa «si dimette ». E senza dubbio è la prima volta
che il mondo può ascoltare in diretta questo annuncio nell’antico idioma
della Chiesa, il latino, e può vederlo propagarsi istantaneamente in tutte
le possibili lingue dei popoli e della modernità. Certo, Benedetto XVI ci
aveva invitato per tempo in modo aperto e sereno, a considerare la ragionevolezza cristiana e umana di un simile gesto. Ma un conto è considerare una evenienza, tutt’altro è misurarci con un evento. E a questo siamo.
Trema la mano a scriverlo, e non di paura, ma di un incredulo eppure
come già consolato dolore e di una strana gratitudine in cerca di conforto.
La nuova e straordinariamente umile scelta di Papa Benedetto – la volontà di consegnarsi dalla fine di questo febbraio a un servizio a Dio e ai
fratelli fatto di silenzio, di nascondimento e di preghiera – completa (e,
poco a poco, ci sarà sempre più chiaro) la decisione con la quale Joseph
Ratzinger, servitore coraggioso e già anziano della parola limpida e profonda, accettò otto anni fa l’elezione al soglio di Pietro, chinandosi per
amore alla volontà di Dio e alla richiesta della Chiesa e inchinandosi a
noi tutti nel presentarsi come «umile lavoratore della vigna».
Ora, nel cuore di quest’Anno della Fede, l’umiltà e la grandezza di Pietro
si manifestano in una maturata decisione di ritiro per sé e di indicazione alla comunità dei credenti della via dell’elezione di un più vigoroso
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«servo dei servi di Dio». Inevitabile tornare con la mente, e con identica
commozione, a un altro distacco e a un altro grande ammaestramento
che – sembra appena ieri – si manifestò nell’interezza del cammino infine faticoso e della voce infine spezzata di Giovanni Paolo II. Due facce
distinte e complementari dell’umiltà evangelica ci sono state mostrate in
esemplare sequenza in questo avvio del terzo millennio cristiano. E oggi,
come ieri e come sempre, uno “scandalo” e un “segno” ci pongono di
fronte e dentro a un avvenimento che tocca l’anima di ognuno, che segna
la storia di tutti, che interroga e sprona in modo persino rivoluzionario la
grande comunità di fede cattolica e parla a ogni altro credente in Gesù di
Nazaret.
E, così, eccoci qui. Agitati più che mai da attese, in questi giorni davvero
per noi inattesi. Assediati di domande, in questo tempo di aspre sfide e di
accattivanti illusioni che è già per uomini di fede e di scienza una grande
e assillante domanda. Eccoci qui, di fronte alla croce di Cristo e a un
insegnamento del Papa che ci ricorda nel modo più disarmante e coinvolgente la nostra responsabilità e la nostra limitatezza. Eccoci qui, a mani
aperte, ma non vuote. Come se qualcosa di prezioso ci fosse stato tolto e
offerto con uno stesso gesto. E forse in tanti, in questo freddo giorno di
febbraio dell’Anno del Signore 2013, capiamo di più e meglio che proprio niente ci appartiene per sempre, ma se apparteniamo a Lui, nulla e
nessuno ci è tolto e tutto ci è dato.
Siamo sorpresi e scossi, sì. Siamo commossi. E il cuore ci aiuta a capire meglio la scelta del Papa, e a dirgli con fiducia e speranza un nuovo
grazie. Grazie perché ci ha insegnato, e continuerà a farlo, con intensità
e forza uniche il legame vitale tra fede e ragione, tra la vita degli uomini
e le donne di questo tempo e la verità sull’uomo e sulla donna di ogni
tempo. Grazie perché ancora una volta Benedetto ci ha detto chi è Pietro
e come serve l’unico Signore.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Bagnasco: “La decisione
di un uomo di fede”
di Francesco Ognibene
H
a preso parte al Concistoro di ieri mattina che resterà scolpito nella
storia della Chiesa. Nel suo cuore, certamente, rimarranno incise le
parole del tutto inattese di Benedetto XVI, un tumulto nel cuore di tutti
che in un attimo si è esteso al mondo. Il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, poche ore dopo l’annuncio del Papa racconta l’incontro
cui ha partecipato, i sentimenti che l’hanno accompagnato, e ci aiuta a
leggerne il senso con lo sguardo limpido del cristiano.
Eminenza, cosa può dire dell’evento di cui è stato testimone?
Il Concistoro si stava svolgendo come previsto, ma prima della benedizione finale il Santo Padre ha letto un suo testo in latino, breve, nel quale
ha annunciato l’intenzione di concludere il servizio petrino il 28 febbraio. C’è sempre un grande silenzio di attenzione quando il Papa parla,
ma dopo queste parole è calato su di noi un silenzio ancor più palpabile,
misto a sorpresa, sconcerto, grande rincrescimento. Quando poi il Santo
Padre è uscito, dopo un momento nel quale nessuno parlava, ci siamo
quasi timidamente scambiati i nostri sentimenti, scoprendoli profondamente condivisi.
Come va accolta la scelta di Benedetto XVI?
Siamo tutti dentro una profondissima emozione, ma dobbiamo collocare
questo avvenimento dentro l’orizzonte della fede: Cristo è il pastore dei
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pastori, la Chiesa è solida nelle mani di Gesù che si serve degli uomini
scelti da Lui. Insieme al primo sconcerto, che resta nel cuore, emerge un
grande abbraccio a Benedetto XVI, da credenti e non credenti, perché
sta svettando più nitida ancora la statura di quest’uomo che il Signore
ci ha donato per 8 anni, per il suo profondo magistero offerto con una
tenerezza di animo e di tratto, di rispetto e di umiltà riconosciuta da tutti,
specialmente in queste ore.
Cosa possiamo leggere nelle parole pronunciate dal Pontefice?
Questa decisione nasce da un’anima - percezione crescente in questi anni
- profondamente umile, che vive di fede e nella libertà del proprio cuore,
che non ha da affermare se stesso ma sa di dover solo annunciare Gesù
Cristo. Tutto ciò che lui compie - gesti, parole, scelte - l’ha vissuto esclusivamente per questo. L’Anno della fede comprova la preoccupazione
che ha annunciato fin dall’inizio del suo pontificato: la questione principale della Chiesa oggi è la fede. Al Papa non importa essere conforme
all’opinione dominante, perché è un uomo libero e quindi coraggioso. La
decisione appena annunciata è dentro questo humus profondo della sua
anima, che è il suo respiro quotidiano e che lo ha portato a valutare l’avanzare degli anni - come lui dice - in rapporto ai bisogni crescenti della
Chiesa contemporanea.
C’è una parola tra quelle pronunciate dal Papa che può aiutarci a
leggere dentro i suoi sentimenti e le sue intenzioni?
Non presumo di conoscerlo così profondamente, ma nella frequentazione
di questi anni nei quali ho potuto avvicinarlo anche in circostanze molto
difficili e di grande sofferenza - come il momento di massima esplosione
delle vicende dolorosissime legate ai casi di pedofilia - mi ha sempre
colpito la serenità e la fiducia. Mi porto dentro l’impressione fortissima
di un uomo che vive tutto ciò che accade con uno sguardo di fede. Il suo
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è l’esempio di come si vive il cristianesimo: vedere le cose con gli occhi
del Signore. Il suo magistero di questi anni, insieme alla sua persona, è
un richiamo, un esempio e una predicazione della fede. Che al suo centro
ha Gesù Cristo.
Lo stato d’animo di tanta gente è di sorpresa e di dolore, forse molti
pensano anche a Giovanni Paolo II che portò il suo servizio fino alla
fine. Perché questa differenza tra i due Papi?
Le circostanze sono diverse, come le personalità. Ognuno ha valutato
davanti a Dio, nella preghiera, la propria situazione e quella della Chiesa
cui è consacrato come servitore. Sarebbe indebito fare confronti così delicati e, alla fine, ritengo anche impossibili perché ci porterebbero dentro
il sacrario della coscienza personale.
Questa decisione - come già dice qualcuno - mostra una Chiesa più
fragile ed esposta a chi la vorrebbe diversa da come è?
Al contrario. L’«incapacità» di cui parla il Papa non è riferita alle virtù
morali o a poco coraggio, scarsa attenzione, volontà di ritirarsi a una vita
meno pesante. Le considerazioni del Papa sono riferite alle forze fisiche
e al passare degli anni, con un logorìo che in questi ultimi mesi è stato
anche visibile. Di certo non si può dire che questo non sia un Papa coraggioso: se qualcuno pensa a una “fuga” dovrebbe chiedersi allora perché
non lasciò nel mezzo della tempesta per la pedofilia.
Questo evento imprevedibile ha un nesso con l’Anno della fede?
Si può vedere come un annuncio del primato della fede e della centralità
di Cristo. Noi uomini siamo strumenti e servitori, certo impegnandoci a
esserlo in modo intelligente e responsabile, ma il grande timoniere resta
Cristo. Se questa è la nostra fede, la scelta di coscienza che il Papa ha fat-
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
to diventa una proclamazione ulteriore e visibile di cosa vuol dire avere
Cristo al centro.
È come se il Papa ci indicasse una volta ancora Cristo...
Sì! A ben considerare, ancora una volta lui che è così schivo con questo
gesto sembra voler spostare l’attenzione da sé al Signore.
Un altro sentimento che si tocca è l’impressione di molti di perdere
un padre. Come si affronta questo stato d’animo?
Anzitutto ringraziamo il Signore, perché è bello sentire in modo più
esplicito e diffuso quanto Benedetto XVI sia entrato nei cuori. Non solo
teologo ma padre. Gesù ha fondato la Chiesa come espressione del suo
amore e della paternità di Dio verso il mondo, e la esprime anche attraverso i suoi pastori, in primo luogo tramite il suo fondamento visibile che
è il Successore di Pietro. Occorre avere ora grande fiducia, perché è Gesù
il grande nocchiero della Chiesa. Egli non la abbandona mai. Abbiamo
un grande senso di affetto, vicinanza, riconoscenza verso l’uomo che in
questi anni ha tradotto la paternità di Dio in modo insieme così forte e
mite. Ma dobbiamo anche essere molto sereni: la provvidenza c’è, la storia della Chiesa ci insegna che davvero Dio vede e provvede.
In cosa ha visto, eminenza, la speciale paternità del Papa verso la
Chiesa italiana, espressa ancora in queste settimane con le visite ad
limina di tutti i vescovi?
Proprio noi vescovi liguri siamo attesi in Vaticano tra due giorni, un’occasione per esprimergli gratitudine e affetto. Ho toccato con mano l’attenzione del Papa per la Chiesa italiana in tutte le udienze che mi ha
concesso come presidente della Conferenza episcopale. Egli ha disposto
la consuetudine di potermi recare in udienza prima di ogni incontro con i
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
vescovi italiani, e dunque quattro-cinque volte l’anno. Questo è stato per
me un grandissimo dono e privilegio. Gli incontri con lui sono stati una
grazia di conferma nella fede e di indirizzo per la Chiesa italiana. Il Papa
ha sempre ascoltato con estrema attenzione e discrezione, suggerendo e
incoraggiando, mostrando grande stima e affetto per l’episcopato italiano
e il nostro Paese. L’udienza più recente, verso la fine di gennaio, è stata
particolarmente lunga - un’ora. Il Santo Padre, con la parola e lo sguardo,
si è informato con un’attenzione tutta particolare. Un’esperienza che ho
riferito ai miei confratelli in Consiglio episcopale, perché mi è sembrata
una grazia specialissima.
Nelle sue parole al Concistoro il Papa ha anche indicato ai pastori
uno stile per guidare la Chiesa?
Il Papa ha richiamato la consapevolezza che la missione affidata da Dio
ai pastori, e anzitutto al successore di Pietro, è più grande delle nostre
spalle umane. Ma proprio per questo emerge la presenza e la grandezza di
Dio, che guida la sua Chiesa attraverso le nostre povertà. Deve prevalere
la grazia e non le capacità umane. Vorrei sottolineare che il Pontefice dice
che il ministero va compiuto «non meno soffrendo e pregando», due elementi di governo della Chiesa che lui ha vissuto - come anche Giovanni
Paolo II - in primissima persona.
Papa Benedetto ci ricorda che “resta con noi” nella preghiera, indicando la nuova dimensione della sua vita. Cosa ci dice questa sua
parola?
La preghiera esprime la fede nel Signore. Nella lettera d’indizione
dell’Anno della fede Porta fidei dice che la fede è decidere di stare con
Gesù per vivere con lui. La preghiera si colloca qui: la fede è decidere di
stare con lui, e in questo c’è la familiarità e la compagnia con il Signore
che noi chiamiamo vita spirituale. Essa assume in modo specifico la for-
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
ma della preghiera. Il fatto che lui resti con noi nella preghiera ci richiama all’essenza della fede cristiana. Che è “stare con Gesù” nel mondo
senza essere del mondo.
Che significato ha il giorno scelto dal Papa, una festa mariana così
popolare e amata come la Madonna di Lourdes?
È un elemento certo non casuale. La scelta è precisa, anzitutto come devozione filiale alla Madonna. Nei suoi viaggi il Santo Padre ha sempre visitato santuari mariani. A Lourdes la devozione mariana si esprime come
amore misericordioso, che guarisce i corpi quando Dio vuole e le anime
sempre. L’amore di Dio a Lourdes si fa misericordia per le afflizioni del
nostro mondo, per le malattie del corpo e dell’anima. Mi pare una sottolineatura particolarmente bella e importante per l’umanità di oggi che ha
estremo bisogno di sentirsi amata. Se il mondo a volte è tanto violento è
perché forse non sa di essere amato nella misericordia.
Non è l’ora dei bilanci, ma c’è un fattore che lei ha visto cambiare più
intensamente sotto la guida di Benedetto XVI?
Diversi sono i fattori ed è presto per valutarli. Però mi sembra che, insistendo sulla centralità della fede e quindi di Gesù Cristo, il Santo Padre
negli anni ha pazientemente richiamato l’attenzione su quello che ci ha
indicato il Concilio Vaticano II, cioè il primato della liturgia, luogo e spazio del mistero, dove l’uomo s’incontra con il Signore e nella sua libertà
si lascia afferrare dal mistero di Dio, per esserne trasformato. Il Papa
ha messo a tema sin dall’inizio del pontificato la centralità della liturgia
eucaristica come fonte e culmine di tutta la vita cristiana e della missione della Chiesa. Ci ha costantemente ricordato che l’Eucaristia genera il
popolo di Dio. Mi pare che questa sottolineatura stia passando nella vita
delle comunità e nella coscienza del popolo cristiano.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Come affrontare questo tempo inedito di attesa che precede il Conclave per l’elezione del nuovo Papa?
Con un atteggiamento di grande fiducia e serenità. Il rammarico e lo sconcerto iniziali sono il segno che mostra come Benedetto XVI sia entrato
nei cuori portandoci Gesù con la sua persona, la luce della sua parola e
il calore della sua mitezza. Ma questi sentimenti devono essere vissuti
dentro a un orizzonte più grande: la serenità radicata nella fede. Lasciamo stare tanti discorsi: il credente ha fiducia in Cristo. Non rincorriamo
ipotesi, pronostici, illazioni che in questi giorni si faranno. Preghiamo,
con lo sguardo fisso su Gesù, perché la Chiesa continui la sua storia di
fedeltà a Cristo e all’uomo. Preghiamo per Benedetto XVI, e per il futuro
successore di san Pietro.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Cardini: “Non ci fu soltanto
Celestino V”
di Roberto I. Zanini
«I
n un caso come questo il primo nome che viene in mente è quello di
Celestino V, il Papa del “gran rifiuto”, anche se il versetto non è fra
i più simpatici di Dante e nei fatti non sappiamo con certezza se il poeta
si riferisse proprio a Pietro da Morrone». È la prima osservazione dello
storico Franco Cardini quando gli chiediamo se nella storia ci sono stati
casi che in qualche modo possano assomigliare a quello di Benedetto
XVI. Poi spiega che in realtà casi simili non ce ne sono stati, ma «se proprio si vuole andare a caccia di Papi che hanno rinunciato», ci sono casi
vagamente somiglianti. E aggiunge: «Le somiglianze storiche zoppicano,
perché sono sempre soggettive». In questa logica salta a piè pari il caso
poco documentato di papa Clemente, terzo successore di Pietro.
Poi, c’è quello di papa Ponziano, che nel 235 viene deportato in Sardegna e nella prospettiva di non tornare più dai lavori forzati rinuncia alla
carica consentendo la nomina del suo successore. Sorte che più o meno
accade tre secoli dopo a papa Silverio, confinato da Belisario su ordine
dell’imperatrice Teodora.
Allora professore, quali sono i casi vagamente somiglianti più vicini
a noi?
Un caso emblematico è quello relativo a Benedetto IX, Teofilatto dei
conti di Tuscolo, che viene eletto nel 1032. Personaggio dalla vita assai
criticabile, che viene cacciato da una rivolta nel 1044. Al suo posto viene
eletto Silvestro III che a sua volta viene rimosso dal ritorno di Benedetto
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
IX che resta in carica fino a maggio del ‘45, quando vende il pontificato a
Giovanni dei Graziani che prende il nome di Gregorio VI e viene deposto
l’anno dopo. Una fase particolarmente confusa della storia della Chiesa
che culmina con lo Scisma d’Oriente e si chiude con la nomina al soglio
pontificio di Ildebrando di Soana, il riformatore Gregorio VII.
C’è un periodo analogo, nel ‘400, in cui si verifica una singolare sovrapposizione di Papi...
In effetti se da professore di storia, non da commentatore della vicenda
attuale, dovessi andare cercando curiose analogie indicherei i fatti accaduti negli anni fra il 1409 e il 1414.
Siamo alla fine dello Scisma d’Occidente.
Esattamente. Parliamo del caso di Gregorio XII, il veneziano Angelo
Correr, che si dimette nel 1415 su richiesta del Concilio di Costanza,
dopo però che nel 1409 il Concilio di Pisa aveva deposto sia lui che il
papa avignonese Benedetto XIII, eleggendo in loro sostituzione Alessandro V, che muore nel 1410 e viene sostituito dall’antipapa Giovanni
XXIII. Una situazione particolarmente confusa a fronte della quale, anche su sollecitazione di molti cardinali che rilevano la necessità di porre
fine allo scisma, interviene l’imperatore Sigismondo di Boemia. Viene
indetto il Concilio di Costanza il 4 luglio del 1415 che accoglie l’abdicazione ufficiale, ancorché forzata, di Gregorio XII, che torna cardinale e
va a vivere a Recanati. Qualche mese dopo lo scisma viene ricomposto
con l’elezione di un membro di una nobile famiglia romana, Oddone
Colonna, che assume il nome di papa Martino V. È nel corso del Concilio
di Costanza che emerge un fatto importante nella Chiesa, cioè il dibattito
sull’opportunità che il Papa governi affiancato dal Concilio. A questo
scopo si decise che i Concili venissero indetti a cadenze fisse.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Questo non impedì quello che è passato alla storia come il Piccolo
Scisma.
E anche qui emerge la singolare figura di un antipapa dimissionario. Si
tratta di Amedeo VIII di Savoia, eletto in seno al Concilio di Basilea da
un gruppo di cardinali che deposero Eugenio IV. Prese il nome di Felice
V. Quando a Roma Eugenio IV muore, su richiesta del successore, Nicolò V, accetta di abbandonare la tiara per riunire la Chiesa. È il 1449.
Muore due anni dopo da cardinale e in fama di santità. Da quel momento
l’unità di guida all’interno della Chiesa Cattolica non viene più messa in
discussione.
Figure che ci allontanano parecchio dal caso di Benedetto XVI.
Sono somiglianze molto vaghe. Alla fine il caso che si avvicina di più,
nonostante le tante differenze, è forse quello di Celestino V. Lui è tornato
a fare il monaco anche perché non poteva fare altrimenti, considerate
le pressioni esterne. Le libere dimissioni di papa Benedetto aprono ora
nuovi scenari anche riguardo alla domanda su cosa fa un Papa dopo che
si è dimesso.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Versace: “Anche Montini arrivò
a valutare quel passo”
di Gianni Santamaria
P
oteva esserci già con Paolo VI un precedente di rinuncia al papato
nella storia recente del Pontificato. Di sicuro la lettera in questo senso
preparata da Papa Montini già dopo aver scritto il suo testamento spirituale, testimonia come i successori di Pietro abbiano sempre in mente
l’importanza della propria integrità fisica e mentale. Ma anche che se il
servizio petrino lo si può lasciare, non si lascia mai la paternità ad esso
connaturata.«La lettera era da consegnarsi ai cardinali nel caso si fossero verificate condizioni di impossibilità a proseguire nel ministero. Con
preghiera di approvarla, cosa che era prevista prima delle riforma attuata
da Giovanni Paolo II nell’83. Questo era il contenuto, riportato dal segretario del Papa, monsignor Pasquale Macchi. Il Papa temeva di potersi
ammalare gravemente e diventare incapace di svolgere i suoi compiti»,
spiega Eliana Versace, docente di Storia della Chiesa contemporanea alla
Lumsa. Dell’esistenza dello scritto, non del suo contenuto letterale, si è
venuti a conoscenza da alcuni mesi, poiché se ne parla nella Positio approvata il 20 dicembre dalla Congregazione per le cause dei santi, dopo
la quale Benedetto XVI ha firmato il decreto di riconoscimento delle virtù eroiche del predecessore. Ma già il suo segretario, monsignor Macchi,
ne aveva parlato in alcune sue precedenti pubblicazioni.
«Però ci pensava da tanto - prosegue la Versace -. E pensava anche che
queste dimissioni da Pontefice romano e pastore universale della Chiesa
dovessero essere accettate. Per questo raccomandava che vi fosse l’approvazione del collegio cardinalizio. Questa è la differenza rispetto alla
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
procedura adottata da Ratzinger, che si è avvalso della possibilità per
il Papa di dimettersi introdotta da Wojtyla nel 1983. Paolo VI temeva,
insomma, l’eventualità di essere improvvisamente colto da una malattia
che lo rendesse inabile o incapace di intendere e volere. E, in questo caso,
non vi sarebbe stata un’autorità a lui pari in grado di accettare la sua rinuncia. «O anche una malattia che gli impedisse di continuare a svolgere
adeguatamente il suo compito - precisa la studiosa -. Lui si è speso tanto
e voleva continuare fino alla fine. Però se le forze non avessero retto...
Certo, l’idea della compresenza di due Papi era un problema. Per questo
si pensa che potesse ritirarsi in un monastero. Magari benedettino, vista
la predilezione che aveva per questo ordine».
Il Papa di Concesio, va ricordato, è stato il primo successore di Pietro a
viaggiare in tutti i continenti e conobbe tempi difficilissimi caratterizzati da drammi come quello dell’amico Aldo Moro e dalla contestazione.
«Erano anni in cui la Chiesa aveva bisogno di una guida forte. E lui sentiva venire meno le sue forze. E siccome si riteneva un padre, diceva già
nel 1967 al suo amico Jean Guitton che «se un papa non ha l’abitudine
di andare in pensione prima della fine è perché non si tratta tanto di una
funzione quanto di una paternità». E padre sarebbe rimasto anche se i
suoi figli non avrebbero più potuto vederlo.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Galli della Loggia: “Dà voce
alla ragione. Un gesto di rottura”
di Andrea Lavazza
L
a notizia l’ha colto, come è accaduto a tutti, totalmente di sorpresa.
Non è invece stupito di essere interpellato da Avvenire. Ernesto Galli
della Loggia nelle ultime settimane è stato uno dei pochi, dalle colonne
del Corriere della Sera, a condividere le argomentazioni laiche messe
in campo dal Papa e dal gran rabbino di Francia per opporsi ai matrimoni gay e alle adozioni da parte di coppie omosessuali. A poche ore
dall’annuncio delle prossime “dimissioni” di Benedetto XVI, lo storico e
analista le valuta come di «grande portata e importanza da molti punti di
vista, soprattutto da quello strettamente istituzionale. Si può intravedere,
in questa decisione, un mutamento di profilo del Papato».
Quali conseguenze vede in tal senso?
A mio avviso, e lo dico da laico, la storica rinuncia di un pontefice può
contribuire a “desacralizzare” la figura pubblica del Papa, rendendola più
simile a quella di altri leader che, se impossibilitati a compiere la propria
missione, possono lasciare. Nessuna aveva mai sentito praticabile questa
opzione, data la funzione sacrale e carismatica svolta dal pontefice. Viene
toccata la natura istituzionale e politica del Papato, mettendo anche in
luce un problema che è sempre rimasto sotto traccia, quello del modo di
elezione. La procedura del conclave ristretto, oggi, può anche sembrare
stridente alla luce del gesto di Joseph Ratzinger. Sebbene vada precisato
che la Chiesa è una monarchia assoluta elettiva e questo assetto non può
che portarle vantaggi pure nel mondo moderno.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Come legge dunque il gesto di Benedetto XVI?
Nel suo Pontificato, Ratzinger ha sperimentato due difficoltà, che egli
per primo ha evidenziato. Un bisogno di purificazione, e penso in primo luogo allo scandalo della pedofilia, e un problema all’interno della
stessa Santa Sede, evidenziato, ad esempio, dalla fuga di carte riservate.
Di fronte a ciò, il Pontefice ha preso posizioni forti e condotto con determinazione un’azione coerente. Ma per fare questo serve una notevole
carica di energia fisica e mentale, un’energia che forse il Papa ha sentito
venire meno. Paradossalmente, il capo della Chiesa cattolica ha un potere
illimitato, ma non può fare “quello che vuole”, e ciò comporta un grande
dispendio di risorse personali. “Politicamente”, la scelta di rinunciare al
soglio di Pietro potrebbe essere anche un modo per fare “esplodere” situazioni che non avevano possibilità di governo.
Una lettura come questa contrasta con l’intento del Papa di “lasciare” per il «bene della Chiesa».
Non sembri irriverente o banale sottolineare che il Papa è uomo di massima fede e che, quindi, si affida alla Provvidenza. Quello che non può
compiere con le sue forze, ritiene possa fare lo Spirito Santo guidando la
scelta del successore dentro il Conclave. Certo, resta la domanda: perché
si è “dimesso”? Una domanda che interroga tutti. La spiegazione della
semplice stanchezza può non convincere un analista laico come me.
Benedetto XVI è un convinto assertore della razionalità dell’antropologia
cristiana. In questo ha però trovato un’ostilità preconcetta e immotivata.
È il caso del matrimonio e delle adozioni gay. Quello che dice il Papa è
sovrastato dalla considerazione negativa della sua figura. C’è un immotivato sospetto che scatta automaticamente sulle sue parole. Prevale il
conformismo progressista incarnato dalla linea del New York Times.Se
Ratzinger condanna la guerra o il razzismo tutti sono d’accordo, quando si
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
discosta invece dal mainstream ideologico, diventa subito conservatore,
dogmatico, reazionario. Non c’è stato nessun serio dibattito intellettuale
sulla questione matrimonio omosessuale, nessun argomento razionale.
L’addio di Benedetto XVI e l’arrivo di un nuovo Papa, per quello che
si può dire oggi, cambieranno qualcosa?
In generale, in casi simili, sui media e nella discussione pubblica prevalgono le interpretazioni ostili alle istituzioni, salvando però le persone. Se
il giudizio sulle persone, come accadde con l’agonia di papa Wojtyla, è
molto buono, ciò si riflette in positivo anche sull’istituzione.
Il Papa ha citato anche la velocità del mondo contemporaneo e la
necessità di farvi fronte...
È, forse, un suggerimento verso una modifica degli stili di governo. La
Chiesa ha saggezza millenaria, ma talune volte tempi di reazioni più rapidi possono essere utili.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
13 febbraio
Tutti stretti a Pietro
Caro Papa
di Alessandro D’Avenia
C
aro Papa, manca un accento all’ultima lettera di questo tuo nome,
Papa, e verrebbe fuori un’altra parola. La parola che ogni figlio pronuncia migliaia di volte nella vita e che un figlio di Dio ha la fortuna di
pronunciare molte più volte perché, alla fine, la vita cristiana è imparare a
dire abbà, papà, a Dio. Alla notizia della tua rinuncia ho avuto paura. Ho
provato lo stesso dolore per la morte di Giovanni Paolo II: allora avevo
28 anni e mi sentii orfano, piansi come chi ha perso un padre. Lunedì mi
è successo lo stesso. Mi sono sentito orfano. Tu avevi deciso di non essere più Papa. Un altro padre mi veniva meno. È il dolore di un figlio che ha
ricevuto moltissimo. Ho seguito il tuo pontificato sin dal momento in cui
ti sei affacciato per la prima volta dal balcone (abitavo a Roma allora).
Ho letto i tuoi scritti, mi sono nutrito delle tue parole sempre profonde
e stranamente semplici per un professore di teologia, perché fondate sul
rapporto vero con Dio (quanto gelo nelle parole di alcuni pastori che capita di ascoltare...).
In questi anni in cui la fede è spesso messa alla prova, dileggiata, fraintesa, tu hai fatto da parafulmine a molte critiche. Le hai prese tutte su di
te. Non te ne importava niente di essere colpito. Sono beati quelli che
vengono colpiti a causa di Cristo e chissà quanta della sporcizia che c’è
nella Chiesa è stata gettata su di te per il fatto di essere quel padre di
famiglia che è il Papa. Tu hai sempre dimostrato e chissà con quanto
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
dolore, dal discorso di Ratisbona a quello sul matrimonio, che l’unico
consenso che ti interessa è quello di tuo Padre Dio, cioè della verità, del
logos. Per questo ho avuto paura quando hai annunciato la tua rinuncia.
Sul momento mi è sembrato un tirarsi indietro. Se ti tiri indietro anche tu,
che sei il Papa, che fine facciamo noi? Ho ripensato a una tua frase che
mi porto nel cuore: «Fedeltà è il nome che ha l’amore nel tempo». Me la
ricordo tutte le volte che il mio e l’altrui amore è messo alla prova e devo
aggrapparmi con tutte le forze all’Amore che muove tutti gli altri amori,
oltre che il sole e le altre stelle. In questi anni la mia fede si è rafforzata
grazie a quel logos cortese, fermo e caldo che tu sai infondere alle parole
che usi, come (tanto per fare un esempio) queste che ho letto qualche
giorno fa: «Dio, con la sua verità, si oppone alla molteplice menzogna
dell’uomo, al suo egoismo e alla sua superbia. Dio è amore. Ma l’amore
può anche essere odiato, laddove esige che si esca da se stessi per andare
al di là di se stessi. L’amore non è un romantico senso di benessere. Redenzione non è wellness, un bagno nell’autocompiacimento, bensì una
liberazione dall’essere compressi nel proprio io. Questa liberazione ha
come costo la sofferenza della roce».
Ripensando alla tua frase, leggendo queste parole, le tue “dimissioni”
mi sembravano incomprensibili e mi hanno gettato nello sgomento. Mi
sono sentito solo. A che serve difendere la propria fede se poi anche il
Papa si tira indietro. Poi a poco a poco l’emotività ha lasciato lo spazio
al logos appunto, alla verità, a Cristo, e una grande pace è tornata nel
cuore. Dovevo andare oltre il codice di interpretazione soggettivo, motivo, mondano. Rinunciare rappresenta un fallimento per il mondo, è un
gesto di debolezza per il mondo, nel quale si “è” solo se ci si afferma,
a ogni costo. La logica della debolezza non è del mondo. Del mondo è
la logica del potere e dell’egoismo. Per questo il tuo gesto è un gesto di
libertà dall’io e non di fuga da Dio, nel quale ti vuoi rifugiare del tutto
per continuare a sostenere la Chiesa più e meglio. Con questo gesto fai
trionfare una logica diversa, un logos diverso. Quello di chi sa che la sua
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
preghiera silenziosa vale tanto quanto la sua azione, e lascia quest’ultima
a chi può meglio di lui portarla avanti. Doveva suonare allo stesso modo,
fastidiosa e inspiegabile, la frase di Cristo ai suoi: «È bene che io me ne
vada perché venga a voi un altro consolatore». Anche Cristo sembra
tirarsi indietro, ma così vince: lascia lo spazio alla potenza dello Spirito,
non si lascia legare neanche dalla sua condizione umana, dà tutto, anche
quella, si espropria di tutto se stesso, perché come tu hai spiegato nel tuo
libro più bello “essere cristiani” è “essere per”. Egli pone nelle mani dei
suoi il compito di continuare le sue opere e afferma che ne faranno anche
di più grandi delle sue. Ti ringrazio, caro Papa, per tutto il logos che ci
hai donato e ci donerai sino al 28 febbraio, da Papa, ma anche per il logos che ci donerai dopo, nel silenzio che il mondo già chiama sconfitta,
sotterfugio, fuga, e che è invece vittoria. Non mi sento più solo, perché
ancora una volta mi hai aiutato a guardare all’unica cosa che conta, l’unica di cui c’è bisogno, il Logos stesso. Una sola cosa ti chiedo. Non dare
le dimissioni dalla scrittura. Continua a nutrire la nostra fede con il tuo
logos. Non farlo sarebbe dare le dimissioni da un talento e il Vangelo
parla chiaro in merito...
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Kristeva: “Ha ridato speranza
a un’Europa in crisi”
di Daniele Zappalà
«C
on Papa Benedetto XVI, si è aperta una nuova fase di buon augurio per l’avvenire dell’Europa e la pace nel mondo. E in queste
ore di grande polarizzazione mediatica, penso che tutti siano sensibili al
fatto che questo filosofo e quest’umanista è stato pure un grande politico.
Il mondo rende oggi omaggio anche a un grande pacifista capace di accogliere la diversità planetaria». A sottolinearlo è Julia Kristeva, poliedrica
scrittrice, saggista, linguista e psicanalista francese di origine bulgara, fra
gli intellettuali europei più citati e studiati nel mondo.
Professoressa Kristeva, dalla sua sponda di non credente, come ha
percepito in questi anni il pontificato di Benedetto XVI?
Benedetto XVI è un teologo e un filosofo. Anche per questo, si tratta di
un grande europeo che con la sua opera ha dato speranza a un’Europa in
crisi. Poiché l’Europa resta essenziale al mondo, è soprattutto attraverso
la riunificazione filosofica dell’Europa che il Papa ha aiutato il mondo a
orientarsi verso la pace. Ho avuto quest’impressione in modo molto netto
ad Assisi, durante l’incontro-anniversario interreligioso del 2011, dove
Benedetto XVI ha invitato per la prima volta in modo ufficiale un piccolo
gruppo di non credenti, dandoci la parola. Abbiamo capito che si è chiuso
il tempo del sospetto, del dubbio, dell’incertezza fra credenti e non credenti. Personalmente, quest’invito mi è parso una reiterazione della frase
di Giovanni Paolo II: “Non abbiate paura”. Questa frase aveva avuto un
senso particolare per gli europei dell’Est perseguitati dal totalitarismo.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Ma nel nuovo contesto, l’invito di Benedetto XVI aveva il senso: credenti e non credenti, non abbiate paura fra voi e cercate di comprendervi comunicando. Ciò mi pare indispensabile per l’esistenza dell’Europa e per
pensare assieme le ferite dell’Europa. È un grande messaggio non solo
per il prossimo Papa, ma anche per tutte le nuove generazioni di europei.
Cosa l’ha colpita di più nello stile personale di Benedetto XVI?
La sua grande discrezione e precisione. Durante il suo intervento ad Assisi, disse una frase che resterà per sempre impressa nella mia memoria,
cioè che nessuno è proprietario della verità. Era inatteso da parte di un
rappresentante religioso che, a priori, tende a pensare che la propria verità è l’unica. Ma questo Papa è stato un umanista e un filosofo. Si è rivolto
a noi comprendendo che la verità cristiana non è per noi la verità, anche
se forse soffriamo di ciò. Poi, si è come rettificato, osservando che la nostra verità è una forma di ricerca che apre delle domande. È una lotta interiore. E rivolgendosi ai credenti, ha chiesto loro di ascoltarci per poter
così purificare la loro fede traendo ispirazione anche da noi. È qualcosa
di ssolutamente inaudito che mostra al contempo una grande profondità
filosofica, grande umiltà e una grande scommessa sull’avvenire europeo
nel senso di un incontro fra l’umanesimo cristiano e quello secolarizzato.
Questo pontificato ha interpretato il bisogno di umanesimo dell’Europa e
compreso che esso ha due polmoni. Contrariamente a quanto si è potuto
dire, Benedetto XVI non è stato un Papa dogmatico nel senso chiuso del
termine. Nei fondamenti del cattolicesimo, ha cercato ciò che è aperto, ciò che rappresenta un interrogativo, congiungendo simbolicamente
sant’Agostino a Heidegger e Freud. La vita e il pensiero, dunque, come
interrogativo e cammino.
Come ha accolto la notizia della rinuncia del Papa?
Resto sorpresa, quasi sbalordita. Non mi sento d’interpretare un simi-
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
le gesto, dove l’umiltà del Papa e la complessità dell’attuale situazione
della Chiesa si combinano probabilmente assieme ad altri elementi. Sarà
l’avvenire a parlare. Ma da un punto di vista strettamente umano, mi
sembra un atto pervaso di coraggio e saggezza.
Il pontificato si chiuderà nel pieno dell’Anno della Fede. Come percepisce questa corrispondenza, lei che ha dedicato pagine importanti
al bisogno di credere?
La mia interpretazione del credere non coincide necessariamente con la
fede cattolica in senso esplicito, ma s’interessa innanzitutto al fondamento antropologico di quest’esperienza. A mio avviso, questo fondamento
riguarda la capacità d’investire l’altro e di riconoscerlo e di farsi riconoscere da lui, fin dall’infanzia. In questa chiave, la fede in senso largo
che più mi ha personalmente colpito in Benedetto XVI è quella verso
l’Europa secolarizzata.
La Deus caritas est, prima enciclica di Benedetto XVI, riguardava
l’amore cristiano. Un atto di rinuncia può essere visto come un prolungamento e un coronamento di questo stesso amore?
L’enciclica mi era parsa un discorso molto filosofico e completo sull’amore cristiano, il quale non si limita alla carità, ma che attraversa anche
la profondità del corpo, riconoscendo pure l’erotismo che viene evocato
nell’enciclica. Ripeto che non mi sento di azzardare interpretazioni sulla rinuncia. Ma posso dire che nella fiducia che il Papa ha espresso nei
confronti dell’umanesimo secolarizzato, vi è certamente pure un riconoscimento dei corpi viventi, di quelli senza fede, della singolarità di ogni
esperienza. Anche ciò rientra nella tradizione cristiana che tutti dovrebbero rispettare.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Bauman: “Una scelta dal volto umano”
di Luca Liverani
Z
ygmunt Bauman si schermisce, quando gli ricordiamo che Benedetto XVI ama citarlo: «Sì, il Papa ha menzionato il concetto di società
liquida. C’è qualcuno che è stato capace di camminare sul liquido, ma
noi siamo esseri umani e abbiamo bisogno di tenere i piedi sulla terra
solida...». Il filosofo e sociologo polacco è a Roma, invitato al convegno
organizzato dall’associazione Greenaccord Onlus - in collaborazione con
l’università Lumsa, Fnsi e Associazione stampa romana - per riflettere
sul tema “Verso un nuovo umanesimo”. E prova a ragionare sulle motivazioni che hanno spinto il Santo Padre a una decisione epocale. «Non
sono in grado, ovviamente, di entrare nella mente e nel cuore di Benedetto XVI premette Bauman e posso solo riflettere sull’impatto che
avrà la sua decisione. E su come questa si rifletterà sulla realtà fluttuante
delle istituzioni religiose che fungono da mediatore tra Dio e l’uomo.
Ecco, credo che quello che ha fatto Benedetto XVI sia stato il tentativo
di riportare il pontificato a una dimensione di umanità». Forse, ipotizza
l’intellettuale polacco, Ratzinger «con la sua confessione pubblica ha voluto ammettere che anche il Papa, che pure è una sorta di apostolo e di
messaggero, è un essere umano. È sì un plenipotenziario di Dio, ma ci ha
ricordato che esistono dei limiti a quello che può fare».
Il coraggio di Benedetto XVI, secondo Bauman, sta dunque nell’avere voluto ricordare che la figura del Vicario di Cristo in Terra e l’uomo
che lo impersona non possono essere sempre e comunque sovrapposte.
«Questa distinzione – dice – è stata fatta, per la prima volta da secoli a
questa parte, proprio dall’uomo che è l’erede di San Pietro e che è a capo
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
di un’enorme comunità di credenti. E io credo che sia stato molto onesto,
molto coraggioso nel dire: io sono stato scelto per rappresentare questa
funzione così sacra, ma allo stesso tempo sono ancora un essere umano,
sto cercando di svolgere al meglio questo ruolo, ma purtroppo le mie
capacità sono umane e quindi limitate». Benedetto XVI sicuramente ha
meditato a lungo «ed è giunto alla conclusione che una dichiarazione di
questo tipo, che ha cambiato per sempre lo stato delle cose, poteva essere
fatta». Inevitabile, agli occhi del fedele come dell’uomo della strada, il
paragone con la fine del pontificato di Karol Wojtyla: «Da prefetto della
Congregazione della fede, Ratzinger ha passato molti anni in compagnia
di Giovanni Paolo II – ricorda Bauman – e quindi ha conosciuto bene il
conflitto tra il ruolo, che Giovanni Paolo II era tenuto ad avere, e la sua
incapacità, nell’ultimo periodo, di uomo sofferente e malato, che poteva
fino a un certo punto e non di più. Credo che dunque, condividendo questi momenti tragici, Benedetto XVI abbia voluto trarre queste conclusioni. E abbia deciso di non ripetere quell’esercizio».
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
L’amico Richardi:
“Ha saputo dialogare con il mondo”
di Gianni Santamaria
«U
na scelta coraggiosa che rappresenta un fatto sensazionale nella
storia della Chiesa e nella quale vedo una forma di obbedienza
a Dio. Ma allo stesso tempo è in qualche modo anche una decisione che
corrisponde alla personalità di un Papa che si è sempre espresso per la
conciliabilità tra la fede e la ragione». In questa dimensione, che è stata
un «tema fondamentale del Pontificato» per il giurista tedesco Reinhard
Richardi va cercata la ragione del gesto di Papa Benedetto. E queste non
sono le parole di circostanza o neppure la semplice analisi intellettuale di
un qualsiasi opinionista a confronto con un fatto che per una volta non si
esagera a definire storico. No. A parlare al telefono con Avvenire è uno
degli amici più stretti di Papa Ratzinger. Un collega di università a Ratisbona negli anni Settanta, la cui frequentazione con il teologo bavarese si
è presto trasformata in sodalizio profondo. Che ha coinvolto le rispettive
famiglie: della cittadina di Pentling, dove Richardi abita con la moglie
Margarete, il vicino di casa Ratzinger è stato una presenza costante insieme alla sorella e al fratello Georg, tuttora residente a Ratisbona. Un’amicizia che è proseguita compatibilmente con i crescenti impegni dell’arcivescovo di Monaco, del cardinale prefetto della Glaubenskongregation
(la Dottrina della fede) e infine del Pontefice. Con la decisione attuale
– riprende il professore emerito di Diritto del lavoro, già decano di Giurisprudenza nella cittadina universitaria all’ombra del celebre Duomo – il
Papa «in fondo ha riconosciuto che la guida della Chiesa cattolica, con un
miliardo e duecento milioni di fedeli, non avrebbe potuto essere portata
avanti a lungo da una persona non più in possesso di forze fisiche. Si pen-
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
si che prima il Papa stava solo in Vaticano, oggi è il parroco del mondo.
Qualcuno ha pensato anche alla mancanza di energie dell’intelletto, ma
lo trovo del tutto errato». Certo, Richardi non nasconde che la notizia
lo ha sorpreso. Quando è stato chiamato da un giornale bavarese non
riusciva a immaginarsi che fosse vero, anzi pensava di trovarsi davanti a
una «bufala giornalistica». Poi le telefonate con conoscenti romani e la
consultazione delle note ufficiali su Internet hanno dissipato i dubbi.
Il sentimento di incredulità che un fatto del genere potesse accadere è stato diffuso in Germania. Ad esso ne è subentrato, però, immediatamente
uno di profondo rispetto. Non solo nelle dichiarazioni ufficiali della cancelliera Angela Merkel e del presidente della Repubblica Joachim Gauck,
alle quali i coniugi Richardi hanno assistito in tv. «Gauck, ex pastore nella Ddr – riferisce Richardi –, ha sottolineato la saggezza del Pontefice e
ha indicato il suo discorso al Bundestag come uno dei punti più alti della
storia dell’Assemblea». Ma anche tra la gente è chiaro il profilo di una
personalità «molto riservata e che ha espresso sempre quella correttezza
che io personalmente ho conosciuto. E quella capacità di parlare non solo
agli intellettuali, ma anche alla gente semplice». Senza far pesare quella
genialità teologica che lo fece paragonare dal cardinale di Colonia Joachim Meisner all’amato Mozart. Le cui composizioni, secondo un detto
famoso, «Dio in cielo le ascolta per rilassarsi». Sembrano leggere e orecchiabili, ma dietro c’è una struttura e un lavoro...
Ecco, il “Mozart della teologia” ha avuto da Dio questo talento. Il bilancio del pontificato va visto, dunque, nella forma del dono. Quello più
bello che Richardi serba nel cuore è l’enciclica Deus Caritas est, «nella
quale pone il principio che non si deve avere paura e che si deve operare
affinché nessun uomo si perda». Questo il lascito per le nuove generazioni, anche sacerdotali, di un Papa che ha evitato il rischio pastorale evidenziato da un gioco di parole, che Richardi snocciola, di far diventare
la Frohbotschaft (la lieta novella) una Drohbotschaft (un annuncio mi-
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
naccioso). L’illustre amico più che ammonire ha cercato di «far vedere il
lato positivo di cose che oggi vengono accantonate come “dogmatiche”,
ad esempio il matrimonio come fedeltà reciproca anche nelle difficoltà».
Con lui la persona ha sempre una chance per ricominciare.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
La forza del servizio nel deserto di oggi
di Pietro Barcellona
D
opo il primo momento di sgomento di fronte a quella che mi è parsa
subito la notizia di un evento assolutamente inaudito e straordinario, come probabilmente tutti, via via che la notizia si diffondeva, mi
sono interrogato sul significato che, sia pure problematicamente, poteva
attribuirsi a questo fatto così enorme. Ho cominciato ad ascoltare che da
più parti si sottolineava il senso di impotenza che il Papa ha provato in
questi ultimi anni di fronte all’assalto spesso mediatico e spettacolare che
è stato rivolto da più parti e in più Paesi al Vaticano. Le dimissioni sarebbero quasi un atto di ammissione della sua incapacità fisica e psicologica
a prendere decisioni in un momento così drammatico per la Chiesa e per
l’intero Occidente. Mi è venuto subito in mente il film di Nanni Moretti
nel quale, quasi profeticamente, si rappresenta la storia di un Papa che
rifiuta di assumere il ruolo pontificale perché sente tutta la propria inadeguatezza rispetto a una funzione che in tutto il mondo è comunque
riconosciuta come autorità magisteriale e a cui rendono omaggio tutti
i potenti della terra. Riflettendo su quel film, infatti, mi è parso subito
evidente il contrasto tra la figura drammatica del Papa che fugge fuori
dal Vaticano nelle vie di Roma a incontrare persone, uomini e donne, nei
luoghi più disparati, e le modalità con le quali i cardinali riuniti in conclave gestiscono l’improvvisa evenienza di avere eletto un Papa che non
vuole esserlo. Le preoccupazioni dei cardinali, che addirittura cercano di
utilizzare dei marchingegni per mostrare il Papa nella sua stanza e che
poi trascorrono il tempo “chiacchierando” di tutto e persino divertendosi
con improvvisate partite di pallavolo, sono infatti esclusivamente rivolte
all’immagine pubblica dell’istituzione.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Può sembrare irriguardoso fare riferimento a questo film, ma posso assicurare che ho visto nella sua rappresentazione della figura del Papa
un enorme rispetto per la sofferenza e la drammaticità in cui si trova un
uomo solo che viene designato come vicario di Cristo. Mi sono venute
alla mente le terribili parole che ogni sacerdote pronuncia nella celebrazione della Messa: Domine, non sum dignus ut intres sub tectum meum.
In questa affermazione che precede la distribuzione dell’Ostia consacrata
ho sempre sentito la debolezza strutturale dell’animo umano e la sua incapacità a sopportare la sofferenza, il dolore e persino le normali difficoltà di stare al mondo, il riconoscimento chiesto a ciascuno di accettare la
propria limitatezza e la propria mortalità, affidando la salvezza alle mani
di un Padre Amoroso. Rispetto a questa povertà e indegnità dell’essere
umano ad assumere il ruolo di vicario del Figlio di Dio si accompagna il
confronto drammatico con il racconto della vita di Gesù Cristo nei quattro Vangeli che ci sono stati trasmessi. Come si fa a dimenticare, vivendo
il ruolo di Papa, che Cristo è principalmente il testimone di una terribile
crocifissione e che, nella solitudine della propria passione, ha sudato sangue profetizzando il tradimento persino dei suoi stessi discepoli? Pensando queste cose mi sono via via convinto che, come nel film di Moretti, le
dimissioni del Papa non sono un gesto di debolezza né una dichiarazione
di impotenza, ma un atto di forza e di coraggio che lancia una sfida alla
Chiesa e al mondo.
Come Cristo fu tradito dai suoi discepoli e venduto per trenta denari da
uno di loro, questo Papa è stato continuamente tradito nell’ambito della
Chiesa stessa e persino dal suo assistente di camera, che ha trafugato
documenti e denaro. È proprio a questo tradimento della Chiesa che papa
Ratzinger alludeva nel suo profetico commento alla Via Crucis che si
è svolta nelle vie di Roma mentre il suo predecessore viveva gli ultimi
momenti della vita. Vorrei che tutti noi rileggessimo quelle parole, perché sono già di per sé un programma di riforma e di denuncia dei nemici
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
del messaggio cristiano che si annidano all’interno della Chiesa stessa,
magari ostentando una devozione che non esprime nessuna riservatezza
e nessuna profondità interiore. A differenza di papa Giovanni Paolo II,
che si era posto rispetto al mondo nella posizione di un comunicatore mediatico eccezionale e che aveva fatto delle continue visite pastorali negli
altri Paesi l’occasione di un proselitismo di massa, papa Ratzinger sin
dai primi suoi atti ha inteso ribadire la differenza sostanziale fra la fede
in Gesù Cristo e il generico sentimento religioso che si manifesta nelle
pratiche cultuali di ogni popolo. La dedizione e l’intelligenza con cui ha
dedicato la sua passione per la figura di Gesù Cristo alla scrittura di tre
volumi che ne interpretano l’attualità storica nel contesto determinato di
una grande crisi di civiltà, mostra che il suo interesse fondamentale era
ritrovare il filo rosso che deve unire la comunità ecclesiale alla tradizione
evangelica. Ci sono pagine dei tre volumi del Papa che indicano una strada di rapporto con la persona del Figlio di Dio e dell’Uomo lontana da
ogni pietismo conformistico e che chiamano invece alla consapevolezza
della rottura epocale che il Messia rappresenta. Tutta la parte del secondo
volume dedicata a seguire la predicazione di Gesù e a sviluppare il significato dei rapporti che egli intrattiene con la ufficialità formale del culto
ebraico affidato alla casta dei rabbini e al loro direttorato tende a mettere
in evidenza che l’assoluta novità del Messia sta nel volere trasformare
l’eredità biblica del Padre severo in un messaggio fraterno che ritrova la
strada della misericordia e dell’amore paterno. A mio parere decisive,
come ho cercato di scrivere in una mia recensione, sono le pagine dedicate alla profezia di Gesù Cristo sulla inevitabile distruzione del Tempio
di Gerusalemme, che non è capace di riconoscere e ascoltare i Profeti
inviati da Dio ma che anzi trasforma spesso il Tempio in un puro spazio
mercantile dove viene dissacrata ogni significazione simbolica del luogo.
Papa Ratzinger raggiunge in queste pagine momenti di affettività filiale
che istituiscono una relazione personale con il Messia venuto ad assumere la forma dell’uomo mortale e sofferente.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Come si legge nei Vangeli, non è l’offerta rituale dell’agnello né il pagamento della decima che introduce al mistero del rapporto tra uomo e Dio,
ma la comunicazione interiore che si realizza attraverso l’identificazione
del volto di Gesù con il volto dei diseredati e dei malati. Tutto il proseguire del pontificato che ad alcuni è parso intellettualmente e teologicamente
arido, frutto di una formazione prevalentemente filosofica, è invece percorso dal tema della Carità, le cui radici culturali reinterpretano l’eros
greco in rapporto con l’amore cristiano. Alcuni hanno letto l’enciclica
Caritas in veritate alla luce del dialogo con Habermas, come la ricerca
di una via razionale alla conquista della fede. Trovandomi a commentare questa enciclica ho cercato di mostrare i limiti di questa interpretazione razionalistica, perché invece personalmente mi è parsa proprio il
tentativo di istituire un nesso inscindibile tra Amore e Verità. Non c’è
una gerarchia tra Amore e Verità nel pensiero di papa Ratzinger, ma un
reciproco rinvio che si manifesta soltanto nelle relazioni interpersonali
e non nell’arida precettistica di una dogmatica priva di slanci verso la
sofferenza e il dolore dell’uomo. Il tema del dolore è stato infatti un altro
tema ricorrente nelle riflessioni del Papa e nei suoi messaggi domenicali,
anche se nel suo italiano irrigidito dal semplice fatto che Ratzinger non
poteva che pensare in tedesco si è lasciato poi cadere nella banalità di una
compassione generica nei confronti di tutte le vittime dei soprusi, dello
sfruttamento e delle torture. Io credo che questa voce del Papa non è stata
né ascoltata né compresa da molte parti del mondo cattolico, dove invece si sono manifestate sempre più lacerazioni e contrasti per motivi che
nulla hanno a che vedere con il problema del messaggio cristiano. Per
questo l’atto di dimissioni non è un segno di stanchezza e di debolezza,
ma la forza e il coraggio di trasmettere nell’ambito della Chiesa, e anche
oltre, il senso dell’umiltà e del servizio, per contrastare l’arroganza dei
poteri e la presunzione degli uomini che riducono l’esistenza a edonismo
e consumismo, desertificando sempre più il senso dell’abitare la terra. Le
dimissioni del Papa sono la testimonianza che neppure il Vicario di Cristo può arrogarsi prerogative di onnipotenza di fronte al resto del mondo.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Come Ratzinger ha sottolineato, Gesù non è venuto per organizzare la
guerriglia degli zeloti, ma per trasformare la violenza dell’uomo sull’uomo in una capacità di perdono e di reciproco servizio. Le dimissioni sono
una sfida alla Chiesa, che deve adesso misurarsi con la potenza di questo
messaggio epocale e col cinismo delle nostre società che hanno perso
quasi totalmente il senso del valore spirituale dell’umiltà e della riservatezza. Come ci ha detto Gesù Cristo, anche la preghiera deve amare la
solitudine e non il cerimoniale pubblico, che spesso nasconde la durezza
del cuore.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
14 febbraio
La guida è Cristo
Sovrana certezza
di Marina Corradi
«M
i sostiene e mi illumina la certezza che la Chiesa è di Cristo,
che non le farà mai mancare la sua guida e la sua cura». La
prima parola di Benedetto XVI ieri mattina in Udienza, proprio la prima
cosa detta alla folla, grande, che lo aspettava, è stata questa: il ricordare
che la Chiesa è di Cristo, e che dunque anche nelle circostanze più avverse Cristo non la abbandona. E noi, semplici fedeli storditi, lunedì, dalla
notizia, noi interiormente turbati da un inimmaginabile congedo, abbiamo riconosciuto in quella prima parola la volontà paterna di dire, a quelli
come noi, di non aver paura. In questi due giorni abbiamo sentito di tutto,
sul gesto di Benedetto XVI, lodi e plausi, e contestazioni, ed evocazioni
di oscuri retroscena. Abbiamo letto di desacralizzazione del Papato, di
fondamenta che vacillano, e sentito dottamente discorrere della Chiesa
come di una grande multinazionale, o una Ong certo, dal “brand” spiritualmente elevato. E ci occorreva davvero che proprio Benedetto XVI,
il maestro che abbiamo amato e continueremo a amare, ci ricordasse, ci
confermasse in questa semplice antica certezza: la Chiesa è di Cristo,
che non l’abbandona. La Chiesa è di Cristo, è il suo corpo, e non è mai
riducibile solo agli uomini, strutture, gerarchie che la compongono, con i
loro peccati, i loro umani sforzi, le loro disunioni e persino il loro cercare
un “pubblico”. Colpe ed errori che pure, è tornato a ricordarci nell’omelia delle Ceneri il Papa, ne possono «deturpare» il volto. Questo aspetto
non visibile, non sperimentabile con le nostre consuete misure, è tanto
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
fondante quanto non compreso nemmeno dai più fini intellettuali, che
parlano di Chiesa come di un fatto solo storico, sociologico, umano.
E spesso anche fra noi, credenti, questa memoria ontologica facilmente
sbiadisce; allora in giorni come questi ci smarriamo: e adesso? È a questo sommesso tremare dei semplici che il Papa ieri ha teso la mano con
una frase per nulla debole, e anzi colma di certezza sovrana: la Chiesa è
di Cristo, che non l’abbandona. Poi, nell’Udienza il Papa ha affrontato
il Vangelo delle tentazioni di Gesù nel deserto, riassumendole in poche
parole: “la” tentazione eterna, ha detto, è quella di usare Dio per noi stessi. Ecco, in quelle sole righe dell’evangelista Luca si sente già il respiro
di un altro, radicale, desiderio, di uno sguardo altro dalla logica degli
uomini, inesorabilmente sedotti del potere. Di modo che chi si imbarca
sul grande millenario naviglio di Pietro, se tiene viva la fede, si trova, ha
detto il Papa, a fare scelte scomode o perfino, secondo il mondo, stolte;
ad amare i deboli, e la vita dell’uomo fin dal suo più debole invisibile
inizio. Ad amare per sempre, e a generare figli, quando il mondo attorno
ripete che la vita è cosa da prendere e usare, come e finché si vuole.
Quell’altro sguardo, quell’altro respiro s’è visto bene ancora ieri sera,
in San Pietro gremita di uomini e donne stretti attorno a Benedetto nel
giorno delle Ceneri – in quel gesto così umile e conscio del nostro essere, solamente, creature. «Risuoni forte in noi l’invito alla conversione,
a ritornare a Dio con tutto il cuore, accogliendo la sua grazia che ci fa
uomini nuovi», è stato il filo teso nelle parole del Papa. Di nuovo, parole
affatto stanche, anzi straordinariamente audaci in tempi di pensiero debole, di rassegnati orizzonti. Tornare a Dio, è l’imperativo di quest’uomo
il cui cuore sembra tutto fuorché piegato, o vecchio. Quaerere Deum, è la
parola che ci lascia un grande Papa in un Anno della Fede indetto perché
ciò che è vero torni a essere concreto, e vivo fra noi. Perché la Chiesa è
di Cristo, e tutto il suo essere tenda a Cristo Colui che ricapitolerà in sé
tutte le cose, quelle della terra e quelle del cielo. E il grande applauso a
Benedetto XVI ieri sera in San Pietro testimonia la fede e la forza del popolo cristiano. Peccatori, certo; gente però che sa da dove viene, e verso
Chi va.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Cottier: “E’ il tempo della serenità
e della speranza”
di Umberto Folena
«A
i fedeli cattolici dico: mai come in questo momento dobbiamo
guardare alla Chiesa come a un mistero di fede. Rimanere sereni, anche se tristi. E coltivare la virtù della speranza!». La voce del
cardinale Georges Cottier, teologo emerito della Casa Pontificia, è calma come sempre. Trova anche il modo di scherzare: «Io? In questo momento? Dovrò solo pregare, senza altre preoccupazioni. Alla mia età al
Conclave non ci vado di certo...». E le primavere del padre domenicano
svizzero, nato a Ginevra nel 1922, tra poco saranno ben 91.
Tre giorni dopo l’annuncio, molti fedeli si mostrano commossi, in
preghiera. Alcuni sembrano sconcertati. Altri sono decisamente tristi. E lei?
Hanno ragione a essere tristi. Lo siamo tutti, perché molto legati alla persona di Benedetto XVI. Ma il suo gesto va rispettato. Come ha detto ieri
mattina, ha maturato la decisione sostando a lungo davanti a Dio nella
preghiera. Ma durante l’udienza ha aggiunto un’altra cosa, che non aveva
detto parlando ai cardinali lunedì, e che è la chiave per comprendere la
sua decisione.«La Chiesa è di Cristo, il Quale non le farà mai mancare la
sua guida e la sua cura». Questa è la chiave. Ci sono due modi di guardare
alla Chiesa. Il primo, assai diffuso, è puramente umano, sociologico. La
Chiesa coincide con le miserie di uomini peccatori. Il mistero? Assente,
invisibile, censurato. Ma proprio questo è il cuore della Chiesa, che è
mistero di fede. Lo affermano le Scritture, con san Giovanni e san Paolo:
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Chiesa Sposa di Cristo e Chiesa Corpo di Cristo. Vedere soltanto l’aspetto umano è erroneo.
Quando la tristezza monta, non è forse più difficile sperare?
«Io sarò con voi fino alla fine del mondo» ci rincuora Gesù. Mai la Chiesa
perde la speranza, mai! La Chiesa è mistero di fede, il Papa è il Vicario di
Cristo e Lui non verrà mai a mancare.
Dunque, in questo particolare momento, è richiesto a tutti un atto di
fede?
Sì, a tutti senza eccezioni. Fede nella Chiesa cattolica e apostolica, come
recitiamo con la preghiera del Credo. Anche a me? Certamente, io sono
particolarmente tranquillo; non da ultimo perché sono un cardinale ma,
per la mia età, non prenderò parte al Conclave. Potrò restare vicino a
papa Ratzinger con la preghiera. Pregheremo tutti e due.
Però lei poco fa ha ammesso di essere un poco triste.
Tristezza sì, ma non paura. La speranza prevale. Ieri mattina Benedetto
XVI ha sentito pure il bisogno di sottolineare di aver agito «in piena
libertà». Perché? Qualcuno, erroneamente, avrebbe potuto pensare che
all’origine della rinuncia potessero esserci forti pressioni o malaugurati consigli. Ma abbiamo sentito che l’idea della rinuncia sarebbe stata
maturata già al ritorno dal pellegrinaggio a Cuba. Il Papa ha aspettato e
pregato. Ha interrogato la sua coscienza al riparo da ogni genere di pressione. E alla fine ha deciso in piena autonomia. Per sé. E anche per i suoi
successori.
La sua decisione riguarda anche i Pontefici futuri?
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Riguarda la Chiesa tutta intera, non solo la sua persona. Papa Ratzinger
non può non aver pensato anche ai suoi successori. Guardiamo in faccia
la realtà. L’aspettativa di vita si allunga e sarà fatale che, in futuro, si verifichino casi analoghi. Un limite di età è suggerito anche per i vescovi e i
membri della Curia romana. In un certo senso, Benedetto XVI ha voluto
porre un limite anche a se stesso. Già Paolo VI aveva preso in considerazione questa ipotesi.
Se nei prossimi giorni le capitasse di trovarsi a tu per tu con il Santo
Padre, che cosa gli direbbe?
Niente parole. Soltanto un abbraccio, un grande lungo abbraccio.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Spadaro: “Quegli spazi digitali
di meditazione”
di Matteo Liut
S
e Giovanni Paolo II è stato il Papa della diffusione di internet, Benedetto XVI è stato eletto nel momento in cui si sono diffusi ampiamente i social network. Secondo padre Antonio Spadaro, direttore della
Civiltà Cattolica, studioso ed esperto della comunicazione digitale, questo è un dato su cui riflettere.
Padre Spadaro, come hanno risposto le reti sociali alla notizia?
C’è un commento, riportato sul sito dell’Huffington Post, che riassume
quello che sta succedendo. In un post di questi giorni si nota come il Papa
che più di ogni altro si è interessato alla comunicazione digitale abbia
«mandato in tilt l’infosfera globale». L’emergere dei social network è
stata una sfida importanti con la quale Benedetto XVI ha dovuto confrontarsi. Le parole, i gesti e il magistero di Ratzinger sono stati presenti
nella vita dei fedeli in parte anche perché sono stati condivisi e non solo
trasmessi attraverso i media digitali. La sua figura era già argomento della discussione sociale nei media digitali. L’apertura di un suo profilo su
Twitter ha poi dato forma a una sua presenza diretta nella conversazione.
Molte le reazioni positive e negative su Twitter. C’è un atteggiamento
che spicca più di altri?
La cosa più evidente è, davanti a una notizia difficilmente digeribile anche per la rete, il forte richiamo alla dimensione iconica, all’uso di imma-
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
gini. Ad esempio tra gli utenti delle reti sociali è girata la foto del fulmine
che ha colpito la cupola di San Pietro, forse perché rende bene il forte
impatto del gesto di Benedetto XVI.
Colpisce nella ricerca semantica condotta da Expert System che tra
i primi verbi presenti nei tweet sul Papa ci sia «meditare». Cosa ci
dice questo dato?
Rileggiamo il messaggio per la Giornata delle comunicazioni sociali
dell’anno scorso: il Papa ci ricordava che anche in rete sono possibili
spazi di silenzio e di meditazione. Ed è quello che sta avvenendo ora:
moltissimi sentono la necessità di riflettere su questo evento e cercano
anche nelle reti sociali un confronto e degli spunti di meditazione. Di
questa spinta io sono testimone nei social network in cui sono presente.
Molti mi scrivono post su Facebook, commenti sul mio blog e tweets
esprimendo un desiderio di meditare sulla rinuncia del Papa. C’è un diffuso bisogno di capire, di riflettere.
Molti tweet sul Papa, dai toni ironici, facevano riferimento a figure
politiche. Come leggere questo dato?
Nei social network esiste una «pancia» fatta di emotività e parte di questa emotività è anche negativa. Non c’è da stupirsi, poiché i social network riflettono ciò che accade nella realtà, cosa pensa la gente. Per tutti
i personaggi pubblici, non solo per il Papa, essi sono uno strumento che
offre opportunità di condivisione enormi, ma che espone anche a questa
«pancia». Semmai bisogna riflettere meglio sul fatto che il Papa resta un
grande collettore simbolico di paure, desideri, speranze da parte di milioni di persone. Questo oggi si sta riversando anche nella rete.
Molti tweet paragonavano la situazione attuale a quella riproposta
nel film «Habemus Papam». Che significato dare a questo accosta-
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
mento?
Il riferimento al film è una pista a mio avviso non adeguata, perché in
quella pellicola il Papa eletto prova timore davanti a una missione che
invece Benedetto XVI ha portato avanti per otto anni. L’attore colpiva
per la sua umanità, ma emergeva come un personaggio di Svevo, insomma l’ennesimo «inetto» novecentesco. Invece la scelta di Benedetto
XVI, a leggere bene le parole latine del suo annuncio, appare più che una
rinuncia, un coraggioso passaggio del testimone. Sembra il gesto di un
«uomo vivo» chestertoniano, per rimanere nelle metafore letterarie. Il
Papa non è preoccupato per sé e per la sua debolezza, ma per la Chiesa e
i doveri del ministero petrino. Davanti a questo evento però la gente ha
reagito ricordando le immagini di un film o anche i versi di Dante riferiti
a Celestino V, piuttosto che riflettendo sulle parole del Pontefice. Ciò fa
riflettere sull’importanza che, come dicevo prima, oggi hanno la dimensione iconiche, le figure, l’immaginario.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
15 febbraio
Cresca il vero Concilio
Il Papa: torniamo al Vaticano II “reale”
di Salvatore Mazza
I
l Concilio raccontato da un testimone. Un testimone, prima ancora che
attento e qualificato, appassionato. Innamorato di quella Chiesa che
nel Concilio riponeva «aspettative incredibili», anche se poi ha faticato,
e fatica, a realizzarsi, perché il «Concilio dei giornalisti» è stato «più
forte del Concilio reale». Ma «la forma reale era presente, e sempre più
si realizza come vero rinnovamento della Chiesa». Di qui, allora, l’invito a «lavorare perché il vero Concilio, con la forza dello Spirito Santo,
agisca e sia rinnovata la Chiesa. Speriamo che questo Concilio vinca».
Benedetto XVI ha salutato così il clero di Roma, il “suo” clero. Con un
lungo oltre 45 minuti discorso a braccio sulla sua esperienza del Concilio
Vaticano II, denso di ricordi, aneddoti, considerazioni. In un’Aula Paolo
VI dove l’emozione, la commozione, l’affetto li si poteva letteralmente
toccare, papa Ratzinger s’è congedato, in qualche modo, dai preti della
sua diocesi lasciando loro un mandato indimenticabile. «Io, ritirato nella
preghiera, sarò sempre con voi, nella certezza che vince il Signore», ha
detto loro, alla fine, accennando alla sua prossima rinuncia al ministero
petrino: «Anche se mi ritiro in preghiera ha ribadito sono sempre vicino
a tutti voi, e sono sicuro che anche voi siete vicini a me. Anche se per il
mondo rimango nascosto».
Salutato al suo ingresso in aula da un lunghissimo applauso, che si sarebbe ripetuto al termine dell’udienza, e ricevuto l’indirizzo di saluto del
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
cardinale vicario di Roma Agostino Vallini, rimasto al suo fianco per tutto
il tempo, Benedetto XVI ha iniziato a raccontare del Concilio a partire da
«un aneddoto», ossia del come egli stesso arrivò al Concilio, prima come
assistente personale del cardinale Josef Frings di Colonia, e poi come perito di quelle assise. A lui, nel 1961 il più giovane professore di teologia
dell’Università di Bonn, Frings aveva chiesto di proporgli una traccia
per una conferenza su Il Concilio e il mondo nel pensiero moderno, che
avrebbe dovuto tenere a Genova, su invito del cardinale Siri. Un intervento probabilmente molto “innovativo” «Io ero pieno di timore...» che
Frings volle leggere così com’era. Poi, ha proseguito, Giovanni XXIII
mandò a chiamare il cardinale, e Frings, salutando il giovane professore
prima di presentarsi dal Papa vestito della porpora, scherzò: «Forse quando torno non sarò più cardinale, è l’ultima volta che porto addosso questa
roba». «Poi in realtà ha proseguito papa Giovanni entrò e disse “Grazie
eminenza, lei ha detto le cose che volevo dire e non ho trovato le parole”.
Vuol dire che erano le parole giuste».
Di qui, nell’aula delle udienze, s’è dipanato il racconto di un Concilio
spesso accusato «di non aver parlato di Dio» quando, invece, l’ha fatto,
e proprio a partire dal suo «primo atto», che è stato di «aprire tutto il popolo santo» alla liturgia, attraverso la riforma liturgica, portando a compimento un processo cominciato già da Pio XII. E, ha sottolineato papa
Ratzinger, è stato «molto bene» che sia stato questo il primo tema affrontato, perché in questo modo il Concilio ha affermato «il primato di Dio, il
primato della rivelazione». Il mistero pasquale, in questo modo, diventa
il paradigma dello stile del cristiano e del «tempo cristiano, espresso nel
tempo pasquale e domenicale, giorno della Risurrezione del Signore».
«Peccato che oggi ha osservato il Pontefice la domenica si sia trasformata nel fine settimana, mentre è l’inizio della creazione e dell’incontro
con Cristo Risorto». Quindi ha sottolineato le «grandi aspettative» che
c’erano attorno a quel fatto di Chiesa, in quegli anni «pieni di speranza,
di entusiasmo, di volontà di fare nostro il progresso» della Chiesa, di con-
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
tribuire alla «forza del domani, e dell’oggi» della Chiesa, alle prese con
il pensiero contrastante» del modo moderno. I vescovi «volevano essere
il soggetto», da «responsabili, non rivoluzionari», tant’è vero che prima
di preparare le liste per le Commissioni «volevano conoscersi un po’».
Così è cominciata una «forte attività» fatta di «piccoli incontri trasversali», durante i quali «ho conosciuto grandi figure come i padri De Lubac,
Danielou, Congar. E questa è già un’esperienza dell’universalità della
Chiesa, che non sempre viene da imperativi dall’alto, ma insieme cresce,
sotto la guida del successore di Pietro». Un modo di dire, e di vivere, il
«noi siamo Chiesa ha aggiunto ma non nel senso di un gruppo separato». Anche in quel momento, ha ricordato, il tema della collegialità dei
vescovi in rapporto al popolo di Dio «appariva a molti come una lotta di
potere, e forse qualcuno ha pensato al suo potere. Ma non era questo: era
essere un’unica Chiesa che cammina insieme». Al Concilio, ha osservato, questa tematica, «è stata al centro di discussioni molto accanite, direi
un po’ esagerate». In realtà, «serviva per esprimere che i vescovi insieme
sono un “corpo”, continuazione del “corpo” dei 12 Apostoli, e solo uno
è il successore di Pietro, mentre gli altri lo sono di tutti gli apostoli insieme». Tutto questo quando il concetto di popolo di Dio, «elemento di continuità con l’Antico Testamento», era fino ad allora «un po’ nascosto»,
«Ancora più conflittuale ha rivelato era il problema della Rivelazione: gli
esegeti cattolici si sentivano in situazione di negatività nei confronti dei
protestanti che facevano le “grandi scoperte”». Questa, secondo il Papa,
«è stata una battaglia pluridimensionale nella quale fu decisivo Paolo VI,
che con tutta la delicatezza e il rispetto propose 14 formule per ribadire
che la fede è basata sulla Parola e sulla Tradizione in quanto la certezza
della Chiesa sulla fede non nasce solo da un libro isolato, ma ha bisogno
del soggetto Chiesa. Potevamo scegliere tra 14 formule, ma una dovevamo sceglierla».
Benedetto XVI ha quindi ricordato la genesi dei principali documenti
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
conciliari, dalla Gaudium et spes alla Nostra aetate (sottolineando, riguardo a quest’ultima, la raccomandazione dei vescovi dei Paesi arabi
a parlare anche di islam: «Al tempo non lo abbiamo molto capito ha
ammesso oggi sappiamo che era necessario»), e ha concluso la sua testimonianza parlando di quello che ha definito «il Concilio dei giornalisti»,
che si svolgeva «fuori» dalla Chiesa. Per i media, ha detto, «il Concilio
era una lotta politica, di potere tra i diversi poteri della Chiesa». Di qui la
«banalizzazione dell’idea del Concilio», per di più «accessibile a tutti».
Tutto ciò, per il Papa, «ha creato tante calamità, problemi, miserie. Seminari chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata. Il vero Concilio ha avuto
difficoltà a realizzarsi. Il Concilio virtuale è stato più forte del Concilio
reale. Ma la forma reale era presente, e sempre più si realizza come vero
rinnovamento della Chiesa».
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
La luce alta
di Salvatore Mazza
A
ragionare sulle parole di ieri del Papa come se fossero solo una testimonianza del (e sul) Concilio Vaticano II, benché altissima, si
farebbe un errore. Così come lo si farebbe a considerare il rivolgersi del
Vescovo di Roma ai preti della “sua” diocesi come una lezione, e lezione,
altrettanto alta e bellissima, pure è stata. Raramente, infatti, l’incrociarsi
stretto di ricordi e di sapienza amalgamati non in un testo scritto, ma in un
discorso a braccio, e in una lingua non nativa, e per oltre quarantacinque
minuti ha saputo tradursi in una sintesi tanto lucida e, allo stesso tempo,
efficace, di quel grandissimo evento di Chiesa. Ma le due categorie citate, della testimonianza e dell’accademia, pur suscitando ammirazione,
non bastano. Perché il discorso che Benedetto XVI ha pronunciato ieri
nel tradizionale incontro col clero di Roma l’ottavo del suo pontificato, e
l’ultimo è stato prima ancora e soprattutto il discorso di un innamorato.
Di un uomo, di un teologo, di un prete, innamorato della Chiesa, di quella
Chiesa che non sopporta nella maniera più assoluta di vedere deturpata
dalle piccolezze umane, perché la Chiesa è di Dio. E va amata e curata.
È un bene prezioso, insostituibile, unico. E per questo va difesa, dalle
correnti esterne, certo, ma prima di tutto da quelle interne.
Benedetto XVI, per questo, ieri ha raccontato di nuovo e con impressionante freschezza di quella grande stagione. E, come i veri innamorati, ha
raccontato senza nascondere i difetti dell’amata, le divergenze esistenti
all’epoca, e come queste si siano a poco a poco, un passo alla volta, ricomposte mentre il grande affresco di quell’Assise andava definendosi,
mentre prendevano corpo i documenti che sarebbero diventati le pietre
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
miliari di una Chiesa aperta al mondo, aperta alle sue sfide, decisa a custodire il proprio tesoro, rinnovandosi e di rinnovando, consapevole di
avere la sua da dire al mondo contemporaneo. Protagonista e interprete
di quella stagione, Papa Benedetto ha levato di nuovo il suo inno d’amore
per la Chiesa, convinto, appunto, che questa non sia «un’organizzazione, qualcosa di strutturale», quanto piuttosto «un organismo, una realtà
vitale che entra nella mia anima, così che io stesso divento un elemento
costruttivo della Chiesa come tale». Ed è per questo, dunque, che occorre
lavorare perché «il vero Concilio, con la forza dello Spirito Santo, agisca
e sia rinnovata la Chiesa». Non un auspicio, ma una convinzione incrollabile, la «certezza» che, sempre, «vince il Signore». Anche per questo,
il suo ricordare le responsabilità dei media per i quali «il Concilio era
una lotta politica, una lotta di potere tra diverse correnti nella Chiesa»
circa le distorsioni del senso del Vaticano II, e i guasti causati, più che
un j’accuse o un lamento su tic informativi del resto duri a passare, è una
rammaricata constatazione; un dire avremmo dovuto fare meglio. E un
invito per l’oggi a fare meglio.
È di questo amore traboccante, di questa certezza che «vince il Signore»,
che il discorso di ieri è stato sintesi perfetta. Un amore e una certezza che
Benedetto XVI ha vissuto e insegnato giorno dopo giorno, che hanno
dato senso e ragione a ogni suo atto, fino a una rinuncia al ministero petrino che solo entro quelle due coordinate può essere compresa. Perché la
sfida vera non è affrontare la somma dei problemi che si hanno di fronte;
la sfida vera è essere Chiesa. E il noi siamo Chiesa non può mai essere
preso come principio di esclusione o di polemica ma, al contrario, «esige
proprio il mio inserimento nel grande “noi” dei credenti di tutti i tempi e
luoghi». Solo così, alla fine, i problemi, le storture, le sporcizie, si possono emendare. La luce si può tenere alta, il cammino dietro a Cristo fare
spedito. Tutti insieme, uniti. Per fare bella la Chiesa di Dio. Perché solo
una Chiesa bella può essere casa per tutti.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Qualcosa di glorioso
di Roberto Mussapi
U
n uomo divenuto Pontefice a un certo punto della sua vita, in età
avanzata, si rende conto che il suo fisico non regge più come dovrebbe. Quest’uomo si trova ad affrontare problemi gravissimi non solo
del mondo (che esistono dall’età della pietra), guerre, povertà, fame,
ingiustizia, fanatismi, ma anche pesanti questioni interne alla Chiesa.
Affronta gli uni e gli altri con decisione e chiarezza, con umiltà e determinazione. Non teme la realtà, che affronta sempre con la saggezza
del filosofo, con quel lieve distacco intellettuale che non è sinonimo di
freddezza, ma di razionalità e rigore. Infatti quest’uomo pacato e fermo
nel parlare, contemporaneamente sorride sempre, un sorriso un po’ fanciullesco dei bambini buoni che studiano molto, e che non giocano bene
al pallone. È abituato a fare i conti con se stesso, grazie alla disciplina
del grande studioso, che si adatta sin da piccolo alle responsabilità: bisogna essere sempre all’altezza. Una sorta di atletismo dello spirito, che
potremmo rappresentare con la metafora di un alpinista delle origini. La
montagna è impervia, misteriosa, bisogna rispettarla.
È un esercizio di umiltà, continuo. Quando quest’uomo sente venir meno
le energie che reputa necessarie, si interroga. È abituato a mettersi in discussione, è allenato a vivere al servizio: di Dio, della sapienza, del pensiero, dell’umanità, della Chiesa. Si interroga, e si rimette subito all’opera, più vivo e deciso che mai. Quando sente che le forze vengono meno in
modo ora preoccupante, al punto di non avere le energie indispensabili,
allora decide di mettersi da parte. Non può accettare il rischio di diventare un servitore insufficiente. Non è la realtà esterna, della Chiesa e del
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
mondo, a apparirgli troppo ardua. È abituato da sempre al sacrificio e al
coraggio. È la sua realtà fisica che vien meno, e quindi quell’uomo accetta la propria fragilità, la confessa. L’anagrafe attesta che non gli possono
rimanere molti anni di vita, potrebbe resistere e chiudere gloriosamente
il suo mandato, con la morte. Ma è convinto che in quei non molti anni
la sua azione non sarebbe sufficientemente energica, degna del compito.
Ama troppo quel compito per tradirlo, anche solo per debolezza e in buona fede.
Quest’uomo non conosce traccia di orgoglio, nemmeno quel piccolo orgoglio del bambino che gioca bene al pallone e i compagni ammirano.
È tutta la vita che ammira, non immagina minimamente di poter essere
ammirato. Come un saggio antico ha forgiato dall’adolescenza il carattere all’insegna della cancellazione di ogni vanità, anche veniale. È umanissimo in tutto, soprattutto nel sorriso, nei lampi di divertimento negli
occhi, nel modo un po’ timido in cui procede. Ma delle debolezze umane
orgoglio e vanità non lo sfiorano, non lo conoscono. Grandi pensatori
latini hanno scritto volumi sulla vera saggezza, che consiste nel non considerare se stessi ma la sapienza, grandi saggi orientali percorrono vie
paragonabili di annullamento dell’io. Credo che, a differenza dei saggi
antichi e d’Oriente, l’uomo che si chiama Joseph Ratzinger, e che si è
dato il nome di Benedetto, di tutto questo non si sia mai accorto. La sua
umiltà, prima ancora che un suo merito, forse è un dono. E in questo gesto di umiltà assoluta, dove un uomo così importante si sente simile alla
zolla di terra che le mandrie calpestano, parafrasando William Blake, si
manifesta una natura capace di grande coraggio. Il coraggio di chi pensa
di non possedere nulla, nemmeno la sua sapienza. Non trovo le parole per
spiegarlo, ma sento che c’è qualcosa di glorioso, in tutto questo.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Il rabbino Richetti: “Con Benedetto
XVI dialogo e fiducia”
di Giacomo Gambassi
Q
uando descrive i semi gettati da Benedetto XVI nei rapporti fra
ebrei e cristiani, il presidente dell’Assemblea dei rabbini d’Italia,
Elia Enrico Richetti, sembra quasi tracciare un parallelo con il carattere
discreto del Papa. «Sono stati otto anni segnati da un incremento del
dialogo e delle occasioni di incontro spiega. E hanno rivelato la forte
volontà del Papa di puntare sull’approfondimento e sull’interiorità. Due
dimensioni che sono state privilegiate rispetto alla visibilità e all’eco mediatica. Certo, non sono mancate alcune occasioni in cui, come rabbini
italiani, abbiamo ritenuto di rallentare il percorso per avere chiarimenti in
merito a posizioni che sembravano risultare dall’atteggiamento del Papa:
mi riferisco alla riformulazione della preghiera per gli ebrei nella liturgia
del Venerdì Santo e al processo per la beatificazione di Pio XII».
Fin dall’inizio del suo ministero, Benedetto XVI ha manifestato amicizia verso il popolo dell’Alleanza. Nel suo primo viaggio all’estero,
in Germania, ha visitato la Sinagoga di Colonia dove ha affermato
che le differenze non vanno «minimizzate».
Una sottolineatura significativa. Le differenze anche fra mondo ebraico e
cristiano non devono essere annullate e non possono passare sotto silenzio. Ma vanno affermate come tratto di arricchimento reciproco.
Il Papa ha indicato nei testi sacri il principale punto d’incontro. Lo
dimostra anche la presenza del rabbino capo di Haifa, Shear Yashuv
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Cohen, al Sinodo dei vescovi del 2008 per parlare delle Scritture.
Una scelta che mi ha toccato in prima persona. Perché lui è stato il mio
maestro. I suoi studi mostrano come la Scrittura sia elemento unificatore
dell’etica globale. Ed effettivamente sono convinto che i testi sacri costituiscano il cuore del patrimonio spirituale di ebrei e cristiani.
Nella visita alla Sinagoga di Roma, nel 2010, Benedetto XVI ha proposto il Decalogo come «stella polare» comune.
È stata un’intuizione feconda che, ad esempio, in Italia ha portato frutti
attraverso la Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo
tra cattolici ed ebrei che si celebra ogni 17 gennaio. Anche se in un’ottica
strettamente normativa le Dieci Parole sono rivolte in modo precipuo
al popolo ebraico, lluminano e guidano l’intera comunità cristiana. Del
resto sono punto di intersezione fra la dimensione verticale e quella orizzontale della vita di ogni uomo e donna.
Più volte è giunto da Benedetto XVI l’invito a ebrei e cristiani di testimoniare la bontà di Dio in un mondo che rischia di cancellare ogni
prospettiva trascendente. Come attuare questa sfida?
Fin dal primo istante che il Papa ha formulato questo concetto, mi è venuto in mente quel versetto dei Salmi che dice: «Assaggiate e vedete che
il Signore è buono». Si tratta di un richiamo a far conoscere l’unico Dio
senza il quale l’esistenza perde di rilevanza.
Nel pontificato ratzingeriano è emersa la condivisa preoccupazione
di fronte al relativismo etico, come è scaturito anche dai lavori della
Commissione mista per il dialogo cattolico-ebraico.
La dignità della persona e le questioni etiche vanno affrontate guardando
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
alla Rivelazione. Su questi temi la collaborazione è possibile. Però va
tenuto conto che si possono presentare posizioni differenti. Questo, ben
lungi dal contribuire al relativismo, serve ad ampliare la possibilità di
risposta delle due fedi di fronte al mondo contemporaneo.
Tema caro a Benedetto XVI è la purificazione della memoria. Più
volte il Papa ha condannato l’antisemitismo.
Parole che sono state sempre accolte con benevolenza. Il Papa che si è
definito «figlio del popolo tedesco» ha tenuto a evidenziare come l’antiebraismo porti la persona al di fuori del consorzio umano. E in ambito
religioso non può trovare alcuna forma di giustificazione.
In questa prospettiva si inserisce la visita nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, nel 2006, luogo simbolo della Shoah.
Della sua riflessione mi piace citare quella che è la domanda dei credenti
di fronte a una violenza così atroce: ossia, la presenza o l’assenza di Dio
in quel frangente. Il dilemma infinito della giustizia divina è molto dibattuto nell’ebraismo: fin dai tempi di Mosè, ci dice la tradizione.
A Gerusalemme, nel mausoleo di Yad Vashem, ha esortato a «non
dimenticare». E nella Sinagoga di Roma ha ricordato le «mancanze»
di alcuni «figli» della Chiesa.
Già la presa di coscienza di quanto accaduto è fondamentale. Ed è un
baluardo per evitare di ricadere negli errori. L’imperativo di non dimenticare è ben conosciuto dal mondo ebraico perché già presente nel Pentateuco. Ma il divieto di dimenticare il male che si è subìto non rimanda
alla vendetta bensì rappresenta un monito e un insegnamento. Aggiungerei che ci deve portare a un impegno comune per la difesa della diversità.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Davanti al Muro occidentale di Gerusalemme il Papa ha invocato la
pace.
Le nostre due fedi sono chiamate a dimostrare con i fatti che le differenze
religiose non possono e non devono tradursi in macchine di odio ma in
volani per costruire la casa comune.
Il Papa sottolinea che la fiducia è componente essenziale per il dialogo. Come è stata alimentata in questi otto anni?
Benedetto XVI l’ha radicata con il suo pensiero e i suoi gesti. E ha chiesto alla Chiesa di trovare elementi di consonanza col mondo ebraico.
Come proseguirà questo percorso?
Vorrei sperare nella continuità. Perché già vediamo segni concreti. E a
Benedetto XVI auguro di poter godere, nel suo riposo, di quell’approfondimento spirituale nella preghiera e nello studio che ha dichiarato di
volere cercare.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Magistero formato famiglia
“Il suo alfabeto di umanità”
di Luciano Moia
N
el 1980, durante il Sinodo dei vescovi dedicato alla famiglia, l’allora cardinale Joseph Ratzinger sintetizzò la situazione della famiglia
nel mondo sottolineando la crisi della cultura tradizionale di fronte alla
mentalità tecnicistica e razionale. Ma fece notare come solo la famiglia,
umanizzando la Chiesa e il mondo, può incarnare nuove speranze di fronte al dominio del materialismo. Trentadue anni dopo, nell’omelia della
giornata conclusiva dell’Incontro mondiale delle famiglie di Milano (giugno 2012), ha ribadito la necessità di «edificare comunità ecclesiali che
siano sempre più famiglia». Sembra di cogliere un collegamento ideale
tra queste due riflessioni, quasi che il pensiero di Ratzinger, a tanti anni
di distanza, si saldi tracciando una parabola coerente sulla necessità della
promozione e della difesa di quei valori non negoziabili che rimangono
una delle cifre distintive del suo pontificato. «Qui c’è la sottolineatura
della capacità della famiglia ad umanizzare non solo le persone al suo
interno, ma anche l’ambiente nel quale la famiglia vive», osserva il vescovo di Parma, Enrico Solmi, presidente della commissione episcopale
per la famiglia e la vita.
Una risorsa che oggi, purtroppo, sembra un po’ messa da parte.
«Sì, ma pur tra le difficoltà che riscontriamo, soprattutto nel mondo occidentale, la famiglia incarna sempre questo grande dono. Nella famiglia,
infatti, si è accolti nella specificità della propria persona, non ci si deve
mostrare diversi, si fa esperienza della gratuità e del dono. E questo stile
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
si trasmette anche attorno alla famiglia.
Già nella sua prima enciclica di Benedetto XVI, “Deus caritas est”,
ci sono passaggi di profondo significato sul senso del matrimonio.
Come recuperare, in chiave anti-crisi, questi spunti preziosi per la
pastorale ordinaria?
La cura pastorale della famiglia, per avere e mantenere il ruolo e la forza
che le competono, deve assolutamente fondarsi sulla verità del matrimonio e della famiglia. Le espressioni e il magistero di Benedetto XVI
hanno il valore di radicare ancora di più la pastorale familiare nel ricco e
perenne patrimonio della dottrina della Chiesa. Quindi sono una riconferma e insieme una traccia importante da seguire. Il problema nasce quando le radici debbono attecchire in un terreno, anche ecclesiale, che fatica
a fare una proposta pastorale organica e a dare una risposta continuativa
alle domande di fede della famiglia.
Quali difficoltà vede?
Ci troviamo di fronte ad un panorama variegato, segnato ancora dalla
fatica per una pastorale poco integrata, quasi di un recupero della dimensione della famiglia in ambiti pastorali diversi, quando questa era già da
tempo espressa e proposta dalla pastorale familiare. Per questo mi sento
di affermare che l’apporto del magistero di Benedetto XVI è uno stimolo,
oltre che una radice, a convergere per una rinnovata presa di coscienza
della necessità di una cura pastorale più adeguata per la famiglia, che
riconosca la soggettività e il valore degli stessi sposi.
Nel 2006, nell’omelia della Messa che concluse l’Incontro mondiale
delle famiglia a Valencia, il Papa ricordò che l’educazione cristiana
è educazione alla libertà e per la libertà. Oggi però la libertà è intesa
quasi solo come esaltazione del soggettivismo. Come evitare questa
deriva?
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
L’incontro di Valencia fu certamente un atto di grande libertà e di coraggio del Santo Padre, accolto con una festosità non scontata nella Spagna
di Zapatero. Proprio in quel contesto parlò della verità sulla famiglia e
dell’intrinseco valore dell’educazione. Essere famiglia è di per sé diventare educatori, accogliendo il dono del figlio che chiede di essere educato. Si coglie, quindi, l’attualità e la preziosità della lezione di Benedetto
XVI. L’invito all’educazione si associa alla necessità di educarsi anche
per i genitori, andando oltre il comune e costruttivo rapporto educativo e
di crescita, che deve esserci tra uomo e donna, tra marito e moglie.
Tornando all’Incontro mondiale delle famiglie di Milano, ha fatto
molto riflettere la forte sottolineatura da parte del Papa sulla necessità di avviare in tutte le comunità una pastorale a misura di separati
e divorziati. Nelle diocesi italiane si fa abbastanza per dare seguito a
queste indicazioni?
Non finiremo mai di ringraziare il Santo Padre per le parole e, in particolare, per lo stile di ascolto e di dialogo, per la pacata e serena proposta
della dottrina cristiana circa le persone battezzate separate e divorziate.
Anche qui mi permetto di rimarcare che Benedetto XVI ha presentato,
appunto, una dottrina che si era ben configurata, aveva operato scelte
precise. La sensazione di meraviglia e di novità, destata da parole e modi
- come quelli del Santo Padre -, da un lato fa piacere, dall’altro segnala
un ritardo ormai inescusabile della nostra pastorale. Nelle diocesi italiane
si fanno molte iniziative, alcune già da molti anni, ma manca spesso una
ricezione da parte di tutti gli ambiti pastorali e una sinergia che veda il
convergere con la pastorale familiare di tutti gli uffici pastorali su azioni
comuni, coinvolgendo anche le varie realtà che, a diverso titolo, operano
a favore della famiglia in difficoltà, come i centri di consulenza, i consultori di ispirazione cristiana e gli stessi tribunali ecclesiastici.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
In questi anni Benedetto XVI non ha mai mancato di sottolineare
il forte legame tra famiglia e società. Non crede che una società che
si prepara ad annacquare il matrimonio, rischia di incrinare la sua
architrave portante?
Sì, incrinare la realtà del matrimonio è continuare a scardinare la nostra
società e a porre in essa le condizioni per il suo tramonto. Ciò dovrebbe
interessare tutti, soprattutto coloro che si impegnano in politica. A tutti
compete questa tutela e, in particolare, a chi ha nel proprio patrimonio il
valore del matrimonio e della famiglia desunto dalla visione personalistica e a chi opera in politica sorretto dalla fede. Non si può definire “ingerenza” la chiara affermazione del valore del matrimonio e della famiglia,
in quanto il riferimento resta il bene della società, fondato sulla persona
e sulla sua dimensione.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
16 febbraio
L’Italia per Benedetto
Anche così il Papa insegna
che il diritto è cosa viva
di Francesco D’Agostino
C
osa possono dire i giuristi della rinuncia di Benedetto XVI al Pontificato? Essa ha una valenza così ricca e complessa, che chiunque
possieda una sola chiave per interpretarla non può che avere la certezza
di darne un’interpretazione povera e riduttiva. I giuristi, in particolare,
sono più di tanti altri consapevoli del limite del loro orizzonte. Chiamati
a riflettere sulla rinuncia di Papa Benedetto essi si sentono inevitabilmente stimolati a muoversi sui piani che più conoscono, a concentrarsi
sui testi giuridici che regolamentano la rinuncia al Pontificato (come il
canone 332, secondo comma, del Codice di diritto canonico o la Costituzione apostolica “Universi Dominici Gregis” del 1996) o a mettere a
punto distinzioni di grande rilievo dottrinale, come quella tra potestà di
ordine e potestà di giurisdizione.
La prima fa riferimento al potere di distribuire i mezzi della grazia divina
e si riferisce all’amministrazione dei sacramenti e all’esercizio del culto,
la seconda al potere di governare le istituzioni ecclesiastiche e i singoli
fedeli. La prima, la potestas ordinis, è conferita attraverso un sacramento, cioè con una consacrazione, ed è quindi assolutamente indelebile; la
seconda, la potestas iurisdictionis, non è invece di per sé indelebile; chi
riceve questa potestà riceve un mandato che ordinariamente può essere
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
temporaneo e revocabile (anche se può estendersi a tutto l’arco di vita di
colui che ne è investito). Nel caso del Sommo Pontefice quella che riceve
a seguito della sua elezione è una potestà giurisdizionale particolarissima, in quanto non è revocabile né sottoposta a un termine. Ma, proprio
perché è una potestà giurisdizionale, essa può essere oggetto di legittima
rinuncia. Così ragionano i giuristi e senza alcun dubbio ragionano bene,
su questioni importanti e i loro ragionamenti meritano rispetto. Ma si
tratta pur sempre di ragionamenti angusti. La rinuncia di Papa Benedetto
possiede un’eccedenza, rispetto a tutte le letture che di essa è possibile
dare; più che oggetto, essa andrebbe piuttosto considerata come una fonte di interpretazione, come qualcosa che stimola il pensiero. Non si tratta,
evidentemente, di usarla come un’occasione di riflessione dottrinale, più
o meno raffinata, quanto piuttosto come un invito a un ringraziamento.
Da Papa Benedetto abbiamo tutti ricevuto un insegnamento prezioso, che
dobbiamo custodire come si custodiscono i doni più grandi. Il magistero
di Papa Benedetto si è sempre infatti concentrato sul tema della verità e
sul dovere per tutti i cristiani (e quindi anche per i giuristi!) di farsi testimoni e operatori di verità. Per i giuristi questo insegnamento indica che il
diritto non è tecnica, non è mediazione, non è una pratica sociale accanto
a mille altre pratiche sociali: è ricerca della verità, di quella dimensione
della verità che si manifesta nelle relazioni sociali interpersonali. La tradizione teologica e filosofica ha sempre esortato i giuristi a identificare la
ricerca della verità con la ricerca del diritto naturale e sono molto numerose le occasioni in cui il Papa ha richiamato e ha difeso le buone ragioni
di questa nobile tradizione teoretica. Ad essa, però, Benedetto XVI ha
aggiunto qualcosa di più, che rinsalda questa tradizione e nello stesso
tempo la rinnova; nel suo costante richiamo all’ammonimento di Pietro
(«siate sempre pronti a rendere ragione della fede che è in voi») egli ha
richiamato i giuristi al dovere di dare testimonianza del diritto naturale,
a intenderlo non come un insieme formale, freddo e in definitiva astratto
di princìpi, ma come un insieme di istanze concrete di vita relazionale,
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
fondate non sul nostro arbitrio, ma sulla verità intrinseca alle singole
situazioni.
Il Papa, in breve, ci ha insegnato che al diritto dobbiamo il rispetto che
meritano le cose vive e non le cose morte. La sua stessa rinuncia al Pontificato veicola in definitiva questo essenziale insegnamento, perché ci
induce a leggere il Pontificato stesso come servizio vivo alla comunità
cristiana e non come paradigma consolidato e congelato da una prassi
plurisecolare. Alle tante ragioni di immensa gratitudine, che gli devono
per il suo insegnamento, i giuristi devono aggiungere anche questa, che
non è tra le più piccole.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Sgreccia: “Dal Papa parole
e gesti per la vita”
di Gianni Santamaria
U
n Papa che ha sempre messo al centro la questione della dignità
umana, dal concepimento alla fine naturale, non come «attributo
vago di rispetto», ma come realtà «ontologica». Come questione che interpella da vicino le scienze, che non possono limitarsi a descrivere i
fenomeni, ma devono cercare di aprirsi a questa realtà fondamentale. E,
infine, che investe il fondamento stesso della società. Il cardinale Elio
Sgreccia, dal suo appartamento nel Palazzo del Sant’Uffizio proprio sul
terrazzo che guarda la piazza più famosa al mondo ripercorre il filo rosso
dei riferimenti ai temi bioetici fatti da Papa Benedetto XVI in tanti discorsi e scritti. Certo, non ha dedicato encicliche alla vita, come Giovanni
Paolo II. Ma l’84enne presidente emerito della Pontificia Accademia per
la vita ricorda subito come gran parte dell’elaborazione dei pronunciamenti di papa Wojtyla sia avvenuta tra queste mura, dove il suo principale collaboratore era prefetto della Congregazione per la Dottrina della
fede. Anche da Papa, Ratzinger ha poi contribuito a far capire la posta in
palio. Come nella Caritas in veritate.
Come ha vissuto l’annuncio della rinuncia?
La mia reazione, come quella di tutti i cardinali presenti, è stata di sgomento e trepidazione. Quasi di incredulità rispetto a quanto stavamo sentendo in un latino limpido, studiato in ogni parola. E che dava subito i
riferimenti: bene della Chiesa, limitazione delle sue forze, libertà della
decisione.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Nella giornata mondiale del malato è stata anche una lezione sulla
fragilità?
Sì, di grande coraggio e umiltà. Un modo diverso di fare un’offerta a Dio,
a spese proprie e per il bene degli altri. Non è un rifiutare la Croce, che
c’è sempre.
Quando fu eletto, nel 2005, in Italia infuriava la polemica sulla legge
40. Temi allora poco noti, ma oggi alla ribalta mondiale. Cosa lascia
alla riflessione in materia?
Il suo apporto può apparire meno clamoroso di quello del predecessore.
Ma va ricordato che la prima istruzione sulla dignità della vita nascente
e della procreazione, la Donum vitae del 1987, fu chiamata «Istruzione Ratzinger». Affronta le problematiche dell’embrione come persona
umana, della sperimentazione, della procreazione artificiale e si accenna
anche alla clonazione. Un’attenzione anticipatrice. Che è entrata nella
visione della Chiesa, ma è stata anche fonte di scontro con ambienti laici
europei e nei Comitati di bioetica (Sgreccia è stato a lungo membro di
quello italiano ndr). Vent’anni dopo, da Papa, sempre attraverso la Dottrina della fede, nella Dignitas personae ha portato novità su staminali
e clonazione, messo paletti su ingegneria genetica e uso degli embrioni
congelati. E ribadito il valore antropologico dell’embrione introducendo
il concetto di dignità dell’essere umano. Non è un attributo vago di rispetto, ma è ontologico. La persona è al vertice dell’universo, è intangibile e porta una dignità cristologica piena.
Una visione, dunque, sempre aperta al futuro e alle novità. Con quale peculiarità?
In quasi tutti i suoi discorsi ha ricondotto il rispetto della vita alla fede
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
nel Creatore. Quando cade il concetto di Dio, lo ha già detto il Concilio,
l’uomo svanisce. Per questo davanti al processo di secolarizzazione, ha
avuto a cuore fino all’ultimo la necessità di una nuova evangelizzazione.
E ha auspicato il passaggio dalle scienze, che si limitano a descrivere i
fenomeni, alla sapienza, che va al fondamento della vita e della società. È
un lavoro della mente umana sostenuto e coadiuvato dalla fede.
Che cosa ha fatto per attualizzare l’importanza di questi temi?
Ha portato dei punti di unificazione. Nel capitolo 18 della Caritas in veritate, ha collegato l’accoglienza alla vita umana quindi la lotta all’antinatalismo istituzionale mondiale allo sviluppo economico e sociale, che
dipende anzitutto dal capitale umano. C’è stata spesso incapacità di vederlo, questo collegamento. All’applauso che Giovanni Paolo II riceveva a ogni enciclica sociale, corrispondeva un attacco quando parlava di
aborto o contraccezione. Ma oggi constatiamo che, dove c’è crisi economica, una radice non secondaria è il crollo della presenza umana.
Quali altri nessi ha evidenziato?
Sempre nell’enciclica, al numero 48, quello tra rispetto della vita ed ecologia umana. Se si vuole difendere l’ecologia esterna piante, animali, acque bisogna legarla al rispetto di quella interna, di ciò che la creatura ha
di più sacro. Ci accorgiamo, infatti, di come la crisi oggi non sia economica, ma morale.
Gli interventi sono stati tanti. Non s’è lasciato sfuggire un’occasione...
Discorsi ai vescovi, agli ambasciatori, a volte anche nei viaggi. Come
quello in cui ha richiamato gli africani alla loro responsabilità per combattere l’Aids. Non bastano i soldi dell’Occidente e i preservativi, senza
comportamenti adeguati. L’intervento, approvato dai vescovi d’Africa, a
distanza ha ancora una sua portata.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Quali altri ricorda?
Ha spesso sensibilizzato i governanti sulla necessità che i valori etici siano riconosciuti dal diritto. Perché quando questo si stacca dall’etica, cadendo nel dominio di volontà e spinte contingenti, la società perde i suoi
fondamenti. Pensiamo al recente messaggio per la Giornata della pace.
Operatore di pace, scrive, è chi ama e difende la vita nella sua integrità. E
il matrimonio: la prima solidarietà è nella famiglia. L’accoglienza del fratello presuppone quella del nascituro. Se ci si abitua a sopprimere la vita,
poi non si frena la violenza. Si abbassano i livelli politici, di giustizia e
solidarietà. La biopolitica, insomma, presuppone la bioetica.
Questa visione sta facendo breccia al di là della Chiesa?
Sì. Almeno in settori del mondo culturale pensosi e preoccupati del futuro. Oltre che, ne sono testimone, nei consessi dove queste cose si studiano seriamente. La sua parola è stata sempre più attesa nei momenti di
confusione. E anche nella Chiesa vanno assimilate nel tessuto pastorale.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Quei “no” detti dalla Chiesa,
tutti “sì” alla dignità della persona
di Giacomo Samek Lodovici
D
ato che non basterebbe un’imponente monografia per riferire gli innumerevoli interventi di Benedetto XVI in ambito bioetico, senza
la minima pretesa di esaustività cerchiamo solo di cogliere alcuni (non
tutti) punti nodali di questo aspetto del suo magistero. Anzitutto, va chiarita una questione che spesso pregiudica qualsiasi discorso bioetico: è
necessario «un allargamento del nostro concetto di ragione». Lo spiega
il magistrale discorso di Ratisbona, che esprime ammirazione per i risultati della scienza, ma sottolinea altresì come la realtà non si esaurisca
nella materia e la ragione sia capace di cimentarsi anche su ciò che non è
quantificabile e misurabile, per esempio sulla natura umana, sulla libertà,
sulla dignità dell’uomo, e di conseguenza sull’inviolabilità di ogni vita
umana innocente.
Ora, come dice la Caritas in Veritate, il «campo primario e cruciale della
lotta culturale tra l’assolutismo della tecnicità e la responsabilità morale
dell’uomo è oggi quello della bioetica, in cui si gioca radicalmente la
possibilità stessa di uno sviluppo umano integrale. Si tratta di un ambito
delicatissimo e decisivo, in cui emerge con drammatica forza la questione fondamentale: se l’uomo si sia prodotto da se stesso o se egli dipenda
da Dio». In modo originale, questa enciclica argomenta inoltre che «il
tema del rispetto per la vita (...) non può in alcun modo essere disgiunto
dalle questioni relative allo sviluppo dei popoli». Per esempio perché
«se si perde la sensibilità personale e sociale verso l’accoglienza di una
nuova vita, anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si ina-
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
ridiscono». Per contro, «non può avere solide basi una società che mentre afferma valori quali la dignità della persona, la giustizia e la pace si
contraddice radicalmente accettando e tollerando le più diverse forme di
disistima e violazione della vita umana, soprattutto se debole ed emarginata».
In generale è cruciale chiarire che «i “no” che la Chiesa pronuncia nelle
sue indicazioni morali, e sui quali talvolta si ferma in modo unilaterale
l’attenzione dell’opinione pubblica, sono in realtà dei grandi “sì” alla
dignità della persona umana, alla sua vita». Ora, «il dovere del rispetto
per la dignità di ogni essere umano (...) comporta come conseguenza che
della persona non si possa disporre a piacimento», perciò «la Chiesa si fa
paladina dei diritti fondamentali di ogni persona» e «il rispetto del diritto
alla vita in ogni sua fase stabilisce un punto fermo di decisiva importanza». Al contrario, «per quanto concerne il diritto alla vita, è doveroso
denunciare lo scempio che di essa si fa nella nostra società», dovuto alle
«morti silenziose provocate dalla fame, dall’aborto, dalla sperimentazione sugli embrioni e dall’eutanasia (...). L’aborto e la sperimentazione
sugli embrioni costituiscono la diretta negazione dell’atteggiamento di
accoglienza verso l’altro che è indispensabile per instaurare durevoli rapporti di pace».
Più volte Benedetto XVI ha proclamato che «ogni vita umana, in quanto
tale, merita ed esige di essere sempre difesa e promossa», e «il rispetto e
la difesa della vita umana, dal concepimento fino alla morte naturale», e
la tutela della famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna e della
libertà di educazione, «non sono negoziabili»: sono criteri gravemente
doverosi e cruciali nel fare le leggi e nei momenti elettorali di scelta tra
un partito, un candidato e un altro. Quanto all’eutanasia, il Papa ha spesso ricordato che essa «è una falsa soluzione al dramma della sofferenza,
una soluzione non degna dell’uomo. La vera risposta non può essere infatti dare la morte, per quanto “dolce”, ma testimoniare l’amore che aiuta
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
ad affrontare il dolore e l’agonia in modo umano». Più volte chinatosi
con grandissimo affetto a consolare i malati e i sofferenti, il Papa ha
detto loro: «Nessuna lacrima, né di chi soffre, né di chi gli sta vicino, va
perduta davanti a Dio (...). Voi siete i fratelli del Cristo sofferente; e con
lui, se lo volete, voi salvate il mondo!».
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Amore, verità e valori non negoziabili
di Michele Aramini
I
l pontificato di Benedetto XVVI resterà nella storia e nel cuore dei
cattolici per molte ragioni. Una ragione non secondaria è l’attenzione
e il contributo che questo Papa ha dato alla promozione della dignità
della persona umana. Vogliamo segnalare i tre nuclei di riflessione che
a partire dalla Caritas in veritate ci sembrano più rilevanti. Innanzitutto
la centralità dell’amore. Benedetto XVI ha più volte detto che la base di
ogni bioetica deve essere un giusto atteggiamento verso l’altro. La cultura della vita si costruisce con l’attenzione all’altro, senza esclusioni,
discriminazioni, violenze. E l’altro è ogni vita umana. Dio ci insegna ad
amare i piccoli e i deboli. Questo vale anche per l’embrione umano, che
dovrebbe nascere sempre da un atto d’amore ed essere accolto e trattato
come persona. Questo amore non deve essere sostituito da una cultura
estremizzata dei diritti, che finiscono per far torto proprio ai più deboli.
Lo stesso inverno emografico che colpisce molti paesi avanzati si trova
secondo le parole di Benedetto XVI la mancanza di amore.
Poi la ricerca della verità. Conosciamo l’impegno del Papa a servizio
della verità, per liberarci dal pervasivo e soffocante relativismo. Ma la
ricerca della verità riguarda anche la bioetica. Quante coppie che ricorrono alla fecondazione artificiale non hanno idee corrette sul cammino
che intraprendono, oppure quante persone parlano con superficialità di
vite senza valore. L’elenco potrebbe continuare. Ma è chiaro che diventa
difficile trovare persone con idee giuste, capaci a loro volta di indicarle
agli altri. Così i grandi temi della vita: aborto, fecondazione artificiale,
eutanasia, test genetici, ecc. sono affidati non tanto a una riflessione ac-
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
curata, ma a parametri del tutto soggettivi e mutevoli. Il Papa ha mostrato
di bene comprendere che certi temi, come quello dell’embrione umano,
sono una sfida per la capacità conoscitiva della ragione. Alla fine si entra nel mistero dell’uomo. Ma proprio per questo motivo si deve essere
fortemente impegnati nella ricerca della verità più profonda dell’essere
umano e nella formazione della propria coscienza morale.
Un terzo elemento decisivo dell’insegnamento di papa Benedetto sono i
valori non negoziabili. L’insegnamento su questi valori ha messo chiaramente in luce che il progresso scientifico è autentico solo quando serve
alla persona umana e al suo sviluppo integrale. Si tratta di un baluardo
di difesa a servizio dell’uomo. Ricerca scientifica e leggi dello Stato,
manifestano la loro preziosità per lo sviluppo umano quando rispettano
e valorizzano la persona e in particolare i deboli. Questa dizione ha fatto
molto discutere, ma alla fine si è rivelata una vera bussola. Pian piano si
deve riconoscere che di principi non negoziabili ce ne sono in bioetica,
nell’educazione, nell’ambito lavorativo, nel rispetto della donna e delle
minoranze e perfino nella politica vera. In realtà, si tratta di un modo
per dire che esiste una legge naturale che fa il bene dell’uomo e della
società. La dolce fermezza di Benedetto XVI nel proporre senza timore
e con perseveranza questi temi decisivi della bioetica sono stati un dono
permanente per l’umanità.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
17 febbraio
Il tempo della preghiera
Dal Vaticano II al mondo
contemporaneo
«Ritroviamo la bellezza di credere»
di Salvatore Mazza
C
ome cinquant’anni fa. Per assolvere «il compito comune» di far «risplendere la verità e la bellezza della fede nel nostro tempo». Ritrovando la «tensione commovente» di allora, quando le porte del Concilio
si aprirono davanti al mondo, per dire che la Parola è parola per l’oggi,
viva, attuale, densa di un significato che, se appare impolverato, è per la
trascuratezza dei credenti. Ed è per tutto questo che, allora, è necessario
ritrovare la bellezza della fede, ritornare ai «documenti» e alla «lettera»
di quella grande Assemblea che cambiò la Chiesa, per trovarne la «vera
eredità, al riparo dagli estremi di nostalgie anacronistiche e di corse in
avanti» e coglierne, così, «la novità nella continuità».
Quando papa Ratzinger aveva annunciato l’intenzione di convocare un
Anno della fede a cinquant’anni dall’apertura del Concilio ecumenico
Vaticano II, c’era stata la – solita – corsa all’interpretazione di una decisione del genere. Chi leggendola in senso riduttivo – l’Anno della Fede
come chiusura della stagione conciliare, quasi a decretarne il fallimento
– chi in senso opposto. Agli uni e agli altri la risposta l’ha data lo stesso
Benedetto XVI, e proprio nel giorno in cui l’ha aperto, lo scorso 11 ottobre, lo stesso in cui, nel 1962, Giovanni XXIII apriva solennemente il
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Concilio, sottolineando il legame imprescindibile di questi dodici mesi
dedicati alla radice del credere, l’indispensabile continuità che ogni credente è chiamato a rinsaldare, in un oggi in cui a tutta la Chiesa è chiesto
di «ravvivare quella positiva tensione, quell’anelito a annunciare Cristo
all’uomo contemporaneo».
Ecco, nella visione del Papa, col suo annodarsi idealmente e concretamente al Concilio, l’Anno della fede vuole e deve essere, in questo senso,
la risposta alla «desertificazione spirituale» degli ultimi decenni. Per questo, esso si propone esplicitamente come «un pellegrinaggio nei deserti
del mondo contemporaneo». E l’ha spiegato, ricordando come in quella
sera del 1962 «eravamo felici e pieni di entusiasmo, il grande Concilio
ecumenico si era inaugurato ed eravamo sicuri che doveva venire una
nuova primavera per la Chiesa, una nuova Pentecoste, una nuova presenza liberatrice del Vangelo». Così, «anche oggi siamo felici, portiamo la
gioia nel nostro cuore, ma direi una gioia più sobria, una gioia umile: in
questi cinquanta anni abbiamo imparato ed esperito che il peccato originale esiste e si traduce in peccati personali, che possono divenire strutture
di peccato, visto che nel campo del Signore c’è anche la zizzania, che
nella rete di Pietro ci sono anche pesci cattivi, che la fragilità umana è
presente anche nella Chiesa, che la nave della Chiesa sta navigando con
vento contrario, con minacce contrarie. E qualche volta abbiamo pensato:
“Il Signore dorme e ci ha dimenticato”».
Proprio come l’altro giorno, parlando ai suoi preti della diocesi di Roma,
e ricordando quella stagione, ha lucidamente sintetizzato il percorso di
un Concilio che, pur con i suoi contrasti e difficoltà, mai nascosti da Benedetto XVI, ha saputo davvero proporsi come profezia, così lo scorso
ottobre aveva ricordato come in quei giorni di mezzo secolo fa «abbiamo fatto esperienza della presenza del Signore, della sua bontà della sua
presenza: il fuoco di Cristo non è divoratore né distruttivo, è un fuoco
silenzioso, una piccola fiamma di bontà: il Signore non ci dimentica, il
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
suo modo è umile, il Signore è presente, dà calore ai cuori, crea carismi
di bontà e carità che illuminano il mondo e sono per noi garanzia della
bontà di Dio. Sì, Cristo vive con noi e possiamo essere felici anche oggi».
Ecco, è questa felicità nella fede che Benedetto XVI ci propone di riscoprire in quest’anno, aprendo la porta della fede con lo stesso slancio, lo
stesso entusiasmo, la stessa fiducia in un Signore che cammina sempre
a fianco del suo gregge. Ed è questa la buona notizia che è necessario
portare al mondo. E, dunque, la scoperta che occorre fare, o ri-fare, è che
la fede stessa è la nostra vera ricchezza, il nostro lato migliore. Riaprire
quella porta che, distratti o troppo presi che fossimo, anche con le migliori intenzioni, da tutto il resto, ci siamo dimenticati perfino che esistesse. E
che oggi Papa Benedetto invita ciascuno a varcare, per ritrovare il gusto
vero dell’essere cristiani, e per ridirlo al mondo.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
L’Anno della fede
Sui passi di Paolo VI per rimettere
Cristo al centro
di Marco Roncalli
«I
n questo Tempo di Quaresima, nell’Anno della fede, rinnoviamo il
nostro impegno nel cammino di conversione, per superare la tendenza di chiuderci in noi stessi e per fare, invece, spazio a Dio, guardando con i suoi occhi la realtà quotidiana...». «Convertirsi significa non
chiudersi nella ricerca del proprio successo, del proprio prestigio, della
propria posizione, ma far sì che ogni giorno, nelle piccole cose, la verità, la fede in Dio e l’amore diventino la cosa più importante. È la fede
a dover orientare lo sguardo e l’azione del cristiano, poiché è un nuovo
criterio d’intelligenza e di azione che cambia tutta la vita dell’uomo».
Così nell’udienza generale di mercoledì scorso Benedetto XVI. «È nostro compito proprio in questo Anno della fede, cominciando da questo
Anno della fede, lavorare perché il vero Concilio, con la sua forza dello
Spirito Santo, si realizzi e sia realmente rinnovata la Chiesa...», così giovedì il Pontefice nella sua appassionata testimonianza-lezione sul Vaticano II nell’incontro – quasi un’ora a braccio e senza un’esitazione! – con il
clero di Roma. «L’Anno della fede ci invita a una autentica conversione a
nostro Signore Gesù Cristo, unico Salvatore del mondo. Accogliendo con
la fede la rivelazione e l’amore salvifico di Dio nella nostra vita, tutta la
nostra esistenza è chiamata a modellarsi sulla novità radicale introdotta
nel mondo dalla Risurrezione...», così, ancora il Papa, venerdì scorso,
non senza evidenziare gli inscindibili legami della fede con la carità «che
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
è partecipazione all’amore di Cristo ricevuto e condiviso», rivolgendosi
ai membri dell’associazione Pro Petri Sede, in uno degli ormai ultimi
incontri pubblici del suo pontificato.
Già, perché, come tutto il mondo sa – indetto l’11 ottobre 2011 un Anno
della fede aperto l’anno dopo, e assunti impegni gravosi per tutto questo
periodo costellato di giornate speciali sino a quella conclusiva del 24 novembre 2013, solennità di Cristo Re – Benedetto XVI, nove mesi prima
di quel termine, ha annunciato la sua rinuncia. Significa tra l’altro che
non leggeremo mai – almeno nella forma dell’enciclica – il testo sulla
fede, già in parte elaborato, che da tempo aspettavamo. E tuttavia come
non interrogarsi su questa scelta di libertà interiore che, sì, forse al posto
dell’attesa enciclica, pare dirci che comunque tocca alla fede più pura
nutrire le vicende della storia, e può farlo in modi diversi, innanzitutto
lasciandosi riempire da Dio, anche se solo il tempo svelerà forse tutti
i motivi di questa rinuncia. Eccoci allora a cercare, proprio legandole
all’Anno della fede, le spiegazioni di una decisione che fa leva dietro apparenti motivazioni di efficienza, sulla priorità di dedicare – da qui in poi
– ogni minuto al rapporto con Dio. Scelta di coscienza assunta innanzi
al Signore, che la lega a un disegno dove si sgretolano le logiche umane,
assumendo tratti costitutivi di un’inedita e sconvolgente forma di annuncio del primato della fede e della centralità di Cristo unico timoniere della
barca nella tempesta.
In sostanza è ciò che chiedeva anche Paolo VI con il «suo» Anno Santo
nel 1967, al fine di far riprendere alla Chiesa «esatta coscienza della sua
fede, per ravvivarla, per purificarla, per confermarla, per confessarla»,
consapevole che i contenuti essenziali, da secoli patrimonio dei credenti,
avessero bisogno di essere compresi in modi nuovi nel mutare delle differenti condizioni storiche. Ecco il senso di quell’Anno della fede, montiniano, come «conseguenza ed esigenza postconciliare», che è lo stesso
di quello voluto da Benedetto XVI in coincidenza con i cinquant’anni
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
dall’apertura del Vaticano II.
Un rimando, quello al Concilio, nella cornice di una Chiesa chiamata a
ripensare la sua ragion d’essere, la sua energia, prodigandosi per quel
mondo, detto con le parole di Paolo VI «bisognoso sino al pianto dell’annuncio consolatore della fede».
Fu lui, inaugurando l’Anno della fede nel XIX centenario del martirio
di Pietro e Paolo, a chiedere conversione con parole che evocano arcani
rimandi a quanto stiamo vivendo in questa Quaresima: «Ascoltate la nostra voce; non è la nostra, è quella dell’ultimo umile successore di Pietro;
la sua ascoltate; anzi quella sola che nell’apostolo e nel magistero della
Chiesa risuona, quella di Cristo.
La fede è intesa correttamente quando è vissuta e compresa come adesione di tutta la persona alla parola rivelata, quando non è solo ricerca, ma
anche certezza che deriva dall’accoglienza del dono misterioso di Dio
che si rivela».
Ancor più forti le assonanze fra molti dei discorsi di Paolo VI e le ultime
pronunce di papa Ratzinger quanto al Concilio «reale». Dove, oltre le
sottolineature sulle attese, le distorsioni, il discernimento, l’ermeneutica,
la fiducia nel conseguimento degli auspicati frutti di rinnovata vitalità
cristiana, è l’idea di una Chiesa rinnovata dal Vaticano II con la forza
dello Spirito a stagliarsi con nitidezza.
Parafrasando Jean Daniélou – ed è quanto non pare sempre chiaro – non
era solo questione di formulare la fede secondo diversi linguaggi, e tanto meno più accattivanti o rassicuranti, ma anche dell’intelligenza della
fede da parte della Chiesa, titolata per dovere a spiegarla in pienezza.
Non solo, detto sempre con le parole di questo teologo francese: «Nella
misura in cui noi sappiamo vivere nel mondo della fede, risvegliamo
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
anche gli altri al mondo della fede». E, proprio nei progressi di questa
comprensione della fede, il beato John Henry Newman vedeva il segno
dell’assistenza dello Spirito verso la Chiesa di Roma. Comprendere la
fede, annunciarla, professarla.
Torna alla mente anche il «Credo del popolo di Dio», pronunciato da
Paolo VI, al termine dell’omelia del 30 giugno 1968, con tanto di spiegazioni ed approfondimenti, a proposito del quale più volte siamo stati
invitati a considerare, oltre il testo, il contesto liturgico, la celebrazione
eucaristica. Con il Papa che, non come autorità sopra tutti, ma tra i credenti, diceva: «Ecco la mia fede». Un modo per confermare i fratelli non
con una misura d’autorità ma attraverso la testimonianza.
«Ecco la mia fede»: potrebbero essere anche le parole con cui porre una
didascalia alle immagini che presto accompagneranno il saluto di Joseph
Ratzinger, che con il suo gesto (che tentò per diversi motivi anche i suoi
predecessori, da Pio XII a Giovanni XXIII, da Paolo VI a Giovanni Paolo
II), ha costretto il mondo, come mai aveva fatto, allo stupore: trascinando
tutti a prendere atto dell’irruzione di un Altro – sin qui poco evocato –
nella lettura del reale o dell’irreale.
In fondo, anche se la leggiamo con malcelato rammarico, una frase ci
deve fare compagnia, tra le sirene che gridano complotti e calcoli di politica ecclesiastica. Quella pronunciata da Benedetto XVI nell’udienza di
mercoledì scorso: «Mi sostiene e mi illumina la certezza che la Chiesa
è di Cristo, il Quale non le farà mai mancare la sua guida e la sua cura».
Come a dire che la Chiesa non pulsa nelle strutture, ma nel cuore dei cristiani. Per questo continuerà a vivere.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Il giovane Ratzinger al Concilio
Su quel tesoro la sua firma
di Matteo Liut
A
veva solo 35 anni al momento dell’apertura del Concilio Vaticano
II, eppure il suo fu un prezioso apporto per la formulazione di alcuni dei testi che hanno modellato la Chiesa in questi ultimi 50 anni. E in
seguito, nel suo cammino da teologo e pastore, Joseph Ratinger ha compiuto un cammino coerente, che ha avuto la sua massima espressione nel
suo magistero da Pontefice. Lo sottolineava alcuni mesi fa l’arcivescovo Gerhard Ludwig Müller, prefetto della Congregazione per la dottrina
della fede, nella sua riflessione sul settimo volume dell’«Opera omnia»
di Ratzinger dal titolo «L’insegnamento del Concilio: formulazione-trasmissione-interpretazione».
«Joseph Ratzinger, da teologo, ha contribuito a dar forma e ha accompagnato il Concilio in tutte le sue fasi», notava il prefetto. E, poi, «nella fase
della ricezione, egli non si stanca di ricordare che il Concilio va valutato
e compreso alla luce della sua intenzione autentica. Il Concilio è parte
integrante della storia della Chiesa e pertanto lo si può comprendere correttamente solo se viene considerato questo contesto di duemila anni».
La partecipazione di Ratzinger al Vaticano II si realizzò nella doppia veste di consigliere teologico dell’arcivescovo di Colonia, Josef Frings, e
di perito, collaboratore delle Commissioni che elaborarono gli schemi
alla base della «Lumen Gentium» e della «Dei Verbum», partecipando
anche alla stesura del decreto «Ad Gentes». Incontrando il clero romano
giovedì scorso Ratzinger ha ricordato l’episodio dal quale nacque la col-
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
laborazione con Frings, che nel 1961 chiese al giovane docente di Bonn
una bozza per un intervento sull’ormai prossimo Concilio da tenere a
Genova. Un testo che fu apprezzato dallo stesso Giovanni XXIII e che
gli valse la piena fiducia di Frings. «Alla base di tutti e diciannove gli
interventi conciliari dell’arcivescovo di Colonia in cui sono formulate
questioni teologico-sistematiche – ha ricordato Müller –, stanno bozze
predisposte da Ratzinger». Per questi motivi, afferma ancora il prefetto,
«il Concilio ha la calligrafia di Benedetto XVI».
Negli anni post conciliari, poi, Ratzinger veniva spesso richiesto per conferenze e interviste sul Concilio. Egli, nota ancora Müller, «trasmise per
così dire “di prima mano” al lettore i risultati del Concilio, stimolando il
dibattito e la ricezione». Tra il 1966 e il 2003, poi, Ratzinger ha prodotto
testi di commento ai documenti conciliari, che, secondo l’attuale prefetto
della Congregazione della dottrina della fede, «appartengono ai classici
della teologia». Un’opera che, secondo Müller, ha sempre posto al suo
centro «l’insieme indissolubile tra Sacra Scrittura, la completa e integrale
Tradizione e il Magistero» secondo quella «ermeneutica della riforma
nella continuità» invocata da Ratzinger nel suo primo discorso natalizio
alla Curia Romana del 2005.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Rosen: un cuore aperto
verso il nostro popolo
di Giorgio Bernardelli
D
a anni è l’interlocutore privilegiato del Vaticano a Gerusalemme per
quel che riguarda Israele e il mondo ebraico. Per questo il rabbino
David Rosen quei giorni del 2009 li ha vissuti in prima persona accanto a
Benedetto XVI pellegrino in Terra Santa. Oggi è molto ammirato dall’umiltà e dal coraggio che le dimissioni di Benedetto XVI rivelano («considerato ciò che rappresentano per il papato – commenta – sono qualcosa
di inedito non solo per la Chiesa, ma per la storia dell’umanità intera»).
Ma proprio quest’umiltà e questo coraggio sono forse le lenti migliori
attraverso cui rileggere anche quel viaggio.
Rabbino Rosen, come ricorda le giornate vissute da Benedetto XVI
a Gerusalemme?
Con grande piacere ed entusiasmo: furono segnate da gesti importanti.
Penso ad esempio alla visita compiuta all’Heichal Shlomo, la sede storica del Rabbinato. Anche Giovanni Paolo II nel suo viaggio aveva incontrato i due rabbini capo, ma era stato un fatto quasi privato. Con Benedetto XVI, invece, fu un incontro di alto profilo, venne anche pubblicato
un documento comune: fu la testimonianza di un dialogo più maturo,
più consolidato. Un risultato niente affatto scontato. Si sarebbe potuto
pensare che la svolta impressa da Wojtyla ai rapporti tra cristiani ed ebrei
fosse legata alla sua storia personale in Polonia. Invece Benedetto XVI
ha confermato che il dialogo con gli ebrei è la via ordinaria della Chiesa.
Furono giornate anche di parole molto forti riguardo al conflitto in Terra
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Santa e al ruolo delle religioni per superarlo.
Ricordo con particolare gioia il clima fraterno dell’incontro interreligioso a Nazareth, quello della celebre fotografia in cui gli esponenti religiosi - cristiani, ebrei e musulmani - si tengono per mano. Credo, però,
che uno dei gesti di pace più importanti il Papa l’abbia compiuto ancora
prima di arrivare in Israele, quando sul monte Nebo, in Giordania, parlò
dell’”inseparabile vincolo che unisce la Chiesa al popolo ebraico”. Sottolinearlo lì, in un Paese arabo e musulmano, fu un atto di grande coraggio.
Vi furono però anche delle incomprensioni in Israele riguardo a questo viaggio. Perché?
Certamente, ci furono (anche se le incomprensioni nei confronti di Benedetto XVI non sono state certo un’esclusiva di Israele). Credo che siano nate da un’attesa per un certo tipo di gesti che non erano nelle sue
corde. Pesarono anche i sospetti per la sua origine: tutti a Yad Vashem si
aspettavano il “mea culpa” in quanto tedesco; ma lui aveva già spiegato
ad Auschwitz-Birkenau che considerava il popolo tedesco vittima esso
stesso del nazismo. Si può discutere su questa tesi, ma la sua esperienza
è questa.
Anche dopo il viaggio del 2009 lei è tornato più volte a incontrare
Benedetto XVI: che cosa l’ha colpita di più del suo magistero sulla
pace?
Ho in mente soprattutto l’incontro di Assisi, nella giornata che volle a 25
anni da quella di Giovanni Paolo II: mi colpì il suo volersi fermare a parlare con ciascuno, nonostante il grande sforzo fisico che questo gli costava. Anche in quell’occasione mostrò tutta la sua integrità, la sua modestia
e soprattutto la sua grande apertura d’animo. Sì, credo proprio che questo
cuore aperto sia la grande eredità che lascia al cammino verso la pace.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
19 febbraio
Il popolo di Benedetto
Scelta radicale
di Riccardo Maccioni
«C
iao amore» dice la ragazza al telefono, ma capisci che parla a
un’amica. Nel suo personalissimo vocabolario la rabbia si confonde con l’odio, lo sconforto diventa disperazione, allegria significa
gioia. Osservarla chiacchierare è un modo per domandarci che importanza diamo alle parole, quali sono i vocaboli cui affidiamo il compito di
raccontarci, da chi e come vogliamo difenderci. Perché in fondo vivere
è anche una questione di termini, della sincerità dei nostri discorsi, dei
punti cardinali cui chiediamo di orientarci, minuscole stelle polari di un
cammino che ricomincia ogni giorno, che ha come meta la felicità. Sempre che sappiamo cosa significhi. Per tanti, per quasi tutti verrebbe voglia
di dire, essere felici è sinonimo di successo, di libertà, di potere. Il cristiano non fa eccezione, con la differenza che, letti alla luce del Vangelo,
gli stessi concetti hanno significati profondamente diversi. Così, potere
vuol dire servizio, libertà è svuotarsi delle proprie certezze per lasciare
posto a Dio e il prestigio lo si conquista accanto agli ultimi, lontano dalle
luci dei riflettori.Detto in altro modo, la croce è sinonimo di gloria, per
essere grandi bisogna diventare piccoli, il successo si veste sempre di
umiltà e misericordia. Lo ha ricordato il Papa all’Angelus di domenica
scorsa: la tentazione più insidiosa che attanaglia l’uomo, quella che in
fondo le riassume tutte, «consiste sempre nello strumentalizzare Dio per
i propri interessi, dando più importanza al successo o ai beni materiali».
Perché il tentatore non spinge direttamente verso il male, ma nella dire-
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
zione del falso bene, facendo credere «che le vere realtà sono il potere e
ciò che soddisfa i bisogni primari». Il nemico da combattere, il rischio
da affrontare, allora è mettere Dio in un angolo, relegandolo al ruolo di
servitore della nostra vanità, affidando al nostro egoismo il compito di
decidere cosa sia meglio anche per gli altri. Nei momenti decisivi della
vita, ricorda Benedetto XVI, ma forse sarebbe più giusto dire in ogni
istante dell’esistenza, siamo chiamati a scegliere tra il Signore e il nostro
“io”, tra l’interesse individuale e il vero bene, quello che si scrive con la
b maiuscola e vuol dire carità evangelica, amore disinteressato.Sarebbe,
però, sbagliato leggere in queste parole una condanna del potere e di chi
lo esercita, perché in ogni ambito c’è bisogno di un’equa distribuzione
dei compiti e per la costruzione di una casa servono l’operaio come l’ingegnere, l’architetto come l’imbianchino.
Il Signore non è venuto a condannare il ruolo, ma l’idolatria in cui può
trasformarsi, il ventilato bene comune che diventa egoismo privato, l’etica della responsabilità banalizzata in sterile culto di sé. Rischi in cui può
cadere chi si affida soltanto alle proprie forze.Non a caso per respingere
il tentatore Gesù si ritira nel deserto, che è il luogo del silenzio e della
povertà, dove l’uomo è spinto ad andare all’essenziale, bisognoso com’è
di tutto. Si tratta di capire che non siamo gli unici costruttori della nostra
esistenza e che da soli non riusciamo a procurarci neppure l’acqua. Ma
per comprenderlo c’è bisogno di mettere a tacere ogni certezza, serve il
coraggio di avventurarsi nei «deserti», nelle «prove» che prima o poi attraversano ogni vita. Forse la più difficile è vedersi rifiutati, sentirsi fuori
tempo e fuori moda, retrocessi a comprimari mentre ci crediamo i numeri
uno. Eppure paradossalmente è proprio in quegli istanti che dovremmo
sentirci più forti, sempre che la nostra tristezza ci spinga ad alzare gli
occhi al cielo e ad aprire le porte del cuore all’aiuto che viene dall’alto.
Ma succede, può succedere, solo se potere significa servizio, se amore
è sinonimo di dono, se l’altro non è un avversario da sconfiggere ma un
compagno di viaggio, lungo il pellegrinaggio della nostra vita.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Un magistero sulla libertà dell’uomo
di Giacomo Samek Lodovici
N
elle tre più recenti catechesi del mercoledì - tra le ultime imperdibili occasioni per imparare da lui come Papa - Benedetto XVI ha
toccato a più riprese il tema della libertà come caratteristica essenziale
del rapporto tra Dio e l’uomo. Ha detto, per esempio, che riflettendo sulla
creazione si evince che «il primo pensiero di Dio era trovare un amore
che risponda al suo amore» e «il secondo pensiero è poi creare un mondo materiale dove collocare questo amore, queste creature che in libertà
gli rispondono». Ora, è proprio nella libertà che risiede una chiave per
una qualche decifrazione del mistero della permissione della malvagità
umana da parte di Dio. In, effetti, come ha detto il Papa, «noi vorremmo
un Dio che vinca le potenze avverse» e la domanda lancinante dell’uomo
di sempre suona più o meno così: se Dio esiste, perché permette il male?
Dov’era Dio ad Auschwitz? Ognuno può riformulare questa domanda
adattandola alle ingiustizie che ha subìto o conosciuto, alle varie atrocità della storia. La risposta di Benedetto XVI è la seguente: Dio «ama e
rispetta la risposta libera di amore alla sua chiamata. Come Padre, Dio
desidera che noi diventiamo suoi figli in comunione». Sviluppando l’affermazione del Papa (nel solco di un’antica tradizione filosofica), possiamo qui accennare che Dio tollera che l’uomo commetta il male per
almeno quattro motivi, tre dei quali sono correlati proprio alla libertà.
Primo, perché dal male ricava (in un modo che spesso ci sfugge) un bene
maggiore o evita un male peggiore. Secondo, perché se impedisse la malvagità, toglierebbe la sua fonte, che è la libertà umana. Una pietra, una
pianta, un animale, non sono malvagi: tutto ciò che li riguarda dipende
necessariamente dalle leggi fisico-biologiche o dall’istinto.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Ora, se Dio ci togliesse la libertà, ci priverebbe di quello stupendo privilegio che ci innalza al di sopra dell’intero universo. Terzo, se l’uomo,
deprivato della libertà, non potesse compiere il male, per ciò stesso non
potrebbe nemmeno compiere il bene: non potremmo scegliere di uccidere, ma nemmeno di amare. Infine, Dio si rivolge all’uomo sia - è l’immagine del Papa - come un Padre che desidera essere liberamente amato
da un figlio, sia - immagine e citazione sono di Kierkegaard - come un
innamorato che offre il suo amore a colei che ama: «E incomprensibile,
è il miracolo dell’amore infinito», cioè che Dio all’uomo «possa dire
quasi come un pretendente [...]: mi vuoi tu, sì o no?». Per questo, Dio lo
lascia libero: perché gli propone di partecipare alla comunione amorosa
con Sé e «il Dio dell’amore non vuole in alcun modo costringerti. Come
potrebbe l’amore pensare di costringere ad amare?». Un amore costretto
non è amore, bensì schiavitù, adulazione, ecc. Ancora, per dirla con l’immagine biblica usata dal Papa nella catechesi del 13 febbraio scorso, Dio
accetta di essere respinto, lasciato fuori casa, fuori dalla porta, dall’uomo
che, liberamente, rifiuta di cenare in intimità con Di: «Sto alla porta e
busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3, 20). Se l’uomo non fosse libero non
potrebbe conseguire la beatitudine, cui si accede proprio nella totale ed
eterna comunione d’amore con Dio: come ha detto il Papa il 6 febbraio,
al termine della creazione, c’è il settimo giorno, che è preludio di ciò
che avverrà nell’eternità: è il «giorno della libertà per tutti, giorno della
comunione con Dio».
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Rouco Varela: ci ha sempre incoraggiati
a non perdere la nostra anima cristiana
di Antonio María Rouco Varela*
B
enedetto XVI ha dimostrato in differenti occasioni e in differenti
modi che ha la Spagna nella memoria e nel cuore. Basta scorrere alcuni dei momenti delle sue tre visite nel nostro Paese, per comprendere la
portata di una stima così sincera e profonda. Lo ricordiamo, per esempio,
a Valencia nel 2006, annunciando in maniera magistrale il Vangelo della famiglia. «Conosco e incoraggio la spinta che state dando all’azione
pastorale - disse allora a noi vescovi spagnoli -. In tempi di veloce secolarizzazione, che riguarda anche la vita interna delle comunità cristiane,
continuate a proclamare senza scoraggiarvi che prescindere da Dio mina
la verità dell’uomo e ipoteca il futuro della cultura e della società».
Lo ricordiamo, nel 2010, pellegrino della fede davanti alla tomba dell’apostolo Santiago. Fu proprio prima di atterrare a Compostela che fece
riferimento alla Spagna come un paese decisivo nella rinascita del cattolicesimo in epoca moderna, grazie a figure di peso come per esempio
sant’Ignazio di Loyola, santa Teresa di Gesù o san Giovanni d’Avila. E fu
in quello stesso viaggio che abbiamo potuto vederlo a Barcellona, commosso di fronte alla bellezza della Sagrada Familia, sintesi esemplare di
continuità e novità, di tradizione e creatività. Lo ricordiamo, infine, nel
2011, durante l’indimenticabile Giornata mondiale della gioventù di Madrid, inginocchiato di fronte al Santissimo, in una notte oscura di agosto,
calma dopo una tempesta che bagnò la folla. Fu il Papa che ci convocò,
ci riunì e presiedette nella grande festa della fede. Insieme a lui, quasi due
milioni di giovani, uniti ai loro vescovi, sacerdoti ed educatori, hanno
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
dato testimonianza davanti al mondo della perenne gioia che si irradia
quando ci si mantiene radicato ed edificato in Cristo, saldo nella fede.
«La Spagna è una grande nazione – ci disse l’ultimo giorno, all’aeroporto, prima di ritornare a Roma -, una nazione “che in una convivenza sanamente aperta, plurale e rispettosa, sa e può progredire senza rinunciare
alla sua anima profondamente religiosa e cattolica”». «Vorrei assicurare
agli spagnoli - furono le sue parole finali – che sono molto presenti nella
mia preghiera. Sono convinto che, confortati dalla fede in Cristo, contribuiranno con il meglio di sé affinché questo grande paese affronti le sfide
dell’ora presente e continui a progredire lungo le vie della concordia, della solidarietà, della giustizia e della libertà». Anche noi, in enorme debito
di gratitudine per la sua paternità ecclesiastica e spirituale, ci ricordiamo
di lui e gli assicuriamo, dalla sua amata Spagna, la nostra vicinanza e la
nostra preghiera nella sua nuova tappa a servizio della Chiesa».
* cardinale, arcivescovo di Madrid
e presidente della Conferenza episcopale spagnola
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
20 febbraio
Il professor Ratzinger
Gli studenti di Ratzinger:
“Un maestro che sa ascoltare”
di Andrea Galli
P
adre Joseph Fessio, gesuita americano con origini altoatesine, classe
1941, fece un dottorato con il professor Joseph Ratzinger a Ratisbona, sull’ecclesiologia di Hans Urs von Balthasar, ed è uno dei membri più
conosciuti del «Ratzinger Schülerkreis»: il gruppo di allievi di Benedetto
XVI, rimasti in contatto negli anni e impegnati nell’approfondimento e
nella divulgazione del suo pensiero. Fessio, fra i «ratzingeriani», si è
distinto per lo spirito imprenditoriale: ha fondato un College cattolico a
San Francisco e l’associazione liturgica «Adoremus», è stato tra i protagonisti della nascita dell’Ave Maria University, avvenieristica università
cattolica con sede in Florida, ma soprattutto è stato ed è tuttora il padre
della Ignatius Press, una delle più importanti case editrici del mondo cattolico di lingua inglese.
«Il lascito più ovvio di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI sono i suoi scritti, che stanno conoscendo una diffusione mondiale, anche quelli prima
del papato» dice Fessio al telefono dal suo ufficio di San Francisco, «poi
aggiungerei due momenti: il 12 settembre 2006, ovvero il discorso di
Ratisbona, che ha chiarito, tra le altre cose, alcuni principi in base ai quali
impostare il rapporto con l’islam; e il 7 luglio 2007, ovvero il motu proprio Summorum Pontificum, che ha aperto la strada a un recupero degli
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
elementi più validi del rito antico, per un rinnovamento liturgico, e che
penso avrà delle ricadute importanti nel futuro».
Fessio cita poi un contributo di Benedetto XVI che rischia di essere sottovalutato dagli osservatori europei: «Per gli Stati Uniti ha fatto una serie di
nomine episcopali che hanno veramente cambiato il paesaggio ecclesiale: vescovi solidi dottrinalmente, preparati culturalmente e con un grande
zelo apostolico». Fessio racconta di non essere potuto andare agli ultimi
due incontri a Castel Gandolfo del «Ratzinger Schülerkreis», ma di aver
un ricordo nitido del 2010: «In quell’occasione, nel seminario che si tenne il sabato mattino, mi sembrò per la prima volta di vedere Benedetto
XVI anziano e fragile. Non l’avevo mai visto prima così debole. Ma dopo
pranzo, dopo la siesta, è riapparso fresco e in forma e mi ha colpito.
Se in alcuni momenti in questi anni è quindi apparso affaticato, è stato
comunque sempre per un problema di età, una questione fisica, perché
psicologicamente non mi è mai sembrato oppresso dalla responsabilità
del suo ministero. Non l’ho mai visto perdere la sua proverbiale calma
anche se una volta mi hanno riferito che è accaduto e l’ho sempre trovato
tranquillo, con il suo fare da gentiluomo: incline all’ascolto, con il suo
eloquio lento e chiaro».
Per quanto riguarda le sue attese per il futuro, Fessio dice: «Negli anni
‘50, ‘60 e ‘70 abbiamo avuto dei veri giganti in teologia: von Balthasar, De Lubac, Bouyer, Ratzinger stesso. Poi abbiamo avuto due giganti
come Papi: Giovanni Paolo e Benedetto XVI. Durante il conclave del
2005 ero sicuro che Ratzinger sarebbe stato eletto, perché non c’erano
altre personalità alla sua altezza. Penso che oggi non abbiamo bisogno di
un altro gigante, ma di un buon pastore, che continui o porti a compimento quello che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno fatto, nel senso
di un rinnovamento della Chiesa seguendo il vero Concilio Vaticano II».
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Una semplice risposta
di Marina Corradi
F
orse nemmeno i pellegrini che domenica si sono ritrovati sotto la
finestra del Papa per ascoltare l’Angelus si immaginavano che sarebbero stati in tanti. E invece mentre già i fedeli di Roma avevano cominciato a colmare la piazza, dal fondo di via Conciliazione alle undici
e mezza arrivavano, stanchi da un viaggio iniziato all’alba, i lombardi, e
gente da più lontano. E a mezzogiorno dentro al colonnato affollatissimo
ci si guardava, fra noi, contenti, e con un sommesso stupore: non era,
leggendo i giornali, così prevedibile di essere in tanti, nella prima domenica dopo la rinuncia di Benedetto XVI. Molti media in questi giorni
traboccano di congetture, voci, e ombre di ipotetiche trame dietro alla
scelta del Papa, e quasi con compiacimento sembrano intravedere in quel
gesto il segno di un «declino» della Chiesa stessa. Ma il fatto è che la
Chiesa è anche, e prima di tutto, il suo popolo, il popolo di quanti credono in Cristo risorto; e questo universo, spesso scarsamente conosciuto e
raccontato, non sottostà al governo dei media, non segue la linea dettata,
magari, da “grandi firme”.
Così inaspettatamente una domenica di febbraio, sei giorni dopo un annuncio che pure ha sbalordito e addolorato, in san Pietro ci si ritrova in
una moltitudine. Senza troppi cartelli, con rare bandiere: zitti, in molti
con i bambini per mano, sotto a quella finestra, ad aspettare. E passa tra
la folla un giovane cronista di un quotidiano. Intervista un signore sui
cinquanta: “E Vatileaks? E, secondo lei, il Papa perché si è dimesso, davvero?”. Il cronista è gentile e insistente, ma l’intervistato non gli concede
proprio niente: “Di Vatileaks, risponde sereno, non me ne importa nulla,
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
io sono venuto per il Papa”. Già, noi siamo venuti per un Papa al quale
siamo grati di otto anni di un magistero luminoso e limpido, tanto quanto
sono spesso arruffate, sovrabbondanti e inutili le parole che sommergono
le nostre giornate. Siamo venuti dentro un affetto, e un bene tanto grande
che non vacilla nemmeno davanti a una rinuncia impensabile. Noi, semplici fedeli, non sappiamo, magari non capiamo affatto perché Benedetto
XVI lasci il soglio pontificio. Ma, certi come siamo del bene che vuole alla Chiesa, non dubitiamo. Poi, nelle parole di quest’uomo abbiamo
sentito l’altro giorno l’incrinatura della stanchezza e della vecchiaia: ed
è stato come quando, sentendo magari da lontano, al telefono, un padre
anziano, avvertiamo una nota che prima non c’era, e allora partiamo e
andiamo a trovarlo, a abbracciarlo di persona. E questo è esser figli; e
tanti figli assieme formano appunto il popolo che domenica si è ritrovato
in San Pietro.
Ma è la stessa umanità che sere fa ha gremito il Duomo di Milano nell’anniversario della morte di don Luigi Giussani, e con il cardinale Scola ha
pregato per il Papa. Era talmente pieno, il Duomo, che alcuni delle decine
di sacerdoti che davano la Comunione hanno dovuto spezzare le ostie
consacrate e darne a ciascuno un piccolo frammento, perché non erano
abbastanza. C’erano vecchi, e madri con i bambini, e tanti ragazzi giovanissimi: anche in Duomo, un popolo. Popolo senza bandiere né slogan da
gridare, gente che non rivendica, non accusa, non denuncia. Gente che si
sa profondamente “figlia”: di Cristo, e quindi anche del suo vicario terreno. E dunque, in un frangente di dolore, altro non fa, con semplicità, che
muoversi, e stringersi in un abbraccio. “Ma, e perché, veramente, questa
rinuncia? Ma, davvero, cosa c’è sotto?”, insistono i giornalisti, e li vedi
un po’ disorientati. Già, il popolo di San Pietro vive dentro a coordinate
diverse da quelle dettate dal pensiero dominante; dentro a una fiducia,
dentro a un orizzonte certo e buono, là dove i maîtres à penser indicano
solo un niente. E dunque questo popolo spiazza chi si ostina a cercare di
leggerlo solo con categorie sociologiche o politiche. Restano a mezz’aria
i microfoni protesi. “Vatileaks?”. “Non me ne importa niente, sono venuto perché voglio bene al Papa”.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
21 febbraio
Il Conclave all’orizzonte
Pietro è sempre con noi
Carlo Cardia
M
entre scorrono veloci questi giorni irripetibili per la vita della
Chiesa, che stiamo vivendo quasi condotti per mano da Benedetto
XVI, accompagnati dai suoi gesti e dalla sua parola, possiamo porci delle domande che ci aiutino a capire meglio il significato di un cammino
così nuovo, azzardarne un primissimo bilancio. Possiamo interrogarci sul
quel groviglio di sentimenti, sensazioni, reazioni, che si è formato e poi
esploso nell’animo di tanti di noi, romani vicinissimi al Papa, fedeli d’ogni parte del mondo, ma anche non praticanti e perfino agnostici e atei,
quando abbiamo appreso della rinuncia di Benedetto XVI quel mattino
dell’11 febbraio, che rimarrà come ricordo indelebile nella nostra mente.
E possiamo cercare di coglierne lo spessore, analizzarne le componenti,
distinguere la paura e l’incredulità, la sorpresa e l’amarezza, ma anche
l’immenso affetto che abbiamo provato subito, quasi istintivamente, per
il Papa, e ancora la percezione che stava avvenendo qualcosa di inedito
che interrogava la coscienza, chiedeva di riflettere, capire, magari (l’idea
è affiorata presto) di pregare per capire. Molti di quei pensieri e sentimenti che ci hanno investito in modo travolgente sono ancora vivi, non
sono evaporati in poche ore o giorni, ci accompagnano nei ragionamenti
che elaboriamo, nelle convinzioni che maturiamo. Essi hanno già fatto
emergere un elemento che non era scontato. La figura del Pontefice in
quanto tale, ma anche la figura di questo nostro Papa, Benedetto XVI, si è
talmente incarnata nella coscienza, nell’interiorità di ciascuno di noi, che
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
la consideriamo inamovibile, luogo di contatto fra il trascendente e l’umano, garanzia per l’ideale più grande di cui abbiamo bisogno per credere, sperare, guardare al futuro. Questo sottofondo della coscienza l’abbiamo potuto confrontare con amici e conoscenti, anche lontani (qualcuno
addirittura ostile) dalla Chiesa: questi ultimi hanno manifestato stupore
per l’evento dell’11 febbraio e hanno usato, forse per la prima volta, parole dolci per il Papa, si sono sentiti figli suoi, quasi sfiorati dal timore,
dalla paura dell’abbandono. Lo stupore che la rinuncia di Benedetto XVI
ha provocato conferma il valore ontologico che la cattedra di Pietro ha
per tutti gli uomini, cattolici, cristiani, di altre fedi e opinioni, un valore
universale a volte trascurato che ci parla dell’eco del magistero del Papa
nei confini della Chiesa e in ogni spazio esterno. Guardiamo un po’ più
dentro lo choc multiforme che abbiamo provato, che sentiamo ancora
vivo e forte, e che cominciamo a superare anche perché Benedetto XVI
è presente, ci parla, ci conforta, ci dice di pregare per lui e per il futuro
Papa. Questo suo insegnamento ha diradato le prime nubi che pensavamo si addensassero, interpretate da alcuni come timore e paura circa la
forza, la stabilità, dell’istituzione pontificia, della cattedra di Pietro. Ma il
Papa ci ha ripetuto che non ci abbandona, pregherà con la Chiesa e per la
Chiesa e ha chiesto di fare altrettanto per lui e il futuro pontefice. Queste
parole stanno scendendo nel nostro animo, provocano un rasserenamento, assicurano che non ci sarà alcun vulnus, o stravolgimento, che il successore di Pietro è con noi, e con nome diverso lo sarà di nuovo tra breve.
L’amarezza, invece, ha trovato compensazione in un altro sentimento che
per la verità a livello popolare è stato avvertito fortissimo sin dalla prima
ora: una profonda ammirazione per la forza, l’abnegazione, la sincerità
di un Papa che dichiara al mondo di non sentirsi più adeguato a sostenere il peso di quel ministero petrino che richiede sempre più energie per
sostenere le fatiche che il suo esercizio comporta. Quante volte abbiamo
sussurrato: chi gli ha dato la forza di compiere questo gesto, di dichiarare la sua inadeguatezza per l’età che avanza, di spiegarlo alla Chiesa
e all’umanità? Dal quel momento, e da quel sentimento di ammirazione,
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
abbiamo iniziato un cammino che ci ha portato a riconoscere che la scelta
del Papa era dettata da una grandezza interiore, che solo la fede poteva
spiegare, giustificare. Così, giorno dopo giorno (il processo non è compiuto), ora dopo ora, stiamo entrando in un orizzonte più ampio, in una
dimensione che dà nuova serenità, quella della fede che si intreccia con
la storia, e che rende chiare tante cose che resterebbero oscure se fossero
lasciate alle sensazioni superficiali. Siamo stati indotti, in questo modo,
a un esame di coscienza personale e collettivo, forse uno dei più intensi
dell’epoca moderna, che ci fa riflettere sulla presenza della Chiesa nella
storia, sulla garanzia che essa dà di agire e operare perché la parola di
Dio non si affievolisca, il messaggio del Vangelo continui a diffondersi,
e ciascuno di noi veda in essa il luogo e la sede della speranza di cui non
possiamo fare a meno. Stiamo così imparando ad amare più di prima la
nostra Chiesa, consapevoli che a questo traguardo ci sta conducendo Benedetto XVI con la sua scelta e il suo magistero.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Il canonista Fantappiè:
quando Pietro depone le chiavi
di Umberto Folena
D
alle ore 20 e un minuto del 28 febbraio, come dovremo chiamare
Benedetto XVI? Chi sarà? Non è un fatto puramente formale, quindi irrisorio. Al contrario il nome – l’appellativo – sarà gravido di sostanza
e di conseguenze. E in questa circostanza il diritto canonico si rivela materia tutt’altro che arida. «Semmai è uno degli strumenti per rinnovare la
Chiesa. Dirò di più: probabilmente, la separazione tra teologi e canonisti
avvenuta con il Concilio ha contribuito a tagliare le gambe al Concilio
stesso, impedendogli di dotarsi degli strumenti di attuazione adeguati per
camminare». Carlo Fantappiè ne è convinto e pazienza se qualcuno penserà che è «di parte», in quanto ordinario di Diritto canonico alla facoltà
di Giurisprudenza dell’Università Roma Tre. In questi giorni Fantappiè
ha avuto occasione di fare ricerche nella biblioteca della Pontificia Università Gregoriana, dove sta tenendo un corso da professore invitato. «E
ne ho approfittato per indagare sulla rinuncia di papa Ratzinger».
Che cosa ha scoperto? Di Celestino V è stato ormai detto tutto...
In effetti è l’unico esempio di vera rinuncia, almeno in parte analoga a
quella di Benedetto XVI. E Celestino V, prima di prendere la sua decisione, si consultò con un gruppo di canonisti. Da tempo l’impegno dei canonisti era stato diretto a sempre meglio definire la liceità della rinuncia.
Erano casi tanto frequenti?
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Nel XII secolo i canonisti si rifanno a dei precedenti allora ritenuti validi,
ma in realtà falsi, che vanno da Clemente I a Liberio, dal I al IV secolo.
L’unica “vera” rinuncia sembra quella di papa Ponziano (231-235), deportato nelle miniere sarde per ordine dell’imperatore; qui avrebbe abdicato per non lasciare la Chiesa senza pastore. Altri casi si segnalano tra
VII e XI secolo, con Martino I, Benedetto V e Giovanni XVIII, ma sono
parvenze di rinuncia o deposizioni. Poi ci sono le lotte per le investiture,
una storia complessa. Fino alla riforma di papa Gregorio VII, l’elezione
del Papa spettava al popolo romano e la competizione tra le famiglie patrizie era spietata, vere e proprie campagne elettorali con spese enormi.
Dal 1059 l’elezione viene affidata al collegio dei cardinali e da quel momento l’eventuale rinuncia dev’essere comunicata a loro, come ha fatto
Benedetto XVI.
Una vicenda terribilmente complessa. È possibile sintetizzarla?
Andiamo direttamente a Uguccione da Pisa, canonista. È lui, verso il
1190, a stabilire che i motivi leciti per la rinuncia sono tre: il desiderio di
ritirarsi a vita monastica, la vecchiaia, la malattia. A chiunque è permesso
rinunciare ma, attenzione, non senza aver valutato il bonum commune
ecclesiae: il Papa, con il suo gesto, non deve danneggiare nessuno e deve
tendere al bene della Chiesa universale.
Vengono in mente le parole di papa Ratzinger nel libro intervista di Seewald, del 2010...
Vengono in mente soprattutto le parole dette in latino al Concistoro:
Uguccione rimanda al “foro interno”, alla coscienza del Pontefice. Va
evitata una rinuncia irresponsabile che metterebbe il Papa nella condizione di peccare mortalmente. Già allora si pone il problema di discernere
il principio del diritto alla rinuncia dall’arbitrio della rinuncia medesima. Ciascun vescovo, consacrato a una Chiesa particolare, è come se
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
stipulasse un “matrimonio spirituale” con la Chiesa stessa, in un legame
indissolubile fino alla morte. Ma poi le cose cambiano...
Fine dell’indissolubilità del legame?
I canonisti del XIII secolo leggono la possibile rinuncia in un altro modo,
legandola alle prerogative del Pontefice stesso. Se il Papa può tutto, da
autentico monarca ha necessariamente anche il diritto di dimettersi, perché non ha limiti. La rinuncia va comunicata ai cardinali, ma non è necessario che sia da essi accolta. E non è finita...
Delle condizioni dovranno pur esserci...
Infatti. Per estensione, la rinuncia è valida in sei casi, che vanno dalla
prostrazione fisica alla demenza fino al grave scandalum. Si escludono
la codardia o la volontà di sottrarsi a una persecuzione incombente. E
arriviamo a Celestino V.
A quali cause si appella?
A più d’una. È il 13 dicembre 1294. Davanti al collegio cardinalizio,
Calestino V richiama queste motivazioni canoniche: inadeguatezza, debolezza fisica, defectus scientiae (scarsa cultura) e zelum melioris vitae
(desiderio di vita monastica). La comunicazione della rinuncia, allora, faceva cadere hic et nunc il Papa dall’ufficio; Ratzinger invece ha separato
le due cose. Il rituale è descritto da una fonte coeva, l’Historia anglicana
del monaco inglese Bartolomeo de Cotton. Un rito altamente simbolico:
«Discese dalla cattedra, prese la tiara dal capo e la pose per terra; e mantello anello e tutto se ne spogliò di fronte ai cardinali stupefatti, lasciò
la sala, tornò in camera, si vestì dell’abito del suo ordine monastico e si
sedette sull’ultimo gradino del trono papale». Come dire: ecco, mi sono
retrocesso.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
E oggi? Che cosa dice il diritto canonico?
Non è cambiato quasi nulla. Le formulazioni dei codici del 1917 e del
1983 sono molto semplici. La dottrina medievale e moderna aggiunge
che non è possibile un co-papato, il Papa che rinuncia non può tornare
cardinale se non con una nuova nomina, rinuncia a titoli e prerogative,
rimane vescovo ma senza una diocesi dove esercitare la sua giurisdizione, mantiene i poteri sacri. Paradossalmente, se volesse consacrare un
sacerdote, dovrebbe chiedere il permesso al vescovo della diocesi in cui
si trovasse.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
22 febbraio
Verso l’ultimo Angelus
E ancor si muove
di Davide Rondoni
E
ancora si muovono. In questi giorni accade come all’inizio. Il Vangelo e prima la Bibbia sono una storia di gente che si mette in movimento. Singoli, gruppi, tribù: gente che si mette in moto. Per seguire la
Grande Promessa nell’Antico Testamento. E per vedere quell’uomo che
diceva d’essere Dio nel Nuovo Testamento.
E ancora, c’è gente che si muove per stringersi intorno al Papa che lasciando il suo posto ha riportato ancora tutti a guardare Chi è il centro
della Chiesa. Si stanno muovendo verso Roma, si sono già visti arrivare
all’Angelus e poi al prossimo e poi arriveranno all’Udienza del Mercoledì. Si organizzano, si chiamano, si invitano. Dicono: si va. Dove? Dal
Papa. La fede, parafrasando un famoso romanzo, è una faccenda “on the
road”. Cioè è movimento. E non certo per uno stupido senso di partecipazione a una specie di evento mondano.
È un movimento diverso da quello che porta folle ad assistere a grandi
eventi. Qui si tratta di stringersi intorno a un uomo. A Joseph Ratzinger e
alla sua testimonianza sorprendente. Perché in questa sorpresa è balenato
anche solo per un istante il volto cercato da tutte le folle che si sono messe in moto nell’Antico e nel Nuovo Testamento.
Le folle che si sono mosse dall’Egitto e quelle che si sono mosse verso
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
il luogo della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Le folle che accompagnarono a Gerusalemme l’entrata dell’Arca portata dal re Davide e quelle
che cercavano il Nazareno che aveva resuscitato la figlia di Giairo.
Ancora il popolo dei fedeli si mette in moto.
Era già successo per la morte del suo predecessore, e ora accade per abbracciare Papa Benedetto in questa sua specie di “morte” al mondo. E in
entrambi i casi si tratta di folle che si sono mosse per cercare la vita e non
la morte. Per dire: siamo con te e con chi la tua vita ci mostra vivo. Nelle
parrocchie e tra amici si organizzano i pullman. Si cerca come fare. Si
vede chi vuole venire. E chi non potrà muoversi si organizza per creare
momenti presso la sua chiesa, o la sede del proprio movimento o associazione.
In questo spontaneo e fervido mettersi in moto c’è ribadita una delle
grandi caratteristiche di una fede viva. Non si tratta di un discorso, ma di
riconoscere una presenza. E di andarvi incontro. La fede, insomma, non
consiste in una serie di considerazioni più o meno esatte che ciascuno di
noi può svolgere sulla vita la morte e neppure su Dio o su tutti i santi del
calendario. Ma è un mettersi in moto. Un commuoversi, un convergere
e convertire i passi verso un punto che si riconosce decisivo per il significato della propria esistenza. Per questo i cristiani fanno i pellegrinaggi.
Non si tratta solo della sempre presente e antichissima consuetudine degli uomini di ogni epoca e cultura a compiere dei “cammini” purificatori,
o dei percorsi al termine dei quali offrire un sacrificio o un compiere un
gesto salvifico. No, qui si tratta di un convergere verso qualcuno, andare
all’appuntamento con un vivente. Andare a vedere ancora, come accadde
ai primi due discepoli che seguirono Gesù al Giordano dopo lo strano
grido di Giovanni Battista, dove Lui abita.
Il movimento, il cammino, il mettersi in moto di questi giorni è una testi-
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
monianza della natura del cristianesimo. Non un bel moto spontaneo di
gente facile a commuoversi. Non un tributo alla personalità. E riaccade
ogni volta che nella storia accade una testimonianza autentica. Può capitare ovunque, e la geografia viva della fede cristiana è proprio questo
segno di movimenti, di gente che si riferisce a luoghi e persone, che si
raduna intorno a punti vivi di testimonianza e di richiamo. Accade anche
a Roma, in queste ore in modo così straordinario, nella sede di Pietro.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Giussani-Ratzinger, trent’anni
di amicizia
di Giorgio Paolucci
O
tto anni fa, il 22 febbraio del 2005, moriva don Luigi Giussani. Due
giorni dopo, nel Duomo di Milano gremito di folla, il cardinale
Ratzinger – che Giovanni Paolo II, gravemente malato, aveva inviato
come suo delegato personale – lo ricordava in un’omelia pronunciata a
braccio dalla quale traspare l’amicizia che li legava e la stima per il fondatore di Comunione e liberazione. «Don Giussani era cresciuto in una
casa - come disse lui stesso - povera di pane, ma ricca di musica; e così,
sin dall’inizio era toccato, anzi ferito, dal desiderio della bellezza; non si
accontentava di una bellezza qualunque, di una bellezza banale; cercava
la Bellezza stessa, la Bellezza infinita; così ha trovato Cristo, in Cristo la
vera bellezza, la strada della vita, la vera gioia». Non sono frasi di circostanza, quelle pronunciate dal decano del collegio cardinalizio, ma parole
che denotano la stima e la profonda conoscenza del carisma del sacerdote
lombardo: «Sempre ha tenuto fermo lo sguardo della sua vita e del suo
cuore verso Cristo. Ha capito in questo modo che il cristianesimo non è
un sistema intellettuale, un pacchetto di dogmi, un moralismo, ma che il
cristianesimo è un incontro, una storia d’amore; è un avvenimento».
È stato un rapporto intenso, quello tra Ratzinger e Giussani, un’amicizia
umana e intellettuale che si è dipanata per più di trent’anni. Gli inizi
risalgono agli anni Settanta. Il loro incontro è tra i fattori che portano
a un’iniziativa che lascerà un segno importante nel dibattito teologico
post-conciliare: la rivista internazionale Communio, alla fondazione della quale partecipano tra gli altri Von Balthasar e De Lubac. Negli anni
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Ottanta sono numerosi gli incontri che si tengono a Roma, come ha raccontato in più di un’occasione monsignor Massimo Camisasca, oggi vescovo di Reggio Emilia e all’epoca uno dei più stretti collaboratori di
Giussani: «Per iniziativa di don Angelo Scola e in mia presenza, Giussani veniva una o due volte all’anno a Roma per cenare con il cardinale
Ratzinger. L’appuntamento era alle Cappellette di San Luigi, vicino alla
basilica di Santa Maria Maggiore, si svolgeva sempre allo stesso modo:
Giussani chiedeva a Ratzinger conferma dell’ortodossia delle proprie
posizioni e riceveva da lui sempre nuove ragioni, che ne sostenevano la
verità e la fecondità». Di questi incontri rimane traccia anche nel libro
Dal temperamento un metodo, che raccoglie le conversazioni del sacerdote con alcuni gruppi di Memores Domini, i laici consacrati di Cl. In
una di queste, Giussani ricorda: «Il cardinale Ratzinger, tre sere fa, a cena
con don Massimo , ci diceva che ciò che lo fa sentire più legato a noi è
la concezione del cristianesimo come avvenimento hic et nunc, come
avvenimento qui ed ora».
Nel 1986 il cardinale, su invito del fondatore di Cl, predica gli esercizi
spirituali per i sacerdoti del movimento a Collevalenza, successivamente
raccolti e pubblicati dall’editrice Jaca Book nel libro Guardare Cristo.
Esercizi di fede, speranza e carità.
Nel 1993 Ratzinger firma la prefazione del volume Un avvenimento di
vita, cioè una storia, che raccoglie conversazioni e interviste rilasciate nel
corso di 15 anni, e sottolinea la necessità indicata da Giussani di passare
dall’utopia post-sessantottina a un’altra parola-guida: presenza. «Il cristianesimo è presenza, il qui ed ora del Signore, che ci sospinge nel qui ed
ora della fede. E così diventa chiara la vera alternativa: il cristianesimo
non è teoria né moralismo, né ritualismo, bensì avvenimento, incontro
con una presenza, con un Dio che è entrato nella storia e che continuamente vi entra».
Nel 1994 viene pubblicato un testo fondamentale di Giussani, Il senso di
Dio e l’uomo moderno (che la Rizzoli ha rimandato in libreria il mese
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scorso). Nella prefazione, il cardinale lo definisce un libro «che dovrebbe
essere letto anche da coloro che accolgono con scetticismo l’annuncio
della fede cristiana. (…) Giussani ci mostra come nelle semplici esperienze fondamentali di ogni uomo sia contenuta la ricerca di Dio, che
continua a rimanere presente anche nell’ateismo. (…) Con questo piccolo libro ho capito ancora una volta e in modo nuovo perché monsignor
Giussani è potuto diventare maestro di un’intera generazione e padre di
un vivace movimento».
Due anni dopo la morte del “Gius”, il 24 marzo 2007 – davanti a 100mila
ciellini convenuti in piazza San Pietro da 53 Paesi per il venticinquesimo
anniversario del riconoscimento pontificio della Fraternità di Cl – Benedetto XVI comincia così il suo discorso: «Il mio primo pensiero va al
vostro fondatore, Luigi Giussani, al quale mi legano tanti ricordi, e che
mi era diventato un vero amico».
La testimonianza più recente risale a pochi giorni fa, quando il Papa riceve in udienza i partecipanti all’assemblea generale della Fraternità
San Carlo, accompagnati dal nuovo superiore don Paolo Sottopietra, dal
predecessore monsignor Camisasca, neo-vescovo di Reggio Emilia, e dal
presidente della Fraternità di Cl, don Julian Carron. Parlando a braccio,
rievoca gli incontri avvenuti lungo gli anni: «Mi ricordo bene delle mie
visite accanto a Santa Maria Maggiore, dove ho conosciuto personalmente don Giussani, ho conosciuto la sua fede, la sua gioia, la sua forze
e la ricchezza delle sue idee, la creatività della fede. È cresciuta una vera
amicizia, così, tramite lui, ho conosciuto anche meglio la comunità di
Comunione e liberazione».
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
23 febbraio
Sotto la finestra di Benedetto
Un pianto di bimbo, e la speranza
Gentile direttore,
ieri sera stavo per far addormentare il mio bambino, Francesco, sei anni
da poco compiuti. Prima di augurargli la buona notte, volevo però ancora
raccontargli che cosa avevo organizzato per lui e per me per il prossimo
mercoledì 27 febbraio: saremmo andati a Roma in aereo con gli amici
del Gam, Gioventù Ardente Mariana, di Torino (Francesco è un piccolo
“bucaneve” del movimento)per salutare il Santo Padre in occasione della Sua ultima Udienza generale del mercoledì. Era già da qualche mese
che il mio bambino mi chiedeva di fare un viaggio con me in aereo ed
ero sicura avrebbe accolto con entusiasmo la notizia di andare a Roma
per il Papa. Mentre mi accingevo a raccontare tutto questo a Francesco,
mi sono resa conto che non gli avevo ancora parlato della decisione del
Santo Padre di lasciare il Pontificato (la settimana prima infatti ero stata
via per lavoro e poi, a dire il vero, avevo parlato con tante persone della
decisione del Papa, ma davvero non avevo pensato di condividerla con il
mio bambino). Esordisco quindi dicendo a Francesco: «Sai Francesco il
Papa a motivo della sua età e della sua salute ha deciso che lascerà il Pontificato». Ed ecco, avrei voluto dirgli che quindi saremmo andati a Roma
per salutarlo ma Francesco, dopo aver rivolto gli occhi in alto,così come
fanno i bambini quando pensano a qualcosa di veramente importante, mi
domanda: «Mamma ma dove abiterà?», «Vicino a dove abita adesso», gli
rispondo. E ancora mi domanda: «Ma si affaccerà ancora da quella torre
per far volare la colomba?», «Solo più una volta, Francesco». E quindi:
«Mamma, ma dopo sarà ancora Papa?». «Non più, Francesco», gli rispondo. A qual punto, dopo qualche interminabile secondo di silenzio in
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
cui non osavo più dire nulla, neanche continuare a raccontargli del nostro
viaggio organizzato, Francesco incomincia a singhiozzare e poi a piangere e non si ferma più, si interrompe solo per dire, non a me, ma come
se volesse parlare con il cuore direttamente al Papa: «Io non voglio che
vada via, voglio il mio Papa, lui è il mio Papa, non può andarsene». Lo
guardavo incredula, io volevo proporre a Francesco un viaggio in aereo
e invece lui piangeva per il Papa. Ho “invidiato” (per come una mamma
può invidiare il proprio bambino) quel dolore autentico, la sua fede; e
così, cercando di riprendermi per consolarlo sono solo riuscita a dirgli:
«Francesco, lo Spirito Santo ci manderà un altro Papa che ci starà vicino». Ma lui, fermo come solo i bambini sanno essere nelle loro posizioni,
mi risponde singhiozzando: «Ma io non voglio un altro Papa, io voglio
solo lui e se lui va via, io questa notte rimarrò sveglio tutta la notte». Non
avevo altre parole, sono rimasta in silenzio e ho stretto Francesco a me
che di li a poco si è addormentato.
Paola Gheddo, Torino
Risponde Marco Tarquinio
Grazie per questo racconto vero, fresco e bello, cara signora Paola. Siamo stati tutti un po’ Francesco in questi giorni: scossi e commossi dalla
decisione di Papa Benedetto. E continuiamo a perdere e a trovare le parole, ma non la speranza e la fede. Che, interrogate, si fanno più profonde
e, sì, scomode. Come le domande, come un pianto di bimbo. Sono sicuro
che lei troverà altre parole giuste per Francesco. E così lui, poco a poco,
capirà sempre meglio che il Papa è uno, che c’è sempre, che non «se ne
va via». Capirà che il Papa è colui che Gesù ha fatto «pietra» che sostiene
la casa. Per questo lo amiamo tanto, per questo – proprio come figli – lo
cerchiamo anche con uno sguardo e un ascolto da lontano, nella gioia
e nel dolore. Per questo soffriamo quando ci viene a mancare, e siamo
felici quando torna a parlarci e a confermarci nella fede. Stavolta speri-
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
mentiamo un distacco “nuovo”. Perché, dopo la rinuncia al Pontificato,
Benedetto XVI continuerà a stare accanto a ognuno di noi nella preghiera
“nascosta” al mondo. Perché il nuovo Papa, che ci sarà presto dato, che
ameremo subito come nostro Padre Santo, continuerà a guidare la Chiesa
nel cammino segnato da Colui che è Via, Verità e Vita.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Profeta di misericordia
di Marco Pozza
Lo ricorderanno come profeta amabile di una misericordia che non cancella la giustizia. E di una giustizia che non corra il rischio di trasformarsi
in vendetta. Perché, illuminato dal mistero di Gesù di Nazaret, l’uomo
rimane ancor oggi l’unica scommessa sensata e da vincere. Una mattina
di dicembre l’hanno visto varcare la soglia del carcere di Rebibbia, ma
è come se simbolicamente avesse varcato la soglia di ogni loro cella per
stringere la mano e porgere loro un frammento della speranza cristiana,
quella che, attendendo il tempo futuro, è capace di riorganizzare il tempo
presente. La semplicità umana di quel gesto ha reso Benedetto XVI familiare e amico al mondo che abita dietro le sbarre delle galere, laddove
spesso la colpa è terreno fertile e occasione di grazia per inaspettate risurrezioni. Nel carcere di Padova ieri hanno voluto celebrare messa per
lui, per questo Papa che sovente è stato voce e sorriso di chi non ha più
voce e ha smarrito la voglia di sorridere. Un grazie «a modo loro», scritto
e firmato da uomini col passaporto di ferro e cemento, che hanno in una
cella il punto di osservazione sul mondo.
Questi reclusi non per scelta, ma per scelte sbagliate, riescono a cogliere
il pudore quasi monastico del volto di Benedetto Xvi, quasi disturbato dal
frastuono disordinato del mondo d’oggi. E lo stile sobrio ed essenziale di
un uomo che ha messo al centro del suo pontificato, e del suo pensiero,
il racconto della storia della salvezza, così, quasi confidando a persone
disperate e senza più patria civile e morale che nel Vangelo c’è ancora e
sempre la bussola che aiuta a non vagare a vuoto nelle strade del mondo.
Nel presentare il suo primo volume della storia di Gesù, Benedetto XVI
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
chiese un «anticipo di simpatia» senza la quale non ci può essere vera
comprensione. Lo chiedeva per il suo lavoro e, forse, lo chiedeva pure
per il suo pontificato. E, ancor di più, per leggere pagine di storia di
complessa trama e di difficile interpretazione, dove i fili del bene s’intrecciano con i fili del male. E di comprensione profonda c’è bisogno
qui, perché nell’alfabeto delle galere non esiste la cultura del perdente,
ma solo l’esaltazione del vincitore (e non è molto diverso là fuori, perché
anche la storia degli uomini “liberi” viene scritta dai vincitori). Forse per
questo, a stregarli più ancora delle sue parole è stata la profondità dell’ultimo gesto, l’umiltà di tirarsi in disparte con quell’amabilità che è il tratto
caratterizzante della sua persona. Quel suo raccontare la vecchiaia, l’esperienza della fatica e del limite è stata un’altissima lezione di umanità
per questi uomini che, a loro modo, si sono messi “al posto di Dio”.
Ci sono parole e incontri che cambiano la storia dell’uomo: di questi,
sovente, ci rendiamo conto molto tempo dopo. Anche nel Vangelo è la
luce della Risurrezione a permettere agli apostoli di comprendere la loro
storia passata. Il magistero di questo Papa ci ha fatto comprendere meglio
il segreto più bello, quello che accende e tiene in vita ogni vera speranza:
c’è un’intelligenza buona dentro il grembo di ogni cosa, c’è una luce
possibile dentro ogni vicenda. Per coglierla, o semplicemente intuirla,
è necessario però sempre un «anticipo di simpatia». Perché l’uomo, in
qualsiasi caos abiti, è prima di tutto una creatura che comincia e ricomincia per amore, anche quando meno se lo meriterebbe (e, anzi, è allora che
ne ha più bisogno).
A Benedetto XVI un grazie che si fa preghiera. Preghiera che in queste
ore sale anche dal ventre delle galere: per essere stato voce dell’Eterno
tra questi ultimi, aiutandoli a immaginare la bellezza e la vera giustizia
del Giudizio finale, ad aggrapparsi a all’accoglienza amica di colui che
è stato carcerato. Un grazie a un Papa al quale dietro le sbarre più d’uno
ha aggiunto, come povero dono, un accento. Perché l’ha sentito Papà, per
davvero.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
24 febbraio
“Pregherò per l’Italia”
L’incontro con Napolitano
di Mimmo Muolo
«P
regherò per l’Italia». A un Giorgio Napolitano particolarmente
commosso Benedetto XVI consegna questa promessa che è più
di una certezza. Anche dopo il 28 febbraio il Papa continuerà a sostenere
spiritualmente la nazione nella quale (dopo la Germania) ha trascorso il
maggior numero di anni della sua vita. E le preghiere, deve aver pensato
il presidente della Repubblica, sono particolarmente gradite. Specie «in
questi giorni e in questo tempo di scelte impegnative», come afferma un
comunicato diffuso dalla Sala Stampa al termine dell’udienza privata di
ieri in Vaticano.
La mezz’ora di colloquio è stata segnata da grande affetto reciproco e
dalla commozione che ha preso anche la signora Clio, pure in questa occasione al fianco di suo marito, e che ha suggellato un rapporto all’inizio
solo istituzionale – tra il Papa e il presidente – poi via via evolutosi in
amicizia anche personale, come testimonia ad esempio la foto del 4 febbraio scorso (penultimo incontro tra i due) con il Pontefice che appoggia
la mano sulla spalla del capo dello Stato italiano, in un gesto sicuramente
non protocollare.
Sulla stessa linea l’atmosfera di ieri. «Signor presidente, ha trovato il
tempo di venire a salutarmi», ha detto il Papa, ricevendo il suo ospite.
«No, è lei che mi ha dato l’opportunità di rivederla», ha risposto Napolitano, aggiungendo: «So che sono giorni difficili». Uno scambio di
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
battute che ha introdotto quello che il portavoce vaticano, padre Federico
Lombardi, ha definito «un bel momento» e che è stato «particolarmente
intenso e cordiale, data la grande stima reciproca e la ormai lunga familiarità dei due illustri interlocutori», come ha confermato la nota distribuita dalla Sala stampa vaticana a fine mattinata.
«Il presidente Napolitano - prosegue il comunicato - ha manifestato al
Papa non solo la gratitudine del popolo italiano per la sua vicinanza in
tanti momenti cruciali e per il suo altissimo magistero religioso e morale, ma anche l’affetto con cui esso continuerà ad accompagnarlo nei
prossimi anni». E il Papa «ha ancora una volta espresso al presidente e
alla signora la gratitudine per la loro amicizia e i migliori auspici per il
bene dell’Italia, in particolare in questi giorni e in questo tempo di scelte
impegnative».
Da parte sua il sito internet del Quirinale sottolinea: «Il colloquio ha
offerto una nuova occasione di dialogo sulle grandi questioni dell’Italia e del mondo. Il Pontefice ha mostrato interesse per i risultati della
recente visita del presidente Napolitano negli Usa e curiosità e piacere
per il prossimo viaggio del capo dello Stato in Germania che comincerà
proprio da Monaco», la città dove Joseph Ratzinger è stato vescovo. «Il
ricordo umano dei tanti momenti di incontro con il Pontefice nel corso
del settennato del presidente Napolitano – aggiunge la nota – si è intrecciato con la riflessione su momenti istituzionali particolarmente significativi come quelli in occasione del 150° dell’Unità d’Italia». Anche il
Quirinale mette l’accento sulla dimensione umana dell’incontro, «segnato dalla forte emozione per la “straordinaria dimensione e novità” della
scelta compiuta dal Pontefice».Insieme al suo affetto il capo dello Stato
ha portato in dono al Papa una prima edizione definitiva dei Promessi
Sposi, datata 1840, ricevendo dal Pontefice una stampa della Basilica in
costruzione. Era stato lo stesso Napolitano a chiedere l’incontro. Come
del resto aveva fatto il presidente del Consiglio, Mario Monti, ricevuto
sabato 16 febbraio.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Tra il Papa e Napolitano
sintonia anche musicale
di Marco Roncalli
È
l’ultimo presidente della Repubblica che Benedetto XVI vedrà
nell’arco del suo pontificato. L’incontro di ieri mattina tra il Pontefice, in procinto di rinunciare al ministero petrino e Giorgio Napolitano, vicino al compimento del suo settennato presidenziale, segna un
momento di grande rilievo. Una sorta di conferma simbolica e visibile
della profondità del rapporto tra la Chiesa cattolica e la nazione italiana.
Ricordi umani e istituzionali costituiscono l’ideale “quinta” al dialogo
che, iniziato quasi sette anni fa, è proseguito – nella totale estraneità ad
atteggiamenti di contesa – nel segno di una sintonia di valutazioni, specie
sui grandi temi internazionali come la pace e gli equilibri geopolitici, ma
anche il dibattito sulla laicità e l’identità dell’Europa. Tutto questo nella
comune consapevolezza di dover governare realtà complesse, in un periodo di crisi difficili, ma verso il traguardo del bene comune, senza voler
dimenticare, beninteso, la distinzione tra sfera religiosa e civile, come
pure la grande differenza di responsabilità tra l’essere alla guida della
Chiesa universale o al vertice delle nostre istituzioni repubblicane.
Era il 20 novembre 2006 quando Giorgio Napolitano, neoeletto presidente, fece la sua prima visita a Benedetto XVI che, dopo la sua elezione a
Pontefice il 19 aprile 2005, aveva già incontrato due volte il presidente
Carlo Azeglio Ciampi (in Vaticano il 3 maggio e al Quirinale il 24 giugno). L’incontro in Vaticano di Napolitano con Ratzinger segnava anche
la prima visita ufficiale al Papa da parte del primo Capo di Stato proveniente dalla storia del Partito comunista italiano. Da allora un crescen-
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
do di incontri e messaggi fra le due sponde del Tevere, registrati dalle
agende ufficiali, ai quali aggiungere, oltre ad almeno un appuntamento
vanamente destinato a restare segreto, le telefonate, gli auguri, le dichiarazioni cordiali in diverse ricorrenze, specie al rientro dai viaggi apostolici. Né sorprende – insieme a questi incontri – la ricchezza dell’elemento
unitivo musicale, dono reciproco quasi ad esprimere il senso della vita e
il richiamo alla trascendenza. Così, ad esempio, nell’aprile 2008 il presidente della Repubblica offrì un concerto a papa Ratzinger per il terzo anniversario del suo Pontificato e nello stesso anno il Papa, il 4 ottobre, salì
al Quirinale, mentre il 10 dicembre entrò nell’Aula Paolo VI in Vaticano
insieme a Napolitano per il concerto dei sessant’anni della Dichiarazione
dei diritti umani. Cinque gli incontri a margine dei concerti – omaggi
augurali per gli anniversari dell’elezione al Soglio pontificio – seguitisi
ogni anno nelle scorse primavere sino al maggio 2012, ai quali aggiungere quello di Daniel Barenboim a Castel Gandolfo l’11 luglio scorso,
seguito da una cena nella residenza papale, e quello del 4 di questo mese
per l’ottantaquattresimo anniversario dei Patti Lateranensi. Richiamata la
circostanza, in quest’occasione, Napolitano affermò: «...Altro, e ben di
più, mi dice la memoria dei nostri incontri e colloqui, in molteplici occasioni, nel corso di questi sette difficili anni, difficili non solo per il mio
Paese in un mondo sempre più interdipendente. Molto mi dice la memoria del nostro reciproco ascoltarci. Molto mi ha arricchito il dialogo che
abbiamo potuto intrattenere: sull’Italia, sull’Europa, sulla pace e sulla
stessa politica intesa come dimensione essenziale dell’agire umano, sulle
radici ideali e morali dell’impegno politico». Pochi giorni dopo l’inattesa
decisione della rinuncia del Pontefice, l’ha commentata come «un gesto
di straordinario coraggio e di straordinario senso di responsabilità».
Oggi, voluto da Benedetto XVI, il commiato fra due uomini legati da affinità umane e reciproco rispetto. Sfilano come in un album fotografico le
sequenze di importanti incontri fra i predecessori dell’uno e dell’altro in
Vaticano o al Quirinale: quelli già ricordati di Ciampi con papa Ratzinger
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
e il coetaneo Giovanni Paolo II, che incontrò anche Scalfaro, Cossiga,
Pertini, quelli di Leone e di Saragat con Paolo VI, quelli di Gronchi e
Segni con Giovanni XXIII. Proprio il Papa del Concilio, l’11 maggio
1963, gravemente malato, salito al Quirinale per il Premio Balzan per la
pace, salutò Antonio Segni, con queste parole – appena sussurrate – indicando al presidente la duplice destinazione del suo abbraccio: «A lei e
all’Italia».
Allora come oggi il saluto del Papa è stato per Napolitano, ma anche per
quell’Italia, da lui rappresentata, fatta di credenti e di non credenti, eredi
di quanti si sono impegnati prima nell’evento fondativo dello Stato unitario, poi nella carta costituzionale, che continuano a lavorare per la vera
democrazia. Italiani che bene sanno quanto comunità politica e Chiesa
siano indipendenti e autonome l’una dall’altra nel proprio campo, eppure
chiamate, anche se a titolo diverso, a servizio della vocazione personale
e sociale delle stesse persone umane (Gaudium et spes, 76), in una parola alla reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene
comune.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
La libertà dei cardinali
per il bene della Chiesa
di Gianni Cardinale
L
a Santa Sede ha lanciato sabato 23 febbraio un severo richiamo contro ogni tentativo di condizionare dall’esterno, con pressioni mediatiche, il libero discernimento dei cardinali nell’eleggere il Papa. Lo
ha fatto con un comunicato della segreteria di Stato emanato dalla Sala
Stampa e pubblicato in prima pagina dall’Osservatore Romano. «La libertà del collegio cardinalizio, al quale spetta di provvedere, a norma del
diritto, all’elezione del Romano Pontefice, – ribadisce la nota – è sempre
stata strenuamente difesa dalla Santa Sede, quale garanzia di una scelta
che fosse basata su valutazioni rivolte unicamente al bene della Chiesa».
«Nel corso dei secoli – rammenta il comunicato – i cardinali hanno dovuto far fronte a molteplici forme di pressione, esercitate sui singoli elettori
e sullo stesso collegio, che avevano come fine quello di condizionarne le
decisioni, piegandole a logiche di tipo politico o mondano». In passato
– ricorda la segreteria di Stato – «sono state le cosiddette potenze, cioè
gli Stati, a cercare di far valere il proprio condizionamento nell’elezione
del Papa». Il pensiero corre a centodieci anni fa, quando si verificò l’ultimo clamoroso veto opposto da una potenza cattolica, quello dell’impero
asburgico – tramite il cardinale di Cracovia Jan Puzyna – contro il cardinale Mariano Rampolla del Tindaro nel Conclave del 1903 che elesse
san Pio X. Ma adesso a preoccupare le autorità vaticane è un altro tipo di
interferenza, più sottile ma non meno invadente. Infatti «oggi – sottolinea
la nota – si tenta di mettere in gioco il peso dell’opinione pubblica, spesso
sulla base di valutazioni che non colgono l’aspetto tipicamente spirituale
del momento che la Chiesa sta vivendo». Ecco così l’affondo della se-
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
greteria di Stato contro un certo modo di interpretare la deontologia giornalistica. «È deplorevole – commenta duramente il comunicato – che,
con l’approssimarsi del tempo in cui avrà inizio il conclave e i cardinali
elettori saranno tenuti, in coscienza e davanti a Dio, ad esprimere in piena
libertà la propria scelta, si moltiplichi la diffusione di notizie spesso non
verificate, o non verificabili, o addirittura false, anche con grave danno
di persone e istituzioni». La nota non fa riferimenti specifici ma la sua
pubblicazione avviene dopo improprie pressioni sul cardinale Roger Mahony affinché non partecipi al conclave, dopo alcuni articoli scandalistici
di una importante testata italiana che ha avuto un’ampia circolazione sulla stampa internazionale, e dopo interpretazioni forzate e «sconcertanti»
riguardo ad alcune nomine di questi ultimi giorni. La nota della segreteria
di Stato è rivolta a tutti, ma l’ultimo paragrafo è dedicato particolarmente
a chi appartiene alla Chiesa. «Mai come in questi momenti – si legge nel
finale del comunicato – i cattolici si concentrano su ciò che è essenziale:
pregano per papa Benedetto, pregano affinché lo Spirito Santo illumini
il collegio dei cardinali, pregano per il futuro pontefice, fiduciosi che le
sorti della barca di Pietro sono nelle mani di Dio».
Sul modo con cui certa stampa sta seguendo gli ultimi eventi vaticani è
intervenuto ieri anche il direttore della Sala Stampa vaticana padre Federico Lombardi, che ha criticato «chi cerca di approfittare del momento di
sorpresa e di disorientamento degli spiriti deboli per seminare confusione
e gettare discredito sulla Chiesa e sul suo governo, ricorrendo a strumenti
antichi – come la maldicenza, la disinformazione, talvolta la stessa calunnia – o esercitando pressioni inaccettabili per condizionare l’esercizio
del dovere di voto da parte dell’uno o dell’altro membro del collegio dei
cardinali, ritenuto sgradito per una ragione o per l’altra».
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Quell’oscurità e la mano che ci salva
di Marina Corradi
«N
otizie spesso non verificate, o non verificabili, o addirittura false». Il comunicato della Segretaria di Stato vaticana non usa giri
di parole. Nel momento in cui i cardinali si preparano a scegliere un Pontefice in coscienza e libertà, è in atto, si afferma, un tentativo di influenzare questa scelta. Un tempo erano i re e gli imperatori, che cercavano di
piegare a logiche politiche o mondane l’elezione di un Papa. Oggi quella
pressione è nelle parole, nei titoli, nelle suggestioni «non verificate o non
verificabili o false», che mirano a condizionare l’opinione pubblica. L’ultimo impera-tore che preme sulle porte del Conclave è un “media system”
in parte incline ad attingere alla rinuncia di Benedetto XVI per disegnare
scenari cupi dove ambizioni e gelosie e peccati degli uomini di Chiesa si
mescolano, in foschi grovigli alla Dan Brown. Dove però tutto è un “si
dice”, un “si sussurra”, e le fonti, naturalmente, rigorosamente anonime.
Una legge di vecchio giornalismo vorrebbe che con le fonti anonime si
andasse cauti, ma è norma evidentemente obsoleta, in un’informazione che sembra invidiare alla fiction la libertà di una voluttuosa fantasia,
e pare ormai convinta che oggigiorno, con la nuda e rigorosa cronaca,
mica si vendono, i giornali. Se si scrivesse di uno Stato straniero o di una
multinazionale si sarebbe forse più prudenti, ma parlando di Chiesa non
ci si aspettano querele. Il bersaglio quindi è grande, e inerme. Così non
pochi di noi credenti in questi giorni abbiamo addosso, oltre all’addio di
Benedetto XVI, questa nuvola oscura dei si dice, dei si sussurra, questo
ribollire di sospetti e maldicenze a cui pure forse si mescola del vero: ma
nessuno sa dire esattamente quanto, e cosa, e chi. (La macchina del fango
poi, questo lo si sa bene, anche quando si ferma non lascia niente uguale
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
a prima). Come si affronta il fango, quando tocca qualcosa che per noi è
fondante e caro? Nel ringraziamento alla Curia romana dopo gli esercizi
spirituali il Papa sembra aver voluto parlare proprio a noi, ai confusi, agli
smarriti. Là dove dice che la bellezza del Creato, di cui Dio al sesto giorno si compiace, è «permanentemente contraddetta, in questo mondo, dal
male, dalla sofferenza, dalla corruzione. E sembra quasi che il maligno
voglia permanentemente sporcare la creazione, per contraddire Dio e per
rendere irriconoscibile la sua verità e la sua bellezza». Qualche collega
magari leggerà in questa parole un’ulteriore prova della “sporcizia” del
Vaticano. A noi invece sembra che qui il Papa parli proprio dell’uomo. Di
tutti, di giornalisti e di lettori, di religiosi, sacerdoti e porporati, e laici e
non credenti, e anche di chi, a turno nella storia, si alza a dichiarare fiero
le sue “mani pulite”. Dal male di cui parla Benedetto nessuno è salvo,
in quanto uomo, e quindi toccato da una radice antica. Allora, dobbiamo
disperare? No, dice il Papa. In un mondo pure così marcato dal male Dio
si è fatto, in Cristo, «caput cruentatum», capo insanguinato dalle spine,
sulla Croce. E forse molti oggi non capiscono più nemmeno cosa sia, la
Croce e la morte di Cristo, né la Risurrezione, e credono che gli uomini
possano salvarsi da soli, con la propria capacità, intelligenza, onestà. No,
dice il Papa: solo Cristo basta a liberarci dal nostro profondo, radicale,
comune male. E qualcuno oggi, chissà, titolerà sul Male che s’insinua
nei palazzi vaticani. Noi però teniamoci caro ciò che dice Benedetto:
«Credere non è altro che, nell’oscurità del mondo, toccare la mano di
Dio e così, nel silenzio, ascoltare la Parola». L’oscurità del mondo c’è, ed
è densa, caligine di nebbia che nasconde e dispera; e però lascia sempre
uno spiraglio, per chi stia teso e attento, in cui si scorge il Logos, che è
Ragione ma, anche, ha ricordato il Papa, Bellezza. Quale bellezza? Quella bellezza che riconosciamo negli occhi dei nostri figli bambini, o in
un cielo, o nel creato; e ci fermiamo un istante allora, meravigliati, zitti.
Come credendo di avere scorto, per un momento, nel mondo, la traccia
di un’altra mano.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
26 febbraio
“Sul monte della preghiera”
Sempre insieme
di Salvatore Mazza
È
il tempo del congedo. Perché «oggi il Signore mi chiama a “salire
sul monte”, a dedicarmi ancora di più alla preghiera e alla meditazione». Una chiamata precisa, che tuttavia «non significa abbandonare la
Chiesa», ma, anzi, il contrario, perché «se Dio mi chiede questo è proprio
perché io possa continuare a servirla con la stessa dedizione e lo stesso
amore con cui l’ho fatto fino ad ora, ma in un modo più adatto alla mia
età e alle mie forze». Per l’ultima volta prima dell’annunciata rinuncia al
ministero petrino, che scatterà il prossimo 28 febbraio alle 20, Benedetto
XVI domenica scorsa s’è affacciato alla finestra del suo studio privato, a
guidare per l’ultima volta la recita dell’Angelus. E con quelle parole semplici, lineari, ha ribadito il perché della sua decisione, maturata per amore
della Chiesa. Riservando ai saluti finali, di fronte alle migliaia di persone
- oltre 100mila, come avrebbe detto più tardi padre Federico Lombardi,
direttore della Sala Stampa vaticana - che riempivano piazza San Pietro
fin quasi a metà di via della Conciliazione, la sua gratitudine ai fedeli, che
avevano voluto essere presenti accanto a lui quel giorno: «Vi ringrazio
per l’affetto e la condivisione, specialmente nella preghiera, di questo
momento particolare per la mia persona e per la Chiesa». Affacciato su
una piazza piena di striscioni e bandiere, continuamente interrotto dagli
applausi dei presenti e con molte improvvisazioni a braccio, proprio in risposta al calore manifestatogli dalla folla, papa Ratzinger ha preso spunto per il suo congedo dal racconto della Trasfigurazione, proposto dal
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Vangelo della seconda domenica di Quaresima, con la quale «il Signore,
che poco prima aveva preannunciato la sua morte e risurrezione offre
ai discepoli un anticipo della sua gloria». Anche nella Trasfigurazione,
ha osservato papa Ratzinger, «come nel Battesimo, risuona la voce del
Padre celeste: “Questi è il figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!”. La presenza
poi di Mosè ed Elia, che rappresentano la Legge e i Profeti dell’antica
Alleanza, è quanto mai significativa: tutta la storia dell’Alleanza è orientata a Lui, il Cristo, che compie un nuovo “esodo”, non verso la terra
promessa come al tempo di Mosè, ma verso il Cielo». In questo racconto,
ha aggiunto, «l’intervento di Pietro: “Maestro, è bello per noi essere qui”,
rappresenta il tentativo impossibile di fermare tale esperienza mistica.
Commenta sant’Agostino: “[Pietro]sul monte aveva Cristo come cibo
dell’anima. Perché avrebbe dovuto scendere per tornare alle fatiche e
ai dolori, mentre lassù era pieno di sentimenti di santo amore verso Dio
e che gli ispiravano perciò una santa condotta?”». È «meditando questo
brano del Vangelo», ha quindi spiegato Benedetto XVI, che possiamo
trarne «un insegnamento molto importante».
Il «primato della preghiera», innanzitutto, «senza la quale tutto l’impegno
dell’apostolato e della carità si riduce ad attivismo». Così, infatti, «nella
Quaresima impariamo a dare il giusto tempo alla preghiera, personale e
comunitaria, che dà respiro alla nostra vita spirituale». Inoltre, ha aggiunto, «la preghiera non è un isolarsi dal mondo e dalle sue contraddizioni,
come sul Tabor avrebbe voluto fare Pietro, ma l’orazione riconduce al
cammino, all’azione». E, citando il suo messaggio per la Quaresima di
quest’anno, ha ribadito come «l’esistenza cristiana consiste in un continuo salire il monte dell’incontro con Dio, per poi ridiscendere portando
l’amore e la forza che ne derivano, in modo da servire i nostri fratelli e
sorelle con lo stesso amore di Dio». «Cari fratelli e sorelle – ha quindi
concluso – questa Parola di Dio la sento in modo particolare rivolta a me,
in questo momento della mia vita. Grazie! Il Signore mi chiama a “salire
sul monte”, a dedicarmi ancora di più alla preghiera e alla meditazione.
Ma questo non significa abbandonare la Chiesa, anzi, se Dio mi chiede
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
questo è proprio perché io possa continuare a servirla con la stessa dedizione e lo stesso amore con cui ho cercato di farlo fino ad ora, ma in un
modo più adatto alla mia età e alle mie forze. Invochiamo l’intercessione
della Vergine Maria: lei ci aiuti tutti a seguire sempre il Signore Gesù,
nella preghiera e nella carità operosa».
Lombardi, ha definito «un bel momento» e che è stato «particolarmente
intenso e cordiale, data la grande stima reciproca e la ormai lunga familiarità dei due illustri interlocutori», come ha confermato la nota distribuita dalla Sala stampa vaticana a fine mattinata.
«Il presidente Napolitano - prosegue il comunicato - ha manifestato al
Papa non solo la gratitudine del popolo italiano per la sua vicinanza in
tanti momenti cruciali e per il suo altissimo magistero religioso e morale, ma anche l’affetto con cui esso continuerà ad accompagnarlo nei
prossimi anni». E il Papa «ha ancora una volta espresso al presidente e
alla signora la gratitudine per la loro amicizia e i migliori auspici per il
bene dell’Italia, in particolare in questi giorni e in questo tempo di scelte
impegnative».
Da parte sua il sito internet del Quirinale sottolinea: «Il colloquio ha
offerto una nuova occasione di dialogo sulle grandi questioni dell’Italia e del mondo. Il Pontefice ha mostrato interesse per i risultati della
recente visita del presidente Napolitano negli Usa e curiosità e piacere
per il prossimo viaggio del capo dello Stato in Germania che comincerà
proprio da Monaco», la città dove Joseph Ratzinger è stato vescovo. «Il
ricordo umano dei tanti momenti di incontro con il Pontefice nel corso
del settennato del presidente Napolitano – aggiunge la nota – si è intrecciato con la riflessione su momenti istituzionali particolarmente significativi come quelli in occasione del 150° dell’Unità d’Italia». Anche il
Quirinale mette l’accento sulla dimensione umana dell’incontro, «segnato dalla forte emozione per la “straordinaria dimensione e novità” della
scelta compiuta dal Pontefice».Insieme al suo affetto il capo dello Stato
ha portato in dono al Papa una prima edizione definitiva dei Promessi
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Sposi, datata 1840, ricevendo dal Pontefice una stampa della Basilica in
costruzione. Era stato lo stesso Napolitano a chiedere l’incontro. Come
del resto aveva fatto il presidente del Consiglio, Mario Monti, ricevuto
sabato 16 febbraio.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
L’affetto della piazza
di Pino Ciociola
U
n papà, anziano, ha spinto la carrozzella di suo figlio gravemente
disabile fino al cuore di piazza San Pietro. Si sono fermati un po’
prima del colonnato e della fontana del Bernini, quella di destra, quella
più prossima al Palazzo Apostolico. A testa in sù, insieme, ascoltano le
parole del Papa. Fra centomila persone e più. Poi, subito dopo la benedizione, s’accuccia di fronte a suo figlio che, con le mani, gli accarezza come può, come riesce, i capelli. Commovente. Anche questo. Come
l’intera mattinata dell’ultimo Angelus di Benedetto XVI. Del suo commiato con la gente, cioè. Una festa, anche di colori e di mondo, eppure
velata di malinconia.
Il meteo ha previsto nuvole e acqua sulla capitale per stamani. Sbagliava
almeno quanto alla seconda. I primi fedeli arrivano alle otto, gli ultimi
quando manca qualche minuto a mezzogiorno. Tanti vogliono esserci,
salutarlo, ringraziarlo, fargli capire che a loro volta hanno capito le sue
ragioni, il suo gesto, e gli restano al fianco, che non c’è più sbandamento
e nemmeno paura. E la piazza della cristianità alle dieci è già piena per
un quarto.I ragazzi ballano e cantano, chiunque scatta fotografie, sono in
molti a pregare. Qualcuno mangia un panino, perché il viaggio è costato
e «non posso proprio permettermi anche il ristorante». Una insegnante
di un liceo a Trento racconta che «siamo partiti ieri sera, in pullman, abbiamo impiegato sette ore e mezza, appena finirà l’Angelus ripartiremo
subito, c’è tanta neve e domattina in molti abbiamo la prima ora di lezione...». Una coppia napoletana che vive ad Empoli si è mossa in auto «alle
quattro di stamattina, abbiamo incontrato una gran nevicata, venendo a
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Roma, ma non poteva fermarci». C’è gente dalla Polonia e dalla Baviera.
Da Cuneo, Udine, Reggio Calabria.
Hanno preparato con cura mille striscioni, sventolano la bandiera del loro
Paese (dal Brasile agli Stati Uniti...), spesso hanno il fazzoletto giallo e
bianco al collo oppure legato alla borsa. Ci sono sacerdoti con le loro
chitarre, uno, messicano, ha il sombrero in testa: «Benedetto è un grande
Papa, un esempio per tutti». Gli scout, specie i più piccoli, aspettano sorridendo con i loro fazzolettoni. Una signora sulla settantina è venuta dalla
Spagna col braccio ingessato fino alla spalla, con la schiena poggiata a
una transenna e seduta a terra legge “El Pais”.Le parole che si leggono più
diffusamente sono «Grazie» e «Viva il Papa». La suggestione quasi quasi
diventa palpabile. Il colpo d’occhio che Ratzinger avrà affacciandosi sarà
emozionante... Alle undici e cinquanta ci sono tutti. Fino oltre l’inizio di
via della Conciliazione. Adesso la piazza è silenziosa, aspetta, sa che fra
pochi minuti l’orologio della Storia scoccherà un’ora che resterà scritta.E
alla fine tutto sarà filato liscio, senza alcun tipo di problema. Anche grazie al dispositivo di sicurezza delle grandi occasioni, con seicento uomini
delle forze dell’ordine, gli uomini in borghese della Digos mischiati tra i
fedeli e i tiratori scelti appostati sui tetti degli edifici intorno alla piazza.
E grazie al migliaio di persone messo in campo tra Protezione Civile,
Ama, Polizia di Roma Capitale, personale Atac, Ares 118.
Appena Benedetto XVI s’affaccia l’applauso esplode e sale dritto verso
la sua finestra. Poi lo si ascolta in silenzio, per interromperlo solamente
con altri applausi. Tutti scattano un mare di fotografie, non importa che
il Santo Padre sia lassù e troppo lontano per gli zoom dei cellulari. Dopo
averlo salutato e mostratogli affetto, la gente vuole portare via con sé il
ricordo del Papa che sta lasciando, è arrivata qui anche per questo. Vuole
fissare nelle fotografie anche la commozione, anche la grande gioia velata di piccola malinconia.
Papa Ratzinger saluta e la finestra si chiude. Si riavvolgono gli striscioni,
le bandiere. Si va via lentamente, con ordine, nuovo silenzio. Soltanto
alcuni fra i più giovani restano ancora nella piazza. Cantano, ballano ancora. E del resto lui l’ha appena detto: «Non abbandono la Chiesa».
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Con lui nella trincea della preghiera
di Gloria Riva
S
ono uscita all’alba nel parco del nostro monastero, in cuore avevo le
parole dell’Angelus del Papa: vado sul monte, non abbandono, continuerò il mio compito di pastore nella preghiera. Parole folgoranti per il
mio quotidiano. Anch’io sono sul monte e vivo una vita di preghiera. Preghiera che non è rifugio, ma presenza davanti alla Presenza, lotta, amore,
silenzio. Spazio di profondità del cuore. I passi che mi separano dal parco
sembrano eterni dentro il flusso dei pensieri. «Prego per l’Italia», ha detto
il Papa a Napolitano: il mio Paese, amato e tormentato, incapace di decollare eppure mai sconfitto. Un Paese che è Mistero agli stessi italiani.
Il parco bagnato dal chiarore del mattino, riluce di splendore. La neve è
intatta, come un’anima vergine che attende l’incontro con Dio. Rileggo
in essa le tante discese dentro il mio cuore: nelle orazioni serali, nelle
lectio divine, nel canto dei salmi. Un’attesa di Dio, cercato in un gelo
che sembra non finire mai. I miei passi affondano nella neve, la graffiano
appena e mi duole rompere un silenzio così profondo. D’un tratto però
scorgo delle orme freschissime: sono tracce di capriolo. D’improvviso il
parco non è più teatro di solitudine, è colmo di questa presenza, invisibile
ma certa. Con trepidazione seguo le orme, i miei passi si fanno più decisi
e insieme cauti nel desiderio di scorgere il miracolo di quel capriolo, sceso a valle in cerca di cibo.
Ecco a quale preghiera allude il Papa: vedere una Presenza dove altri non
vedono che neve e deserto; avvertire l’urgenza di tacere per fissare lo
sguardo su quelle tracce, invisibili ai più ma chiare ai vigilanti. Il Santo
Padre vede le tracce di quel Capriolo, di quell’Agnello ritto e Immolato
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
che tiene nella sua mano i sigilli della storia. Cristo è l’unico che può
aiutarci a comprendere noi stessi, nel caotico vociare che confonde animi
e sguardi. La Chiesa non può essere solo la Croce Rossa dell’umanità,
la diplomazia efficace che pesa atti di pace fra i popoli. La Chiesa, come
scrisse Eliot, è la Straniera, Colei che vede e sa. Il “vedere della preghiera”, dunque, non è quiete né fuga, dalla trincea. Al contrario è intercedere, stare tra chi si ama e il nemico, accettare su di sé i colpi prima di altri,
per segnalare il pericolo imminente.
Siedo sul muretto che separa il sentiero dal resto del parco. Qui più facilmente posso osservare le tracce. Avverto la stanchezza della corsa nella
neve alta e mi ricordo solo ora del libro che ho in mano: Etty Hillesum,
Diario. Lo sguardo cade su un passo che diventa eco profonda dei miei
pensieri: «Credo di poter sopportare e accettare ogni cosa di questa vita
e di questo tempo. E quando la burrasca sarà troppo forte e non saprò
più come uscirne, mi rimarranno sempre due mani giunte e un ginocchio
piegato».
Non è vero che solo chi ha fede, solo chi vive una sorta di pauperismo del
cuore per cui la gravità della vita sembra insopportabile, può scegliere
la via della preghiera. Etty non era né tra gli uni né tra gli altri. Ebrea,
agnostica, scopre da un cristiano il mistero dello stare in ginocchio, come
partecipazione radicale alla realtà, come giudizio critico sulla storia, e
percepisce la preghiera come la più grande risorsa del cuore umano: «Di
notte, mentre ero coricata nella mia cuccetta, […] me ne stavo sveglia e
lasciavo che mi passassero davanti gli avvenimenti, le fin troppe impressioni di un giorno fin troppo lungo e pensavo: “Su, lasciatemi essere il
cuore pensante di questa baracca”».
Sì, il Santo Padre dice a noi contemplativi: è l’ora di essere il cuore pensante di questa baracca che è il mondo, sempre chiassoso, in lite, sempre
vagabondo sotto la pressione dei suoi istinti, eppure bisognoso di salvezza.
Il suono della campana rompe il silenzio del bosco: è l’ora della preghie-
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
ra. Mai rientro mi è risultato sì caro. Nella penombra del coro, risplende il
Santissimo Sacramento. Mi inginocchio con tutte le altre, mentre ripenso
alle orme di quel capriolo sulla neve.
Eccola, davanti a me, la traccia eterna di cui parlava Peguy nel suo Veronique! Il Papa l’ha messa a sigillo del suo Pontificato. Questa traccia
eterna ci salverà e noi contemplativi dobbiamo indicarla agli uomini.
Un giorno altri agnostici come Etty, o cristiani dal battesimo sgualcito, ne avranno bisogno. Benedetto XVI, chiude il suo Pontificato con
l’«enciclica» migliore: la sua vita che sale sul monte per continuare a
lottare con la preghiera.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
«Nella Curia limiti e imperfezioni
ma anche tanta generosità»
di Matteo Liut
L’
indagine sulla fuga di notizie riservate svolta dalla Commissione
cardinalizia composta dai cardinali Julián Herranz, Jozef Tomko e
Salvatore De Giorgi «ha consentito di rilevare, accanto a limiti e imperfezioni propri della componente umana di ogni istituzione, la generosità, rettitudine e dedizione di quanti lavorano nella Santa Sede a servizio
della missione affidata da Cristo al Romano Pontefice». Lo sottolinea
una nota diffusa ieri dalla Sala stampa vaticana dopo che in mattinata
Benedetto XVI ha incontrato i tre porporati assieme al segretario della
Commissione, padre Luigi Martignani. «A conclusione dell’incarico – si
legge ancora nel documento diffuso dalla Sala stampa –, il Pontefice ha
voluto ringraziarli per il proficuo lavoro svolto, esprimendo soddisfazione per gli esiti dell’indagine». Esiti, inoltre, che non verranno divulgati
perché, si legge ancora nella nota vaticana, il Papa «ha deciso che gli atti
dell’indagine, del cui contenuto solo Sua Santità è a conoscenza, rimangano a disposizione unicamente del nuovo Pontefice».
In seguito alla pubblicazione e alla diffusione da parte di alcuni media di
notizie riservate riguardanti il Papa e la Santa Sede, a metà marzo 2012
era stata annunciata l’istituzione dell’organo d’indagine. A darne notizia era stato il sostituto della Segreteria di Stato, l’arcivescovo Angelo
Becciu, in un’intervista all’Osservatore Romano. In quell’occasione il
presule aveva reso noto anche l’avvio di un’inchiesta a livello penale
condotta dal promotore di giustizia del Tribunale vaticano e, a livello
amministrativo, dalla stessa Segreteria di Stato. La Commissione cardi-
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
nalizia, presieduta da Herranz, si era poi insediata il 24 aprile successivo.
Le indagini hanno portato all’arresto e al successivo processo a carico
dell’aiutante di camera del Papa, Paolo Gabriele. La Commissione, che
nel frattempo ha continuato il suo lavoro in parallelo a quello dei giudici
vaticani, ha consegnato un rapporto conclusivo alla fine di luglio 2012.
In agosto, poi, nell’ambito dell’indagine penale, sono stati rinviati a giudizio Paolo Gabriele e il tecnico informatico Claudio Sciarpelletti. Per il
primo, cui il Papa ha concesso la grazia, la condanna è arrivata il 6 ottobre 2012 mentre il tecnico è stato condannato il 10 novembre successivo.
I tre cardinali, poi, hanno proseguito i lavori d’indagine e, lo scorso 18
dicembre, sono stati ricevuti in udienza da Benedetto XVI, che ha sempre seguito da vicino – anche attraverso incontri con i cardinali – i lavori
della Commissione. L’ultima udienza, quindi, si è svolta ieri in occasione
della conclusione dell’incarico affidato ai tre porporati e durato in definitiva circa 10 mesi.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
27 febbraio
Lo sguardo va oltre
Benedetto XVI sarà Papa emerito
di Mimmo Muolo
C
ontinuerà a chiamarsi Sua Santità Benedetto XVI. E dopo una consultazione con gli esperti è stato stabilito che sarà «Papa emerito»
o «Romano Pontefice emerito». Anche la veste rimarrà bianca, ma sarà
una semplice talare di colore candido, senza mozzetta. E l’anello del pescatore, così come il sigillo, verrà annullato. Il Papa metterà al dito un
altro anello. Quanto poi alle scarpe saranno marroni e non più rosse. In
Vaticano si mettono a punto gli ultimi dettagli prima che, alle 20 di domani, inizi la Sede vacante. Ieri papa Ratzinger, come è sua consuetudine
il martedì, non ha avuto udienze pubbliche, dedicando la giornata alla
preghiera, a preparare l’udienza generale odierna (l’ultima del suo pontificato e si prevede grande partecipazione dei fedeli in Piazza San Pietro)
e a finire di riordinare i propri documenti. «Quelli che attengono al suo
ministero petrino o al periodo in cui era prefetto della Congregazione per
la dottrina della fede – ha detto ieri il portavoce vaticano, padre Federico
Lombardi – andranno nei rispettivi archivi. Gli appunti e gli scritti personali di Joseph Ratzinger lo seguiranno nella sua nuova dimora».
Il direttore della Sala Stampa Vaticana ha fatto il punto nell’ormai quotidiano incontro di fine mattinata con i giornalisti accreditati. C’è attesa,
naturalmente, anche per le decisioni del sacro collegio in merito all’inizio
del Conclave. «Il 1° marzo – ha spiegato Lombardi – il cardinale decano
invierà ufficialmente le lettere di convocazione ai cardinali. È verosimile
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
dunque che le Congregazioni generali non vengano convocate il sabato e
la domenica, ma che comincino il più presto possibile». Perciò da lunedì
prossimo ogni giorno è buono. Nelle Congregazioni generali, che si terranno nell’Aula Nuova del Sinodo e che potranno svolgersi sia di mattina
che di pomeriggio, verrà decisa la data d’inizio del Conclave. I porporati
elettori, ha aggiunto il portavoce, «non abiteranno subito a Santa Marta,
anche perché ora ci sono alcuni lavori di riadattamento delle stanze, che
come stabilisce la Universi Dominici Gregis verranno sorteggiate durante le Congregazioni dei cardinali. Nell’imminenza del Conclave, ogni
cardinale si trasferirà nella sua».
Intanto continuano a giungere a Benedetto XVI «moltissimi messaggi
da ogni parte del mondo, con l’espressione di sentimenti di gratitudine e
di vicinanza, da parte di personalità anche di grande rilievo, come i capi
di Stato». Lombardi, anzi, ha sottolineato a tal proposito il «clima di
preghiera» con cui la Chiesa sta vivendo questi giorni. Un clima favorito
anche dal «bel messaggio del cardinale segretario di Stato ai monasteri di
vita contemplativa».
Il direttore della Sala Stampa vaticana ha anche riepilogato gli impegni
di oggi e di domani per Papa Ratzinger. «Sono già 50mila i biglietti prenotati per l’odierna udienza generale in Piazza San Pietro che avrà uno
schema abituale. È previsto solo un giro un po’ più ampio tra la folla, a
bordo della papamobile. Non ci sarà, inoltre, il baciamano finale, ma non
per motivi di sicurezza, quanto per il fatto che il Pontefice non ha voluto
escludere nessuno». Dopo l’udienza invece ci sarà il saluto con alcune
autorità che hanno il rango di Capi di Stato, come il presidente della Slovacchia, i capitani di San Marino, il presidente della Baviera e il principe
di Andorra.
Domani, a partire delle 11, il Papa saluterà nella Sala Clementina i cardinali presenti a Roma, che sono già in buon numero. Nel pomeriggio,
stando al programma messo a punto dalla Prefettura della Casa Pontificia, alle 16.55 il Papa partirà in auto dal Cortile di San Damaso, dove sa-
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
luterà i superiori della Segreteria di Stato alla presenza del picchetto d’onore della Guardia Svizzera. All’eliporto riceverà il saluto del cardinale
decano, mentre l’arrivo a Castel Gandolfo è previsto per le 17.15. Ad
accogliere Benedetto XVI saranno tra gli altri il presidente e il segretario
del Governatorato (cardinale Giuseppe Bertello e monsignor Giuseppe
Sciacca) e il vescovo di Albano, monsignor Marcello Semeraro. Alle
17.30, il Papa si affaccerà dalla loggia centrale del palazzo apostolico per
salutare i fedeli. Sarà la sua ultima uscita pubblica prima dell’inizio della
Sede Vacante.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Siamo per servire
di Gennaro Matino
P
oche ore ancora e il Pontificato di Benedetto XVI chiuderà il suo corso. L’anello del pescatore verrà frantumato e la memoria dell’evento
lascerà carico di commozione il cuore di chi ha amato Joseph Ratzinger,
e non solo. Provocherà riflessioni di senso anche in chi ha imparato a conoscerlo nei suoi ultimi giorni di pastore della Chiesa universale, in chi,
benché lontano dalle sue parole per diversa sensibilità, non ha potuto che
apprezzare il coraggio profetico di un vecchio Papa che ha trasformato il
tempo di una rinuncia, dolorosa e sofferta, in un potente grido di futuro,
carico di responsabilità e impegno per tutta la Chiesa. Grido potente di
speranza, impastato di verità evangelica.
Dall’11 febbraio, dopo la prima scossa emozionale, quasi una perdita di
orientamento, giorno dopo giorno sembra emergere nella Chiesa sempre
più chiara la consapevolezza di una precisa e strutturata volontà di Benedetto di accompagnare la sua uscita, di voler raccontare senza enfasi il
suo percorso e consegnarsi al giudizio di Dio e degli uomini nella verità
che rende liberi. La consegna di un Papa che, non senza motivazioni, cerca – nei segni e nelle parole – di congedarsi senza clamore, benché il suo
gesto resti naturalmente senza enfasi, come lo stile di tutto il pontificato.
Le ultime omelie e le espressioni a braccio possono ben definirsi una
“catechesi del congedo”, e forse nel tempo qualcuno potrebbe ritrovare
tra le righe l’ultima enciclica che per impeto e affetto potremmo intitolare: Sumus ad servandum, rievocando le parole pronunciate domenica da
Benedetto nell’ultimo Angelus a piazza San Pietro.
Carezze di profondo significato le sue parole vestite di sobrietà, capa-
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
ci di trapassare il luogo dell’apparenza e comunicare una forza inaudita
nonostante il Papa stesso confessi la sua mancanza di vigore. Una nuova
luce circonda la sua persona, mai come in questi giorni luminosa, che
trasmette serenità e pace. Gesti e parola di consegna passati con la certezza che faranno il loro corso nella nostra storia individuale, affidati alla
riflessione della Chiesa che non potrà che farne tesoro per ripartire da
dove Benedetto si congeda. Un testamento, le sue ultime parole, che tracciano un confine tra il prima e dopo e indicano un percorso: la preghiera,
la vocazione, la gratitudine, l’abbandono a Cristo che guida la sua barca.
Non è possibile organizzare il tempo della comunità cristiana senza un
recupero della sua ascesi credente, la preghiera come spazio di fede e
come offerta di nuova sostanza di appartenenza. La vocazione è memoria
di un incontro, rimando al primo “sì” dato al Maestro di Galilea, che ogni
credente deve tenere sempre presente, che deve tener presente la Chiesa
per dare risposta alla sua stessa vita. Come non vivere la fede e la storia con gratitudine, originando uno stile rivoluzionario di vita che nella
Chiesa offra al mondo la sua testimonianza di impegno alla gioia.
Il tempo ci dirà quanto di ciò che ci sta consegnando in questi giorni
Benedetto resterà, in un’epoca capace di emozionarsi velocemente e velocemente dimenticare. La storia futura di sicuro non dimenticherà Benedetto, non dimenticherà che un uomo, il successore di Pietro, ha avuto
il coraggio della profezia, mentre parole di fumo avanzano nel consesso
degli uomini.
Domani sera il Santo Padre lascerà il pontificato, e si comincerà a parlare
del dopo Ratzinger. Nel frattempo, c’è ancora spazio per raccogliere la
sua testimonianza e fare tesoro di tanta ricchezza. Nel frattempo, il successore di Pietro, Vicario di Cristo, è Benedetto XVI, e chi ascolta lui
ascolta il Maestro di Galilea: dopo ci attrezzeremo al dopo, ora è tempo
di godere – e soffrire – il presente che ci è concesso.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
28 febbraio
“La croce e voi, per sempre”
L’abbraccio commosso della piazza
di Pino Ciociola
T
utto dentro gli occhi. Quelli della gente in piazza San Pietro e in
via della Conciliazione. Tutto davvero: la moltitudine e l’amore, le
speranze e la riconoscenza, «la soddisfazione e la serenità», il calore e i
colori di una piazza vestitasi a festa per lui. Un’ultima volta che sarebbe
uguale anche fosse stata una prima. Affettuosa e solenne.
Il sole alle dieci e mezza tratteggia chiaroscuri sulle colonne del Bernini
e accende, letteralmente, la facciata della Basilica. C’è suggestione negli occhi della gente, dei bambini, di anziani e disabili, di mamme con
figli piccoli, di sacerdoti giovanissimi e suorine, camminando fra mille
pelli diverse e diversamente colorate come le bandiere. E tra i sorrisi
s’incontra anche qualche lacrima, senza capire se sia gioia o dispiacere o
entrambi. «L’incredibile libertà di un uomo afferrato da Cristo» è scritto
su un lungo striscione. E «Santo Padre ti vogliamo bene, prega per noi»,
su un altro. «Ci mancherai!», su un altro ancora che ha disegnata una
“faccina” triste.
I primi sono entrati nella piazza quando il cielo era ancora illividito
dall’alba e dal freddo, gli ultimi intorno alle dieci, tutti pazientemente in
fila per attraversare i controlli meticolosi di Polizia e Carabinieri, rispondendo alle domande degli oltre tremilacinquecento giornalisti accreditati
per l’udienza che chiude il pontificato di Benedetto XVI e arrivati da
tutto il mondo.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
È diverso da domenica scorsa, dall’ultimo Angelus. Non c’è stamane,
prima, un silenzio melanconico. E la gioia per il Papa non è quasi costretta a non apparire troppo, perché sembrerebbe stridere con la sua rinuncia
a continuare il ministero petrino. «Ci ha indicato soprattutto la presenza
di Gesù nella vita di tutti i giorni», spiega Maria, milanese quarantaquattrenne che, col marito, ha viaggiato in treno l’intera notte. Ci sono palloncini nella piazza. Ci sono bande musicali, compresa quella bavarese.
Tanti «Grazie!» come ce n’erano domenica mattina e davvero tanti «Ti
vogliamo bene». Un grande «Tu sei Pietro e noi giovani ti amiamo».
Spiccano tre, quattro bandiere rosse con le cinque stelle della Cina e forse
è la prima volta che si vedono sventolare qui. C’è una coppia musulmana.
Tre suore che tengono ben tesa una sciarpa rossa, nera e gialla di «Timor
Est». Ci sono molte mamme col pancione. C’è Eva, tedesca di un paesino
vicino Colonia, che ha gli occhi blu profondo e probabilmente è la più
piccola della piazza: ha un mese e mezzo e il ciuccio in bocca nella sua
carrozzina.
Ci sono famiglie italiane e immigrate, volontari e disabili delle associazioni: «Per dirgli grazie dei suoi sette anni di pontificato al costante servizio della Chiesa con una straordinaria umiltà. Per ribadire che siamo
tutti all’unisono con il Santo Padre», avevano fatto sapere insieme le
Acli di Roma, le Acli del Lazio, il Centro italiano di solidarietà di don
Mario Picchi, il Banco farmaceutico-Roma e l’Unitalsi. Tanti bavaresi
indossano il loro costume tipico, come pure le donne messicane di Leon
e tanti scozzesi in kilt. I romani del don Orione innalzano uno striscione:
«Il Papa è er core de sta città».
Quando s’intravede uscire la Papamobile ci sono oltre centocinquantamila persone e l’applauso che esplode è immenso. Urlano «Be-ne-detto-Be-ne-det-to». Si emozionano aspettando passi loro vicino. E forse
questo è più un saluto festoso della gente al Padre che viceversa. Poi lui
parla, fa il suo discorso che suona dolce e personale e la gente alla fine lo
applaude due lunghi minuti, sventolando bandiere, scandendo di nuovo
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
quel «Be-ne-det-to-Be-ne-det-to», battendogli le mani. Nei maxischermi
lo si vede bene sorridere. Contento: «Penso che dobbiamo ringraziare anche il Creatore per il tempo bello che ci dona nell’inverno», aveva detto.
Infine arriva il momento del commiato, vero, definitivo. Ecco, forse ora,
forse subito dopo la benedizione di Joseph Ratzinger, per qualche istante
è la commozione a coprire gli altri sentimenti. Ma solo qualche istante.
Perché non ci si saluta con tristezza, lo aveva appena spiegato il Papa per
primo. Allora nuovi applausi, nuovo sventolio di bandiere, nuovo straripante affetto fino alla fine, finché non rientra in Vaticano nuovamente a
bordo della Papamobile.
E la piazza pian piano si svuota. Ordinatamente. Senza fretta. A chiedere
quali sono le sensazioni la risposta è quasi un coro: «Siamo soddisfatti
e sereni». Perché – aggiungono – «ce l’ha detto ora: “Non abbandono la
Croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore crocifisso”».
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
La fedeltà
di Riccardo Maccioni
Q
uasi sempre un sorriso vale più di tante parole e c’è più affetto in una
sola carezza che in mille discorsi. La sapienza dei semplici è fatta
di piccoli gesti, sa custodire i segreti di un animo ferito, non ha paura di
dire a un amico, che sbaglia. Come una bussola che guarda sempre all’essenziale, preferisce il silenzio alla popolarità di plastica, il linguaggio del
cuore alle frasi forbite, la verità magari ruvida ai complimenti di facciata.
Piange se necessario e, cosa molto più difficile, sa applaudire quando hai
successo. È una vela capace di navigare nella bonaccia, l’abbraccio che
consola chi si sente solo, la persona che ti resta accanto quando gli altri se
ne sono andati e le tue certezze crollano come un fragile castello di carte.
Uno scrigno di umanità, di vicinanza preziosa, che il Papa ha voluto ricordare durante l’udienza generale di ieri, l’ultima del suo pontificato.
Oltre a quelle dei capi religiosi e di Stato, ha detto Benedetto XVI, «ricevo moltissime lettere» da uomini e donne semplici. Persone che non scrivono al «principe» o a un «grande» della terra ma all’uomo, al pastore,
al vicario di Cristo. Nelle loro frasi, apparentemente banali, c’è tutta la
grandezza dei piccoli del Vangelo, il legame che nasce dalla condivisione, l’umiltà di chi cerca risposte nel cuore più che nella ragione. Scrivono
come fratelli e sorelle o, se si preferisce, come figli e figlie. Uomini e
donne che fanno parte di un’unica famiglia, riunita attorno allo stesso
Signore, che cresce alla scuola della medesima Parola.
Perché la Chiesa non è un’organizzazione umanitaria, ma «un corpo
vivo» dove il più grande sceglie di farsi servo e la ricchezza non è un
insieme di beni materiali ma il coraggio di annullare se stessi per farsi
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
abitare dall’eterno presente di Dio. Una comunità in cui tutti sono importanti ma che privilegia gli ultimi, i più poveri, dove la lingua ufficiale è
quella del silenzio alimentato dalla preghiera. «Sperimentare la Chiesa
in questo modo – ha aggiunto ieri mattina il Papa – e poter quasi toccare
con le mani la forza della sua verità e del suo amore, è motivo di gioia».
Bene, libertà, coraggio i suoi punti cardinali. Il bene che si impara alla
scuola del Vangelo, la libertà dei figli di Dio, il coraggio di andare controcorrente. A ben vedere sono gli stessi criteri che hanno guidato la rinuncia di Benedetto XVI.
Una scelta fatta per il bene della Chiesa, nella libertà di chi segue una coscienza sempre orientata verso l’Assoluto, con il coraggio di restare sulla
Croce ma in modo diverso, a rischio di non essere capito. Perché amare
la Chiesa vuol dire anche avere la forza di fare scelte difficili e sofferte.
Detto in altro modo, la fede è un dono infinitamente prezioso e uno riceve
la vita proprio quando la dona. La nostra piccolezza, la nostra fragilità
umana in fondo non sono nient’altro che un appello alla misericordia del
Signore, il desiderio di imparare alla sua scuola la forza del perdono e
della condivisione. Proprio come succede in famiglia, dove si corregge
per amore e anche le parole più dure verso un figlio spesso nascondono in
sé una benedizione. Ma per capirlo bisogna rinunciare ai titoli e alla grandezza, al prestigio apparente e alla ricchezza di facciata. Serve la sapienza e la intatta fedeltà dei semplici, quella che alle belle parole preferisce i
piccoli gesti purché autentici e alle frasi forbite il vocabolario del cuore.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Conquistati di nuovo
dalla promessa antica
di Marina Corradi
«N
on abbandono la Croce, ma resto in modo diverso presso il Signore crocifisso». Un grande applauso, di tutti il più commosso,
riempie piazza San Pietro, a queste parole di Benedetto XVI.
Non abbandono, ma resto, sotto alla Croce, accanto a voi. E la gente
venuta da lontano, partita nella notte, stanca, infreddolita dall’alba invernale, ha da queste parole il cuore come colmato. Perché in fondo siamo
venuti qui per questo: per sentirci dire che questo non è un addio, ma un
rimanere assieme in un altro, e più profondo modo.
Il modo della preghiera: che è invisibile, che per il mondo è solo pia
intenzione, o non esiste. Ma la faccia di Benedetto XVI testimonia tutta
un’altra certezza, granitica: «Sento di portare tutti nella preghiera, in un
presente che è quello di Dio». In un tempo dunque che non è il nostro,
affannato, sfuggente, tempo che erode e corrompe, ma è tempo di Dio, in
cui tutto è vivo, per sempre. E noi in piazza, e soprattutto i più anziani,
confortati; portati dentro all’orizzonte infinito testimoniato dal Papa, paradossalmente, nel giorno in cui lascia il soglio di Pietro.
Cosa è successo, cosa sta accadendo, ci chiediamo fra noi; e com’è possibile che un addio si trasformi oggi, sotto a un cielo di un azzurro perfetto,
invece, in una promessa? Stamattina si tocca con la mano come il ritirarsi
del Papa sia iscritto dentro a un bene più grande; dentro alla libertà assoluta che un uomo ha, nell’affidarsi totalmente a Dio. Benedetto XVI
testimonia che la barca della Chiesa non è nemmeno del Papa, ma di
Cristo: che non la lascia affondare. Solo dentro a questa libertà estrema
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
è stato possibile che un uomo anziano, nel sentire le sue forze scemare,
abbia chiesto a Dio «con insistenza» di fargli capire cosa doveva fare,
per il bene della Chiesa. E infine abbia scelto, «con profonda serenità
d’animo».
Ma, andandosene, il Papa rimane dentro il «per sempre» di Pietro. Lo
dice espressamente: la mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del
ministero, non revoca questo «per sempre». Resta, spiega, «nel servizio
della preghiera», nell’esempio di san Benedetto, che ha mostrato la via
per una vita di totale appartenenza a Dio.
E a noi qui in piazza, scaldati finalmente da un sole che si alza e sa di
primavera, si allarga il cuore; è come se quella stretta di smarrimento e
confusione che ci ha preso all’annuncio dell’11 febbraio, in queste parole
e in questo sole si sciogliesse. Non è sconfitta o resa, quella di Benedetto
XVI; è, nella lucide coscienza delle forze che vengono meno, un gettare
il cuore audacemente, più in là.
Dentro a una ampia, pacificata fiducia che la mite voce di quest’uomo
contagia: occorre «affidarci come bambini nelle braccia di Dio». Insomma tutto ciò che anche tra molti di noi credenti è, sì, speranza, ma non
ancora certezza; desiderio, ma non ancora fede su cui giocarsi la vita, in
Benedetto XVI ha invece subìto questa metamorfosi. L’acqua del pozzo
della Samaritana in lui, realmente, è diventata acqua viva.
E chi di noi era arrivato partecipe, ma dolente, e con affetto, ma come andando a un lutto, se ne esce dalla piazza come interiormente riedificato.
Credevamo di venire per un addio, e invece quest’uomo ci ha mostrato
che è possibile osare un abbandono totale. Che un vecchio, anche se è il
Papa, può lasciare la gestione della Chiesa eppure restarle dentro, profondamente, come un cuore pulsante. Benedetto XVI ha osato il salto assoluto di cui è capace solo chi non dubita delle braccia di Dio. E noi venuti
qui stamani, partiti nel fondo di una notte invernale, ce ne usciamo dalla
piazza commossi e un po’ sbalorditi: un grande testimone ci ha credibilmente detto che è vera, è tutta vera, la promessa antica.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
La risposta
di Salvatore Mazza
D
alle otto di questa sera, la Sede di Pietro sarà vacante. Secondo una
modalità senza precedenti nei duemila anni di storia della Chiesa.
Il Papa rinuncia al ministero petrino senza, per questo, scendere dalla
barca di Pietro. Perché il suo accettare «sempre» e «per sempre» la chiamata rivoltagli dal Signore il 19 aprile del 2005, non è contraddetto dalla
sua scelta. Perché «il “sempre” è anche un “per sempre”», e non c’è, da
questo, ritorno a una vita “normale”. «Non abbandono la croce, ma resto
in modo nuovo presso il Signore Crocifisso. Non porto più la potestà
dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera
resto, per così dire, nel recinto di San Pietro».
Congedandosi ieri dai fedeli, nella sua ultima udienza generale, Benedetto XVI ci ha fatto l’ultimo regalo di un altro, indimenticabile discorso.
Intriso di commozione per il momento e di amore per la Chiesa, e di
riconoscenza per quanto ricevuto. Un discorso semplice e, a un tempo,
altissimo, per ringraziare di quanto gli è stato donato, e senza un cenno a
quanto lui ha dato. Alla Chiesa, a tutti noi. A un mondo che ieri ha seguito
il suo saluto in silenzio, trovando nelle sue parole pacate, quiete, serene,
le risposte a tutti i “perché” – gli umanissimi, sgomenti perché? di chi
il Papa lo ama, ma anche i perché, senza punto interrogativo, di chi ha
preteso di spiegare le “dimissioni” in una logica mondana – che in questi
giorni si sono affastellati l’uno sull’altro attorno alla rinuncia.
Adesso capiamo, sappiamo. Da stasera, il Papa è nascosto “agli occhi
del mondo”, ma non “nascosto al mondo”. C’è. Ci è vicino. Un distacco
necessario, dopo che «in questi ultimi mesi, ho sentito che le mie forze
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
erano diminuite», maturato nella preghiera «per farmi prendere la decisione più giusta non per il mio bene, ma per il bene della Chiesa». Fino
a una scelta compiuta «nella piena consapevolezza della sua gravità e
anche novità, ma con una profonda serenità d’animo». Perché «amare la
Chiesa significa anche avere il coraggio di fare scelte difficili, sofferte,
avendo sempre davanti il bene della Chiesa e non se stessi». Scelta grave,
dunque. Stridente con un mondo che cerca disperatamente, quasi a tutti
i costi, di vivere sotto i riflettori, e rispetto al quale Papa Benedetto ci ha
mostrato l’imprescindibile valore dell’essere.
Un essere contrapposto a un apparire che, sempre più spesso, malinconicamente, è solo un sembrare. Essere uomo di fede radicalmente, fino in
fondo, senza compromessi. Testimoniando, ancora una volta, la coerenza
con la sua idea di essere sacerdote, che non può, non deve coincidere mai,
in nessun modo, con l’attaccamento a un ruolo o a una carriera, ma ministero, servizio, a ogni livello, in ogni momento, della Chiesa e alla Chiesa. Chiesa che non è nostra, ma di Dio. C’è voluto un coraggio da leone,
e una fede incrollabile, per fare quello che Papa Benedetto ha fatto. Non
lo potremo mai ringraziare abbastanza, per questo e per come, da padre
e da maestro, ce lo ha spiegato e sempre meglio fatto comprendere. E se,
umanamente, non riusciamo a non sentirci un po’ tristi, anche questo,
paradossalmente, fa parte di quella «gioia di essere cristiano» che Papa
Benedetto, salutandoci, ci augurato di poter noi tutti, sempre, sentire.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Un teologo, capace di farsi capire
di Salvatore Mazza
L
a capacità di rendere in parole semplici concetti complessi. E la pazienza di farlo, sempre. Per aiutare tutti a riflettere fornendo, ogni
volta, le chiavi giuste per farlo, rendendo immediatamente accessibili
anche i “misteri” della teologia più elevata. Il Benedetto XVI catechista
è stato, probabilmente, una delle prime scoperte di cui la Chiesa ha fatto
esperienza dall’elezione di Joseph Ratzinger a successore di Pietro. Scoperta del tutto inaspettata, almeno per i più, che probabilmente si aspettavano di doversi confrontare con le asperità teologiche di un professore
chiuso nel recinto linguistico della sua accademia. Ma lui, il Papa, indiscutibilmente uno dei massimi teologi contemporanei, dimostrando anche in questo la sua grandezza e la sua umiltà, ha voluto e saputo mettere
sempre la sua cultura a servizio di tutta la Chiesa, a partire da quelle «persone semplici che – come ha detto ieri parlando delle tante lettere che gli
sono arrivate in queste ultime settimane – mi scrivono semplicemente dal
loro cuore e mi fanno sentire il loro affetto». Come il suo ultimo discorso
del mercoledì, ieri, ha una volta di più testimoniato, le udienze generali,
di questa paziente determinazione a far comprendere come fa un padre
affettuoso, piuttosto che spiegare come un professore, sono state lo specchio primo e più immediato. I suoi cicli di catechesi – dieci in otto anni,
dal primo a concludere quello lasciato in sospeso da papa Wojtyla, fino
all’ultimo, per l’Anno della fede, passando attraverso l’esperienza degli
apostoli, i cristiani della Chiesa nascente, i Padri della Chiesa, san Paolo, le figure della Chiesa di Oriente e Occidente, l’Anno sacerdotale, le
figure femminili, e i dottori della Chiesa – restano pagine indimenticabili
e da rileggere continuamente, un vero tesoro di spiritualità di trasparen-
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
te chiarezza. Ma lo stesso linguaggio lo si è visto, e ascoltato, nei suoi
viaggi, dove proprio le sue parole sono state capaci di capovolgere ogni
preconcetto. Indimenticabili, a questo riguardo, soprattutto le visite negli
Stati Uniti, in Israele, e nel Regno Unito, ognuna delle tre - per ragioni diverse: l’indifferenza americana, l’ombra dell’Olocausto, la secolarizzazione britannica – pronosticate come missione impossibile, si sono
trasformate in altrettanti, indiscussi trionfi per la spinta irresistibile di
un’opinione pubblica folgorata nel contatto diretto col Papa. Scoprendo,
senza finalmente più nessuna mediazione, un Benedetto XVI diverso da
come gli era stato raccontato fino a quel giorno, capace di parlare allo
stesso tempo al cuore e all’intelligenza di ciascuno, direttamente.
Tutto questo, come detto, per una voglia di “farsi capire” che, in Benedetto XVI, nasce innanzitutto dalla passione per Cristo e per la sua Chiesa.
Un amore traboccante, che sa farsi piccolo e umile per arrivare a toccare
tutti. I tre libri su Gesù, in questo senso, ne sono l’ulteriore dimostrazione. A partire da quella stupefacente chiosa nelle prefazione del primo:
«Ognuno è libero di contraddirmi».
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Maestro in pedagogia della fede
di Enrico Lenzi
U
n grande teologo capace di diventare un ottimo catechista comprensibile a tutti. Ecco l’immagine che Benedetto XVI lascia nelle catechesi del mercoledì. «Un pedagogo della fede» commenta monsignor
Guido Benzi, direttore dell’Ufficio catechistico nazionale della Cei
Che tipo di catechista è stato papa Ratzinger? Quale stile è emerso?
È evidente che papa Benedetto XVI, in quanto successore di Pietro e
grande teologo, è anche un grande catechista. Ognuno, tuttavia, che abbia
potuto ascoltare o leggere le omelie, le catechesi, le risposte date spesso
a viva voce alle domande che di volta in volta gli rivolgevano giovani,
donne e uomini adulti, sacerdoti, religiose o bambini, si è reso conto che
oltre alla scienza e alla dottrina in Benedetto XVI, c’era un qualcosa in
più, che direi essere una pedagogia della fede, cioè la capacità di interpretare la teologia con la vita e la propria esperienza umana. E questa è una
grande dote di catechista.
Quale filo rosso possiamo individuare nel percorso di catechesi che
Benedetto XVI ha svolto negli otto anni di pontificato?
Credo che il punto distintivo del magistero di Benedetto XVI sia il tema
dell’incontro personale con il Cristo risorto. Questa dimensione è presente in tutti i suoi discorsi ed ancor più nel suo modo di vivere il suo
ministero e di celebrare l’Eucaristia. Il cristiano - come ha detto il Papa in
tante occasioni - non è uno che segue prima di tutto un’idea o una morale,
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
ma è colui che attraverso il Vangelo annunciato nella Chiesa ha incontrato Gesù ed è diventato suo discepolo. Mi piace rileggere in questa prospettiva i tre anni speciali che hanno costellato il ministero di Benedetto
XVI: l’Anno Paolino, l’Anno Sacerdotale, l’Anno della fede.
Il «genio femminile» è stato uno dei cicli delle catechesi di papa
Ratzinger. Come leggerlo all’interno del pontificato che si conclude
oggi?
Il tema è molto attuale. In un passaggio della lettera apostolica Mulieris
dignitatem di Giovanni Paolo II si legge: «La Chiesa - ringrazia per tutte
le manifestazioni del genio femminile apparse nel corso della storia, in
mezzo a tutti i popoli e a tutte le nazioni; ringrazia per tutti i carismi che
lo Spirito Santo elargisce alle donne nella storia del popolo di Dio, per
tutte le vittorie che essa deve alla loro fede, speranza e carità; ringrazia
per tutti i frutti di santità femminile». Con le sue catechesi Benedetto
XVI ha voluto attualizzare questo messaggio narrando molte figure di
sante medioevali - alcune anche poco conosciute - come una galleria di
volti esemplari e amici: dalla carismatica monaca benedettina Ildegarda
di Bingen - mistica, letterata, musicista, farmacista e cosmologa - alla
combattiva Giovanna d’Arco. Attraverso questa galleria il Papa ha voluto
mostrare, fuori da stereotipi oleografici, cosa significhi narrare e vivere il
Vangelo al femminile.
Anche la «preghiera» o proprio in questi ultimi mesi «il Credo» sono
stati un tema forte nelle catechesi del Papa. Un forte richiamo a un
fede da riscoprire. Un messaggio anche per la catechesi delle nostre
parrocchie?
L’educazione ad una vita interiore, alla preghiera del cuore, all’ascolto ed
alla lettura orante della Sacra Scrittura, ad una fruttuosa e intensa partecipazione alla liturgia, soprattutto all’Eucaristia sono dimensioni impre-
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
scindibili per ogni vera educazione alla fede. Dare un’anima educativa
alle tante dimensioni della pastorale significa, infondo, cogliere questa
dimensione spirituale di risposta all’amore per Dio e per i fratelli che in
Gesù ha trovato l’espressione massima. Il papa, particolarmente rivolgendosi ai giovani - fin dagli inizi del suo pontificato - non ha mai cessato
di invitare tutti a questa avventura dello spirito indicandola come la più
alta espressione di vita cristiana.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Il vescovo Semeraro:
«A Castel Gandolfo accolto
da un popolo in preghiera»
di Mimmo Muolo
C
ome un pellegrinaggio. Tre chilometri a piedi da Albano a Castel
Gandolfo. E poi l’attesa orante in piazza con la recita del Rosario,
fino all’affaccio di Benedetto XVI previsto per le 17.30. La diocesi di
Albano attende così l’arrivo del Papa. Un arrivo tanto diverso da quelli
degli anni scorsi, quando egli andava nella cittadina affacciata sul lago
per trascorrervi il periodo estivo. Allora a prevalere era la gioia, oggi sarà
soprattutto la commozione e l’affetto. «Ci siamo predisposti ad accoglierlo in un clima di preghiera – spiega il vescovo di Albano, Marcello
Semeraro – per accompagnare e in qualche modo ricambiare la sua preghiera per la Chiesa e per tutti noi».
Che cosa avverrà concretamente?
Ci siamo dati appuntamento alle 16.30 sulla piazza antistante il Palazzo
Apostolico per recitare il Rosario, con meditazioni che saranno tratte dai
discorsi del Santo Padre. Verranno fedeli da tutta la diocesi e da Albano
è stato organizzato un vero e proprio pellegrinaggio a piedi. Quando il
Papa atterrerà all’eliporto delle ville pontificie, suoneranno le campane
sia in Cattedrale, sia nella chiesa parrocchiale di Castel Gandolfo. Infine ascolteremo il saluto del Papa che ha scelto di affacciarsi al balcone
esterno del Palazzo, e non nel cortile interno, perché si prevede che saranno molti i fedeli presenti.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Che cosa significa per la sua comunità diocesana questa presenza?
È una presenza che ci riempie di emozione, ma anche di responsabilità e
che vogliamo accompagnare spiritualmente, rispettando il suo ritiro con
amore e discrezione. Domenica prossima pregheremo in tutte le Messe
per Benedetto XVI in attesa di pregare per il nuovo Papa, quando sarà
eletto.
Qual è stato il rapporto di papa Ratzinger con Castel Gandolfo?
Al Santo Padre piace stare a Castel Gandolfo. E non a caso abbiamo
scelto di salutare il suo arrivo di oggi stampando alcuni volantini con una
sua fotografia mentre dalla terrazza del Palazzo guarda il lago. Una volta
disse: «Da qui vedo il lago, il mare, la montagna e anche gente buona. Vi
benedico nel nome del Signore». Oggi quella frase è incisa anche in una
lapide vicino al Comune ed è solo uno dei tanti segni di predilezione e
di affetto che abbiamo ricevuto in questi anni di pontificato. Predilezione
e affetto che Benedetto XVI ha sempre esteso all’intera diocesi. Anzi,
spesso, quando parlava con me, diceva «la nostra diocesi» e questo fatto
mi ha sempre commosso. Noi tutti ricordiamo l’incontro con il clero diocesano nel 2006, quando per due ore rispose alle domande che gli avevamo preparato. E anche la bella celebrazione in Cattedrale per la consacrazione del nuovo altare, della cattedra episcopale e del presbiterio. Infine
non mancava mai di ricevere una delegazione di giovani alla «festa delle
pesche», in giugno, e di celebrare la Messa dell’Assunta il 15 agosto
nella chiesa parrocchiale di Castel Gandolfo. Stasera il Papa viene qui a
concludere il suo pontificato e a darci la sua benedizione, aggiungendo
così un ulteriore motivo di gratitudine ai tanti che abbiamo verso di lui.
Lei sarà tra coloro che lo accoglieranno al suo arrivo. Quali sono i
suoi sentimenti di vescovo in questo momento?
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Permane lo stupore di fronte a una scelta coraggiosa che da secoli non
veniva effettuata. Ma io sono convinto che il tempo ci aiuterà a comprenderla nel suo effettivo valore. Intanto, senza prestare l’orecchio alle
tante ipotesi che vengono avanzate, lasciamo che siano le stesse parole
del Papa a indicarci le ragioni. A me pare di ravvisare due punti di riferimento, di cui il primo è l’intima coscienza del Santo Padre. Per noi la
parola coscienza non è sinonimo di individualismo, ma è il luogo in cui
l’Io incontra Dio, quindi un sacrario, la parte più intima a nobile di ogni
uomo. Il secondo riferimento è la parola servizio. Benedetto XVI lascia
l’esercizio del primato di giurisdizione connesso con il ministero petrino,
ma non lascia la Chiesa e tanto meno la paternità. Il vincolo sacramentale
non viene meno, perché da questi vincoli non ci si dimette.
Scherzando, Benedetto XVI la chiamava «il mio vescovo». Com’è
papa Ratzinger, visto da vicino?
Come Papa ha indicato alla Chiesa le questioni fondamentali e in primo
luogo la questione di Dio. Inoltre ha portato la sua specifica sensibilità
di teologo e l’esperienza vissuta al Concilio. Sotto il profilo umano ho
sempre ammirato in lui la mitezza. Davvero si può applicare a Benedetto
XVI questa beatitudine: «Beati i miti perché erediteranno la terra».
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
1 marzo
Il pellegrino obbediente
«Piena obbedienza al nuovo Papa»
di Mimmo Muolo
Q
uando il rotore del bianco elicottero ha cominciato a muoversi, lassù
nell’eliporto in cima al Colle Vaticano, a quasi tutti è venuto spontaneo guardare l’orologio. Le 17,04 di giovedì 28 febbraio 2013. Momento
storico in una data storica. Da lì a qualche secondo il velivolo con a bordo
Benedetto XVI e il suo segretario personale, monsignor Georg Gänswein,
si è librato in aria e persino gli alberi intorno, frustati dal vortice d’aria
delle pale, sembravano agitare i rami come braccia in segno di commosso
saluto. Quel gesto, in verità, è stato il vero fil rouge dell’ultima giornata
da Romano Pontefice di Joseph Ratzinger. Ripetuto da migliaia di fedeli
con il naso all’insù in piazza San Pietro, dove hanno atteso che passasse
l’elicottero papale. E anche – pur in atteggiamento consono alla dignità
cardinalizia – dai 144 cardinali presenti a Roma, che in mattinata, a uno a
uno, sono sfilati davanti a Benedetto XVI, dopo averne ascoltato l’ultimo
discorso (che Avvenire pubblica integralmente).
Naturalmente, però, il più atteso, il più cercato, il più prezioso è stato
alla fine il saluto del Papa. A Roma e a Castel Gandolfo (nel breve affaccio sulla piazza, che riferiamo in altra parte del giornale). Ai fedeli e ai
membri del suo “Senato”. E a sorpresa anche verso colui che, proprio da
quel “Senato”, cioè dal collegio cardinalizio, sarà chiamato a succedergli. «Che il Signore vi mostri – ha detto il Pontefice sollevando gli occhi
dal discorso scritto e guardando intensamente i suoi interlocutori – quello
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
che è voluto da Lui. Tra voi, tra il Collegio cardinalizio, c’è anche il futuro Papa, al quale già oggi prometto la mia incondizionata reverenza ed
obbedienza».
Ha parlato della Chiesa, papa Ratzinger, citando Romano Guardini
(«Non è una istituzione escogitata e costruita a tavolino, ma una realtà
vivente» e «il suo cuore è Cristo»). E ha ringraziato i cardinali («per me
è stata una gioia camminare con voi in questi anni»), auspicando che
il sacro collegio sia sempre più «come un’orchestra, dove le diversità,
espressione della Chiesa universale, concorrano sempre alla superiore e
concorde armonia». Così, quando qualche minuto dopo è cominciato il
baciamano individuale dei porporati, quell’orchestra ha “suonato” nelle
lingue di tutto il mondo l’ultimo inno di affetto e di fedeltà al Pontefice
nel giorno della sua scelta più difficile. Un inno che può essere riassunto
nelle parole del saluto del cardinale decano: «Sappia, Padre Santo – ha
detto Angelo Sodano parafrasando le parole dei discepoli di Emmaus –,
che ardeva anche il nostro cuore quando camminavamo con lei in questi
ultimi otto anni. Oggi vogliamo ancora una volta esprimerle tutta la nostra gratitudine».
E infatti la si è vista eccome, quella gratitudine, sul volto dei cardinali.
Giovani e anziani, alcuni anche in carrozzina, europei o giunti da altri
continenti, di pelle bianca o scura. Con gli occhi a mandorla o con i tratti
tipicamente latinoamericani. Un mappamondo vivente in cui le singole
identità, e le tante differenze, non sono di ostacolo alla comunione. Per
tutti il Papa ha avuto un sorriso e una parola. Da tutti ha ricevuto conforto
e sostegno. Anche dai capi dicastero non cardinali presenti all’udienza e
dai cerimonieri, con i quali ha posato per l’ultima fotografia, prima di ritirarsi per «il pranzo con la famiglia pontificia e senza alcun ospite particolare» (come ha riferito il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi).
Infine, poco prima delle 17, il congedo dall’appartamento (quasi contemporaneamente all’ultimo tweet), la discesa nel cortile di San Damaso,
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
dove era schierato il picchetto d’onore e, ad attenderlo c’era il segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone (che alle 20, nella sua qualità di
camerlengo, ha fatto sigillare l’appartamento e fatto chiudere le finestre
che danno su piazza San Pietro), quindi il breve tragitto in auto fino all’eliporto. È iniziato così l’ultimo viaggio di Benedetto XVI. Il più breve o
il più lungo, a seconda dei punti di vista. Certamente il più sorprendente
e coraggioso.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
La Chiesa di Guardini, «realtà vivente»
di Elio Guerriero
N
el prendere congedo dai cardinali, Benedetto XVI ricordava ieri
uno dei suoi maestri e amici, Romano Guardini. Nel 1922 il pensatore italo-tedesco, che già aveva entusiasmato i lettori con Lo spirito
della liturgia, pubblicava un volume, Il senso della Chiesa, destinato a
risvegliare la coscienza dei credenti, in particolare dei giovani. Scriveva l’autore che un fatto nuovo si segnala nei primi decenni del secolo
ventesimo: «La Chiesa si risveglia nelle anime», in quelle che celebrano
la liturgia e, come Maria, accolgono la parola di Dio e la fanno rivivere
nella loro vita di modo che la Chiesa non è più una realtà esteriore, ma
una realtà viva nella quale i fedeli possono incontrare Gesù, il Signore.
Tra i numerosi giovani conquistati da Guardini vi era Joseph Ratzinger.
Proprio l’amore alla liturgia e alla vita della Chiesa fu all’origine della
vocazione del piccolo Joseph che presto scelse la via del seminario rimanendo provvidenzialmente immune dal contagio del nazionalsocialismo.
Possiamo allora immaginare i sentimenti con i quali, dopo circa 30 anni,
egli giungeva a Roma per partecipare al Vaticano II. Era stato nominato
esperto al Concilio proprio insieme a Guardini, l’antico maestro diventato intanto amico. Ratzinger accettò e svolse un importante lavoro per
l’approfondimento di uno dei temi più delicati della costituzione sulla
Chiesa: la natura sacramentale dell’ordinazione episcopale con la quale
si entra a far parte del collegio apostolico in unione con il successore di
Pietro che ha il compito di tenere unita la Chiesa. Guardini, invece, che
aveva ormai 78 anni, dovette rinunciare all’incarico per motivi di salute.
Egli, tuttavia, non mancò di accompagnare il lavoro conciliare con riflessioni raccolte nel volume La Chiesa del Signore, che era in profonda
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
sintonia con la costituzione Lumen gentium. Guardini stesso regalò la
sua opera autografata a Ratzinger, il quale ieri l’ha citata commosso ai
cardinali. In essa l’antico maestro scriveva: «La Chiesa non è un’istituzione escogitata e costruita a tavolino... ma una realtà vivente... Essa vive
lungo il corso del tempo, in divenire come ogni essere vivente, trasformandosi... Eppure nella sua natura rimane sempre la stessa e il suo cuore
è Cristo».
Questa realtà Papa Benedetto ha sperimentato negli anni giovanili e ,con
rinnovato entusiasmo, nei giorni scorsi, questa eredità egli vuole lasciare
ai cardinali e ai fedeli tutti. Non bisogna, dunque, lasciarsi intimorire
dalle miserie umane, dalle tempeste che sembrano travolgere la barca
del pescatore. Essa è affidabile per la presenza di Cristo che sempre la
purifica, la rinnova, la rende bella e viva. Per questo il Papa emerito ha
potuto rimettere il suo mandato con la fiducia, che viene dalla fede, che
il Signore guiderà ancora la sua Chiesa. Con il suo Spirito egli sceglierà
un nuovo pescatore che con rinnovata energia la condurrà al largo della
storia per annunciare ancora la parola buona del Vangelo. Benedetto intanto, come un discepolo del padre dei monaci, si ritira per dedicarsi alla
preghiera, l’opera di Dio, e così rimanere unito a Cristo, alla sua Chiesa,
e ai fedeli tutti.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
«Ora sono un semplice pellegrino»
da Castel Gandolfo Pino Ciociola
V
icino, vicinissimo al cuore, a volerlo sfiorare quasi con le dita. L’ultima volta. «Ora sono semplicemente un pellegrino che inizia la sua
ultima tappa su questa terra», confida Joseph Ratzinger a questa gente.
Affacciato al balcone principale del Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo, alle 17,40 del suo ultimo giorno di pontificato. È emozionato. Lo
si vede. Allarga le braccia, le protende in avanti, e forse vorrebbe stringere a sé queste persone e il mondo intero. Si confonde due volte: «Non
sono più il Sommo Pontefice della Chiesa cattolica... Lo sarò fino alle 20,
poi non più». E di nuovo al momento della benedizione: «Sia benedetto
Dio onnipotente... Vi benedica Dio onnipotente». Sì, è emozionato. Si
potrebbe scommettere, da lontano, che abbia gli occhi appena un po’ più
lucidi del solito. L’ultima volta. L’abbraccio è reciproco. Forte. E conta
più di ogni parola, di ogni cronaca, conta più della storia stessa. Tanta
gente ha le lacrime strozzate in gola e sul volto il sorriso più bello. È il
momento del saluto e lui sa, loro sanno, che non ce ne saranno altri. Esce
alla finestra alle diciassette e trentotto. L’applauso è tumultuoso, tanto
da non lasciarlo parlare per quasi un minuto, durante il quale il Papa
può, vuole, soltanto protendere in avanti le sue braccia. Poi dice: «Grazie, grazie di cuore cari amici. Sono felice di essere con voi, circondato
dalla bellezza del creato e dalla vostra simpatia, che mi fa molto bene.
Grazie della vostra amicizia». Deve interrompersi nuovamente per l’applauso. Quindi continua: «Voi sapete che questo mio giorno è diverso da
quelli precedenti: non sono più Pontefice sommo della Chiesa cattolica...
Fino alle otto di sera lo sono ancora, poi non più. Sono semplicemente un pellegrino che inizia la sua ultima tappa in questa terra». Ancora
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
un applauso, ma questo gli consegna più commozione degli altri. «Ma
vorrei ancora, con il mio cuore, con il mio amore, con la mia preghiera, con la mia riflessione, con tutte le mie forze interiori, lavorare per il
bene comune, per il bene della Chiesa e dell’umanità». L’ultima volta.
E questa piazza di Castel Gandolfo è piccola, adesso sembra un nonno
che saluta la sua famiglia prima di partire per un lunghissimo viaggio.
Sulla facciata del municipio, alla sinistra del Palazzo, campeggia una
grande scritta con palloncini argentati: «Grazie Benedetto. Siamo tutti
con te». Lui prosegue: «Mi sento molto appoggiato dalla vostra simpatia.
Andiamo avanti insieme con il Signore per il bene della Chiesa e del
mondo. Grazie, vi imparto adesso con tutto il cuore la mia benedizione». Eccolo, il momento sta arrivando. «Sia benedetto Dio onnipotente...
Vi benedica Dio onnipotente, Padre e Figlio e Spirito Santo». Qualche
istante ancora. Infine: «Grazie, grazie, buona notte. Grazie a voi tutti» e
di nuovo allarga e protende le sue braccia verso la gente. Fa freddo. Su
un cartello si legge: «La tua umiltà ti ha fatto ancora più grande. Grazie
Benedetto». Il sole sta cominciando a scendere per disegnare un tramonto che da qui, stasera, è mozzafiato. Benedetto XVI entra, la finestra si
chiude e da questo istante sarà «invisibile agli occhi del mondo», come
fece sapere poco dopo la sua rinuncia al ministero petrino. Lo salutano
ancora i sette, ottomila fedeli che riempiono la piazza e le vie di Castel
Gandolfo. Ripongono le bandiere, gli striscioni, i cartelli per Benedetto
XVI. L’ultima volta. A ridosso della piazza ci sono decine di furgoni
delle tivù arrivate da tutto il mondo, come le radio e i giornali. Per tutto
il giorno i cronisti hanno intervistato la gente, messo in piedi dirette su
dirette, preso appunti, preparato questo giorno che è uno dei sigilli della
Storia. Nel frattempo arrivavano i fedeli e alle 16 la piazza era stata già
chiusa, perché non c’era più posto. Alle 16,30 si era aperto il portone del
Palazzo e due Guardie svizzere erano state schierate ai suoi lati. Poco
dopo, sotto la finestra principale era stato calato il drappo pontificio. E
al rumore delle pale di un elicottero la piazza aveva applaudito d’istinto,
non importava che lassù non si potesse sentire e nemmeno che potesse
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
non essere l’elicottero sul quale stava arrivando il Papa. Quando alle 20
manca un soffio, è rimasta tanta gente, con le Guardie svizzere e le tivù
ad attendere le 20. Il tramonto se n’è andato, ha ceduto il posto alla sera
e le stelle, alzando la testa, si possono distinguere una per una. Ci siamo:
alle 20 in punto il portone del Palazzo Apostolico si chiude. Nello stesso
momento a Roma, in Vaticano, il cardinale Tarcisio Bertone, in qualità di
camerlengo, sigilla l’appartamento papale. Le agenzie di stampa battono
un flash di una sola riga: «Papa: termina pontificato Benedetto XVI».
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Coccopalmerio: sede vacante,
un tempo d’attesa
di Gianni Cardinale
Da ieri sera alle 20 la Chiesa è entrata nel periodo della cosiddetta Sede
vacante. Per spiegare le caratteristiche di questo particolarissimo periodo
della vita della comunità cattolica, Avvenire ha interpellato il cardinale
Francesco Coccopalmerio, 74 anni, presidente del Pontificio Consiglio
per i testi legislativi. Incontriamo il porporato, lombardo ma con radici
abruzzesi per via paterna, poco dopo che ha salutato Benedetto XVI, insieme agli altri membri del Collegio cardinalizio, nella Sala Clementina.
«Era sereno – racconta – con occhi luminosi che lasciavano trasparire il
suo amore per il Signore e quindi la sua delicatezza per le persone che
incontra». Ecco l’intervista.
Eminenza, quando si verifica la cosiddetta Sede vacante?
Quando il Papa non c’è più: il che si verifica o nel momento della morte
oppure nel momento stabilito dal Papa stesso nel caso in cui egli abbia
dato le dimissioni.
In questo periodo cosa cambia per la vita delle diocesi e delle parrocchie?
Nella vita delle diocesi e delle parrocchie non cambia nulla: i vescovi
diocesani e i parroci continuano nel loro ministero, le celebrazioni liturgiche continuano come sempre, con il solo particolare che nella preghiera
eucaristica della Messa non si nomina il Papa per il semplice motivo che
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
il nuovo Papa non c’è ancora. Pertanto viene ricordato solo il nome del
vescovo della diocesi.
E nel governo della Chiesa universale?
Come stabilisce l’articolo 14 della Costituzione apostolica Universi Dominici gregis emanata da Giovanni Paolo II il 22 febbraio 1996, cioè la
legge canonica per il periodo di Sede vacante «alla morte del Pontefice», oggi diciamo anche: nel momento delle dimissioni del Pontefice,
«tutti i capi dei dicasteri della Curia Romana … come anche i membri
dei medesimi dicasteri cessano dall’esercizio del loro ufficio. Viene fatta
eccezione per il Camerlengo di Santa Romana Chiesa e il Penitenziere
Maggiore…».
Qual è la ratio di questa norma?
Motivo di questa norma è che i capi o i membri dei dicasteri della Curia
Romana agiscono per mandato del Papa per cui, se il Papa non c’è, non
possono continuare ad agire. Il Camerlengo (incarico attualmente ricoperto dal cardinale Tarcisio Bertone, ndr), però, è colui che compie gli
adempimenti necessari in periodo di Sede vacante, mentre il Penitenziere Maggiore deve provvedere ai casi di coscienza anche gravi e a volte
urgenti. Come stabilito dallo stesso articolo 14 e dai seguenti, non cessa
neppure il cardinale vicario per la città di Roma né i cardinali che governano la Basilica di San Pietro e la Città del Vaticano.
Chi presiede al governo della Curia in questo periodo?
Come già detto, è l’ufficio del Camerlengo, cioè di quel cardinale che dal
Papa precedente è stato nominato a questo importante ministero, evidentemente con l’assistenza del Collegio dei cardinali.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Cosa è che si può decidere in questo periodo?
Diciamo in genere: le questioni ordinarie, che non rivestano particolare
importanza, salvo i casi di urgenza, come previsto dagli articoli dal 24 al
26 della Costituzione apostolica sopra citata. Per esempio nei dicasteri
prosegue lo studio delle varie questioni la cui decisione, se si stratta di
temi importanti, sarà sottoposta al futuro Pontefice.
E cosa no?
Per esempio la nomina dei vescovi.
Quando finisce la Sede vacante?
Quando c’è il nuovo Papa, e cioè nel momento in cui il cardinale validamente eletto ha espresso la sua accettazione.
Ma può essere eletto Papa un non cardinale?
Certamente: basta leggere il primo paragrafo del canone 332 del Codice
di diritto canonico. Qualsiasi battezzato cattolico, di sesso maschile, può
essere eletto Papa; nel caso non sia ancora vescovo deve ricevere subito
la consacrazione.
Come ipotesi di scuola, che tutti non ci auguriamo: quali sono i problemi che possono sorgere se il Conclave e così anche la Sede vacante
durasse troppo a lungo?
Si rischierebbe di limitare o, eventualmente, di bloccare la vita della
Chiesa a livello di governo della Chiesa universale. Per esempio, richiamandoci a quanto detto sopra, si rischierebbe di avere diocesi senza vescovo per un tempo eccessivamente lungo.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Vista l’esperienza che stiamo vivendo, prevede che in futuro ci possano essere ritocchi legislativi per meglio definire la figura del Papa
emerito?
Credo che qualche precisazione sarà utile e necessaria.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Questa capìta bellezza
di Pierangelo Sequeri
G
razie a Dio, la musica della Chiesa è per orchestra, non per solisti
e primedonne. Il canto nuovo dell’Agnello che è stato immolato –
l’unico che conosce alla perfezione i toni della voce del Padre – è affidato
alla coralità delle voci. Il direttore, le prime parti, le file degli orchestrali,
i coristi, ciascuno col proprio ruolo e il proprio timbro, sono al servizio
di una musica di Dio, che solo il Figlio poteva comporre per gli uomini.
E l’ha affidata alla Chiesa.
Avevo appena detto, parlando di estetica della santità e della testimonianza, di un cristianesimo che deve diventare più musicale. Il Papa Benedetto XVI ha indicato al Collegio dei Cardinali, riuniti ieri mattina in Vaticano per il suo congedo, l’icona dell’orchestra. La più adatta a intendere
il valore aggiunto della collegialità apostolica. È la metafora giusta. Non
si tratta di assemblare una macchina burocraticamente efficiente, né di
lavorare col bilancino delle dosi per una ricetta di successo. Si tratta del
senso della fede, della giusta intonazione, dell’intesa che nasce dall’abitudine a suonare insieme e del gusto per l’accordo migliore. Il Collegio
dei Cardinali deve dare la percezione di un’orchestra dove le diversità,
che sono «espressione della Chiesa universale», concorrono alla bellezza
e alla ricchezza «di una superiore e concorde armonia». E tutti devono
poterla sentire.
Il popolo di Dio, sorprendentemente affollato di molti dei quali «neppure conosciamo i nomi», come dice il libro dell’Apocalisse, ha colto il
segnale. Il Papa Benedetto ha dato il “la” alla giusta accordatura degli
strumenti, per la prova d’orchestra che deve incominciare: con un nuovo
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
direttore. Le moltitudini hanno sentito che questo Papa, con lo storico
gesto di un congedo umile e fermo dal ministero petrino, in favore della
Chiesa, la incoraggia – a cominciare dalle prime parti – a inaugurare
l’epoca di una nuova performance sinfonica della fede. Gli ultimi giorni,
le ultime ore, del ministero petrino di Joseph Ratzinger sono stati affettuosamente restituiti alla loro verità e alla loro grandezza, proprio da
questo popolo pellegrinante. Il suo ascolto fine dei toni di voce e dei gesti
profetici di Benedetto XVI è apparso di gran lunga l’interpretazione migliore. Più acuta e precisa di molte lenzuolate giornalistiche, ossessionate
dalla ricerca delle note false (con le loro sussiegose deduzioni apocalittiche, più ispirate a Nostradamus che al preteso rigore teologico delle loro
proiezioni). Il sensus fidei fidelium, l’istinto della fede, ha letteralmente
circondato Papa Ratzinger, mostrandosi più ammirato e intenerito di un
dono alto e inatteso, di quanto non fosse – giustamente – addolorato e
commosso per il distacco che lo accompagna. «È bene per voi che io
me ne vada». Senza potersi liberare del tutto dallo struggimento, questo
popolo ha capito la bellezza dell’atto di fede che gli è stato consegnato.
L’Anno della Fede ha avuto il suo gesto profetico. Non potrà più essere
una commemorazione: sarà azione della fede, o non sarà.
Quanto a lui stesso, il piccolo grande uomo che ora, nei suoi ultimi gesti del ministero che conferma la fede, ringrazia tutti e incoraggia tutti, ha sentito benissimo l’intensità di questo ascolto ammirato e attento.
«Vedo una Chiesa viva», ha detto, abbracciando un’ultima volta il popolo pellegrinante che lo circondava di ammirazione e di stima. E li ha
chiamati amici, con una frequenza inconsueta, in queste ultime ore. Tra
poco, sarò «semplicemente un pellegrino che inizia la sua ultima tappa
su questa terra», sono state le sue ultime parole da Papa, nel saluto finale
a Castel Gandolfo. Congedo dalla direzione dell’orchestra, non senza lo
splendido atto della conferma del suo intatto significato: tra voi, ha detto
Benedetto XVI ai cardinali, «c’è anche il futuro Papa, al quale già oggi
prometto la mia incondizionata reverenza e obbedienza». Congedo dal
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
ministero petrino della Chiesa, ma non dal servizio totalmente dedicato
alla Chiesa che ne ha indelebilmente plasmato la persona. «Vorrei ancora
lavorare con tutte le mie forze, con il mio cuore e la mia preghiera, per
il bene della Chiesa e del mondo». Quando racconteremo tutto questo,
nella Chiesa, alle generazioni che oggi non c’erano, dovremo alzarci in
piedi, e chinare lievemente il capo. E tendere l’orecchio, nella speranza
di poter ascoltare, insieme con loro, la musica che deve seguire.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Vingt-Trois: atto di fede nella Chiesa
di Daniele Zappalà
L
a sua visita del 2008, dal celebre discorso al Collège des Bernardins
alla Messa per il 150° anniversario delle apparizioni a Lourdes è
rimasta nel cuore dei francesi. E oggi, mentre è ancora fortissima l’emozione per la rinuncia di Benedetto XVI, il presidente della Conferenza
episcopale d’Oltralpe, il cardinale André Vingt-Trois, arcivescovo di Parigi ha accettato d’illustrare come il mondo cattolico francese vive questi
giorni di grande attesa e speranza.
«È un momento al contempo di stupefazione e di tristezza – sottolinea
il porporato –. Sapevamo che Benedetto XVI aveva considerato questa
possibilità, ma non pensavamo che il momento sarebbe arrivato così presto. Credo che tutti siano stati colpiti dal coraggio e dalla determinazione del Papa. Ricordiamo con emozione e gratitudine la visita che Benedetto XVI ha effettuato in Francia nel mese di settembre 2008. Fu un
vero momento di comunione e di fervore a Parigi così come a Lourdes.
Comprendiamo la decisione del Papa come un atto di fede nella Chiesa.
Siamo dunque chiamati a vivere quest’evento condividendo l’intenzione
del Papa: restare in questa fase nella fede totale nell’assistenza che Dio
accorda alla sua Chiesa».
Ha l’impressione che quest’annuncio giunga in una fase cruciale per
il cattolicesimo in Europa?
Ci sono forse fasi che non siano cruciali? Certo, constatiamo che il cattolicesimo europeo è spinto verso una profonda mutazione che giunge in
contemporanea rispetto alle trasformazioni della società e a un reale im-
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
poverimento delle forze alle quali eravamo abituati. Assistiamo a un’autentica rottura culturale con le radici giudeo-cristiane della nostra società.
Nel vedere ciò che perdiamo, ci si potrebbe limitare all’afflizione, anche
se si tende ad abbellire il passato. Ma mi pare che stiamo vivendo piuttosto una fase di forte provocazione spirituale per riprendere la missione su
nuove basi: la nuova evangelizzazione. I cattolici sono meno numerosi,
ma devono essere più determinati nella loro decisione di seguire Cristo.
Di fronte ai “rapidi cambiamenti” e alle “questioni di grande importanza per la vita della fede” evocati da Benedetto XVI, le Chiese
d’Europa hanno oggi un dovere particolare di coesione e di assistenza reciproca?
Abbiamo soprattutto un dovere di più grande disponibilità per rispondere
all’appello che Dio ci rivolge attraverso questi avvenimenti. L’attaccamento alla fede e alla Chiesa non può più accontentarsi del conformismo sociale, come Benedetto XVI ha indicato così bene nel suo libro
intervista Luce del mondo. I cristiani sono chiamati più che in passato
a scegliere di seguire Cristo e le sue conseguenze concrete, a diventare
dei veri testimoni della fede. Ciò suppone un rinnovamento nella nostra
adesione al Vangelo e uno sforzo di formazione particolare per darne
testimonianza nella nostra società. Sappiamo che la Chiesa non coincide
con nessuna società storica e l’appello alla santità non può confondersi
con i riferimenti di una società di consumo e di liberismo morale. In
questo contesto, non siamo chiamati a rinchiuderci in noi stessi ma, al
contrario, ad andare incontro ai nostri contemporanei per annunciare loro
la Buona Novella.
In Francia, l’Assemblée Nationale ha appena adottato in prima lettura il progetto di legge sul “matrimonio per tutti”. Ha l’impressione
che i francesi, in maggioranza, abbiano realmente compreso tutte le
poste in gioco legate ai cambiamenti promossi dal governo?
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Parliamo più precisamente di matrimonio degli omosessuali rispetto al
“matrimonio per tutti” che è un’espressione pubblicitaria senza gran significato. Non penso che la maggioranza dei francesi ne abbiano percepito le conseguenze. Dovrei aggiungere che non sono sicuro che tutti i
deputati che hanno votato questo progetto di legge ne abbiano valutato
la portata. A partire da uno slogan sull’uguaglianza e sulla possibilità di
aprire il matrimonio agli omosessuali, abbiamo visto apparire, man mano
che il dibattito avanzava, le modificazioni profonde che questo progetto
di legge apporta ed implica, in particolare per il legame filiale. Il bene del
bambino è stato il grande assente di questo progetto concepito principalmente in funzione dei desideri degli adulti.
Da dove possono giungere le nuove risorse per un sussulto di coscienza del Paese, di fronte ai rischi di derive legati a questo progetto di
legge?
Tutti gli argomenti sono stati ampiamente esposti. Ma sappiamo bene che
il dibattito non è solo razionale. In buona parte, riconduce all’affettività.
In questo campo, più degli argomenti, è la testimonianza che può spingere a riflettere. La nostra risorsa principale sono le famiglie che si sforzano
di vivere le virtù naturali dell’amore umano e le famiglie cristiane che
mostrano la potenza del Vangelo. Se nessuno vive davvero il matrimonio
e non ne mostra i frutti, perché continuare a battersi? Per difendere cosa?
Per questo penso che tutti sono chiamati a riprendere coscienza delle
poste in gioco del matrimonio eterosessuale, unico, definitivo e orientato
verso l’educazione dei figli. È un obiettivo che riguarda evidentemente i
cristiani nella loro fedeltà all’Alleanza. Ma più largamente riguarda tutte
le persone di buona volontà decise ad impiegare gli strumenti necessari
per assumere la loro responsabilità di genitori.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Da dove arriva Pietro
di Mimmo Muolo
S
arà bianco o nero, italiano o no, europeo o di un altro continente? Da
quando il Papa ha annunciato la sua rinuncia, domande più o meno
simili si susseguono nelle chiacchiere della gente come pure nelle dotte
analisi degli opinionisti. Tuttavia dubitiamo fortemente che saranno questi i dilemmi che guideranno i cardinali incaricati di disegnare l’identikit
del prossimo Papa prima nelle Congregazioni generali (una sorta di anticamera del Conclave che serve innanzitutto ad assicurare una guida alla
Chiesa nel periodo di Sede Vacante, ma anche a permettere ai porporati di
svolgere insieme «ponderate meditazioni circa i problemi della Chiesa»)
e poi nel Conclave vero e proprio.
Che il Papa sia bianco o nero, ad esempio, è più un problema mediatico
che una delle preoccupazioni del Sacro Collegio. Ricordate la canzoncina che si cantava negli anni ’70 nei nostri gruppi giovanili? «Di che
colore è la pelle di Dio?/ È nera, rossa, gialla, bruna, bianca perché/ lui ci
vede uguali davanti a sé». Dunque agli occhi della Chiesa (e perciò dei
cardinali elettori) il colore della pelle del nuovo Papa è costitutivamente
irrilevante.
Analoghi ragionamenti possono essere fatti per le altre due alternative.
Solo chi non ha presente l’enorme cambiamento geografico avvenuto nel
collegio cardinalizio dai tempi di Paolo VI a oggi può pensare che la provenienza geografica abbia ancora un peso decisivo. La Chiesa non è mai
stata “italiana”, anche se per molto tempo i cardinali nativi della Penisola
erano in maggioranza (e questo spiega in massima parte la lunga teoria
dei Papi italiani interrotta dagli ultimi due pontificati). Oggi che non è
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
più così – pur restando il gruppo degli italiani il più consistente –, e che
i fedeli nostri connazionali hanno dimostrato di saper amare Pontefici
venuti da altri Paesi, anche questa alternativa non è dirimente. Né tanto
meno è ipotizzabile che si vada verso un’alternanza del tipo “dopo tanti
Papi europei è ora di farne uno extraeuropeo”. Queste sono tutt’al più logiche da “toto-papa” o da campagna elettorale politica. E perciò del tutto
inapplicabili al Conclave.
Ben diverso è il modo di ragionare del collegio cardinalizio, all’interno
del quale, prima della persona, dovrà essere individuata la priorità pastorale per la Chiesa degli anni futuri. Benedetto XVI, da questo punto di
vista, ha detto – anche con la sua rinuncia e con gli ultimi discorsi – cose
fondamentali. Per esempio ha ricordato a tutti che la questione fondamentale oggi è quella della fede. E dunque della nuova evangelizzazione.
In pratica come ripresentare agli occhi del mondo la bellezza, la significatività e, perché no, anche la convenienza e infine l’unicità della fede
cristiana in quanto risposta di senso alle grandi domande dell’uomo. E
come fare in modo che il cristianesimo smetta di essere percepito come
una dottrina morale e non come l’incontro con la persona di Cristo; e che
la Chiesa sia sempre più un corpo vivo e non una semplice associazione.
Non ci stupiremmo, dunque, se a continuare la missione di Papa Ratzinger fosse chiamato un cardinale che per nascita – o almeno per formazione – provenga da una Chiesa che abbia già avviato il confronto con le
correnti di pensiero dominanti nel nostro tempo e dunque abbia imparato
a esprimere la novità dirompente del Vangelo anche in contesti molto secolarizzati. Competenza teologica, esperienza pastorale e dimestichezza
con le tecniche di comunicazione, oltre che una buona dose di fantasia,
doti personali che non sono certo mancate (sia pure in forme diverse)
nei Papi degli ultimi 150 anni, dovranno essere messe a servizio di questa priorità. E per quanto infine riguarda l’età, il segnale che viene dalla
rinuncia di Benedetto XVI, pur non essendo cogente, contiene una notevole dose di buon senso. Un Papa del terzo millennio non può essere
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
stanziale. Fa parte del suo ministero prendere aerei e visitare terre lontane. Dunque energia fisica e buona salute sono caratteristiche da mettere
in conto.
Quando fra qualche giorno, esaurite le Congregazioni generali, i cardinali entreranno nella Cappella Sistina e si vedranno avvolti dalla policromia michelangiolesca, è molto probabile che l’identikit umano sarà già a
buon punto. E che tornino loro in mente i versi di Giovanni Paolo II nel
Trittico Romano: «Con-clave: una compartecipata premura/ del lascito
delle chiavi del Regno./ (…) Non dimenticate: Omnia nuda et aperta sunt
ante oculos Eius./ Tu che penetri tutto - indica!/ Lui additerà». Ecco. Lo
Spirito additerà. E sarà allora che, al di là di ogni umano disegno, emergerà il volto reale del nuovo Papa. Bianco o nero, italiano, europeo o di
altri continenti che sia.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
La salvezza che passa dalle domande
di Alessandro Zaccuri
L’
uomo delle risposte ci ha insegnato ad amare le domande. Quelle
che Gesù prediligeva, quelle che i discepoli non si stancavano di
rivolgergli. Volete andarvene anche voi?, chiedeva il Maestro. E loro, per
bocca di Pietro, non riuscivano a replicare se non con un’altra domanda:
Signore, da chi andremo? È come una danza, che si ripete per tutto il Vangelo. Pilato che vuol sapere che cosa sia questa famosa verità. E Gesù che
dalla Croce rivolge al Padre la domanda di tutte le domande: Dio mio,
perché mi hai abbandonato? Accadrà ancora, qualche giorno dopo, sulla
strada per Emmaus, quando lo Sconosciuto si avvicinerà ai discepoli e
inizierà a interrogarli: di che cosa parlate, che cosa è successo? Sulle prime saranno loro a usare le domande come atto d’accusa (tu solo sei così
straniero a Gerusalemme?), poi toccherà a Lui svelare, domanda dopo
domanda, la loro incapacità di comprendere. Sappiamo come andrà a
finire. Gesù spezza il pane e nello stesso tempo si sottrae allo sguardo dei
due, che finalmente trovano la risposta giusta. Una risposta che, una volta
di più, ha la forma di una domanda. Il cuore ci bruciava in petto, come
abbiamo fatto a non riconoscerlo? La vita di ciascuno di noi, in fondo, è
legata a quel “come”, in attesa di quel “perché”.
Per anni, anche prima che diventasse Papa, Joseph Ratzinger è stato presentato come l’uomo delle risposte. Per via della generosità con cui, già
all’epoca in cui guidava la Congregazione per la Dottrina della Fede, non
si sottraeva alle interviste, non importa quanto articolate e impegnative.
Ma anche e specialmente per colpa del pregiudizio che si compiace delle
parti assegnate. Il conservatore, il progressista, il grande comunicatore.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Sappiamo bene quale ruolo fosse stato destinato al cardinal Ratzinger,
sappiamo bene attraverso quale lente deformante siano stati interpretati
gli atti – anche i più clamorosi e intensi – del pontificato di Benedetto
XVI. Un copione che il colpo di scena dell’11 febbraio scorso ha gioiosamente scompaginato con un gesto di abissale e toccante semplicità.
La rinuncia, certo. E insieme quell’affollarsi di domande che, in un solo
istante, ha accomunato credenti e non credenti nello stesso tempo sospeso. Come è successo di nuovo ieri, nei lunghi minuti del volo in elicottero
da San Pietro a Castel Gandolfo.
Che cosa siete andati a vedere nel deserto?, chiede Gesù riferendosi alla
folla curiosa della sorte del Battista. Che cosa abbiamo visto, in questi
giorni? Di sicuro siamo stati testimoni di uno di quei rari momenti in
cui il segreto di un uomo coincide con il mistero della storia. L’uno è
illuminato dall’altro, ma in modo tanto abbacinante da rendere quasi impossibile distinguere i dettagli della visione. Un pellegrino, ecco quello
che abbiamo visto, perché è questa la definizione che Benedetto XVI ha
scelto per sé nel brevissimo – e bellissimo – saluto finale ai fedeli. Un
pellegrino come tutti, impegnato come tanti altri nell’ultimo tratto del
cammino sulla terra. Uno che continua ad avanzare, a cercare, a farsi domande. Non perché le risposte non esistano, sia chiaro. Questa è l’illusione colpevole del nostro tempo, smanioso di ridurre a parodia la radicale
inquietudine del Vangelo. Con i gesti e le parole delle ultime settimane,
Benedetto XVI ci ha mostrato, in maniera davvero memorabile, quale
differenza corra tra salvezza e sicurezza. Sicuro è chi sfugge deliberatamente alle risposte, per paura della verità da cui sarebbe altrimenti giudicato. Salvo è chi non smette mai di interrogare, e di interrogarsi, anche a
costo di mettere in discussione ogni presunta certezza. Essere cristiani è
un rischio, ci ha insegnato il pellegrino Joseph Ratzinger. Un magnifico,
umanissimo rischio. Grandioso, come ogni domanda che sappia incrinare
la durezza del nostro cuore.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
La Chiesa è di Cristo
ma resta affidata a noi
di Maurizio Patriciello
U
na cosa è certa: Gesù non ci ha mai ingannati. I Vangeli non ci hanno nascosto niente, nemmeno le miserie e i tradimenti dei suoi amici. San Pietro, l’Apostolo che avrebbe dovuto ricordare a tutti che Dio
c’è e veglia su di loro; che ogni lamento, ogni ingiustizia ogni lacrima
versata non vanno perduti ma raccolti e custoditi negli scrigni dei cieli;
che il passaggio in questo mondo – davvero tanto breve – non è che l’introduzione al libro della vita, nel momento più difficile lo lasciò solo in
mezzo ai degli energumeni che lo sbeffeggiavano flagellandolo e sputandogli addosso. «Il Vangelo – ha detto il Papa nella sua ultima catechesi
di mercoledì 27 febbraio – purifica e rinnova, porta frutto, dovunque la
comunità dei credenti lo ascolta e accoglie la grazia di Dio nella verità
e nella carità. Questa è la mia fiducia, questa è la mia gioia… Vorrei che
ognuno sentisse la gioia di essere cristiano». Parole che avevano il sapore
di un testamento spirituale che lascia alla Chiesa da lui amata e servita.
Il termine gioia è risuonato diverse volte. Non il peso, non il dovere, ma
la gioia di essere cristiano. Il Papa ha candidamente confessato che «vi
sono stati anche momenti in cui le acque erano agitate e il vento contrario, come in tutta la storia della Chiesa, e il Signore sembrava dormire».
Chi di noi non ha vissuto momenti in cui Dio sembrava essere lontano,
inafferrabile? Chi non gli ha chiesto, almeno una volta nella vita, con il
cuore stretto in una morsa: «Signore dove sei? Perché te ne stai lontano?». Eppure, ha detto il Papa, «ho sempre saputo che in quella barca c’è
il Signore e ho sempre saputo che la barca della Chiesa non è mia, non è
nostra, ma è sua. E il Signore non la lascia affondare». Quanta serenità
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
traspare in queste parole. La Chiesa è di Cristo. È lui che l’ha acquistata
a prezzo del suo sangue. E in questa Chiesa, come nella rete di Pietro il
pescatore, finiscono pesci di ogni tipo. E insieme ai pesci qualcosa che
con il mare non dovrebbe avere niente a che fare.
La Chiesa è sua, ma è affidata a noi. A noi che dovremo tremare ogni
volta che accostiamo un fratello per annunciargli il Regno. Dio nessuno
mai lo ha visto. Ai suoi figli è affidato il compito di renderlo presente agli
uomini. E la nostra serietà, la nostra coerenza, la nostra santità possono
facilitare l’incontro. Quale responsabilità. Una missione ardua, affascinante, unica, certamente. Ci mette al riparo da ogni sciocca presunzione
il fatto che non siamo stati noi, ma Lui a volere così. Fu Lui infatti che,
pur sapendo di rischiare, volle mettere nelle nostre mani la Parola e i
Sacramenti. L’Eucarestia, un Pane che nella sua semplicità nasconde una
Presenza vera. La presenza stessa di Cristo. I cristiani lo mangiano, lo
conservano, lo adorano, ma potrebbero anche – e tante volte è accaduto – rigettarlo, calpestarlo, profanarlo. Così come la vita, che può essere
accolta, apprezzata, custodita, ma anche rinnegata, maltrattata, uccisa.
Questa libertà non dice il fallimento di Dio quanto piuttosto l’immensa
considerazione che Dio ha di ognuno di noi. E anche dopo essere stato
maltrattato e rinnegato Dio non si arrende ma continua imperterrito a cercare l’uomo per ricominciare daccapo. Come se lo spuntare di ogni alba
fosse l’inizio di una nuova umanità. È stato emozionante vedere il Papa,
il vicario di Cristo in terra, mentre ci apriva il cuore: «Amare la Chiesa
significa anche avere il coraggio di fare scelte difficili, sofferte, avendo
sempre davanti il bene della Chiesa e non se stessi». Parole che i cristiani
cattolici non dimenticheranno facilmente. Siamo stati chiamati a servire
la Chiesa, sposa e corpo di Cristo e farla, con la nostra vita di preghiera e
di fedeltà al Vangelo, più bella e trasparente. Servirci della Chiesa per noi
stessi sarebbe tradire e rinnegare la vocazione ricevuta in dono. Grazie,
Santo Padre.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
«Non ci ha lasciato orfani»
di Javier Echevarría *
«N
on vi lascerò orfani» (Gv 14, 18), disse Gesù agli apostoli: promise che avrebbe mandato loro lo Spirito Santo che, a sua volta
li avrebbe costituiti pienamente figli di Dio Padre. Non vi lascerò orfani: sono queste le parole che affiorano nella mia anima mentre finisce il
pontificato. Benedetto XVI non ci lascia orfani, perché prosegue vivo
il suo magistero, perché ci farà compagnia con la sua preghiera e con il
suo affetto paterno, perché ogni giorno diventa più forte la sua figura di
Buon Pastore e, infine, perché lo Spirito Santo continuerà a guidare la sua
Chiesa con un nuovo romano Pontefice.
Il ricco magistero di Benedetto XVI manifesta la sua straordinaria capacità di coniugare verità profonde con parole semplici. Ha approfittato
dell’apparente «eclissi di Dio» per invitarci a riscoprire il senso di Dio,
Creatore e Redentore, che opera sempre nel nostro mondo.
Ci ha ricordato con forza l’essenza amorevole di Dio e, di conseguenza,
la ragion d’essere dell’uomo e del suo cammino che, in questo Anno della fede, trova un riferimento sicuro nel Catechismo della Chiesa cattolica
e nel suo Compendio, frutti del Concilio.
Nell’omelia di inaugurazione del suo ministero petrino, Benedetto XVI
ci aveva invitati a incamminarci verso l’intima amicizia con il Figlio di
Dio, da cui tutto dipende. Dio parla e risponde ai nostri quesiti: non si
disinteressa di noi. Ricordo come, in occasione della canonizzazione di
san Josemaría, l’allora cardinale Ratzinger glossava l’espressione «Opus
Dei», Opera di Dio: il senso profondo di queste parole consiste nel lasciare che Dio agisca, perché la vita del cristiano si traduce soprattutto nel desiderio che la grazia e la carità di Cristo operino nella propria esistenza.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Così, acquista anche un particolare rilievo la sua riflessione sullo spirito
della liturgia che, nell’esprimere l’intima unione della Parola con il Pane
eucaristico, aggiunge la dimensione essenziale dell’adorazione e risolve,
elevandoli, tanti dibattiti. La partecipazione di ogni cristiano all’Eucaristia è, prima di ogni cosa, interiore, perché nella liturgia Dio prende l’iniziativa: quello che viviamo nella Messa è performativo, sempre nuovo,
perché lì Cristo ci trasforma.
Alla fine di una giornata di faticoso lavoro, uno stretto collaboratore invitò Giovanni Paolo II a risparmiarsi. «Dopo un Papa, ne viene un altro», fu
la risposta. Dunque, anche ora siamo tranquilli e pieni di speranza nelle
mani di Santa Maria, Madre di Dio e Madre nostra: la Sede di Pietro sarà
sempre principio e fondamento dell’unità della Chiesa, e stabile punto di
riferimento per il mondo. Il Papa ha preso una decisione libera, meditata
nella preghiera, per il bene della Chiesa; per questo abbiamo accolto con
pena questa notizia, ma con animo affettuosamente filiale e rispettoso.
Lo stesso Benedetto XVI ci ha assicurato che continuerà ad aiutarci con
la sua preghiera: una preghiera sulla quale tutti noi, figli e figlie della
Chiesa, possiamo riposare fiduciosamente, come negli anni del suo pontificato.
Ringrazio Dio per le diverse occasioni nelle quali, come Prelato dell’Opus Dei, sono stato ricevuto da Benedetto XVI. Mi commuovo, ora, ripensando alla sua semplicità e disponibilità, alla sua benevola accoglienza,
alla sua capacità di ascolto, al suo interesse per le notizie sull’espansione
apostolica della Prelatura. Ho potuto toccare con mano la sua attenzione,
da quell’autentico professore universitario che è, quando gli si parlava di
qualche iniziativa di carattere più intellettuale o del lavoro a servizio dei
malati terminali o di altre persone in difficoltà.
Il Papa non esitava a prendere paternamente tra le sue mani quelle del
suo interlocutore, infondendogli coraggio con affetto, con gesti attenti e
pazienti: sì, è veramente un padre, colmo di zelo per l’attività di evangelizzazione che tanti cristiani compiono a tutte le latitudini.
Assecondando l’invito di Benedetto XVI durante l’Angelus del 17 feb-
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
braio, preghiamo già per il prossimo Papa. Sentirci orfani? No! Lo Spirito Santo opera in questo tempo della Chiesa. Un altro Pietro verrà, con le
sue reti in spalla, nuovo vescovo di Roma e nuovo Padre per la famiglia
dei figli di Dio. E al papa Benedetto XVI, che sta per passare al suo successore il timone della barca del pescatore di Galilea, diciamo di tutto
cuore: grazie, Santo Padre, perdono per le nostre mancanze di corrispondenza ai suoi richiami di Buon Pastore; la preghiamo di non cessare di
aiutare tutto il popolo di Dio con la fecondità del suo pensiero e della sua
preghiera!
* prelato dell’Opus Dei
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
2 marzo
Ora la Chiesa attende
La tranquilla giornata di Benedetto XVI
tra preghiera, riflessione e lettura
di Gianni Cardinale
«I
l Santo Padre è sereno», ha detto il “portavoce” vaticano padre
Federico Lombardi nel briefing con i giornalisti di ieri, riferendo
i contenuti di un colloquio avuto con l’arcivescovo Georg Gänswein,
prefetto della Casa pontificia e segretario del Papa emerito che ha accompagnato a Castel Gandolfo. Il direttore della Sala Stampa vaticana
ha riferito che Benedetto XVI nella serata di giovedì, quando era già
entrata in vigore la Sede Vacante, «ha seguito come le televisioni hanno
raccontato le tante emozioni del pomeriggio di ieri» ed «ha apprezzato
il buon lavoro e la buona informazione». Il Papa ha seguito e apprezzato
le tv italiane, in particolare tutti i servizi del Tg2 e - per motivi di orario
- parte di quelli del Tg1. Dopo aver consumato la cena, Benedetto XVI
come suo solito ha fatto una passeggiata, questa volta all’interno degli
ampi saloni del Palazzo apostolico, quindi si è ritirato per la preghiera e
il riposo. Il Papa ha «dormito benissimo» ha aggiunto padre Lombardi,
spiegando poi che nella mattinata di ieri ha celebrato Messa, quindi ha recitato il breviario e ha fatto colazione. La giornata - ha riferito ancora - è
poi trascorsa nella preghiera e nella riflessione, leggendo i tanti messaggi
che gli sono arrivati e la consueta passeggiata nei giardini. Padre Lombardi ha anche detto che Benedetto XVI ha portato con sé alcuni libri di
teologia, spiritualità e storia, tra i quali “L’estetica teologica” di Hans
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Urs von Balthasar. «Nei giorni passati, – ha quindi riferito il “portavoce”
vaticano – il Papa suonava il pianoforte alla sera, dopo la cena - e questo
anche nelle settimane scorse - come segno, direi, della distensione e della serenità del suo animo. Ieri sera, in particolare, monsignor Gänswein
non lo ha sentito suonare, ma pensa che nei giorni prossimi riprenderà
sicuramente».
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Re: «E’ stato il Papa
della fede amica della ragione»
di Mimmo Muolo
È
stato «il Papa mite», «il Papa della fede profondamente amica della
ragione». Ma di «una ragione che va oltre i ristretti confini dell’intelligenza umana». E proprio per questo «è stato anche il Papa che i cultori
della ragione pura e del laicismo non hanno voluto comprendere, ostacolandolo in tutti i modi». Tuttavia, per il cardinale Giovanni Battista Re,
nonostante le difficoltà, «gli otto anni di Benedetto XVI rimarranno nella
storia» e il Papa ora emerito deve essere considerato «un protagonista
del pensiero e della coscienza». Il prefetto emerito della Congregazione
per i vescovi (incarico mantenuto fino al 30 giugno 2010), 79 anni ben
portati, accetta di fare in questa intervista ad Avvenire una riflessione
a caldo del pontificato appena concluso. Dall’inizio della Sede vacante
non sono ancora passate 24 ore e all’interno delle Mura Leonine, dove
si trova la residenza del porporato, c’è uno strano silenzio. Qui sembra
quasi di poter toccare con mano il Cupolone e le mura esterne della Sistina. E la Domus Sanctae Martae, che ospiterà i cardinali elettori durante
il Conclave, è a meno di 100 metri. Ma il pensiero del cardinale Re per
il momento è rivolto soprattutto a Benedetto XVI e alla «grande eredità
spirituale che ha lasciato».
Eminenza, che cosa ha pensato alle otto di giovedì sera, quando si è
chiuso il grande portone del Palazzo di Castel Gandolfo?
Ho avvertito, penso come tutti, una grande emozione. Vedere chiuso
quell’imponente portone mi ha stretto il cuore, perché si è chiuso un pe-
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
riodo in cui Benedetto XVI ha dato molto con i suoi discorsi e con il suo
insegnamento. Ma si è aperta una nuova fase nella quale il Papa si dedica al ministero della preghiera e lascia a energie nuove il governo della
Chiesa. Abbiamo in sostanza anche noi un Mosè sul monte. Benedetto
XVI infatti ha detto che non lascia la croce e che non ci abbandona. Egli
continuerà ad esserci vicino mediante il ministero dell’intercessione a
favore della Chiesa e dell’umanità. Come Mosè è salito sul monte per
aiutare il suo popolo a vincere contro Amalek, così Benedetto XVI si
dedicherà al bene della Chiesa con le mani alzate nella preghiera.
Come definirebbe il pontificato di Benedetto XVI?
Questi otto anni resteranno nella storia per l’alto insegnamento che egli
lascia con le tre encicliche, con i suoi numerosi documenti, con i tanti
discorsi e con i tre volumi dedicati a Gesù di Nazaret. Si è rivelato un
protagonista sul piano del pensiero e delle coscienza, nello sforzo di aiutare tutti a dare spazio alla luce che viene da Dio e che dà senso all’umana
esistenza.
Qual è a suo avviso la cifra distintiva della sua eredità?
Benedetto XVI ha detto chiaramente al mondo che senza Dio non c’è futuro. Dobbiamo infatti ricordare la sua ferma opposizione alla «dittatura
del relativismo» e la continua riaffermazione dei valori morali, facendo
leva sulla legge naturale, iscritta nel cuore di ogni uomo e di ogni donna.
Tutto il suo pontificato, inoltre, è stato orientato a ravvivare e irrobustire nei cristiani la fede in Dio, e in questo senso va anche l’indizione
dell’Anno che stiamo vivendo. In pari tempo però ha cercato di valorizzare la ragione e di ampliare il suo spazio, nella profonda convinzione
che «il mondo della ragione e il mondo della fede hanno bisogno l’uno
dell’altro».
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Perché allora si ha come l’impressione che su molte questioni egli
non sia stato capito?
Effettivamente questo è un paradosso, anche perché a non volerlo capire
sono stati soprattutto i cultori della ragione pura e assoluta. Amalek, in
fondo, esiste anche oggi e si nasconde sotto le forme del secolarismo.
Di qui l’indicazione fondamentale di questo pontificato. Il mondo, dice
in pratica papa Ratzinger, ha molti problemi sociali, economici, politici,
ma quello che sta alla radice di tutto è la mancanza di fede in Dio. Perciò
Benedetto XVI ha mirato dritto al cuore e questo ha dato molto fastidio
a chi vorrebbe cancellare Dio dall’orizzonte umano. Bisogna però dire
che le sue riflessioni sui temi culturali, morali ed esistenziali sono state
ascoltate anche da persone lontane e illuminate, perché Joseph Ratzinger
oltre che un grande teologo, è stato un grande pensatore. E in tale veste ha
cercato di capire il nostro mondo moderno nel quale la globalizzazione –
come afferma nella Caritas in veritate – ha reso gli uomini più vicini, ma
non più fraterni.
C’è un messaggio anche nella sua rinuncia?
Secondo me è un gesto che va apprezzato e ammirato per l’alto senso di
responsabilità che l’ha ispirato. Ad esempio, so per certo che si preoccupava di non avere le forze sufficienti per fare un viaggio lungo e faticoso
come quello a Rio de Janeiro per la prossima Gmg. Ma lì il Papa deve
esserci, diceva. In un tempo in cui domina l’attaccamento ai centri di
potere, il gesto del Papa ora emerito ci insegna che quando non si è più
in grado di compiere il proprio servizio, bisogna avere il coraggio di fare
un passo indietro e di lasciare spazio ad altri.
Qualcuno ha visto nei discorsi degli ultimi giorni di papa Ratzinger
il valore di una indicazione di prospettiva destinata ai cardinali che
eleggeranno il suo successore. Lei che ne pensa?
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Penso che questo discorsi vadano letti nella prospettiva di tutto il suo
pontificato e ci consegnano l’immagine di una Chiesa realtà viva, che si
alimenta della forza di Dio. Una Chiesa solidale con i problemi dell’uomo e che cerca ovunque di aiutare e di seminare il bene.
Ma in definitiva quando si aprirà la porta della Cappella Sistina,
quale sarà il suo stato d’animo?
Sicuramente avvertirò un grande senso di responsabilità, per aiutare a
scegliere il Papa di cui la Chiesa e il mondo hanno bisogno in questo
momento.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Purissima gioia, scintilla divina
Raffaele Vacca
N
el momento in cui Benedetto XVI ha lasciato volontariamente il papato, è opportuno non fare entrare nell’animo tristezza ed amarezza, ma quella gioia alla quale egli ha invitato durante tutto il suo pontificato, quantunque sapesse che il mondo tendeva sempre più ad abbassare
il nobile e l’alto e a far perdere le dimensioni più profonde dell’esistenza.
E quindi ad allontanare dalla vera gioia. Per comprendere bene qual sia
la gioia alla quale Benedetto XVI ha invitato, ci possono aiutare due
testi della letteratura tedesca. Uno è la prima delle Lettere sull’autoformazione di Romano Guardini, pubblicate nel 1921; l’altro è l’ode alla
gioia (An die Freude) scritta da Friedrich Schiller nel 1786, che Ludwig
van Beethoven usò in parte per il finale della sua grandiosa Nona Sinfonia, che esprime il passar della solitudine desolata alla gioia universale.
Subito all’inizio della sua lettera, Romano Guardini, considerato da Joseph Ratzinger “grande maestro”, scrive che c’è completa diversità tra
l’essere allegri e la gioia. Questa vive nell’intimo, è silenziosa, profondamente radicata, ed è sorella della serietà. L’essere allegri invece è un
fatto esterno, rumoroso, che presto si dissolve. La gioia trasforma ogni
cosa ed illumina il mondo. Viene e va a piacer suo. Tuttavia ognuno può
tendere verso d’essa; ciascuno la può possedere. «Non proviene dal denaro, da una vita comoda, o dal fatto d’essere riveriti dalla gente, anche
se da tutto questo possa essere influenzata». Viene piuttosto dalle cose
nobili, da un lavoro intenso, da una parola gentile, che si è sentita o si è
potuta dire, dall’essersi opposti coraggiosamente all’errore di qualcuno
o dall’aver raggiunto una veduta chiara in qualche questione importante.
Dopo aver ricordato che è nell’interiore che abita Dio, che è la verità,
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Romano Guardini afferma che è Lui la fonte vera della gioia. Se si è una
sola cosa con Dio allora la sua gioia fluisce in noi, anche se il mondo
esterno è contrario. Ma l’essere una sola cosa con Dio deve essere libero,
coraggioso, non forzato, angosciato o diffidente. Prima di ogni lavoro o
al sopraggiungere di qualcosa di nuovo ci si deve domandare lietamente
che cosa si debba fare, senza lasciarsi ingannare dal capriccio, dalla volubilità, dall’indolenza verso se stessi. E bisogna sempre tener presente
che due sono i grandi nemici della gioia: il malumore e la malinconia. Il
malumore deriva dal prendere sempre tutto a male, dal non saper ridere,
dal non saper rinunciare, dal non saper lasciar correre. La malinconia,
che infonde vaga tristezza, struggente inquietudine, e spinge a rinchiudersi in se stessi, è una forza oscura che disgrega l’anima, se non la si
ferma al primo avvertirla, e porta a non padroneggiare più la propria
vita. Friedrich Schiller inizia la sua ode invitando gli amici a tralasciare
i soliti suoni e ad intonarne altri, più piacevoli e più gioiosi. Poi scrive
che la gioia è una bella scintilla divina, che ha la magia di ricongiungere
ciò che la moda ha rigidamente diviso, e di far sì che tutti gli uomini che
l’avvertano diventino fratelli. Gioia vien donata agli uomini dalla natura
con i suoi luoghi di divina bellezza. Sia i buoni che i malvagi seguono
la traccia della gioia. Schiller invita tutti a percorrere gioiosamente la
propria strada, così come gli astri percorrono la loro nella splendida volta
del cielo. Dopo aver esortato le moltitudini del mondo ad abbracciarsi,
ad essere fratelli, dice: «Sopra il cielo stellato deve abitare un padre affettuoso». E domanda: «Vi inginocchiate, o moltitudini? Intuisci il tuo creatore, o mondo?». E conclude: «Cercalo sopra il cielo stellato! Sopra le
stelle deve abitare!». Aveva scritto Romano Guardini che ogni volta che
sinceramente diciamo: «Signore, io voglio ciò che tu vuoi», è aperta la
via verso la gioia di Dio. Per questo siamo certi che per Benedetto XVI,
il quale ha compreso che per il bene della Chiesa il Signore ha voluto la
sua rinuncia al papato, si sia aperta la via verso quella gioia di Dio, che
costantemente ha augurato a tutti gli uomini del mondo di buona volontà.
E ciò sentendo anche in noi stessi quella purissima gioia che è stata spesso goduta nei tempi che sono svaniti.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Rusconi: «Una decisione spontanea
e un atto di libertà»
di Marco Roncalli
P
ensato e scritto in tempi record Il gran rifiuto. Perché un Papa si dimette (Morcelliana, pp.152, euro 7,90) non va confuso con le raccolte giornalistiche appena uscite su quella che dall’11 febbraio scorso continua ad essere la “notizia”. E non solo perché a firmare l’instant-book
è professore di Storia del cristianesimo all’Università di Roma Tre, ma
perché Roberto Rusconi, l’autore, ha già dedicato al papato opere importanti. Così la vera difficoltà non è stata raccontare e interpretare – tra
storia, spiritualità e politica – le rinunce di lontani predecessori di Benedetto XVI: quelle alle origini della Chiesa,ad esempio con Ponziano (verosimilmente nel 235), quella volontaria di Celestino V (Papa per pochi
mesi nel 1294), quelle coatte fra ’300 e ’400, durante lo scisma e la crisi
conciliare della Chiesa d’Occidente (alle quali segue il consolidamento
del potere dei successori di Pietro). E nemmeno dar conto delle ipotesi
che tentarono Pio XII e Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II.
La vera difficoltà è stata quella di spiegare quanto appena successo, preso
atto che - dopo più di sette secoli - Benedetto XVI ha reso effettiva una
possibilità astrattamente prevista dal Diritto canonico, e che la sua rinuncia torna a segnare una cesura nella storia della Chiesa.
Professor Rusconi è così?
Sì. Se le precedenti rinunce da parte di un Papa regnante sono state formalmente volontarie, in un certo senso erano forzate dagli avvenimenti,
anche esterni alla Chiesa. Mentre la rinuncia da parte di Benedetto XVI è
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
spontanea e apre oggettivamente scenari inattesi.
Decisione spontanea e atto di libertà. Lei però nel suo libro evoca
anche il Vaticano II...
Sì. Alla base della decisione c’erano già precise premesse anche oltre
la biografia di Ratzinger : Concilio e post Concilio…Ci pensi .Lo stesso
profilo individuale di Benedetto XVI per molti versi richiama la personalità di Paolo VI. E non è per nulla casuale che due pontefici di una simile
caratura intellettuale, all’indomani del Vaticano II, abbiano pensato di
rinunciare al papato e che Ratzinger lo abbia fatto.
La tentazione della rinuncia, ha sfiorato anche altri papi del ’900...
In ben altri contesti. Si pensi alla lettera di rinuncia al pontificato, che Pio
XII avrebbe preparato, davanti ai rischi di rapimento da parte di Hitler
: «Così avrebbero portato via il cardinal Pacelli non il Papa», secondo
quanto riferì il cardinal Tardini. E fu sempre lui, anni dopo, ad affermare
che Pio XII avrebbe dato disposizioni perché l’elezione del suo successore si tenesse a Lisbona, nel territorio neutrale del Portogallo.
Un Conclave dell’esilio dopo quasi un secolo e mezzo...
Sì: come non si vedeva dal 1800, anno in cui a Venezia, sotto la protezione dell’imperatore d’Austria, Pio VII fu eletto a succedere a Pio VI,
morto in Francia, dove era stato deportato dalle armate repubblicane..
A giorni inizierà il Conclave. Vi sono possibilità che il successore si
avvalga dell’aiuto non solo spirituale di Benedetto XVI? Cosa dice
la storia?
L’unica coesistenza fra due Pontefici legittimi è quella di Bonifacio VIII
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
e Celestino V, ma il primo mise letteralmente sotto chiave il secondo sino
alla morte. C’era il timore che i suoi sostenitori dessero vita a uno scisma.
Tuttavia facendo riferimento a quanto potrà accadere oggi, per Benedetto
XVI la natura dei rapporti dipenderà molto dalla scelta del suo successore e dagli orientamenti che vorrà imprimere al suo nuovo pontificato.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Il presidente della nuova Accademia
di latinità, Ivano Dionigi: il «suo» latino,
lingua del dialogo
di Matteo Liut
N
ello scrigno dei tesori che il pontificato di Benedetto XVI lascia
in eredità alla Chiesa c’è anche una rinnovata attenzione al latino.
Un amore, quello per la classicità, coltivato a lungo dal teologo Joseph
Ratzinger e culminato nell’istituzione della Pontificia Accademia di latinità. Secondo il presidente del nuovo organo, Ivano Dionigi, rettore
dell’Università di Bologna, quella auspicata dal Pontefice tedesco non è
un’attività da archeologi ma un’opera «di cultura» in grado di dare solide fondamenta a tutta la Chiesa e di rispondere alle domande del tempo
attuale.
Professore, da dove nasce questa premura per il latino da parte di
Ratzinger?
Da uomo colto quale è, nasce di certo dalla sua sensibilità, dal suo gusto estetico letterario. Ma a questo si aggiunge la consapevolezza che il
latino nella storia è stato la lingua dell’«imperium», dello «studium» e
dell’«ecclesia». Inoltre questa lingua ha in sé tre proprietà che trovano
corrispondenza nelle caratteristiche della fede: l’eredità, l’universalità e
l’immutabilità. Innanzitutto, infatti, essa è stata la lingua dei Padri della
Chiesa, la lingua dei teologi, la lingua del diritto canonico, la lingua dei
Concili, la lingua della liturgia. Poi è la lingua con cui la Chiesa si è rivolta a tutti i popoli. Infine, nella fissità di quella che tutti considerano una
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
lingua morta si rispecchia l’immutabilità del nucleo della fede. È chiaro
quindi che alcune letture della scelta di Ratzinger di rilanciare il latino
sono limitate e banali. A spingere Benedetto XVI in questa direzione non
è stata, come qualcuno ha detto, la volontà di ricomporre la frattura con i
lefebvriani o un semplice ritorno al passato, ma qualcosa di più grande e
complesso, qualcosa che viene da lontano. D’altra parte l’attenzione alla
lingua e alla cultura latine – che andrebbero accompagnate anche con
quelle greche classiche – è un’eredità che Benedetto XVI ha raccolto dai
Pontefici suoi predecessori. E forse l’allarme è partito anche dal fatto che
oggi pure tra il clero il latino è poco conosciuto.
Ma a cosa può servire il latino oggi alla Chiesa?
Negli ultimi tre lustri a forza di chiederci cosa serve e cosa non serve, in
realtà, ci siamo tutti impoveriti. A forza di ragionare in questo modo ci
siamo creati un deficit di pensiero e di attenzione all’anima, come ha ben
compreso Benedetto XVI. Certo si potrebbe obiettare che oggi la Chiesa
ha ben altre priorità, come l’evangelizzazione. Ma con il “benaltrismo” si
fa poco, anche perché io credo che oggi la riscoperta del latino non abbia
solo un valore fondativo, di ritorno alle radici. In realtà questo rilancio
può offrire un contraltare alla modernità, può essere sanamente e positivamente antagonistico al presente.
E in che modo questo sarebbe costruttivo?
Il latino è una lingua tutta imperniata sulla temporalità, sul verbo, è una
lingua «sub specie temporis». Questo è il «di più» della riscoperta della
lingua e della cultura latina oggi, in un momento in cui tutto è sincronico
e c’è la dittatura del presente. In latino anche l’«ordo verborum», l’ordine
delle parole, ti fa riscoprire la dimensione del tempo e la vita dell’uomo
è tempo. Noi oggi abbiamo bisogno della storia. Inoltre il latino insegna
la complessità.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Lei auspica, insomma, che tutti studino il latino?
No, non penso che tutti obbligatoriamente debbano sapere il latino. Ma
credo che, come ha saputo ben cogliere anche Ratzinger, il latino sia una
ricchezza da spendere. Per questo sono convinto della necessità che nella
Chiesa e nelle università ci sia ancora chi capisce il latino, lo insegna e
lo sa scrivere. È necessario per permetterci di continuare oggi a essere
mediatori culturali: per tradurre i padri, gli autori classici e tutto il patrimonio della Chiesa bisogna sottoporre i testi alle sollecitazioni del tempo
attuale e allora a domande nuove bisogna dare risposte nuove. È falsa,
insomma, la contrapposizione tra i «progressisti» che sono per l’inglese
e internet e i «conservatori» che sono per il latino.
Non c’è il rischio che il latino venga percepito come «lingua del potere» che allontana la Chiesa?
Io penso che la Chiesa debba continuare a farsi capire il più possibile e
che anche in quest’opera debba guardare al latino come a uno strumento,
non un fine. È vero, poi, che nel passato alcuni hanno fatto un uso ideologico dei classici, mettendoli al servizio del potere, ma il latino non è un
fatto ideologico è un fatto culturale. Per usare un’espressione di Massimo
Cacciari in realtà i classici non sono al servizio del potere, ma ci liberano
dal potere, ci insegnano ad ascoltare senza ubbidire passivamente. D’altra parte l’attenzione ai nuovi media ha dimostrato che Ratzinger è un
uomo sensibile al dialogo e l’amore per il latino rientra in questo solco.
Il latino, insomma, a mio parere è un supplemento al dialogo in senso
etimologico: avvicina al logos, insegna a parlare e a ragionare bene.
Cosa ha provato quando Benedetto XVI ha annunciato le sue dimissioni in latino?
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Ho pensato che non poteva darle se non in latino, in coerenza con l’annuncio dell’«habemus Papam». Un gesto in linea con il suo amore per
questa lingua, che ha voluto affidare anche ai nuovi media. E poi giustamente quello era un contesto solenne, un Concistoro. Confesso, infine, di
aver pensato che quell’annuncio dava un bel «vantaggio» al latino.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
3 marzo
In preghiera verso il Conclave
Conclave, in arrivo i cardinali elettori
di Gianni Cardinale
È
una domenica senza Angelus papale in piazza San Pietro, quella
odierna. La prima della Sede vacante iniziata giovedì sera alle 20
con l’entrata in vigore della rinuncia di Benedetto XVI. Ma nella Basilica Vaticana i momenti di preghiera si moltiplicano. C’è l’adorazione
permanente iniziata nella cappella del Santissimo in San Pietro, dove tre
religiose contemplative messicane si alternano davanti a Gesù Eucaristia.
Mentre prima della Messa della sera, sempre in Basilica, viene elevata
una preghiera speciale per il Collegio dei cardinali e per la preparazione
all’elezione del nuovo Papa. Lo ha precisato ieri il portavoce vaticano padre Federico Lombardi nel corso del consueto briefing con i giornalisti.
Nell’occasione il direttore della Sala Stampa vaticana, ha puntualizzato
che ancora non è chiaro quanti saranno i cardinali elettori presenti domani, quando alle 9,30 inizieranno i lavori della Congregazione generale, nell’Aula Nuova del Sinodo, attigua alla Sala Nervi in Vaticano. «A
Roma - ha detto padre Lombardi - risultano risiedere permanentemente
75 cardinali». E ha aggiunto: «66 cardinali, che non risiedono a Roma,
hanno già indicato esattamente la loro residenza, in modo che il Collegio
cardinalizio possa essere in contatto con loro, e hanno indicato anche la
data del loro arrivo. Altri stanno arrivando». Tuttavia «gli officiali del
Collegio ritengono che prima di lunedì, alla prima riunione, non avremo
ancora un conto preciso dei presenti». Inoltre «sono arrivate anche alcune
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
informazioni di cardinali che non parteciperanno: non solo i due elettori
di cui abbiamo già parlato, ma anche diversi non elettori hanno comunicato che per motivi di salute non verranno». Come è noto i cardinali
sono complessivamente 207, di cui 117 elettori, e di questi hanno già
dichiarato di non venire a Roma l’indonesiano Julius Darmaatmadja e lo
scozzese Keith Michael Patrick O’Brien.
Il portavoce vaticano ha inoltre spiegato che l’«anello piscatorio» di Benedetto XVI non è stato ancora annullato, ma che la segreteria di Stato ha
consegnato alla Camera Apostolica i sigilli con cui si bollavano le lettere
a nome di Sua Santità: in pratica i timbri sono stati rigati, in modo da non
essere più utilizzabili.
In un suo editoriale per la Radio Vaticana, di cui è direttore, padre Lombardi ha inoltre osservato come «gli ultimi due giorni del pontificato di
Benedetto XVI rimarranno certamente scolpiti nella memoria di innumerevoli persone e segneranno una tappa importante, nuova e inedita, della
storia della Chiesa in cammino». «Se papa Wojtyla - ha aggiunto - aveva
dato con coraggio ammirevole davanti agli occhi del mondo la sua testimonianza di fede nella sofferenza della malattia, papa Ratzinger con non
minore coraggio ci ha dato la testimonianza dell’accettazione davanti a
Dio dei limiti della vecchiaia e del discernimento sull’esercizio della responsabilità che Dio gli aveva affidato». «Come ci ha detto efficacemente lui stesso, la rinuncia del Papa non è in nessun modo un abbandono,
né della missione ricevuta, né tanto meno dei fedeli», ha puntualizzato
padre Lombardi. Che ha così proseguito la sua riflessione: «In questo
senso il lascito di papa Benedetto XVI è oggi un invito alla preghiera e
alla responsabilità per tutti. Anzitutto naturalmente per i cardinali su cui
incombe il compito dell’elezione del Successore, ma anche e non meno
per tutta la Chiesa, che deve accompagnare nella preghiera il discernimento degli elettori e dovrà accompagnare il nuovo Papa nel compito di
annunciare efficacemente il Vangelo “per il bene della Chiesa e dell’umanità”, e di guidare la comunità ad una fedeltà sempre più grande allo
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
stesso Vangelo di Cristo».
Come già detto, domani mattina ci sarà la prima delle Congregazioni generali dei cardinali che precedono il Conclave vero e proprio, il cui inizio
verrà stabilito non subito ma nel corso delle riunioni successive. Con le
vecchie norme si dovevano tassativamente attendere 15 giorni dall’inizio
della Sede vacante. Ora con il recentissimo motu proprio emanato da Benedetto XVI se al netto degli assenti «giustificati» - saranno presenti tutti
i porporati elettori, la data di inizio del Conclave potrà essere anticipata.
Saranno tutti i cardinali presenti, votanti e no, a deciderlo a maggioranza
semplice.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Ore 20, la porta è chiusa
Ma lui rimane con noi
di Lucia Bellaspiga
D
a tempo ormai conoscevamo tutto, il giorno e perfino l’ora: sarebbe accaduto il 28 febbraio, alle 20. Abbiamo avuto due settimane
per arrivare pronti all’evento e infatti credevamo di esserlo. Invece c’era
ancora qualcosa cui nessuno era preparato, qualcosa che non avevamo
previsto: la chiusura del grande portone. Alle 20, quando già avevamo
consumato (credevamo) tutte le nostre emozioni - il Papa che per l’ultima
volta esce dal Vaticano, il pianto del suo autista, quel volo su Roma in
elicottero per salutare ancora una volta l’Urbe e il mondo, il commiato
dal balcone di Castel Gandolfo e alla fine quella finestra rimasta zitta
e vuota - i due battenti di legno del Palazzo Apostolico si sono serrati.
Dentro lui, fuori noi. Ultima immagine attraverso l’estremo spiraglio, il
volto impassibile di una guardia svizzera. Ammutolita a un tratto la folla
che fino a poco prima aveva urlato a gara con le campane a festa. Sguardi
smarriti, in piazza come nelle case, tra chi era lì e chi seguiva dalle televisioni, perché il brivido era lo stesso per tutti: e adesso? C’è sempre un
senso di ineluttabilità in una porta che si chiude, il presagio di qualcosa di
irrimediabile, specie se chi ha varcato la soglia ci ha detto che non uscirà
più. È come se un muro invalicabile fosse improvvisamente cresciuto e
ci dicesse «mai più». Ricordo il giorno in cui mia sorella, oggi suora di
clausura, varcò senza voltarsi indietro quella stessa soglia, e il silenzio in
cui rimanemmo tutti al serrarsi dei battenti. Dentro lei, fuori noi. Ma così
non è, ce l’ha predetto tante volte Benedetto XVI in queste due settimane
di congedo: vi resterò accanto nella preghiera, ci aveva avvertiti, non vi
lascio soli, pur nel silenzio e nel nascondimento io sarò sempre con voi
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
e al servizio della Chiesa. Parole che avevamo ascoltato, accolto, amato, che ci avevano confortato e commosso, ma che abbiamo capito solo
quando quel portone ci ha detto che il tempo era finito, che ora tutto si sarebbe avverato. Benedetto ce lo ha annunciato fino all’ultima occasione,
due ore prima del futuro silenzio: «Sono sommo Pontefice della Chiesa
cattolica fino alle otto di sera, poi non più. Ma vorrei ancora con il mio
cuore, con la mia preghiera, con tutte le mie forze interiori, lavorare per il
bene comune della Chiesa e dell’umanità», ha detto prima di sparire forse
per sempre alla nostra vista, ma solo a quella. Ci sono porte che si chiudono per spalancarsi al mondo, come ben sa chi entra per sua scelta e,
varcata la soglia, comincia il grande viaggio («Voi sapete che questo mio
giorno è diverso da quelli precedenti. Sono semplicemente un pellegrino
che inizia l’ultima tappa del suo pellegrinaggio su questa terra»), mentre
chi resta fuori fatica ad accettare, guarda a quei battenti come a una pietra
tombale, piange e pensa sia finita. E invece no, ci soccorrono ancora una
volta le parole dell’ormai Papa emerito, che la mattina rivolto ai cardinali
aveva raccomandato la preghiera, «autentica gioia che nessuno ci può
togliere», nemmeno un muro altissimo o la più gigantesca delle porte. Ai
cardinali e a tutti noi ha chiesto di crederci, di saperlo. Di rimanere «uniti
in questo mistero» che è la preghiera, certi che lui continuerà a farlo al
nostro fianco. Noi piangiamo e lui ci parla di gioia. Noi di «mai più»,
lui di «per sempre». Questione di prospettive: tre ore prima, alle 17.08,
all’annuncio del decollo dell’elicottero con il Papa a bordo, mentre a
Roma si piangeva una partenza a Castel Gandolfo la folla scoppiava in un
applauso che annunciava un arrivo. Come avviene con il Veliero di William Blake, che in piedi sulla spiaggia qualcuno vede salpare, ma su una
riva lontana altri vedono apparire: «La sua scomparsa dalla mia vista è in
me, non in lui - scrive il poeta. - E giusto nel momento in cui qualcuno
vicino a me dice “è partito”, ce ne sono altri che lo vedono apparire all’orizzonte, puntare verso di loro esclamando di gioia “Eccolo!”». Questo ci
dice il portone che alle 20 ha sbarrato il nostro sguardo miope per aprirci
l’orizzonte dove il «mai più», figlio della nostra umana limitatezza di voler vedere con gli occhi e toccare con mano, diventa il «per sempre» che
travalica i sensi, i muri, le porte.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Fisichella: “Ci ha indicato
la centralità di Cristo”
di Mimmo Muolo
S
orprendente dall’inizio alla fine. Da quella elezione avvenuta a 78
anni (cioè 20 in più dell’età che aveva Giovanni Paolo II all’inizio del
suo pontificato) e dopo appena un giorno e mezzo di conclave, fino alla
rinuncia compiuta dopo una profonda riflessione davanti a Dio e alla sua
coscienza. E poi sorprendente nei gesti e nei discorsi, nella sua capacità
di dialogare con la cultura e trasmettere il messaggio del Vangelo. In
definitiva «è stato il Papa che ha creato stupore e meraviglia, perché se a
molti era noto il pensiero di Joseph Ratzinger, pochi ne conoscevano l’affabilità, la mansuetudine e l’umiltà». Questo è papa Ratzinger visto da
monsignor Rino Fisichella. Circondato dai libri, nello studio biblioteca
del suo appartamento a due passi da piazza san Pietro, dove troneggiano
tra gli altri i volumi di Hans Urs von Balthasar (che Benedetto XVI ha
portato con sé a Castel Gandolfo) e di Romano Guardini (che il Papa
ha citato nel suo ultimo discorso, mercoledì scorso) l’arcivescovo cui il
Pontefice ora emerito ha affidato la responsabilità del nuovo dicastero per
la promozione della nuova evangelizzazione ripensa a questi otto anni di
pontificato e li vede fondati soprattutto su due pilastri: «La centralità di
Cristo e l’affermazione che la Chiesa è viva».
Monsignor Fisichella, quindi la rinuncia non è stata l’unica sorpresa
di Benedetto XVI.
Certamente no. Basti pensare a come era stato presentato da certi media
e a come ha saputo mostrare la sua vera personalità, ad esempio in certi
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
viaggi (Gran Bretagna, Stati Uniti). La seconda sorpresa è stata poi la capacità con cui ha trasmesso la profondità del suo pensiero, lui grande teologo e memoria viva del Concilio, in una semplicità di linguaggio. Così
abbiamo scoperto anche un grande predicatore e un grande catecheta.
Quindi quali sono i pilastri di questo pontificato?
Innanzitutto la centralità di Cristo. Benedetto XVI ci ha ricordato ciò
che è l’essenziale del cristianesimo. Poteva sembrare una constatazione ovvia, ma il Papa l’ha riproposta con intelligenza e con forza come
l’orizzonte sul quale far convergere gli sguardi. Quanto alla Chiesa, poi,
pur con tutte le difficoltà, egli ha sempre tenuto a sottolineare - dal primo all’ultimo dei suoi discorsi - che essa è viva e presente. Del resto
basta vedere quanto è avvenuto in questi giorni per rendersene conto.
E ciò contraddice certa stampa che pretende di delineare le cause della
decisione di Benedetto XVI in base a fatti, pur sempre gravi, ma solo
contingenti.
Eppure si ha l’impressione che questo Papa non sia stato capito.
Piuttosto non lo si è voluto capire. Soprattutto da parte di una certa cultura che ha rigettato il suo messaggio. Benedetto XVI infatti ha proposto
un insegnamento basato sul Vangelo e sostenuto da un pensiero forte.
Ricordo ad esempio il discorso al College des Bernardins, a Parigi, quando affermò la cultura è sempre in movimento e questo movimento è un
ricercare Dio. Quindi una cultura che non ricerca Dio non solo non è
coerente con se stessa ma devia dal suo percorso naturale. Si immagini
che cosa significa questo per i sostenitori del secolarismo, che prescinde
completamente da Dio. Oppure si pensi ai discorsi in cui ha parlato della
necessità di una intelligenza della fede per capire più a fondo la realtà,
quando invece il pensiero scientifico vorrebbe relegare la religione nel
privato se non proprio nel pietistico. E ancora: l’insistenza - come ad
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
esempio nell’intervento al parlamento tedesco - sul rispetto della vita e
del creato, che proprio in quanto creato chiede responsabilità, a fonte di
un utilizzo invece strumentale della creazione da parte di tante multinazionali. Tutto questo è stato davvero dirompente per le centrali del pensiero debole e questo spiega perché spesso non si è voluto comprendere
il messaggio del Papa.
Ma la resistenza è penetrata anche all’interno della Chiesa o questa
è solo una costruzione mediatica?
La resistenza nella Chiesa è stata fortunatamente limitata ad alcuni pensatori che hanno voluto vedere nel magistero di Benedetto XVI solo l’espressione della sua personale teologia. Con molta probabilità, è stata
invece la dimensione liturgica che può avere coagulato forme di “contestazione”, soprattutto da parte di alcune frange che non hanno compreso
il vero motivo che stava alla base del pensiero di Benedetto XVI. Il Papa
ci ha ricordato infatti che non può esserci discontinuità nella interpretazione della Parola di Dio e nella liturgia. Perciò c’è un solo rito e in questo rito hanno diritto di cittadinanza le due forme: quella ordinaria voluta
dal Concilio e anche, per chi lo desidera, quella straordinaria.
Il Papa ha insistito sul Concilio reale, abbandonando invece quello
virtuale. C’è ancora molto da realizzazione del Concilio Vaticano II?
Sì. E tra i contenuti più urgenti c’è la costituzione Dei Verbum che è stata
letta solo a metà. Soprattutto deve essere ripresa la parte in cui si parla
della trasmissione della fede e della ispirazione della Parola che non è
degli uomini, ma di Dio.
In definitiva come immagina la Chiesa con un Papa emerito orante e
quello che il Conclave sta per eleggere?
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Benedetto XVI ancora una volta ci mostra l’essenziale, cioè il mettersi
davanti a Dio e invocarlo. Ma la Chiesa è anche popolo in cammino che
ha ben presente la sua missione e la sua meta. Sa quindi di avere alle
spalle una storia di santità e di amore, nonostante le infedeltà di alcuni
cristiani, e sa che in questo cammino deve coinvolgere gli uomini e le
donne del nostro tempo. Io credo che realmente l’immediato della Chiesa
lasciatoci da Benedetto XVI sia la nuova evangelizzazione, da intraprendere con fedeltà, entusiasmo e intelligenza e credo che questo lo si debba
fare in modo particolare nell’Occidente, il quale sta perdendo sempre di
più la propria identità perché ha perso le proprie radici e non sa più chi è
e dove sta andando. Benedetto XVI, nell’ultimo discorso ai cardinali ha
ricordato: «Noi abbiamo portato speranza». Dunque anche il prossimo
Papa avrà questa missione: dare speranza al mondo di oggi attraverso una
rinnovata e sempre più convinta opera di evangelizzazione.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
CAPITOLO 2
Grazie Benedetto
I testi di questa sezione dell’e-book sono tratti dall’inserto speciale allegato all’edizione di Avvenire di domenica 24 febbraio, diffuso anche in
piazza San Pietro all’Angelus e all’ultima udienza generale di mercoledì
27. L’inserto integrale è disponibile in versione digitale sul sito www.
avvenire.it.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
1
In dialogo con il mondo
Quante lezioni sulla cultura della fede
di Francesco Botturi
U
n aspetto non secondario del vasto magistero di Benedetto XVI riguarda il rapporto tra la cultura umana e la civiltà, e in questo il
ruolo storico e teologico della fede cristiana. Questa infatti, come aveva
insistito ad affermare Giovanni Paolo II, non si dà mai disgiunta da un
impegno culturale, che scaturisce dall’intimo della fede stessa in quanto
origine e fondamento di una visione del mondo che illumina ogni aspetto dell’esperienza umana. La “cultura della fede”, poi, porta in sé un
inevitabile germe di civiltà, cioè una forza vitale in grado di plasmare,
integrando, innovando e inventando, le strutture fondamentali della convivenza storica tra gli uomini. Non si tratta di un progetto di conquista
e di dominio, ma della inevitabile efficacia evangelica di un “lievito che
fa fermentare tutta la pasta”. Ed è, perciò, secondo le leggi del lievito –
nascosto ma attivo, minoritario ma onnicomprensivo, lento ma duraturo
– che il germe della fede trova espressioni culturali e getta le basi di una
civiltà. In questo aspetto del magistero vengono ricordate tali verità, che
sembrano così sproporzionate per un cristianesimo che si sente spesso
culturalmente marginale e quasi espulso da un progetto di civiltà, mentre
il Papa sembra invece voler ricordare che esse non sono presuntuosi resti
di una mentalità “costantiniana” e trionfalista, ma esigenze inevitabili
di una fede non ridotta e decurtata nel suo significato proprio. Piuttosto,
si tratta di comprendere bene in che cosa consista tale logica del lievito
e come essa agisca all’interno di una condizione storica e culturale se-
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
colarizzata, spinta sino ai suoi esiti peggiori, relativisti e nichilisti, che
sembrano prevalere oggi sui suoi esiti migliori.
A questo fine assumono un rinnovato significato quattro grandi discorsi,
pronunciati da Benedetto XVI in luoghi altamente significativi, di cui
possiamo riprendere solo qualche punto essenziale.
Al Collège del Bernardins (Parigi, 12 settembre 2008), luogo legato alla
grande cultura monastica medievale, il Papa svolge una profonda riflessione sull’origine della cultura e della cultura cristiana quale matrice
della stessa cultura occidentale. Nella grande, millenaria esperienza del
monachesimo occidentale di impronta benedettina il Papa vede un paradigma della cultura della fede. Un paradigma paradossale, perché tanto
più efficace quanto meno programmato per realizzare una grande opera
storica: «Non era loro intenzione di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato». La motivazione del lavoro culturale della grande tradizione monastica non era culturale, ma di fede, di una fede
dinamica, fondata nella certezza e aperta alla ricerca di Dio, quaerere
Deum: «Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi
volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e
permane sempre, trovare la Vita stessa». È il paradosso della fede che dà
frutto oltre se stessa, solo nella misura in cui essa è cercata e vissuta per
se stessa, per il suo valore di “vita eterna”. Insegnamento fondamentale
per una fede come la nostra, incapace di sostare e di contare sull’essenziale e anch’essa paradossale, ma in modo diverso e sterile: sfiduciata di
sé e della propria capacità generativa, e insieme affannata a trovare forme
culturali convincenti gli altri. Mentre, conclude Benedetto XVI, «ciò che
ha fondato la cultura dell’Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad
ascoltarLo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura».
Gli altri tre discorsi portano indicazioni preziose sul metodo con cui la
cultura della fede e, analogamente, le grandi tradizioni religiose, possono
intrattenere rapporti con le istituzioni pubbliche delle società secolarizzate; come cioè, la cultura delle fede, germe di rinnovata civiltà, contri-
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
buisca alla maggior verità delle istituzioni della stessa civiltà secolare e
secolarizzata.
Nel discorso alle autorità civili in Westminster Hall (Londra, 17 settembre 2010), durante il suo viaggio nel Regno Unito, il Papa pone l’interrogativo «sul giusto posto che il credo religioso mantiene nel processo politico» e, in correlazione con questo, su quale sia il giusto fondamento dei
«princìpi morali che sostengono il processo democratico». Le due prospettive convergono, perché è proprio della religione il «purificare e gettare luce sull’applicazione della ragione nella scoperta dei princìpi morali
oggettivi», soprattutto nel caso della «tradizione cattolica» che ritiene
che «le norme obiettive che governano il retto agire siano accessibili alla
ragione, prescindendo dal contenuto della rivelazione», in opposizione a
ogni «fondamentalismo»; mentre le esigenze di una razionalità politica
a loro volta chiedono che la ragione abbia il suo ruolo «purificatore e
strutturante [...] all’interno della religione». Dunque, «è un processo che
funziona nel doppio senso»: il mondo della ragione, della secolarità razionale e il mondo della fede, del credo religioso «hanno bisogno l’uno
dell’altro» per non «cadere preda di distorsioni», ripete Papa Benedetto,
riprendendo ciò che aveva detto come cardinale in dialogo con Habermas. «La religione, in altre parole, per i legislatori non è un problema da
risolvere, ma un fattore che contribuisce in modo vitale al dibattito pubblico nella nazione», per cui ogni «marginalizzazione» della religione è
un sintomo di crisi di una società democratica, segnale di un’incapacità
di gestire produttivamente per la nazione i «diritti fondamentali della libertà religiosa, della liberà di coscienza e di associazione».
Nei due altri discorsi all’Assemblea delle Nazioni Unite (New York,
18 aprile 2008) e al Parlamento federale tedesco (Berlino, 22 settembre
2011) Benedetto XVI approfondisce un tema tipico del magistero papale contemporaneo, quello di un’etica personalista fondata sulla “legge
naturale”; tema difficile e ostico alla cultura contemporanea, ma che nel
contesto dei discorsi che abbiamo considerato assume tutta la sua im-
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
portanza. Qui si misura infatti la portata dell’istanza che la cultura della
fede avanza nei confronti della cultura secolarizzata, quella cioè di non
rinunciare alla centralità dell’uomo e alla normatività della sua natura
personale. Come, su un versante, il Papa afferma l’importanza delle religioni nello spazio pubblico delle istituzioni secolari e secolarizzate e
la rilevanza della correlazione di ragione e religione affinché tale ruolo
pubblico sia svolto e accolto correttamente, così, su un altro versante,
Benedetto XVI richiama la necessità che le istituzioni politiche nazionali e internazionali riconoscano criteri di giudizio superiori alla legge
del consenso e delle convergenze minimali e contingenti. Alle Nazioni
Unite il Papa ricorda che il diritto internazionale si fonda in ultima istanza sui diritti umani che hanno come loro referente la persona umana e
trovano fondamento nella «legge naturale iscritta nel cuore dell’uomo e
presente nelle diverse culture e civiltà». Il merito avuto dalla Dichiarazione Universale dei Diritti umani (1948), infatti, fu di aver reso possibile una convergenza di diverse culture, ordinamenti e istituzioni «attorno
a un nucleo fondamentale di valori e, quindi, di diritti». Nel discorso al
Parlamento federale tedesco Benedetto XVI discute con impegno l’idea
di natura a proposito dell’uomo, evidenziando che solo un pregiudizio
«positivista», che riduce alla conoscenza scientifica ciò che dell’uomo si
può sapere, è obiezione a riconoscere che la natura corporea e spirituale
dell’uomo porta in sé indicazioni fondamentali per agire in modo morale.
In fondo l’idea di una legge morale istruita dalla «natura umana» porta
in sé l’elementare messaggio che «l’uomo non crea se stesso» e non può
decidere arbitrariamente di sé: basilare senso religioso che fa parte del
«patrimonio culturale dell’Europa» e ne esprime «l’intima identità».
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Il coraggio di affrontare
la «religione» della laicità
di Salvatore Mazza
P
arigi, Londra, Berlino. E, dall’altra parte dell’Atlantico, New York.
Città-simbolo, ciascuna a suo modo, quasi paradigmi di quel mondo
contemporaneo che ha scelto di vivere “come se Dio non esistesse”. Che
è qualcosa di molto diverso, più subdolo e, per molti versi, più arido,
dell’ateismo: perché Dio non lo ignora ma, semplicemente, lo mette di
lato. Orpello da tollerare, forse da sopportare, in ogni caso da escludere
da qualsiasi ruolo pubblico, senza riconoscergli né peso né valore. Sul
quale si può sempre scherzare, anche pesantemente, salvo poi meravigliarsi, addirittura indignarsi, se poi qualcuno se ne ha a male, in nome
di quella nuova religione chiamata laicità per cui non serve fede ma che
non disdegna il fanatismo.
Non c’è stato nulla di casuale nella scelta di Benedetto XVI di portare
proprio nel cuore di queste città i discorsi più densi del suo pontificato.
Sfidando la cultura, l’idea “moderna” di democrazia, la politica, il concetto di coesistenza tra i popoli non sul terreno delle posizioni preconcette e contrapposte, ma su quello che, nel suo pensiero, vede fede e ragione
quasi obbligate a declinarsi l’una con l’altra, l’una nell’altra, indissolubilmente, naturalmente legate come sono. Parole chiare, semplici; immagini
a volte folgoranti come quando, a Westminster Hall, ricordando gli sforzi
fatti per salvare le banche in quanto troppo grandi per fallire, disse: «Certamente lo sviluppo integrale dei popoli della terra non è meno importante: è un’impresa degna dell’attenzione del mondo, veramente “troppo
grande per fallire”». Spiazzando continuamente ogni attesa, previsione,
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
commento. E senza mai sacrificare nulla all’altare laico del politicamente
corretto così come, dal versante contrario, senza concedere nulla al fondamentalismo confessionale. Benedetto XVI ha scelto la strada del dialogo col mondo a partire da quella ragione che, come è capace di illuminare
la fede, a sua volta può essere da questa illuminata. Scegliendo la strada
faticosa di comunicare direttamente con tutte le persone, credenti e non,
in un modo che nessuno aveva tentato prima.
Salutandolo alla sua partenza dal Regno Unito, il premier britannico David Cameron, in un discorso improvvisato, disse: «Lei ci ha dato davvero
qualche cosa su cui riflettere». Potrebbero sembrare, rilette adesso su una
pagina di giornale, semplici parole di circostanza. Ma chi ricorda il tono,
e la faccia, di Cameron in quel momento, sa molto bene che non lo erano.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Con Twitter verso
il «prossimo digitale»
di Antonella Mariani
F
orse è la domanda più spiazzante, per chi non è nativo digitale (i più
giovani di certo non si pongono il problema): «Chi è il mio “prossimo” in questo nuovo mondo?». Chi è il “prossimo” nel mondo della rete,
dei social network, della miriade di incontri senza volto dei nostri giorni?
Il Papa poneva questa domanda essenziale nel Messaggio per la Giornata
delle comunicazioni sociali del 2011 («Verità, annuncio e autenticità di
vita nell’era digitale»), in cui delineava uno “stile cristiano” per stare sul
Web. La risposta verrà due anni più tardi, il 12 dicembre 2012, quando
Benedetto XVI ha lanciato nel World Wide Web il primo tweet firmato @
pontifex_it. Con il suo clic sul tasto “invia” il Papa più che ottuagenario
ha indicato che nel mondo dei media digitali tutti sono “prossimo”. Il suo
voler essere accanto ai navigatori del terzo millennio non è un semplice
“stare al passo con i tempi”, bensì il cercare «le menti e il cuore» delle
persone laddove oggi stanno, ossia nelle nuove piazze incorporee. «Se
la Buona Notizia non è fatta conoscere anche nell’ambiente digitale, potrebbe essere assente nell’esperienza di molti», scrive nel Messaggio del
2013. Il Vangelo però non viene buttato nella mischia, rumore in mezzo
al frastuono. Il Papa ha privilegiato Twitter: messaggi lunghi al massimo
140 caratteri consentono uno spazio di riflessione «e di autentica domanda» in un ambiente, quello digitale, fin troppo affollato e dispersivo, secondo le suggestive indicazioni di «Silenzio e Parola: cammino di evangelizzazione» (Messaggio per la Giornata delle Comunicazioni sociali
del 2012). Questa, allora, è la cifra del dialogo di Benedetto con tutto il
mondo, che si è reso visibile, perfino esposto, in account Twitter declinati
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
in (quasi) tutte le lingue, latino e arabo compresi, ed è stato raccolto da
3 milioni di navigatori in tutto il pianeta: esserci, offrire la bellezza del
Vangelo, eterna, immutabile, tangibile, fin nelle pieghe della contemporaneità più mutevole e sfuggente.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
2
Parole per il XXI secolo
Una lingua oltre Babele
di Joseph H.H. Weiler
S
arebbe difficile trovare, un po’ dovunque nel mondo, una persona che
non mantenga vivo il ricordo di qualcuna delle apparizioni più importanti di Benedetto XVI sulla scena mondiale: all’Assemblea Generale
delle Nazioni Unite, forse, o forse il famoso discorso a Parigi, al Collège
des Bernardins, o alla Westminster Hall di Londra, o forse ancora al Bundestag tedesco - e quasi tutti, poi, avranno sentito parlare del discorso
tenuto a Ratisbona. Come si spiega una tale capacità di catturare l’attenzione di un intero mondo? È semplicemente a causa del suo ufficio, il
Papato? Il suo essere a capo di una Chiesa che comprende un miliardo e
duecento milioni di persone?
In Genesi, Capitolo 11, si legge la vicenda iconica della Torre di Babele:
tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall’oriente gli uomini …si dissero l’un l’altro: «Venite, facciamoci mattoni
e cuociamoli al fuoco». Il mattone servì loro da pietra e il bitume da
cemento. Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui
cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta
la terra». Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini
stavano costruendo. Il Signore disse: «Ecco, essi sono un solo popolo e
hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto
avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque
e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro».
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
La vicenda raccontata nel libro della Genesi, ingannevolmente semplice,
va al cuore della condizione umana. Viviamo in un mondo guidato da
hýbris e superbia, e perciò diviso da lingua, cultura, e diverse religioni,
ideologie e visioni del mondo. A volte dominato dai conflitti, spesso sanguinari.
Qual è la «sola lingua», quali sono queste «stesse parole» capaci di trascendere sia l’hýbris che le divisioni culturali, linguistiche e di altro genere? Come un uomo può «parlare al mondo», a un mondo al di fuori
del proprio? I sapienti vi hanno riflettuto nel corso degli anni. Ebraico?
Greco? Latino? Benedetto, nel suo carisma unico, nel suo magistero e nel
suo stesso modo di essere, offre a questa domanda una delle risposte più
interessanti e persuasive: è la lingua della ragione! Questo è il filo rosso
che unisce il suo intervento all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite,
il suo discorso di Parigi, il suo intervento a Westminster Hall, le conferenze di Ratisbona e il suo intervento, probabilmente il più importante, al
Bundestag tedesco.
Non si fraintenda: quando si muove sulla scena del mondo, del mondo al
di fuori del suo, Benedetto non mette da parte la sua fede. La Rivelazione
e la costante presenza di Dio in questo mondo definiscono il suo essere,
sono parte della sua continua testimonianza. Ma questo è ciò che egli
offre. Nell’espressione del suo grande predecessore, la Chiesa propone,
mai impone.
Ma quando egli avanza richieste al mondo, quando afferma con sicurezza
la legittimazione della Chiesa e del messaggio cristiano a prendere parte
al dialogo sui valori nella vita pubblica, il suo linguaggio, le sue parole
appartengono alla sola lingua che può trascendere la differenza e la divisione, la ragione umana.
Non si corre il rischio di esagerare nel sottolineare l’importanza di questa
lingua Benedettina. Essa è allo stesso tempo audace e coraggiosa. È audace in due modi. Innanzitutto, si ha di fronte un uomo, il cui solo metro
è sempre stata la verità, anche quando la verità è sconcertante, che distin-
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
gue il cristianesimo da altre religioni, la cui normatività pubblica è invece
stata e rimane tuttora una combinazione di rivelazione e ragione. Per lui
questa è una cosa impossibile: imporre nell’ambito pubblico una prescrizione fondata sulla sola rivelazione, a persone che possono non accettare
quella od ogni altra rivelazione, offende non solo la dignità dell’uomo,
ma la dignità della religione e di Dio stesso. Per Benedetto la libertà di
religione è necessariamente anche libertà dalla religione. Sì, la libertà di
dire “no” a Dio. Ritenere diversamente significa negare la nostra stessa
ontologia di esseri morali liberi creati a immagine di Dio.
In secondo luogo, questa lingua Benedettina si misura audacemente con
una comoda argomentazione, che esclude la voce cristiana dal dibattito
pubblico proprio perché, essendo basata sulla Rivelazione, mancherebbe
con essa un punto di partenza comune. In un certo senso, possiamo dire
che il mondo intero è stato dominato dal pensiero del grande filosofo
americano John Rawls, il quale ha articolato le condizioni di legittima
partecipazione alla discussione normativa delle nostre democrazie. Per
tale partecipazione ci doveva essere una premessa comune di ciò che
contava come un argomento convincente basato su un fondamento culturale condiviso. Ogni religione, tra cui il cristianesimo, era considerata
settaria, non condivisa, basata su una rivelazione e, quindi, ontologicamente poco convincente per i non credenti. Nel nostro sistema democratico i fedeli dovevano dunque godere della libertà di religione, ma
avrebbero dovuto lasciarla a casa, quando si fosse trattato di entrare nella
discussione pubblica. Nella storia delle idee, la lezione di Benedetto al
Bundestag sarà considerata come la risposta più autorevole a Rawls. Il
Papa accetta la premessa di Rawls, ma dimostra le sue incomprensioni e
il suo distorcere il carattere del cristianesimo.
È poi una lingua coraggiosa perché non soltanto è un visto di ingresso
nella pubblica piazza, ma impone anche una seria e severa disciplina alla
comunità cristiana di fede. Le vie della ragione potrebbero portare a rivedere articoli di Fede, a rovesciare precedenti giudizi. Viene a mancare
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
il jolly: «Questo è ciò che Dio ha comandato». Questa non è ragione. Si
potrebbe anche soccombere, ragionevolmente, in una discussione radicata nella ragione. Se si adotta una lingua, occorre parlarla correttamente
per essere compresi, per essere persuasivi. E ciò vale anche per la lingua
della Ragione.
In tutti i suoi principali incontri con il mondo al di fuori del suo, abbiamo assistito allo stesso scenario, continuamente ripetuto: i mass media
scettici in attesa di un rigido dottrinario, “Il Professore” – per ricordare
uno dei suoi più gentili appellativi –, “L’Inquisitore”, “Il Rottweiler”, tra
quelli peggiori. E invece, puntualmente, ogni volta, egli riesce in modo
tranquillo e convincente ad avvincere, non il suo gregge, ma persone di
altre fedi o senza nessuna fede - chi può dimenticare il suo trionfo totale,
per esempio, nel Regno Unito?
Qual è il segreto? Egli è la personificazione di Gerusalemme e Atene,
una metafora che ama usare nel descrivere il Cristianesimo. Un uomo di
evidente grande fede, che però non predica, soltanto insegna. Audace, ma
anche coraggioso e in grado di auto-limitarsi.
E, infine, una capacità comunicativa unica, l’abilità di rendere semplice e
accessibile ciò che a volte è complesso e profondo.
Sarà un esempio difficile da seguire.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Una voce «ragionevole»
che non esclude nessuno
di Carlo Cardia
A
Benedetto XVI è stata affidata la cura della Chiesa, in certo modo
del mondo intero. La paternità universale chiede al Papa di diffondere il Vangelo presso tutti i popoli, per renderli amici gli uni agli altri,
di difendere i deboli ovunque e chiunque siano. Questo nostro Papa ha
agito a favore dei popoli e dei loro diritti, ha promosso la dignità umana,
ha insegnato che ogni persona è amata da Dio, destinata a una pienezza di
vita senza che nessuno possa dominare sui propri simili. Il suo magistero
è tanto radicato in quello dei predecessori quanto innovatore, e ha stupito
il mondo perché ha incarnato la spiritualità e i valori cristiani nella storia
d’oggi, e nessuno si è sentito escluso dalle sue parole. Benedetto XVI si
è ispirato al programma indicato da Paolo VI nell’Ecclesiam Suam del
1964 dove si parla dei tre cerchi, o raggi, entro i quali il magistero pontificio opera. Il primo cerchio, i cui confini sono gli stessi dell’umanità,
comprende anche coloro che non credono o negano Dio, e che la Chiesa
vuole avvicinare, ascoltare. Il secondo raggio è quello degli uomini che
adorano il Dio unico e sommo, quale anche noi adoriamo. Infine il cerchio più vicino alla Chiesa, nel quale il dialogo diviene ecumenico, è
quello del mondo che s’intitola a Cristo, cioè di coloro che si riconoscono
nella fede cristiana. Giovanni Paolo II ha dato nuova forza alla cattedra
di Pietro recandosi ovunque, facendo del Papa l’amico di ogni uomo,
incontrando uomini di tutte le fedi e opinioni. Con Benedetto XVI il magistero e l’azione pontificia ampliano l’universalità del Papato oltre l’immaginabile, moltiplicano relazioni con religioni e culture, estendono la
paternità del Papa a ogni uomo: e ciascun uomo, in questi giorni difficili e
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
appassionanti, ha come avvertito quel punto di congiunzione fra trascendenza e umanità che è proprio del successore di Pietro. Benedetto XVI ha
riproposto l’essenzialità del rapporto con gli ebrei, predecessori del cristianesimo, titolari di una promessa divina mai esaurita. E ha consolidato
l’amicizia con gli Ortodossi, avviando con il Patriarca di Costantinopoli
Bartolomeo I una nuova stagione spirituale per l’Europa perché confermi
identità e radici cristiane. Benedetto XVI s’è fatto interprete di tutti i credenti chiedendo con forza che la fede in Dio sia sempre strumento di pace
e di amore, mai di violenza. E ha aperto, più d’ogni altro Pontefice, un
grandioso dialogo con chi non crede, parlando come Paolo parlò ad Atene del «Dio sconosciuto», per affermare nelle sue encicliche e nella sua
catechesi che la ragione porta alla fede, mentre la fede completa l’uomo e
lo innalza. L’attrazione che Benedetto XVI ha esercitato su chi è lontano
dalla Chiesa è ancora da comprendere appieno, ma certamente il Papa
s’è fatto pastore tra i non credenti, dialogando con i maestri della cultura contemporanea, rispondendo ai dubbi della modernità, chiedendo di
usare la ragione per progredire in un’etica superiore, non regredire verso
un’etica che dimentica l’uomo. Per questo, l’annuncio della sua rinuncia
ha coinvolto intensamente chiunque abbia ascoltato la sua parola, dentro
o fuori i confini della cristianità. C’è, poi, un carattere del pontificato di
Benedetto XVI rimasto un po’ in ombra nelle più recenti riflessioni, ed
è il suo impegno eccezionale, continuo, per i diritti umani, in difesa dei
più deboli, dei più poveri, di chi non ha voce, e che merita invece un’attenzione speciale da chi è testimone della voce di Dio in terra. Benedetto
XVI è stato il cantore dei diritti umani ovunque, mentre altre voci si
sono affievolite o sono scivolate nello scetticismo. Nelle encicliche, negli incontri con istituzioni internazionali, statisti e diplomatici di tutto il
mondo, ha posto la persona al centro d’ogni cosa, promuovendo la sua
dignità, la dignità delle donne, dei bambini, di malati e sofferenti, contro
dimenticanze e oltraggi da parte di chi segue la strada dell’egoismo o
cede alle lusinghe del nichilismo. E ha proclamato che la dignità della
persona, i suoi diritti fondamentali, hanno un solido fondamento nella
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
fede e nella ragione perché da esse traggono la garanzia della loro universalità e inalienabilità. Il veleno del relativismo che corrode la modernità
pone a rischio i diritti umani perché se questi – afferma il Papa nel 2010
al bureau dell’assemblea del Consiglio d’Europa – «fossero privi di un
fondamento razionale, oggettivo, comune a tutti i popoli, e si basassero
su decisioni legislative e di tribunali particolari, come potrebbero offrire
un terreno solido e duraturo per le istituzioni sopranazionali?». C’è qualcosa che precede Stati, legislatori, giudici: è una volontà che parla alla
nostra coscienza, indica la strada da seguire, dà alla libertà dell’uomo
la più alta dignità che è quella di poter scegliere il bene. Benedetto XVI
consegna al mondo intero un messaggio di speranza e d’amore, ed estende il ruolo del pontificato oltre i confini della Chiesa e della cristianità,
quasi una garanzia per tutti gli uomini che vedono e sentono il Papa, oggi
più di ieri, come parte integrante e insostituibile del proprio orizzonte
umano e spirituale.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
3
Il volto e le radici
Forza e misura: il teologo
diventato Pietro
di Elio Guerriero
R
oma agli inizi degli anni ’70 era una città viva, e al Sant’ Anselmo,
sull’Aventino, dove studiavo teologia – un luogo stimolante nel quale si respirava ancora l’aria del Vaticano II –, si provava l’ebbrezza gioiosa della cattolicità, l’entusiasmo della fede vissuta fianco a fianco con
giovani provenienti da ogni parte del mondo. Ma non era l’isola di utopia, Sant’Anselmo. Anche lì arrivavano i proclami dei sostenitori dell’umanesimo ateo, del principio speranza, della ricerca del piacere come
scopo della vita. Ci vennero in aiuto due voci flebili e tuttavia capaci di
farsi breccia in quel rumore che, anche tra i teologi, diveniva assordante.
De Lubac: «La Chiesa è fatta per i santi e per i peccatori, più per i peccatori», che ci rassicurava sulle contestazioni interne negli anni del dopo
concilio. Ratzinger: «Il credente deve vagliare la sua fede alla prova corrosiva del dubbio, il non credente, invece, se ne può stare tranquillo nella
sua non fede?».
Una parola di verità che ci liberava dallo stato quasi di minorità nel quale
volevano costringerci i cantori della morte di Dio. Non sapevo allora che
i due uomini di Chiesa erano legati da stima e amicizia e che presto avrei
avuto modo di incontrarli. Qualche anno dopo ero in Germania, a Monaco, e potei ascoltare di persona l’autore di Introduzione al cristianesimo
che avevo letto e riletto quasi a conferma di quella intuizione liberante.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Ricordo la sorpresa di trovarmi di fronte un uomo ancora giovanile, con
la chioma folta, ma interamente bianca, quasi resa tale dalla conoscenza che in lui diveniva sapienza di vita. Seguì dopo poco tempo l’invito a partecipare alla rivista Communio e un accostamento graduale alla
sua persona favorito dal padre von Balthasar che con decisione levava
la voce contro il troppo facile dissenso interno alla Chiesa, contro una
sorta di iconoclastìa antiromana, e rimandava noi più giovani al senso
d’equilibrio, alla misura di Ratzinger. Cominciai allora a tradurre alcuni
articoli del teologo che sottolineava la ricchezza del dogma cristiano, la
continuità nella tradizione viva della Chiesa. Lavorava su queste tematiche Ratzinger che aveva lasciato la turbolenta Tubinga e si era trasferito
a Frisinga dove il raccoglimento della piccola università vicina al luogo
d’origine favorì un rinnovato entusiasmo per la ricerca messa al servizio
della fede. «Cercai anzitutto di ripensare nuovamente la mia dogmatica
secondo il taglio del Concilio... Maturai una visione del tutto, che si nutriva delle molteplici esperienze e conoscenze… Provai la gioia di poter
dire qualcosa di mio, di nuovo e, insieme, di pienamente inserito nella
fede della Chiesa».
Anche la voce della musica che giungeva da Salisburgo con i concerti
mozartiani e più da vicino dalle esecuzioni di Bach, Vivaldi, Monteverdi,
dirette dal fratello Georg, suggeriva l’armonia della fede. Poi nel 1977
l’inattesa e sofferta nomina a vescovo di Monaco e l’inizio di quel viaggio che doveva portarlo dove «egli non voleva». Seguirono la svolta del
1978 con l’elezione di Giovanni Paolo II e la convocazione a Roma come
prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Continuò, tuttavia, a dedicarsi allo studio e a pubblicare opere che erano punti fermi della fede, testimonianze di fedeltà alla Chiesa e al Pontefice. Da parte mia
mi accostavo sempre più alla sua opera e alla sua persona. Mi colpivano
nei nostri incontri la perspicacia delle sue intuizioni teologiche capaci
sempre di portare ogni controversia al centro pulsante della fede, di illuminare gli ambiti della vita e la grettezza dei tanti che lo consideravano
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
superato, relegato nel campo dei conservatori ostili al rinnovamento. E
poi la delicatezza del tratto umano: la capacità di ascolto, l’attenzione di
chi non faceva pesare il suo grado e la sua conoscenza e con piccoli gesti
d’amicizia si sforzava di mettere l’interlocutore a suo agio. In occasione
di un convegno romano organizzò nel 1985 un grande ricevimento in
onore di von Balthasar. Colsi l’occasione per invitarlo a Brescia per un
incontro finalizzato al sostegno dell’edizione italiana di Communio. In
una mirabile lezione a Palazzo della Loggia evidenziò un altro dei tratti salienti del suo pensiero: la dimensione pubblica della fede cui sono
dedicati i libri sull’Europa, dalla speranza generata dalla svolta per la
caduta del muro di Berlino alla delusione per il prevalere del relativismo,
il vero tarlo dell’eredità europea.
Nel 1992 lo ricordo a Milano dove ricevette il premio Penna d’argento
come autore dell’anno delle edizioni San Paolo, e a me toccò l’onore di
tenere la sua laudatio. Con il volume Introduzione allo Spirito della liturgia, che richiamava l’opera d’inizio Novecento di Romano Guardini, la
sua attenzione si volgeva nuovamente alla liturgia, luogo della presenza
viva del Signore risorto nella Chiesa. Lo invitai a presentare questa sua
opera a Milano, al Museo diocesano, e ancora una volta emerse la sua capacità di dare spessore di cultura e di attrazione alla pienezza della fede.
Lo incontrai, infine, l’ultima volta da cardinale, a poco più di un mese
dalla morte di Giovanni Paolo II. Appariva disteso, raccontò del ritorno
in Germania, della possibilità di dedicarsi ancora allo studio nell’amata
Baviera. Gli chiesi di portare a termine la sua autobiografia, rifiutò decisamente. Doveva scrivere ancora di Gesù.
Poi ci fu l’elezione inattesa e la tenerezza per quelle spalle esili già gravate negli anni da tanti fardelli, ma anche la consapevolezza che nella forza
dello Spirito avrebbe richiamato la Chiesa all’essenziale, alla carità, alla
speranza e alla fede. Anche da Pontefice, però, non venne meno il filo del
lavoro e dell’amicizia. Mi disse in un’udienza: «Ma non è ancora stanco
di lavorare ai miei libri?», e poi quei biglietti scritti con grafia minuta,
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
inconfondibile. Nonostante il peso del servizio petrino, subito gravoso, i
libri su Gesù divennero tre. In essi egli ritornava sulla presenza viva del
Signore risorto nella comunità cristiana di modo che ogni fedele possa
entrare in dialogo con lui. Suggeriva poi elementi di una ecclesiologia
nuova, particolarmente attenta al dialogo con Israele. Indimenticabile resta la successione di catechesi sui santi, quasi un accenno di successione
nella santità accanto alla successione apostolica. Infine il gesto epocale
della rinuncia e di nuovo la tenerezza e l’affetto per quella decisione presa nella solitudine davanti a Gesù.
Nei giorni scorsi ha dichiarato il cardinale Kasper: «Benedetto XVI passerà alla storia per tutto ciò che ha fatto. Ha confortato e consolidato la
fede della Chiesa. E lascia un’eredità enorme, ricchissima, probabilmente non avremo presto un altro Papa di questo livello intellettuale e spirituale». A noi resta il debito della gratitudine e della preghiera per l’uomo
devoto alla cultura e all’amicizia, per il testimone tenace, il padre nella
fede.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
«La mia Baviera, scuola di gioia»
di Gianni Cardinale
«L
a cultura bavarese è una cultura allegra: noi non siamo persone
rudi, non si tratta di semplice divertimento, ma è una cultura allegra, imbevuta di gioia; nasce da un’interiore accettazione del mondo,
da un sì interiore alla vita che è un sì alla gioia». Con queste parole, calde
e spontanee, Benedetto XVI ha spiegato il suo legame profondo con la
sua terra d’origine, la Baviera. Lo ha fatto salutando la “serata bavarese”
organizzatagli a Castelgandolfo la sera del 4 agosto dello scorso anno per
e festeggiare il suo 85° genetliaco. All’evento, promosso dall’arcidiocesi
di Monaco, hanno partecipato anche artisti che hanno eseguito musiche,
canti e danze della tradizione bavarese. Particolarmente folta la rappresentanza degli alpini Bayerische Gebirgsschützen, che prima dell’ingresso al Cortile, in Piazza della Libertà a Castel Gandolfo, nei loro costumi
folkloristici e con armi a salve hanno sparato in onore del Papa. E proprio
a prosposito di questo gesto il Pontefice si è lasciato andare a una scherzosa confidenza: «Certo, i Gebirgsschützen, che ho potuto sentire solo
da lontano, meritano un ringraziamento particolare, perché io sono un
Schütze onorario, anche se, a suo tempo, sono stato un schütze mediocre». Ma nel suo discorso Benedetto XVI si è lasciato andare a un elogio
della sua terra. Sincero e commovente. «È vero, – ha detto – si deve dire
che Dio, in Baviera, ci ha facilitato il compito: ci ha donato un mondo
così bello, una terra così bella che diventa facile riconoscere che Dio è
buono ed esserne felici». «Allo stesso tempo, però, – ha subito aggiunto –
Egli ha anche fatto in modo che gli uomini che vivono in questa terra proprio a partire dal loro “sì” hanno saputo darle la sua piena bellezza; solo
attraverso la cultura delle persone, attraverso la loro fede, la loro gioia, i
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
canti, la musica e l’arte è diventata così bella come il Creatore, da solo,
non voleva fare, ma solo con l’aiuto degli uomini». Questa “elegia bavarese” pronunciata dal Papa non era fine a se stessa, ma è stata l’occasione
per proporre una “catechesi” semplice e profonda allo stesso tempo sul
senso autentico dell’”amor di patria” per un cristiano. «Ora – ha infatti
osservato il papa Ratzinger – qualcuno potrebbe dire: ma sarà lecito essere tanto felici, quando il mondo è così pieno di sofferenza, quando esiste
tanta oscurità e tanto male? È lecito essere così spavaldi e gioiosi?». «La
risposta – ha continuato – può essere soltanto: “sì”! Perché dicendo “no”
alla gioia non rendiamo servizio ad alcuno, rendiamo il mondo solamente
più oscuro. E chi non ama se stesso non può dare nulla al prossimo, non
può aiutarlo, non può essere messaggero di pace».
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
4
Il linguaggio della bellezza
L’estetica del testimone
di Pierangelo Sequeri
L
a bellezza, nel cristianesimo, non è soltanto una questione di arte sacra. Nella Prima Lettera di Pietro (di Pietro!) si trova un’espressione
che gli studenti di teologia imparano sin dall’inizio del loro curricolo:
«pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3, 15). La formula è adattata in special modo alla
cosiddetta “teologia fondamentale”, che una volta si chiamava “apologetica”, per lungo tempo dedicata all’illustrazione delle ragioni che sostengono, umanamente parlando, l’adesione della fede.
Sia o non sia questo il significato principale della formula di Pietro, in
questo momento interessa di più il contesto di quella antica raccomandazione. (Oltretutto, l’aderenza del testo all’ora presente ci emoziona – ci
trafigge, persino – in modo speciale: sono sicuro che colpirà anche voi).
Ecco dunque il pensiero di Pietro nella sua interezza: «E chi vi potrà fare
del male, se sarete ferventi nel bene? E se anche doveste soffrire per la
giustizia, beati voi! Non vi sgomentate per paura di loro, né vi turbate,
ma adorate il Signore, Cristo nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia,
questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché
nel momento stesso in cui si parla male di voi rimangano svergognati
quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo. È meglio
infatti, se così vuole Dio, soffrire operando il bene che facendo il male»
(1Pt 3, 13-17). L’espressione da sottolineare, anzitutto, è questa: «con
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
dolcezza e rispetto, con una retta coscienza». Traduco: con grandezza
d’animo e onestà intellettuale. Una questione di stile, che è in realtà una
questione di sostanza. Rendere testimonianza del logos che sostiene la
nostra speranza, non deve suonare come una intimidazione, né esibire
superiorità saccente o disprezzo per l’interlocutore. È il legame col bene,
convintamente cercato e onorato, che affiora nello stile e lo rinsalda. La
cattiva coscienza ne perde lo stile: mostra lo sforzo, cerca il diversivo,
trucca le carte. Le ragioni del bene perdono la loro bellezza, travolte dal
risentimento. Il logos della speranza perde la sua forza: in primo piano
viene la paura, non la fede.
Lo stile del testimone che attinge all’adorazione del Signore, nelle profondità del cuore, non perde questa bellezza: neppure quando è incalzato
da spiriti ostili, insidiato dal fraintendimento, messo alla prova della sua
passione per la giustizia. E questo fa la differenza decisiva. La bellezza
dello stile cristiano in cui traspare l’adorazione di Dio non ha niente a
che fare con la sciocca innocenza che non ha cognizione del dolore; non
è l’estetica sognante dell’anima bella che parla con gli angeli perché non
gli importa degli uomini.
Perché insisto su questo? Perché il mio argomento è l’eredità di Benedetto XVI a riguardo del Logos della bellezza che è in noi. Lo stile del
suo papato corrisponde all’estetica del testimone di cui parla il brano
della prima lettera di Pietro. Alla lettera. La grazia signorile del testimone della fede, non senza paziente restituzione della speranza, espone il
suo logos con dolcezza e rispetto: fidando nell’intima giustizia del bene,
senza turbamento o paura. Uno stile aggressivo, risentito, scandalistico,
già suona male. Né la devozione alla verità, radicata nell’adorazione del
Signore, ha bisogno di effetti speciali e di espedienti retorici per irradiare
la sua bellezza sostanziale. Questa bellezza riflette la forma di Cristo, attingendo a ciò che le è consostanziale: ossia l’intimo legame d’amore con
l’Abbà-Dio. Quel misterioso legame che dà forma e senso, voce e ritmo,
all’esistenza umana del Logos: dalla prima parola all’ultima, incantando
persino sulla croce. «Non sapevate che devo occuparmi delle cose del Pa-
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
dre mio?». «Chi vede me, vede il Padre». «Padre, nelle tue mani, metto la
mia anima». Se questo è il segreto della bellezza di Dio, ossia la generazione del Figlio in cui tutte le cose vengono al mondo; e se è lo Spirito di
Dio che ci rende partecipi di questa suprema verità, facendosi grembo in
cui siamo rigenerati alla vita destinata da Dio, allora la grammatica della
santità e quella della bellezza coincidono in molti punti. Indicarli, è un
compito non marginale della fede. Trovarli, è un azzardo non impossibile
dell’arte.
La sovrapposizione ha un campo di escursione vastissimo. I santi segni
che la fede indica (facendo tesoro della memoria del Figlio), e che l’arte
può abitare (rimanendo vigile ai passaggi dello Spirito), sono inesauribili.
Di impensata semplicità, come anche di stupefacente grandezza. Un’acquasantiera può risplenderne, come una sinfonia di Bruckner. Identico
splendore, secondo la misura – chiarezza e proporzione – che a ciascuna
opera compete.
Sono i due punti forti dell’estetica teologica del papa Benedetto XVI,
che Joseph Ratzinger ha profondamente assimilato mediante la lezione
di Hans Urs von Balthasar. Le opere della santità e quelle della bellezza,
sono i due fuochi della prova che la fede è vera. Questi due fuochi sono
imperdibili e insostituibili, per il logos cristiano della speranza. Sono il
riflesso dell’enigmatico splendore della fede, di cui parla un celebre passo
della Lettera agli Ebrei: dare sostanza alle cose sperate, essere argomento
per le cose invisibili. Il papa Benedetto XVI, di suo, ha portato l’estetica
teologica alla sua intonazione con la forma del ministero petrino. Il cantus firmus della scienza dei santi genera contrappunti creativi nel logos
umano, rendendolo sensibile allo Spirito Santo. L’arte autentica insegna
a frequentare le cose dell’anima con dolcezza, rispetto e retta coscienza.
Da questa interpretazione del ministero petrino, che ci conferma nella
fede, forse soltanto adesso incominciamo ad apprendere ciò che dolorosamente ci manca. Un cristianesimo così poco musicale, come il nostro,
rischia di diventare insensibile anche al logos della verità. Dovevamo
avere un Papa musicista, per essere ricondotti al ritmo dell’adorazione in
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
cui la fede vive e fa vivere? L’abbiamo avuto, per tutto il tempo che era
necessario. Il resto è chiacchiera e rumore di fondo. La vera domanda è
un’altra: siamo preparati a fare tesoro di questa felice ricomposizione del
ritmo e del logos della speranza che è in noi? Perché essa infallibilmente
risuona, quando la Chiesa attrae a sé, persuasivamente, l’impensata alleanza degli artisti e dei santi.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
«Nelle partiture la voce di Dio»
di Giacomo Gambassi
B
enedetto XVI al pianoforte nello chalet della Valle d’Aosta dove nel
2005 trascorre la prima estate di riposo da Papa è forse l’immaginechiave per riassumere il profondo rapporto fra Ratzinger e la musica.
Non è un caso che sia stato definito il «Mozart della teologia» e che
pubblicamente abbia ringraziato Dio «per avermi posto accanto la musica quasi come compagna di viaggio che sempre mi ha offerto conforto
e gioia». Anche nel suo appartamento all’interno del Palazzo apostolico
ha voluto il pianoforte. Perché la «meraviglia» che crea il «linguaggio
universale» delle note – entrate nella sua vita fin dall’infanzia – è quella
di «rimandare, al di là di se stessa, al Creatore», ha detto il Papa. È il
«valore spirituale» delle grandi composizioni che invitano a «elevare la
mente verso Dio» e che sono state proposte a Benedetto XVI anche nei
numerosi concerti offerti in suo onore. Esecuzioni durante le quali il Papa
ha proposto analisi dei brani da profondo conoscitore e musicologo. Fra i
suoi autori preferiti Mozart e Bach. Ascoltando gli spartiti sacri del genio
austriaco è «come se il cielo si aprisse», ha raccontato il Papa. E Bach è
stato definito da Ratzinger uno «splendido architetto della musica».
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
«La preghiera apre alla vera bellezza»
di Giacomo Gambassi
H
anno appena compiuto mezzo millennio gli affreschi della Cappella
Sistina. E lo scorso 31 ottobre, ricordando l’inaugurazione compiuta cinquecento anni prima da Giulio II, Benedetto XVI tornava su
uno dei temi cari al suo magistero: il rapporto fra liturgia e arte. Queste
«opere artistiche – affermava – trovano nella liturgia, per così dire, il
loro ambiente vitale, il contesto in cui esprimono al meglio tutta la loro
bellezza, tutta la ricchezza e la pregnanza del loro significato. È come se,
durante l’azione liturgica, tutta questa sinfonia di figure prendesse vita.
In poche parole: la Cappella Sistina, contemplata in preghiera, è ancora
più bella, più autentica; si rivela in tutta la sua ricchezza». Parlando della
volta di Michelangelo, il Papa spiegava che «il grande artista disegna il
Dio creatore, la sua azione, la sua potenza, per dire con evidenza che il
mondo non è prodotto dell’oscurità, del caso, dell’assurdo, ma deriva da
un’intelligenza, da una libertà, da un supremo atto di amore». E leggeva
nella Sistina «un invito alla lode» del Signore «redentore e giudice, con
tutti i santi del cielo».
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
5
La memoria e l’identità
Una guida alle radici della fede»
di Filippo Rizzi
C
ompirà 80 anni il 5 marzo il cardinale dell’ecumenismo, teologo di
fama mondiale, presidente emerito del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani. Il tedesco Walter Kasper di certo non si sarebbe aspettato, a pochi giorni dal suo compleanno, un gesto così forte e dirompente,
come quello delle dimissioni di un Pontefice, Benedetto XVI, al secolo
Joseph Ratzinger, suo antico collega nelle università di Münster e Tubinga. Un gesto che, per pochi giorni, porterà Walter Kasper a essere uno
dei 117 cardinali elettori del prossimo Conclave. «Ci conosciamo dal
1963, sono stato addirittura suo successore sulla cattedra di Dogmatica a
Münster – racconta – e devo ammettere che questo gesto della rinuncia
ha colto di sorpresa un po’ tutti. Un atto che non solo fa riflettere ma che
potrà permettere di ripensare in modo nuovo la Chiesa universale e la
Curia vaticana per la sua agenda futura affidata nelle mani del successore
di Ratzinger: dalla nuova evangelizzazione al dialogo con i lontani, alla
secolarizzazione “galoppante” dell’Europa, all’Asia che rappresenta, a
mio giudizio, il futuro del cristianesimo mondiale».
Kasper dal suo appartamento non distante dal colonnato di San Pietro non
si sente solo di tracciare un bilancio sui suoi 80 anni di vita e sullo stato
di salute dell’ecumenismo e sulla «crisi di Dio in veste religiosa» del
Vecchio Continente, come direbbe il suo amico e teologo Johann Baptist
Metz, ma anche di riflettere, nel profondo, sul gesto della rinuncia di Benedetto XVI: «In questo atto non ho solo visto un grande gesto di amore
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
e di sacrificio ma una sintesi dello stile di Ratzinger. Un Pontefice e un
fine teologo che in tutti i suoi scritti, a partire dal libro Introduzione al
cristianesimo, ci ha sempre aiutati ad andare alle radici della nostra fede,
a riscoprire l’identità cattolica. E rileggendo tutto il suo pontificato a partire dai grandi gesti ecumenici verso gli ortodossi, i protestanti ma anche
gli ebrei, quello che forse mi ha sempre sorpreso in lui è la sua attenzione
alle radici della nostra fede ma anche al primato della spiritualità rispetto
a tutto».
Eminenza, cosa ricorda degli anni di Tubinga, della protesta studentesca del 1968 e di Hans Küng, di cui fu assistente universitario?
Ricordo la contestazione degli studenti, le difficoltà della recezione del
Concilio nella sua giusta interpretazione. Di quegli anni ricordo la mia
collaborazione non solo con Küng ma anche con Leo Scheffczyk, dei
quali come lei accennava ero assistente universitario. A Küng devo molto: mi ha sostenuto nel mio dottorato e nell’esame di libera docenza,
abbiamo lavorato assieme per molti anni, poi col tempo le nostre strade
si sono divise. Oggi tra noi esiste un rapporto di rispetto. Ma nulla di più.
Devo dire che Ratzinger intuì prima di altri la deriva “antiromana” di
Küng e la sua intenzione di costruire una teologia alternativa al magistero
della Chiesa cattolica. Anche in questo il futuro Papa aveva compreso
prima di altri la scelta di Küng di divenire, soprattutto per i media, una
specie di contraltare in tema di fede e di morale rispetto agli insegnamenti della Chiesa cattolica e alla questione dell’infallibilità papale.
Per lei ancora oggi resta centrale e decisivo il Concilio Vaticano II. Ci
può spiegare perché?
Perché lì ho visto il risveglio in un certo senso “creativo” della fede cattolica ma anche un prolungamento ideale con le lezioni di vita e di teologia recepite da grandi maestri come Romano Guardini, Josef Rupert
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Geiselmann e Karl Rahner di cui rammento ancora, a memoria, alcuni
passi degli esercizi spirituali che mi diede da giovane seminarista. Il Concilio, la cui recezione e applicazione completa si compirà in non meno
di cent’anni, può veramente rappresentare la bussola più adeguata per
il terzo millennio e il punto di riferimento per un rinnovamento e una
purificazione, anche alla luce degli scandali che hanno colpito la Chiesa.
Nello spirito del Concilio, lei si è trovato a guidare per nove anni,
dal 2001 al 2010. il Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani. Che
bilancio si sente di fare di questo intenso periodo?
«Mi sono trovato a raccogliere il peso di grandi eredità come quella di
Bea, Willebrands e Cassidy. Sono stati anni importanti, sotto vari profili:
dai grandi gesti di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI nel campo ecumenico all’enciclica Ut unum sint, alla stesura della Dichiarazione comune luterano-cattolica sulla giustificazione della fede del 1999. Quello
che oggi posso affermare è che la mia azione ha avuto come riferimento
l’ecclesiologia di Yves Marie Congar. Trovandomi a confronto con le
tante diversità del mondo cristiano, dagli ortodossi ai protestanti, mi sono
spesso ritrovato in questa frase del teologo domenicano francese: «Tutto,
o quasi tutto, è uguale, eppure tutto è diverso». Mi torna spesso in mente
la proibizione che esisteva per noi cattolici di frequentare le lezioni nelle
facoltà evangeliche, un fatto che oggi sarebbe impensabile. Anche questo
è un frutto del Vaticano II. Rammento spesso le parole di Giovanni Paolo
II, il suo desiderio di arrivare a una reale unità delle Chiese e il suo mettersi a disposizione in ogni modo «perché il cammino di unità non venga
disperso». Come si dice, spesso i muri nel cammino ecumenico sono stati
abbassati ma non certo abbattuti.
Quali sono le sue attese per la Chiesa del terzo millennio soprattutto
in Europa, anche alla luce del prossimo Conclave?
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Una sfida che ci attende è la riscoperta ma anche la rivitalizzazione delle
radici cristiane dell’Europa alla luce di una nuova evangelizzazione che
risvegli i segni della nostra fede, anche quelli culturali, e riscopra il valore dei sacramenti, come la confessione: dove non c’è più una pratica
dei sacramenti rischia anche di scomparire la fede. Un uomo che non
ha memoria delle sue radici è destinato a non avere un orientamento.
È su questo snodo che si gioca il cristianesimo in Europa. E poi credo
che dall’Asia e in particolare dalla Cina, come intuì Giovanni Paolo II,
verrà il futuro della Chiesa. Di fronte alla secolarizzazione a noi europei
toccherà di essere minoranza creativa e qualitativa, se saremo in grado.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Quei libri come una carezza
sul volto di Cristo
di Davide Rondoni
S
ono libri carezze sul viso di Gesù. Se così si può dire. Sono libri dove
tutto l’impiego della intelligenza, della finezza e anche del duro scontro esegetico formano infine la forza tremante di chi allunga una carezza
estrema al volto amato. Per liberarlo dalle ombre. Dalle ragnatele della
dubbiosità. Dalla falsa devozione che fa diventare quel viso una maschera di cera. E sono stati libri bomba. Hanno riproposto al centro il vero
centro. Hanno insomma detto quale è la vera questione su cui discutere,
la cosa da raccontare e su cui ritrovarsi.
Era un suo sogno. Forse la sua lieta ossessione. Per il teologo di lungo
corso Joseph Ratzinger il desiderio di scrivere un libro su Gesù si doveva
compiere – secondo i progetti che aveva confessato – terminando una
lunga carriera come Bibliotecario Vaticano. Invece. L’elezione a Papa
lo ha distolto da quella meta sognata di definitiva curvatura sugli studi e
sulla scrittura. Ma non lo ha strappato dal suo sogno. E il libro su Gesù
lo ha scritto. Il suo libro su Gesù, anzi, direi, il suo libro “per” Gesù. La
prima caratteristica che ho scorto in questi libri è d’essere un gesto delicato di rispetto, appunto una specie di carezza dell’anziano teologo sul
viso di Gesù, così impolverato e offeso, così tenuto nell’ombra. L’andamento pacato e deciso dello stile con cui si addentra in questioni ardue,
persino il modo in cui sosta davanti a problemi inestricabili, sono indizi
di un procedere rispettoso dell’oggetto e anche della fatica di quanti con
tale oggetto si sono misurati. Lo sviluppo del ritratto di Gesù compiuto
da Ratzinger ha come primo obiettivo assicurarci che non abbiamo a che
fare con un fantasma. Aver fede in Gesù non significa “annaspare nel
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
vuoto”. Il rapporto con Gesù non è una fantasia. Se così fosse, la fede
sarebbe un affare per gente spostata. Per chi non usa più la ragione. Per
chi insomma non è più un uomo. Gesù non è una ricostruzione, una finzione creata a posteriori magari proprio in nome della fede. La sua pacata
ma ferma decostruzione – o meglio ridimensionamento – del cosiddetto
metodo storico-critico si svolge in nome di una ermeneutica di più ampio
respiro che non ne elude le sfide e le possibilità. Il Papa sa che la pretesa
di leggere i Vangeli come puri documenti è errata. Perché la loro natura
di testo non è d’esser semplici documenti. Sarebbe come se noi leggessimo una poesia d’amore principalmente come fonte documentaria di una
certa epoca. Il che non significa che i “vangeli” siano invenzione, ma
che la preoccupazione dei loro estensori e la natura del loro parlare non
è documentario ma di annuncio. E dunque solo l’esperienza di stare in
quell’annuncio rende veramente intellegibili i loro testi.
Ratzinger sembra attento al richiamo di Guardini: non si può fare una psicologia del personaggio Gesù. Almeno in chiave teologica. Noi scrittori
ci proviamo ed è il nostro meraviglioso disastro. Dunque nei tre libri su
Gesù non c’è indugio di carattere psicologico sull’uomo di Nazareth. Si
tratta di una opera di “pulitura” ovvero di liberazione da incrostazioni. La
carezza che solleva le ombre. Sembra che il Papa non sia preoccupato di
donarci il “suo” Gesù, non intende consegnarci un suo ritratto personale
del Nazareno. Sa che lo conosciamo o lo possiamo riconoscere. La sua
ricerca del volto di Gesù non coincide con una “invenzione”. O meglio è
una “inventio” ma nel senso di una “ricerca”, di una messa a fuoco. Per
il Papa, il popolo conosce Gesù, o può conoscerlo se ne fa esperienza. Il
Papa non cerca tinte nuove per il suo personaggio principale. Piuttosto
attraverso l’attenzione che dedica in particolare al Vangelo di Giovanni e
a certi episodi, ci avvicina al fulcro stesso della figura di Gesù: il suo misterioso legame con il Padre. La sua natura straordinaria. Non si intende
il Gesù storico astraendolo dalla portentosa e drammatica storia del popolo dell’Antico Testamento e della sua fede in un Dio impronunciabile
e inattingibile. Il fascino e la “questione” Gesù è tutta nel suo misterioso
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
legame di immedesimazione con Dio Padre. Lì sta il motivo di interesse
ultimo e decisivo della sua figura e non in uno o l’altro dei caratteri di
umanità eccezionale che ne sono il segno. La carezza di Joseph Ratzinger
a Gesù è cosciente che non è data a un volto solo umano. Per questo mentre avvicina il lume della candela del suo ingegno a quel Viso, lui stesso
trema, si concentra e sorride.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
6
La svolta della “Caritas in veritate”
Il dono, rivoluzione per l’economia
di Stefano Zamagni
Q
uale è stato il contributo di pensiero di papa Benedetto XVI all’approfondimento e alla dilatazione del raggio d’azione della Dottrina
sociale della Chiesa (Dsc)? Chiaramente, il riferimento è qui sia alla Caritas in veritate (Cv, 2009) e all’enciclica per così dire preparatoria, Deus
Caritas Est, sia ai messaggi che, in varie occasioni, sono stati pubblicati
successivamente. Prima di suggerire tre sottolineature di centrale rilevanza, una annotazione di carattere generale. La grande novità dell’opera del
Papa risiede nel metodo, cioè letteralmente nella via tracciata per leggere
le res novae di un tempo, quale è l’attuale, connotato da due eventi assolutamente inediti: la globalizzazione dell’economia e soprattutto della
finanza – che spesso viene confusa con l’internazionalizzazione delle relazioni economiche, che esiste da secoli – e la terza rivoluzione industriale, quella delle nuove tecnologie, che ha modificato alla radice i modi
di produzione e, in particolare, l’organizzazione del lavoro nelle imprese. Alla luce dei quattro principi immutabili della Dottrina sociale, Papa
Ratzinger legge la realtà offrendoci una interpretazione del tutto originale: dopo la necessaria denuncia di un certo modello di ordine sociale e i
suggerimenti per lenirne gli effetti a volte devastanti, vanno altresì indicate quali alternative, tra quelle realisticamente possibili, sono in grado
di catturare lo spirito, l’anima del messaggio cristiano. Il Cristianesimo è
infatti una religione incarnata, non una religione “incartata”, fissata cioè
sulla “carta”.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Un primo punto cui volgo l’attenzione è l’ampliamento della nozione di
giustizia cristiana, la quale non può essere ristretta al giudizio sul momento distributivo della ricchezza, ma deve spingersi fino al momento della sua produzione. Non basta, cioè, reclamare la «giusta mercede
all’operaio» – come si legge nella Rerum Novarum (1891). Occorre chiedersi se il processo produttivo si svolge o meno nel rispetto della dignità
del lavoro umano; se accoglie o meno i diritti umani fondamentali; se è
compatibile o meno con la norma morale. Già nella Gaudium et Spes, al
n. 67, si era letto: «Occorre dunque adattare tutto il processo produttivo
alle esigenze della persona e alle sue forme di vita». Ma in nessun’altra
enciclica di DSC si nota un’insistenza così decisa su tale punto come
nella Caritas in veritate. Il lavoro non è un fattore della produzione che,
in quanto tale, deve adattarsi, anzi adeguarsi alle esigenze del processo
produttivo per accrescerne l’efficienza. Al contrario, è il processo produttivo che deve essere organizzato in modo tale da consentire alle persone
la loro fioritura umana e da rendere possibile l’armonizzazione dei tempi
di vita familiare e di lavoro.
Papa Benedetto ci dice che un tale progetto è oggi, nella stagione della
società post-industriale, fattibile, purché lo si voglia. Ecco perché invita con insistenza a trovare i modi di applicare nella pratica la fraternità
come principio regolatore dell’ordine economico. Laddove le encicliche
precedenti parlano di solidarietà, la Caritas in veritate parla di fraternità,
perché una società fraterna è anche solidale, ma il viceversa non è vero.
L’appello è a porre rimedio all’errore fondamentale della cultura contemporanea che ha fatto credere che una società democratica potesse progredire tenendo tra loro disgiunti il codice dell’efficienza – che basterebbe
da solo a regolare i rapporti entro la sfera dell’economico – e il codice
della solidarietà – che regolerebbe i rapporti intersoggettivi entro la sfera
del sociale. È questa dicotomizzazione ad avere impoverito, senza alcuna
ragione oggettiva, le nostre società.
Un secondo punto è degno di sottolineatura. Nella Caritas in veritate i
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
termini impresa e imprenditore sono quelli che ricorrono più frequentemente. Nulla di simile si riscontra nelle encicliche precedenti, dove
il termine impresa veniva evocato solo di sfuggita. Perché? Benedetto
XVI dimostra di aver afferrato il proprium dell’attività imprenditoriale,
che è quello non di mirare alla massimizzazione del profitto, ma del “valore condiviso” – come oggi lo si chiama. Il profitto è la misura, non il
fine di fare impresa. Ecco perché nell’enciclica si rifiuta l’identificazione
dell’imprenditore con la figura del capitalista e quindi si riconosce che,
accanto alla forma capitalistica di impresa, devono poter trovare posto,
nel mercato, altre forme di impresa, da quella cooperativa a quella sociale, a quella di comunione, a quella non profit. (È la prima volta che in un
documento magisteriale di DSC queste tipologie di impresa ricevono un
riconoscimento ufficiale).
È a partire da quanto detto al punto precedente che il Papa si spinge, con
un’audacia fuori dal comune, fino ad affermare che il principio del dono
come gratuità – non il dono come regalo – deve entrare nell’ordinaria attività economica. Questa è la “bestemmia” che i poteri forti del mercato,
soprattutto finanziario, non gli hanno perdonato. Cosa ha mai a che fare
la dimensione dell’economico con il dono? Non è forse vero che l’agire
economico è retto dalle ferree leggi del mercato? Non è per caso sufficiente che l’impresa pratichi la filantropia, il welfare aziendale per dirsi
socialmente responsabile? Il Papa, raffinato teologo, nel rispondere con
un deciso no ad interrogativi del genere, viene a ribadire che la logica
della gratuità non può essere ridotta ad una dimensione puramente etica,
perché la gratuità non è una virtù. La giustizia è una virtù etica e non si
dirà mai abbastanza della sua importanza; la gratuità riguarda piuttosto
la dimensione sovra-etica dell’agire umano, perché la sua logica è la sovrabbondanza – mentre quella della giustizia è la logica dell’equivalenza.
È in ciò il novum dell’economia civile di mercato, un modello questo
diverso sia dall’economia sociale di mercato sia dall’economia liberista
di mercato.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Infine, di un terzo aspetto preme dire. Esso riguarda il sottotitolo della
Caritas in veritate: «Per lo sviluppo umano integrale». La parola chiave
è qui “integrale”. Lo sviluppo umano si compone di tre dimensioni: la
crescita (misurata ancor oggi dal Pil); la dimensione socio-relazionale;
la dimensione spirituale. Ebbene, lo sviluppo umano è integrale quando
le tre dimensioni sono prese in modo congiunto, cioè in forma moltiplicativa e non additiva, come invece si ritiene comunemente. Ciò significa
che non è lecito, allo scopo di aumentare la crescita, sacrificare una o entrambe le altre dimensioni. Ad esempio, non sono legittimi leggi o decreti
che, nel tentativo di corto respiro di aumentare il Pil, annullino la festa,
il cui senso è radicalmente diverso da quello del riposo. Ovvero, varare
provvedimenti che, per aumentare le entrate fiscali, sanciscano, di fatto,
la legalizzazione delle ludopatie. O ancora, intervenire sul mercato del
lavoro con misure che, al fine lodevolissimo di migliorare la partecipazione della donna all’attività lavorativa, mettano a repentaglio la tenuta
del progetto educativo della famiglia. E così via.
Ora, a prescindere dal fatto che – come si dimostra – provvedimenti del
genere conseguono gli effetti desiderati solo nel breve termine, la questione centrale che papa Ratzinger pone è quella della libertà. Sviluppo,
letteralmente, significa assenza di “viluppi”, di impedimenti di varia natura. Battersi per lo sviluppo vuol dire allora battersi per l’allargamento
dello spazio di libertà delle persone: libertà intesa, però, non solo in senso
negativo come assenza di impedimenti, e neppure solo in senso positivo
come possibilità di scelta. Bisogna aggiungervi la libertà “per”, cioè la libertà di perseguire la propria vocazione. È questa prospettiva di discorso
che, nelle condizioni storiche attuali, mentre permette di superare sterili
diatribe a livello culturale e dannose contrapposizioni a livello politico,
permette di trovare il consenso necessario per nuove progettualità.
Il XV secolo è stato il secolo del primo Umanesimo; all’inizio del XXI
secolo sempre più forte si avverte l’esigenza di un nuovo Umanesimo.
Allora fu la transizione dal feudalesimo alla società cittadina il motore
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
decisivo del mutamento; oggi, è un passaggio d’epoca altrettanto radicale: quello dalla società industriale a quella post-industriale. Questione migratoria, aumento endemico delle diseguaglianze sociali; conflitti
identitari; questione ambientale; problemi di biopolitica e biodiritto sono
solamente alcune delle espressioni che dicono dell’attuale «disagio di civiltà» (S. Freud). Di fronte a tali sfide, il mero aggiornamento di vecchie
categorie di pensiero o il ricorso a raffinate tecniche di decisione collettiva non servono alla bisogna. Occorre osare vie nuove. Rispetto a ciò, non
si potrà negare che l’opera e l’apporto di papa Benedetto XVI sono stati
– e sperabilmente continueranno ad essere – semplicemente decisivi.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Attenti all’uomo, non solo alla finanza
di Massimo Calvi
L
a Caritas in veritate è l’enciclica che fissa il pensiero sociale di Benedetto XVI, ma in diverse occasioni papa Ratzinger ha trattato temi
economici rimarcando l’importanza di concetti chiave come “etica” e
“fiducia”, invitando agli investimenti nell’economia reale e condannando gli eccessi della speculazione finanziaria. «L’economia non funziona
solo con un’autoregolamentazione di mercato, ma ha bisogno di una ragione etica per funzionare per l’uomo», dice Benedetto XVI, nell’agosto 2011, ai giornalisti in viaggio verso la Gmg di Madrid. Nel marzo
dell’anno precedente parlando agli industriali romani in udienza aveva
sottolineato l’importanza di non cedere alla tentazione di «distogliere gli
investimenti dall’economia reale per privilegiare l’impiego dei propri capitali nei mercati finanziari, in vista di rendimenti più facili e più rapidi»,
ricordando che «l’accesso a un lavoro dignitoso per tutti» deve costituire
«un obiettivo prioritario». Nel maggio 2011, nell’udienza ai partecipanti
al congresso internazionale del Pontificio consiglio Giustizia e Pace, la
sua attenzione si era concentrata sui gravi danni che può arrecare «una
speculazione senza limiti» nei mercati finanziari e in quelli delle derrate
alimentari. Il 20 dicembre scorso, Benedetto XVI ha firmato un articolo
sul quotidiano finanziario Financial Times, vera novità per un Papa, nel
quale ricordando le parole di Gesù «rendi a Cesare ciò che è di Cesare e a
Dio ciò che è di Dio», mette in guardia nei confronti «sia della politicizzazione della religione sia della deificazione del potere temporale, come
pure dell’instancabile ricerca della ricchezza». I cristiani «si oppongono
all’avidità e allo sfruttamento nel convincimento che la generosità» e
l’amore «sono la via che conduce alla pienezza della vita». Ancora, nel
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Messaggio per la XLVI Giornata della Pace, il primo gennaio 2013, il
Papa afferma che uno dei diritti oggi più minacciati è il diritto al lavoro,
mentre sembra dominare una visione per cui «lo sviluppo economico
dipenderebbe soprattutto dalla piena libertà dei mercati».
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
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I punti fermi
Vita e famiglia verità per tutti
di Luciano Moia
L
a nuova evangelizzazione dell’Europa passa attraverso la famiglia,
realtà insostituibile per la trasmissione della vita, per l’educazione
delle coscienze e per ridare fiducia a una società sempre meno aperta a
prospettive di speranza. Ne è convinta Monique Baujart, avvocato, madre di quattro figli, responsabile del settore Famiglia e società della Conferenza episcopale francese.
Più volte il Papa in questi anni ha fatto riferimento a vita, famiglia
e libertà educativa come a temi non negoziabili. Come è possibile
in una società sempre più laicizzata mostrare la verità profonda di
questa affermazione?
Papa Benedetto XVI ha parlato di principi non negoziabili in un discorso
ai parlamentari europei nel marzo 2006. E ha avuto cura di precisare che
quei principi sono comuni a tutta l’umanità, anche se non sono verità di
fede. Secondo il Papa la loro difesa non ha alcunché di confessionale ma
riguarda il rispetto della dignità umana e l’illuminazione delle coscienze.
D’altra parte non possiamo neppure presentare questi aspetti, che
sono le strutture portanti della società, come verità relative
È qui tutto il problema. Quando la Chiesa interviene nel campo della giu-
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
stizia sociale, per difendere i poveri e gli esclusi, la sua parola è ascoltata
e accettata. Al contrario, sono tanti quelli che considerano l’inizio e la
fine della vita e l’organizzazione della famiglia espressioni della libertà
individuale. Costoro sono convinti di non dover rendere conto a nessuno
di queste scelte e non riconoscono alcuna incidenza sociale per le loro
decisioni personali.
Come entrare in dialogo con queste persone?
Una prima pista per fare intendere la parola della Chiesa è quello di divulgare meglio l’antropologia cristiana, di ristabilire una visione dell’uomo
come essere razionale. È solo prendendo coscienza della nostra interdipendenza – un punto sul quale Papa Benedetto ha spesso insistito – che le
persone possono cominciare a misurare l’impatto delle proprie decisioni
sulla vita degli altri e sul bene della società.
Vita e famiglia possono diventare punti determinanti per quella nuova evangelizzazione dell’Europa auspicata dal Papa?
La famiglia è sempre stata un vettore fondamentale di evangelizzazione
e sempre lo sarà. In famiglia non si trasmette solo la fede, ma si imparano condivisione, perdono, riconciliazione, attenzione ai più piccoli,
tenerezza, gratuità. Come la gratuità potrebbe trovare posto nell’ambito
dell’economia se questo sentire non è stato già trasmesso in famiglia? Le
famiglie, anche quelle ferite, offrono cammini d’umanizzazione e momenti privilegiati per percepire la presenza di Dio.
Rimane il problema di trasmettere tutto ciò in una realtà sociale che
appare sempre meno sensibile a questi valori.
Eppure, in Francia l’89% dei giovani dai 25 ai 34 anni spera di costruire
il proprio futuro familiare con una solo persona. E sempre con quella.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
D’altra parte il 40% dei matrimoni termina con un divorzio. La nuova
evangelizzazione potrà aiutare le famiglie a riscoprire le risorse della tradizione cristiana che permettono alle coppie di nutrire il proprio amore e
di fare del tempo un alleato e non un nemico per la vita coniugale.
Oggi però le coppie sono sempre più sole. E, quando cominciano i
problemi, non possono contare su alcun sostegno.
Purtroppo è vero. Il tempo consacrato alla famiglia non gode di alcun
riconoscimento sociale, visto che gli unici aspetti che contano sono quelli
economici. Inoltre viene valorizzato il cambiamento permanente (moda,
tecnica, lavoro) e deprezzato lo sforzo dei legami familiari nel tempo.
La Chiesa però deve incidere nella cultura della provvisorietà. Non è
forse il momento di intercettare queste urgenze con nuove sensibilità
pastorali?
Dobbiamo innanzi tutto comprendere le domande che le coppie e le famiglie oggi si pongono e che non sono le stesse di ieri. Occorre fare attenzione a non dare risposte prima di aver ascoltato i problemi autentici.
Occorre anche armonizzare meglio le indicazioni dell’etica sociale con
quelle della morale individuale. Ma la Chiesa può attingere al tesoro della sua eredità per rinnovare i simboli di matrimonio e famiglia e renderli
più accessibili ai giovani di oggi.
Forse troppe famiglie cristiane oggi hanno dimenticato la forza della
testimonianza.
È vero, dobbiamo incoraggiare le famiglie a testimoniare la positività
rappresentata proprio dalla vita familiare. Ma in modo realistico. Il percorso della famiglia non è un lungo fiume tranquillo. Ci sono alti e bassi,
avvisi di tempesta e attraversamenti di deserto. Tutto questo fa parte della
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
vita e, quando si superano le crisi, il legame se ne rafforzato.
Le crisi non superate aprono però sofferenze che si allargano a tutta
la società. Qual è il valore mancante che rende più pesante il quadro
sociale?
La fiducia. In sé, nell’altro, in Dio. Senza fiducia, non sono possibili né
promesse né alleanze. Papa Benedetto ha sottolineato a più riprese la
gravità di questa perdita di fiducia nella società. La famiglia che funziona
resta il luogo in cui la fiducia si può imparare e sperimentare. Ecco perché, per la società e per la Chiesa, il suo valore è inestimabile.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Da Valencia all’Italia in tre tappe
«E
ducazione alla fede». «Educazione ai valori». «Lavoro e festa».
Sono gli argomenti dei tre Incontri mondiali delle famiglie presieduti da Benedetto XVI. Un percorso coerente, da Valencia 2006 a Milano 2012, in cui il Papa ha ribadito alcuni punti chiave del suo magistero. «L’affetto con il quale i nostri genitori ci accolsero nei primi passi in
questo mondo – disse Papa Ratzinger a Valencia, nell’omelia della Messa
conclusiva – è come un segno e prolungamento sacramentale dell’amore
benevolo di Dio dal quale veniamo. L’esperienza di essere accolti e amati
da Dio e dai nostri genitori è il fondamento solido che favorisce sempre
la crescita dell’uomo». Concetti ribaditi tre anni più tardi, nel gennaio
2009, all’Incontro di Città del Messico, dove il Papa non riuscì ad essere
presente ma dove fece arrivare il calore della sua vicinanza, grazie a un
collegamento via satellite. Il ricordo dell’Incontro di Milano, nel giugno
scorso, è ancora freschissimo. L’intensità di quelle giornate, l’entusiasmo
degli incontri – dal saluto di cinquantamila cresimandi a San Siro alla
festa delle testimonianze – è rimasto nel cuore di tutti coloro che hanno
vissuto direttamente o seguito via tv o internet, quei momenti straordinari
culminati nella celebrazione eucaristica della domenica, alla presenza di
oltre un milione di persone.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
8
Uno sguardo più grande
Verso i lefebvriani con cuore di padre
di Andrea Galli
I
l giorno in cui il mondo ha appreso della rinuncia di Benedetto XVI al
pontificato, l’11 febbraio, è circolato anche un comunicato stampa da
Menzingen, paesino di 4mila abitanti nel Cantone di Zugo, in Svizzera,
dove ha sede la casa madre della Fraternità sacerdotale San Pio X. Poche
righe con le quali si rendeva omaggio, «nonostante le differenze dottrinali», al «coraggio» di Ratzinger nell’aver ricordato «che la Messa tradizionale non era mai stata abrogata» e per aver rimesso le scomuniche ai
quattro vescovi consacrati in modo illecito da Lefebvre nel 1988; inoltre
un grazie «per la forza e la costanza» dimostrata negli ultimi anni, oltre
all’assicurazione di preghiere per lui da parte dei sacerdoti del sodalizio
tradizionalista. Poche righe che potrebbero essere l’ultimo atto di una
vicenda pluridecennale, costata tempo, fatica e sofferenze. Un rapporto,
quello fra i lefebvriani e il teologo bavarese, che per i primi si può sintetizzare con “odi et amo”, per il secondo con l’immagine evangelica del
padre in attesa del figliol prodigo.
Ratzinger per Lefebvre fu in principio un avversario: l’enfant prodige
del Concilio, ispiratore del cardinale Frings, uno degli esponenti insieme
a Rahner, Küng e altri della teologia renana riversatasi nel Tevere. Uno
dei sovvertitori della Chiesa, insomma. Dopo la sua nomina a prefetto
della Congregazione per la dottrina della fede, nel 1981, divenne però
un interlocutore prezioso e rispettato: uno dei cardinali più sensibili alle
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
istanze del mondo anti-conciliare. Fu lui il protagonista delle trattative
che portarono a un memorandum di intesa firmato dallo stesso Lefebvre,
nel 1988, e che sembrava il passo finale verso una piena riconciliazione.
Poi il colpo di scena, uno dei tanti: il 30 giugno dello stesso anno si arrivò
infatti allo scisma.
Uno strappo di tale gravità avrebbe prostrato molti e ne avrebbe dissuasi
ancora di più dal continuare sulla strada del dialogo. Non Ratzinger, però.
Nemmeno un mese dopo, il 18 luglio, a Santiago, di fronte ai vescovi del
Cile, tenne un discorso memorabile. «È un compito necessario difendere
il Concilio contro monsignor Lefebvre, come valido e vincolante per la
Chiesa», disse chiaramente all’assemblea. Con altrettanta chiarezza spiegò poi che la reazione lefebvriana era sì una risposta sbagliata, ma a un
problema reale: la falsificazione del Concilio, con la conseguente secolarizzazione penetrata dentro Chiesa, la disobbedienza, la deformazione
della liturgia, l’irenismo dottrinale. E richiamò la necessità di salvaguardare il bene sommo dell’unità della Chiesa, con la stessa carità e umiltà
spese nel processo ecumenico con confessioni cristiane divise da Roma
da ben più tempo e da ben più profonde divergenze rispetto a chi rifiutava
il Concilio.
Ratzinger ha continuato a tendere la mano anche una volta divenuto Benedetto XVI. Avrebbe potuto farne a meno e risparmiarsi sospetti, incomprensioni, campagne di stampa al vetriolo. Invece, il 29 agosto 2005,
solo quattro mesi dopo l’elezione al soglio pontificio, ha voluto ricevere
in udienza il vescovo Bernard Fellay, superiore generale dei lefebvriani.
Con il motu proprio Summorum Pontificum, il 7 luglio 2007, ha liberalizzato l’antica forma del rito romano. Il 24 gennaio 2009 ha tolto le
scomuniche del 1988. E alle contestazioni ha risposto, in modo simile a
quanto fatto 20 anni prima in Cile, con una lettera inviata ai vescovi di
tutto il mondo il 10 marzo 2009 e che resterà tra gli scritti più intensi del
suo pontificato. «Condurre gli uomini verso Dio, verso il Dio che parla
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
nella Bibbia: questa è la priorità suprema e fondamentale della Chiesa e
del Successore di Pietro in questo tempo – scriveva nella missiva –, da
qui deriva come logica conseguenza che dobbiamo avere a cuore l’unità
dei credenti». E in un altro passaggio: «Può lasciarci totalmente indifferenti una comunità nella quale si trovano 491 sacerdoti, 215 seminaristi,
6 seminari, 88 scuole, 2 Istituti universitari, 117 frati, 164 suore e migliaia di fedeli? Dobbiamo davvero tranquillamente lasciarli andare alla
deriva lontani dalla Chiesa?». E ancora: «A volte si ha l’impressione che
la nostra società abbia bisogno di un gruppo almeno al quale non riservare alcuna tolleranza; contro il quale poter tranquillamente scagliarsi con
odio. E se qualcuno osa avvicinarglisi – in questo caso il Papa – perde
anche lui il diritto alla tolleranza e può pure lui essere trattato con odio,
senza timore e riserbo». Sono seguiti, tra il 2009 e il 2011, i colloqui
dottrinali tra la Santa Sede e Menzingen. Il 14 settembre 2011 il cardinale Levada, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede,
ha sottoposto a Fellay un preambolo dottrinale, la cui sottoscrizione era
considerata indispensabile per il riconoscimento dei lefebvriani e il loro
collocamento nella Chiesa dal punto di vista canonico. Ne è nato un rimpallo, andato avanti fino al 13 giugno 2012, quando Levada ha presentato
le valutazioni riguardo all’ultima mezza risposta dei lefebvriani, ritenuta
insufficiente, sollecitandone una definitiva e prospettando ufficialmente,
nel caso di un superamento della frattura, la concessione alla Fraternità
San Pio X dello status di prelatura personale. Quella risposta definitiva da
parte di Fellay e confratelli non è però arrivata. Il pontificato di Benedetto XVI è al termine: a un padre, a un Santo Padre, non sarà così concesso
di riabbracciare, come vorrebbe la parabola, «il figlio che era perduto ed
è stato ritrovato».
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Nel solco di Benedetto ha colto l’essenza.
“Nulla anteporre all’amore di Cristo”
di Enzo Bianchi
S
ubito dopo l’elezione a Papa di Joseph Ratzinger osservavo come non
fossero estranei alla scelta del nome la sosta compiuta a Subiaco alla
vigilia del Conclave, l’amore sempre mostrato per la regola di Benedetto
e il significato che il padre dei monaci d’Occidente ha per il cristianesimo
europeo. E sottolineavo come il cardinal Ratzinger fosse sempre stato
convinto testimone di una parola in particolare della regola benedettina: «Nulla assolutamente anteporre a Cristo, nulla anteporre all’amore
di Cristo». Anche oggi questo precetto monastico può essere preso come
chiave di lettura della sorprendente rinuncia compiuta: Papa Benedetto
XVI non ha voluto anteporre a Cristo nemmeno la sua persona chiamata
a svolgere il ministero petrino. Più volte Benedetto XVI ha sorpreso per
la sua acuta comprensione del monachesimo, anche perché, pur avendo
frequentato sovente monasteri, non aveva mai scritto su tematiche monastiche. Nel settembre 2007, durante la visita a all’Abbazia di Heiligenkreuz in Austria, ebbe modo di sottolineare la dimensione liturgica
della testimonianza monastica per il mondo contemporaneo: «Noi stiamo
davanti a Dio – disse ai monaci austriaci –. Egli ci parla e noi parliamo
a Lui. Là dove, nelle riflessioni sulla liturgia, ci si chiede soltanto come
renderla attraente, interessante e bella, la partita è già persa. O essa è
opus Dei, con Dio come specifico soggetto, o non è. In questo contesto
io vi chiedo: realizzate la sacra liturgia avendo lo sguardo a Dio nella
comunione dei santi, della Chiesa vivente di tutti i luoghi e di tutti i tempi, affinché diventi espressione della bellezza e della sublimità del Dio
amico degli uomini».
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Ma fu l’anno successivo a Parigi, nello straordinario discorso rivolto al
mondo della cultura tenuto al Collège des Bernardins – edificato dai monaci “figli” di san Bernardo di Chiaravalle come luogo di studio e di
formazione – che Benedetto XVI sviluppò una lettura «delle origini della
teologia occidentale e delle radici della cultura europea», identificandole con il monachesimo medievale, animato dalla complementarietà tra
«desiderio di Dio» e «amore per la parole»: il quaerere Deum e le lettere, la cultura umanistica. Ne scaturì un discorso proprio di chi «dietro
le cose provvisorie cerca il definitivo», affrontando tematiche universali
e aprendo vasti orizzonti di senso. Lì mise in risalto come «la cultura
della parola», prezioso patrimonio europeo, grazie al monachesimo si
sia sviluppata a partire dalla ricerca di Dio e come questo «cercare Dio e
lasciarsi trovare da Lui oggi non è meno necessario che in tempi passati».
Ne consegue, fu la riflessione di Benedetto XVI, la necessità di un approccio interpretativo della Scrittura alla luce della Scrittura stessa, che
rifugga da qualsiasi fondamentalismo nella lettura della Bibbia perché
«la parola di Dio stesso non è mai presente già nella semplice letteralità
del testo». È il richiamo quanto mai attuale alla «misura interiore» della
libertà, alla sua dimensione spirituale che «pone un chiaro limite all’arbitrio e alla soggettività» istituendo «un legame superiore a quello della
lettera: il legame dell’intelletto e dell’amore».
Oltre alla sottolineatura di una lettura orante della Scrittura e della sua
dimensione liberante, alla dimensione della preghiera che diviene lettura
della storia e lievito di cultura, il Papa volle ricordare anche come il monachesimo benedettino abbia anche saputo dare dignità al lavoro umano,
anche manuale, in un’epoca in cui «il saggio, l’uomo veramente libero si
dedicava unicamente alle cose spirituali» e chi saggio magari non era ma
possedeva la terra o il potere si arricchiva con il lavoro degli altri. Così
il cristianesimo non sarà estraneo alla nascita della «cultura del lavoro,
senza la quale lo sviluppo dell’Europa, il suo ethos e la sua formazione
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
nel mondo sono impensabili».
Sì, Benedetto XVI ha sempre colto il monachesimo come «ciò che ha fondato la cultura dell’Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarlo» e come forma radicale di sequela cristiana che «rimane ancora oggi
il fondamento di ogni vera cultura». Così i monaci, se fedeli al Vangelo e
alla loro grande tradizione, possono ricordare all’insieme della Chiesa il
contributo prezioso che la società attende dai cristiani per la costruzione
di una polis segnata da giustizia, pace, libertà e qualità della convivenza.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
9
Un cammino di purificazione
«Abusi, la svolta definitiva
è arrivata così»
di Elena Molinari
L’
“avvocato del Papa” – almeno negli Stati Uniti – è un 54enne californiano con una moglie italiana e una casetta di famiglia a Berkeley, che non si fa mai fotografare ed è convinto, prima ancora come
legale che come cattolico, che «sotto la guida di questo Pontefice è stato
fatto di più da parte della Chiesa cattolica per affrontare la questione
degli abusi sessuali di qualsiasi altra organizzazione», civile o religiosa.
Jeffrey Lena rappresenta la Santa Sede dal 2000, e ha seguito l’evolversi
dello scandalo degli abusi sessuali di preti ai danni di minori negli Usa.
Negli ultimi tre anni si è trovato a rispondere ad accuse mosse personalmente nei confronti di Benedetto XVI, secondo le quali vi sarebbe una
responsabilità penale del Pontefice nelle vicende di abuso. Tutti questi
casi, sostiene Lena, si sono sgonfiati a uno a uno, ma non prima di avere
sollevato un polverone mediatico. Due anni fa, Jeffrey Anderson, avvocato di un gruppo di vittime, addirittura accusò il Papa di crimini contro
l’umanità di fronte alla Corte penale internazionale dell’Aja.
Avvocato Lena, come si è conclusa quella vicenda?
Anderson ha ritirato “silenziosamente” le accuse. L’idea che la Corte penale internazionale potesse prendere in esame un caso contro Benedetto
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
XVI, considerato senza riserve uno dei più grandi difensori dei diritti
umani del nostro tempo, è sia insensata sia offensiva. Non c’è niente che
il Papa ha fatto che possa essere considerato un crimine contro l’umanità.
Semplicemente, le accuse non erano sostenibili. Non c’è stato bisogno
di alcuna pressione da parte nostra. I giudici non avrebbero mai preso
in esame il caso. Anderson l’ha presentato per far notizia e l’ha ritirato
prima che venisse clamorosamente respinto.
In questi giorni si parla della presunta perdita di immunità legale di
Ratzinger una volta che non sarà più Pontefice. È davvero così?
In realtà, contrariamente alle riflessioni disinformate di una manciata di
imprudenti, la rinuncia del Santo Padre di fatto avrà nessun impatto sulla
sua posizione legale.
Può spiegare meglio?
Un capo di Stato, quando è in carica, gode dell’immunità per tutti i suoi
atti, sia pubblici sia privati. Quando non si è più capo di Stato, gli atti
ufficiali compiuti durante lo svolgimento delle proprie funzioni sono ancora coperti dall’immunità. Mi è impossibile pensare a un atto del Papa,
quando è in carica, che non si legato alla sua funzione.
L’immunità quindi non sparisce...
L’unico elemento che un ex capo di Stato perde è l’inviolabilità personale,
che non permette che ci si possa avvicinare a un capo di Stato, rivolgergli
la parola o consegnargli qualcosa. Ma generalmente gli ex leader continuano a godere di questa protezione, come consuetudine, anche dopo la
fine del loro mandato. Questo è il motivo per cui qualunque ipotesi che il
Papa possa essere citato in giudizio è totalmente senza fondamento.
Che cosa è cambiato nell’atteggiamento della Chiesa nei confronti
degli abusi sessuali negli ultimi dieci anni?
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Molto. Si tratta di una “storia di successo” che non viene mai raccontata
in modo adeguato. Se è vero che si può sempre fare di più, questo Papa
ha il merito di aver riconosciuto il problema e di aver aiutato la Chiesa a
cambiare atteggiamento.
Che cosa si voleva dimostrare nei casi in cui è stato chiamato in causa
il Papa personalmente?
L’accusa sosteneva che il Papa è responsabile per tutti gli abusi sessuali
commessi da preti in tutto il mondo. Ma non è una tesi giuridica valida.
L’idea che il Papa controlli tutte le diocesi o tutti i preti del mondo è falsa.
Il Papa stabilisce le regole per la Chiesa, ma farle rispettare spetta alle
diocesi. Una struttura governativa gerarchica non si traduce nella responsabilità diretta della persona al suo vertice.
Non si tratta dunque solo di dimostrare che un sacerdote di una diocesi è un dipendente del Vaticano, come alcuni legali hanno tentato,
invano, di fare?
No, perché se anche un prete della curia romana si rendesse colpevole di
un crimine, il Papa non ne sarebbe responsabile. La responsabilità penale
è personale e non si trasferisce attraverso le organizzazioni.
A che punto sono i casi aperti contro il Vaticano?
Ce n’erano tre negli Usa. Il più famoso verteva attorno a padre Lawrence
Murphy, a Milwaukee (Wisconsin). Si sosteneva che Joseph Ratzinger
si fosse rifiutato di ridurre il sacerdote allo stato laicale. Un’accusa falsa. L’avvocato dei querelanti, ancora una volta Anderson, ha ritirato la
denuncia un anno fa. Un’altra querela era stata avanzata a Chicago nel
2010, sempre da Anderson, con molta fanfara. Anche quella è stato riti-
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
rata, senza pubblicità. Infine, c’era il caso dell’Oregon, nel quale sempre
Anderson voleva dimostrare che un sacerdote di una diocesi americana è
implicitamente un impiegato del Vaticano. In questo caso è stato il giudice a respingere la tesi, lo scorso agosto, ma il querelante ha fatto appello.
Pensa che altri casi potranno essere presentati?
Abbiamo già una serie di giudizi a nostro favore. È difficile pensare a
nuove denunce.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Dalla parte delle vittime
per una pulizia radicale
di Salvatore Mazza
C
i sono le vittime. E i carnefici. E poi ci sono i complici, a diversi
livelli e gradi di responsabilità. Le vittime vengono prima. E i colpevoli vanno puniti. Così come i loro complici, che anche nelle circostanze
meno dirette, o suggerite da intenzioni “buone”, ma sicuramente distorte,
che non implicano rilievi penali, devono fare ammenda dei loro comportamenti. Volendo riassumere nella più estrema delle sintesi la dottrina
Ratzinger sui casi di abusi sessuali perpetrati sui minori da parte di personale ecclesiastico, sono quelli i termini essenziali da riassumere. Termini
che, tuttavia, non danno conto della vera e propria rivoluzione portata da
Benedetto XVI, che della lotta contro la pedofilia nella Chiesa ha fatto un
punto fermo del suo pontificato, proseguendo nell’azione che aveva iniziato ancora da Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede.
Una “operazione pulizia” radicale, minuziosa – iniziata dal giorno dopo
la sua elezione, e cioè ben prima che i contorni di quella vera e propria
tragedia riesplodessero sui media di tutto il mondo, tentando – in modo
anche ridicolo, a volte, come nei casi ricordati qui a fianco dall’avvocato
Jeff Lena – di tirarlo in ballo anche personalmente.
Più dei passaggi “tecnici” – spesso complessi – attraverso i quali questa lotta s’è dispiegata passo dopo passo, quello che ancora di più va
sottolineato è come Papa Ratzinger sia intervenuto con determinazione
assoluta a smontare prima di tutto quell’idea omertosa che, in nome di
un presunto “bene superiore” – l’integrità dell’immagine della Chiesa –
ha portato per decenni a nascondere, minimizzare, insabbiare i casi che
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
di volta in volta venivano fuori, senza che ci si preoccupasse che, in tal
modo, una nuova violenza fosse compiuta sulle vittime, che diventavano
così vittime due volte.
Papa Ratzinger, in sostanza, ha detto chiaramente e inequivocabilmente
che nessun presunto “bene superiore” della Chiesa può essere anteposto
alle vittime. Che vengono prima di tutto, che vanno ascoltate e aiutate,
accompagnate se e quando necessario. Ha detto, con altrettanta chiarezza, che non si dovrà mai più tacere di fronte allo scandalo; e che non
ha nessuna importanza il fatto, pur accertato, che le statistiche dicano il
contrario di quanto strillano i giornali, riconoscendo la minima incidenza
percentuale nella Chiesa di tali casi rispetto ad altre istituzioni, perché
anche un solo ministro di Dio che si macchi di questo “crimine orrendo”
è già uno di troppo, e sporca tutta la Chiesa, che è di Dio. Mai più deve
succedere.
Il risultato di questa ferrea determinazione del Papa è sotto gli occhi di
tutti, e non lo vede solo chi non vuole riconoscerlo. Sono cadute teste
illustri, a cominciare da Marcial Maciel Degollado, fondatore dei Legionari di Cristo, e ben 77 vescovi in tutto il mondo hanno presentato le
proprie dimissioni per le loro corresponsabilità. Soprattutto, dallo scorso dicembre tutte le Conferenze episcopali del mondo si sono dotate di
proprie linee-guida per affrontare nuovi casi che dovessero ripresentarsi.
Perché la vergogna del passato non possa ripetersi.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
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Un cuore solo
«Il Pontefice dell’ecumenismo»
di Salvatore Mazza
U
n contributo «sostanziale e decisivo», quello di Papa Benedetto, al
progresso ecumenico. A metterlo in evidenza è il Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I, che in questa intervista esclusiva
sottolinea la decisione con cui Papa Ratzinger nel 2006 ha voluto riprendere il dialogo teologico, interrotto dal 2000, e come questo oggi sia arrivato a discutere il «tema decisivo» dell’esercizio del primato petrino.
Tutti ricordiamo la visita del Papa a Istanbul. Che cosa ha segnato
quel momento?
È stata una risposta diretta a un invito personale a partecipare ai festeggiamenti della festa di S. Andrea “primo chiamato degli Apostoli e fratello maggiore di San Pietro”, il 30 novembre 2006. Come il suo predecessore, il compianto Papa Giovanni Paolo II, Papa Benedetto XVI ha
deciso di visitare il Fanar (il Patriarcato) quale gesto simbolico del suo
impegno per le relazioni ecumeniche, oltre che una conferma del dialogo
di amore e di verità tra le nostre Chiese sorelle. E, così come era stato con
Giovanni Paolo II, al termine della visita abbiamo firmato una dichiarazione congiunta per sottolineare l’esigenza di proteggere le minoranze,
la libertà religiosa, e l’ambiente naturale. La visita, pertanto, è stato un
modo sincero e significativo di rinnovare il nostro impegno e la notra
responsabilità, come leader delle Chiese cristiane in Oriente e Occidente,
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
a seguire e realizzare il comandamento di Nostro Signore, che i suoi discepoli «siano una cosa sola».
Qual è stato il suo rapporto personale con Benedetto XVI?
Sempre molto stretto, sia sul piano cooperativo sia su quello costruttivo.
Abbiamo seguito con grande interesse e amore il suo ministero come professore, erudito e prolifico, di teologia, in Germania, come un vescovo
stimato e fedele della tradizione petrina, come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, e ora come il venerabile capo spirituale
della Chiesa cattolica romana. Molti dei nostri attuali più rappresentativi
membri della Gerarchia ortodossa hanno avuto il privilegio di apprezzare le sue lezioni e di imparare dalla sua saggezza. In tutti questi anni,
abbiamo mantenuto relazioni cordiali e fraterne col Papa attuale, fondata
sul nostro impegno comune per l’unità delle nostre due Chiese. Per questo motivo, dopo la sua elezione, abbiamo proseguito nella tradizione,
iniziata dal patriarca Atenagora e da Paolo VI, dello scambio formale di
delegazioni, ogni anno, nelle rispettive feste patronali delle nostre Chiese. A sua volta, Papa Benedetto generosamente ci ha invitato nel 2008 a
parlare al Sinodo dei Vescovi, cosa senza precedenti, e, lo scorso ottobre,
a portare l’unico saluto di un leader ecumenico durante le celebrazioni
ufficiali in Piazza San Pietro per il 50 ° anniversario dall’apertura del
Concilio Vaticano II.
Già il cardinale Kasper parlava di un dialogo cattolico-ortodosso entrato nella sua “terza fase”. Quale è stato, per lei, il contributo di
Benedetto XVI a questo progresso?
Le discussioni teologiche tra Ortodossi e Chiesa cattolica è stato al centro del nostro amore e attenzione dal 1980, quando dopo il periodo noto
come “dialogo della carità”, inaugurato dal compianto patriarca Atenagora e dai papi Giovanni XXIII e Paolo VI, il patriarca Dimitrios e papa
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Giovanni Paolo II istituirono la Commissione mista internazionale per il
dialogo teologico. Conosciuta come “dialogo della verità”, tale Commissione nel corso dei suoi incontri ha pubblicato documenti condivisi sul
mistero della Chiesa, sui sacramenti, sulla visione dell’unità e il problema della uniatismo, su ecclesiologia e conciliarità e, più recentemente,
circa il ruolo del vescovo di Roma nella comunione della Chiesa. Come
si può immaginare, questi non sono argomenti facili da discutere apertamente e onestamente, in particolare dopo i secoli trascorsi dall’ultima
volta che le nostre due Chiese s’erano incontrate a uno stesso tavolo, nei
secoli XIII e XIV. Tuttavia, eravamo convinti che si debba persistere nel
dialogo nonostante gli ostacoli, consapevoli che, se ancora non non possiamo trovare un accordo su un’unità teologica e sacramentale, possiamo
almeno concordare nel nostro rammarico per le tragiche divisioni e le
dolorose ferite del passato. A questo proposito, il ruolo di Papa Benedetto
è stato sostanziale e decisivo, in quanto ha condiviso la nostra preoccupazione e sostenuto il nostro appello per il ripristino nel 2006 del dialogo
teologico, che era purtroppo stato interrotto nel 2000.
Si aspettava che un giorno la Commissione potesse arrivare a parlare dell’esercizio del primato di Pietro? Che venisse approvato un documento al riguardo, e che la discussione potesse ancora progredire?
Come abbiamo già accennato, lo sviluppo e il progresso del dialogo teologico non è sempre stato senza ostacoli e sfide. Tuttavia, noi siamo
convinti che un dialogo autentico e aperto, che miri a una piena unità
sacramentale, non possa realizzarsi senza costi. Non possiamo sperare
di obbedire al comandamento del Signore di «amarsi l’uno con l’altro»
e di «essere l’uno per l’altro» senza un vero spirito di sacrificio. Non ci
può essere sicuramente alcun modo confortevole o indolore di portare
la croce di Cristo. Certo, c’è stato uno scopo e una pianificazione dietro
gli incontri in riunioni plenarie e nel consenso crescente tra le nostre due
Chiese. Ecco perché abbiamo iniziato con questioni come la Santissima
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Trinità, la Chiesa, e l’Eucaristia, così che si possa avanzare verso questioni quali il rapporto tra la nostra fede comune e comunione sacramentale,
così come il significato e la teologia del ministero ordinato, in particolare
il ruolo del vescovo. Abbiamo sempre saputo che la questione decisiva
su cui discutere e deliberare è il ruolo del papato nella vita della Chiesa
locale, regionale e universale. Tuttavia, tutti i nostri principi essenziali
della fede sono interconnessi in modo vitale, e non possono essere isolati nella loro importanza ecclesiologica, canonica, e sacramentale. È una
benedizione, allora, che abbiamo perseverato nel corso degli ultimi due
decenni di dialogo teologico, e nelle due decadi precedenti di rapporti
fraterni tra le nostre due Chiese. Per ora siamo in grado di aprire nuovi
orizzonti e crescere ancora più vicino alla realtà che esisteva nella Chiesa
del primo millennio, quando eravamo un solo corpo, sia pure con molte
membra.
(ha collaborato Nikos Tzoitis)
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Rowan Williams: «E’ un passo
che aiuta a capire»
di Silvia Guzzetti
L
ungi dall’indebolire la Chiesa cattolica, come ha scritto una parte
della stampa britannica, la rinuncia di Benedetto XVI «arricchirà
spiritualmente» il ministero petrino e dimostrerà la vera natura di questa
missione. Lo ha detto ad Avvenire Rowan Williams, già arcivescovo di
Canterbury e già primate della Comunione anglicana al quale è sempre
stata attribuita una particolare intesa con Joseph Ratzinger. Gli inglesi ricordano l’abbraccio caloroso che i due si sono scambiati a Lambeth Palace quando Benedetto XVI ha visitato il Regno Unito nel settembre 2010.
Williams, che ha lasciato il suo incarico lo scorso dicembre, scegliendo
il ruolo di preside del Magdalene College di Cambridge, ha ammesso di
aver discusso con il suo compagno di viaggio ecumenico «le pressioni
degli incarichi che avevamo e di aver parlato della promessa di dedicare
più tempo alle riflessioni e alla preghiera».
La rinuncia del Papa, secondo il già arcivescovo di Canterbury, aiuta a
capire quale è il vero ruolo del Pontefice. «Il ministero petrino è qualcosa
di diverso dai doni e dalle competenze di chiunque, per quanto saggio
egli sia – spiega il teologo –. È un servizio al quale Dio chiama una persona, forse per la vita, forse per una stagione». E le parole di omaggio
che Williams, seguito dal suo successore Justin Welby e da diversi altri
vescovi anglicani, ha voluto dedicare al Papa, sarebbero state impensabili fino all’800 quando i cattolici non godevano ancora nel Regno Unito
dei diritti civili. Segno dei rapporti sereni che adesso corrono tra le due
Chiese che collaborano, attraverso l’associazione «Churches together in
Britain and Ireland», in diverse iniziative parrocchiali e diocesane.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
«Questa decisione del Papa testimonia la maturità spirituale e il coraggio
di una persona che sono onorato di aver conosciuto», aggiunge ancora
Willams, secondo il quale «la decisione del Papa e il modo in cui l’ha
presa e l’ha comunicata testimoniano una preoccupazione profonda per il
bene della Chiesa e dimostrano umiltà e capacità di discernimento». Così
il già primate ha reso omaggio al Pontefice con il quale ha condiviso la
preoccupazione per l’ordinazione episcopale delle donne e quella degli
omosessuali dichiarati.
Porta la data del 4 novembre 2009 la costituzione apostolica Anglicanorum coetibus voluta da Benedetto XVI che prevede l’istituzione di ordinariati personali per anglicani che entrano nella piena comunione con
la Chiesa cattolica. Spiega il documento che l’ordinariato è formato da
laici, sacerdoti e religiosi d’istituti di vita consacrata o di società di vita
apostolica, «originariamente appartenenti alla Comunione anglicana e
ora in piena comunione con la Chiesa cattolica, oppure che ricevono i
sacramenti dell’Iniziazione nella giurisdizione dell’ordinariato stesso».
La costituzione apostolica stabilisce anche che «senza escludere le celebrazioni liturgiche secondo il Rito romano, l’ordinariato ha la facoltà di
celebrare l’Eucaristia e gli altri Sacramenti, la Liturgia delle ore e le altre
azioni liturgiche secondo i libri liturgici propri della tradizione anglicana
approvati dalla Santa Sede, in modo da mantenere vive all’interno della
Chiesa cattolica le tradizioni spirituali, liturgiche e pastorali della Comunione anglicana, quale dono prezioso per alimentare la fede dei suoi
membri e ricchezza da condividere».
«Ringrazio Dio per una vita sacerdotale completamente dedicata, in parole e opere, alla preghiera e al difficile servizio di seguire Cristo», aveva
detto del Papa l’arcivescovo JustinWelby, successore di Williams.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
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Religioni in dialogo
Con l’ebraismo segnali importanti
di Riccardo Maccioni
U
n pontificato aperto al dialogo con l’ebraismo. Un Papa teologo capace di amicizia, che ha dimostrato “sul campo” attenzione e vicinanza al popolo dell’Alleanza. Il 17 gennaio 2010, 24 anni dopo la storica prima volta di Wojtyla, il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni
ha accolto Benedetto XVI nella Sinagoga di Roma, in quella che resta
una delle tappe più significative degli otto anni di Ratzinger sul soglio di
Pietro. «È stato un pontificato – spiega Di Segni – in cui ci sono stati dati
segnali importanti, nella linea della continuità con i Papi precedenti».
In qualche modo l’incontro romano è stato il punto d’arrivo di un itinerario contrassegnato da altri momenti significativi, dall’incontro alla Sinagoga di Colonia del 19 agosto 2005 alla preghiera al Muro Occidentale
di Gerusalemme nel 2009, passando per la visita al campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, durante il viaggio in Polonia, nel 2006.
Un percorso di riconciliazione della memoria che ha fatto trasparire il
tratto umano del Pontefice. «Nelle occasioni, non molte, in cui ci siamo
incontrati – sottolinea Di Segni – ho potuto progressivamente scoprire la
sua sensibilità esegetico-scritturale, che per un rabbino rappresenta un
importante tramite di comunicazione». Qualità emersa con forza durante
il discorso alla Sinagoga di Roma, con il richiamo alla «comune eredità
tratta dalla Legge e dai Profeti» e l’indicazione della centralità del Decalogo «che proviene dalla Torah» come «fiaccola dell’etica, della speranza
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
e del dialogo, stella polare della fede e della morale del popolo di Dio»
che «illumina e guida anche il cammino dei cristiani». Diciamo – aggiunge il rabbino capo della comunità ebraica di Roma – che «l’insegnamento
di questo Papa ha rimarcato il legame profondo del cristianesimo con le
radici ebraiche e bibliche, spesso in passato trascurato nel mondo cattolico. Fa parte poi della “dottrina” cristiana il richiamo ai Dieci Comandamenti che sono, attraverso la Bibbia ebraica, un patrimonio condiviso».
Nel 2010, Di Segni dedicò buona parte del suo discorso nella Sinagoga di
Roma al rapporto tra fratelli che, nella Bibbia, inizia molto male. Come
noto Caino uccide Abele, Isacco e Ismaele per dimenticare le loro rivalità
devono attendere la morte del padre Abramo, mentre le strade di Esaù e
Giacobbe si incontrano solo per un breve tratto di cammino. «Finalmente» la storia di Giuseppe e i fratelli, che inizia in maniera conflittuale per
concludersi con una conciliazione finale. In questo senso, Di Segni si domandava a che punto fosse il rapporto tra ebrei e cristiani. «Il problema
riguarda le responsabilità che derivano dalla fratellanza, come sottolinea
il discorso della Genesi». Per esempio, richiama alla necessità di una testimonianza comune in campo etico nell’Europa secolarizzata. «Decisamente sì – continua Di Segni – il patrimonio condiviso dev’essere sottolineato e ci mette di fronte alla responsabilità, visto che il mondo sceglie
altre direzioni, di trovare elementi comuni su cui agire». Costante nel
pontificato di Ratzinger il richiamo alla dichiarazione conciliare Nostra
Aetate così come la totale condanna della Shoah. Un rifiuto ribadito con
forza da Benedetto XVI tanto nella Sinagoga di Roma che ad AuschwitzBirkenau. «Diciamo – osserva Di Segni – che il discorso nel campo di
concentramento circa l’interpretazione del ruolo della Germania e del
popolo tedesco nella Seconda guerra mondiale, non ci ha entusiasmato.
Al di là di questo, però, resta l’importanza del gesto, del rifiuto». Rabbino
Di Segni, a suo modo di vedere qual è l’eredità di questo Papa? «Ci lascia
l’invito ad andare avanti e a far crescere il dialogo. Un testimone che va
raccolto e non lasciato cadere».
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Allora, cosa aspettare, cosa chiedere al suo successore? «Noi ci auguriamo che ci sia una linea di continuità con il pontificato di Benedetto XVI
– conclude il rabbino capo della comunità ebraica di Roma – nel rispetto
e nella collaborazione».
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
L’invito ai musulmani:
allarghiamo la ragione
di Giorgio Paolucci
Il merito principale di Benedetto XVI nei confronti dei musulmani? L’invito ad allargare la ragione, lo stesso invito che ha fatto all’Occidente.
Parola di Samir Khalil, gesuita, egiziano, islamologo di fama internazionale, chiamato da Ratzinger nel 2005 a tenere una lezione sull’islam in
occasione degli incontri annuali del Papa con i suoi ex allievi a Castelgandolfo.
Di questo Papa si ricorda soprattutto il discorso tenuto all’università
di Ratisbona nel 2006, che scatenò un mare di polemiche…
Un intervento fondato sul concetto che l’uomo è anzitutto un essere ragionevole e che in ogni persona è presente l’aspirazione al bene, alla
dignità e alla libertà, e a partire da questo è possibile costruire insieme
una società dove ci sia posto per tutti. Benedetto XVI ricordava all’islam
la strada percorsa tra il nono e il tredicesimo secolo, nel periodo abasside, quando si verificò l’incontro fecondo con l’ellenismo che venne fatto
conoscere ai musulmani dai cristiani arabi e siriaci e si ripensò la teologia
partendo dalla filosofia, in una fecondazione reciproca tra fede e ragione
che poi è purtroppo degenerata nella chiusura autoreferenziale del mondo
islamico. Una situazione analoga vive l’islam contemporaneo, dove si
fronteggiano coloro che invitano a rileggere la tradizione usando la ragione e gli strumenti della modernità, e quanti invece sostengono un’interpretazione meccanica del Corano e della sharia. La frase chiave di
Ratisbona è: “Non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio”.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
A giudicare dalle reazioni delle piazze islamiche, il messaggio non fu
recepito…
Ricordo che in quei giorni partecipai a numerosi dibattiti televisivi sul
discorso tenuto da Ratzinger, e rimasi stupito dal fatto che molti degli
interlocutori musulmani con cui mi confrontavo non l’avevano letto, ma
ne parlavano alla luce delle riduzioni operate dai media arabi. Analoga
considerazione si può fare sulle manifestazioni di piazza che si scatenarono in quei giorni, frutto più di reazioni istintive che di un esame approfondito delle parole del Papa.
Che cosa rappresenta la lettera firmata da 138 saggi islamici un anno
dopo e indirizzata al Papa e ad altri leader cristiani?
Testimonia che all’interno del mondo musulmano, pur con sensibilità
differenti, c’è chi desidera aprirsi a un confronto. Il punto di partenza
era la fede nell’unicità di Dio. La Santa Sede rispose a quel documento,
ci fu anche un incontro in Vaticano per cominciare ad affrontare alcune
questioni fondamentali come i diritti dell’uomo, la libertà religiosa, la
reciprocità, la violenza. Fu un segnale positivo, che andrebbe ulteriormente sviluppato. Perché per dialogare con l’islam è inutile partire dalla
teologia, ancor meno dal dogma.
In che senso?
Il cristianesimo è fondato su un dato assolutamente originale: l’incarnazione di Dio, il Mistero che si rende incontrabile all’uomo. Un concetto inimmaginabile nella cultura e nella teologia islamica. A Ratisbona
e nei suoi interventi successivi, Benedetto XVI ha puntato sui dati che
accomunano il genere umano: la razionalità e l’aspirazione al bene, alla
giustizia, alla libertà. Lo scopo è costruire una civiltà in cui sia possibile
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
vivere insieme pur essendo diversi. La violenza, tanto più se usata in
nome di Dio, è la negazione di questa possibilità. E questo è il dramma
con cui si misura il mondo islamico: penso al terrorismo e alla degenerazioni delle primavere arabe.
Uno degli ultimi documenti “forti” di questo pontificato è l’esortazione apostolica per il Medio Oriente firmata in Libano nel settembre dell’anno scorso, che analizza questi ed altri temi cruciali legati
anche alla condizione delle minoranze cristiane nei Paesi islamici.
In effetti vi sono contenute indicazioni preziose. Si afferma che le religioni sono al servizio del bene comune per edificare una società comune,
che la libertà religiosa è fondamento e culmine di tutte le libertà, e si
sviluppa magistralmente la nozione di laicità positiva: «La sana laicità
significa liberare la religione dal peso della politica e arricchire la politica
con gli apporti della religione, mantenendo tra loro una chiara distinzione
e la necessaria collaborazione». È un monito che vale tanto per le società
musulmane, dove spesso la religione determina la politica, quanto per
quelle occidentali, che considerano l’esperienza religiosa un fatto privato
e ritengono che la fede non deve «contaminare» la ragione. Un’eredità
preziosa che questo Papa lascia al mondo intero.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
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La Chiesa di tutti
Un vero maestro per tutti i carismi
di Matteo Liut
L
i ha accolti, accompagnati, incoraggiati e indirizzati sempre verso
la comunione ecclesiale. Quello tra Benedetto XVI e i movimenti e
le associazioni laicali è stato, in otto anni di pontificato, un rapporto di
affetto, stima, guida paterna. E con i suoi gesti, le sue scelte, le sue parole
Ratzinger ha saputo valorizzare ogni singolo carisma per il rinnovamento
della Chiesa. D’altra parte, ricordava il Papa nella veglia di Pentecoste
il 3 giugno 2006, “i movimenti sono nati dalla sete della vita vera; sono
movimenti per la vita sotto ogni aspetto”.
In questo cammino condiviso ogni movimento, ogni comunità, ogni associazione ha i suoi momenti forti da ricordare. Una memoria che traccia
il profilo di un Papa che ha saputo fare da padre ai diversi carismi nella
Chiesa.
«Ci restano nel cuore alcuni particolari “messaggi” del Papa – ricorda
Franco Miano, presidente nazionale dell’Azione Cattolica Italiana –. Il richiamo alla tensione alla santità come propria dei laici, nel 140° anniversario dell’Ac del 2008. La coniugazione di santità e impegno educativo,
nell’incontro con gli oltre 100mila ragazzi e adolescenti dell’Associazione, nel 2010. La sottolineatura della corresponsabilità dei laici nella vita
della Chiesa, nel messaggio all’Assemblea del Forum internazionale di
Ac, nel 2012. Infine, l’invito alla gioia e alla speranza, pur nelle fatiche,
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
nelle parole pronunciate l’11 ottobre 2012, in occasione della fiaccolata
con cui l’Ac ha celebrato il 50° del Concilio».
Ricordando «i grandi doni» che Ratzinger ha voluto «elargire alla famiglia di Rinnovamento nello Spirito Santo», il presidente Salvatore Martinez cita quello della Fondazione vaticana «Centro Internazionale Famiglia di Nazareth» istituita proprio nelle scorse settimane. Un gesto del
Papa, come anche la sua rinuncia, che «smentisce chi lo presentava come
“cardinale di ferro” testimoniando rara magnanimità di cuore e umiltà di
servizio, proprie di chi ama il Signore e il suo Vangelo più di se stesso
e della propria vita. Ha difeso la Chiesa dallo spirito del mondo – nota
ancora Martinez – riaccendendo la luce della fede nelle anime, ridando
un cuore alla modernità, offrendo Cristo come esperienza ragionevole,
umanizzante e salvifica per l’uomo. Si congeda all’insegna della libertas
in veritate».
Benedetto XVI, d’altra parte, ha avuto stretti rapporti anche con i fondatori dei movimenti che oggi segnano il volto della Chiesa. «Don Giussani dialogava già col cardinale Ratzinger per l’autorevolezza che gli
riconosceva – ricorda don Julián Carrón, presidente della Fraternità di Cl
–. Divenuto Papa, è stato per noi un faro sicuro per la percezione acuta
del dramma di un io ridotto e quindi per l’invito ad allargare la ragione
fino a scoprire il rapporto tra le domande umane e la risposta della fede;
per l’insistenza sulla natura del cristianesimo come avvenimento e non
come creazione dell’uomo, per la testimonianza della fede come metodo,
il dialogo interreligioso e la sottolineatura che il contributo dei cristiani
sarà decisivo solo se l’intelligenza della fede diventa intelligenza della
realtà».
Giampiero Donnini, responsabile della prima comunità del Cammino neocatecumenale italiana a Roma, ricorda l’antico legame tra Ratzinger e
l’iniziatore dello stesso Cammino Kiko Argüello: «Quando era docente
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
a Ratisbona lo volle conoscere – ricorda Donnini – e lo presentò ad alcuni parroci tedeschi, che poi diedero inizio alle catechesi del Cammino.
Siamo profondamente grati a Ratzinger per quello che ha fatto sia da prefetto della Congregazione della dottrina della fede sia da Pontefice, con
l’approvazione di diversi documenti fondamentali per la vita del Cammino. Egli ha anche inviato le missio ad gentes in territori bisognosi di una
nuova evangelizzazione, dimostrandosi quindi un pastore davvero preoccupato dell’evangelizzazione, che ci è stato vicino con gesti concreti».
E anche la Comunità di Sant’Egidio è tornata con la memoria a uno dei
più recenti gesti concreti di attenzione di Benedetto XVI: la visita del 12
novembre 2012 alla casa «Viva gli Anziani». E lo scorso 6 febbraio, al
termine dell’udienza generale il Papa ha incontrato alcuni vescovi che
hanno preso parte a un convegno promosso dalla Comunità nell’anniversario della fondazione, invitando Sant’Egidio a continuare nell’impegno a favore «dei deboli e dei poveri». Riflettendo sulla sua rinuncia,
il fondatore di Sant’Egidio, Andrea Riccardi, così riassume gli otto anni
di pontificato: «Papa Ratzinger ha puntato sul “governo spirituale” con il
suo insegnamento».
Un Papa quindi che ha saputo sempre mostrare la via ad associazioni e
movimenti.
«Ero stata appena eletta presidente dei Focolari – ricorda da parte sua
Maria Voce –. Insieme all’assemblea generale ci recammo in udienza da
Benedetto XVI. Era il 27 luglio 2008. Ci incoraggiò con forza “a proseguire con gioia e coraggio nel solco dell’eredità spirituale di Chiara
Lubich, incrementando sempre più i rapporti di comunione”. Poi disse a
me, come in confidenza: “Dio la aiuterà”». Poi la responsabile del movimento ricorda un’udienza privata del 2010: «Vedeva il “carisma dei
focolarini” come quello “che costruisce ponti, che fa unità”, palestra di
un amore profondo e personale con Dio, fonte di ogni altro amore e di
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
santità. A conferma, e ciò gli diede particolare gioia, la testimonianza della beatificazione imminente di Chiara Luce Badano e le 17 cause avviate
per altri membri del Movimento».
Nell’album dei ricordi, che in questo momento è eredità per il futuro,
anche il Movimento Cristiano Lavoratori (Mcl), presieduto da Carlo Costalli, aggiunge la sua immagine. «Serbiamo nel cuore il commovente
incontro con il Mcl il 19 maggio scorso per il nostro 40° anniversario
– ricorda il presidente Carlo Costalli –: ci ha lasciato un programma che
sarà guida per i prossimi anni».
«Fra i tanti ricordi del rapporto di Benedetto XVI con le Acli – ricorda Gianni Bottalico, presidente delle Acli – forse quello che più rimarrà
impresso in noi è quello dell’Angelus a Castelgandolfo a conclusione
dell’Incontro nazionale di studi delle Acli dedicato alla Laborem exercens, il 4 settembre 2011. Nel nostro cammino vogliamo continuare a
riferirci alla straordinaria sintesi che egli ci ha proposto tra l’esperienza
di fede e i valori che animano la vita economica, sociale e politica nel
mondo attuale».
Ma raccogliere l’eredità di Benedetto XVI significa anche guardare avanti. Come fanno ad esempio i responsabili dell’Agesci, Giuseppe Finocchietti e Rosanna Birollo, capo scout e capo guida, Matteo Spanò e Angela Maria Laforgia, presidenti del Comitato nazionale, assieme a padre
Alessandro Salucci, assistente generale: «Preghiamo ora per chiedere
allo Spirito Santo di far sorgere tra noi un pastore che ci aiuti con il suo
sostegno a portare avanti i valori del movimento scout: pace, giustizia,
fratellanza universale e comunione tra i popoli».
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Il Papa professore e catechista capace
di «farsi capire da tutti»
di Enrico Lenzi
È
il Papa catechista che non ti aspetti. Un teologo capace di «sminuzzare» i grandi temi ed «essere comprensibile a tutti». Benedetto XVI ha
sorpreso molto sotto questo profilo. «Attraverso le catechesi del mercoledì all’udienza generale – dice monsignor Walther Ruspi, segretario della
sezione catechesi del Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa –
ci ha aiutato a conoscerlo e ad apprezzarlo per questa sua capacità». Non
solo un «vero catechista», ma anche un pastore «capace di coinvolgere le
folle dei fedeli presenti, trasformando le udienze generali da momenti di
happenig a uno spazio di silenzio e di preghiera». Era in grande dilemma
che gli osservatori esterni avevano all’inizio del pontificato di Jospeh
Ratzinger, noto al grande pubblico come «il teologo, il professore universitario. Comunicatore «di grandi verità e concetti», capace «di farsi
comprendere da tutti», ma «mai banale» sottolinea monsignor Ruspi, che
ricorda come anche i temi affrontati nelle catechesi del mercoledì «hanno voluto mostrare la testimonianze di santità dei Padri della Chiesa, ma
anche di altre figure della storia del cristianesi dai suoi inizi fino ai giorni
nostri, per dimostrare la ragionevolezza della fede, avvicinandoci a una
fede pensata, senza aver paura delle domande profonde». Una carrellata
che non ha toccato soltanto Apostoli o Dottori della Chiesa, ma «anche il
genio femminile, con le catechesi si alcune sante e beate, proprio per far
sentire che tutto il popolo di Dio è valorizzato in questo cammino verso
il Padre e nel compito della testimonianza». Insomma un percorso di otto
anni nel quale «ha mostrato la vita ricca della Chiesa e ha indicato sempre la centralità di Gesù, della sua persona, da incontrare in modo perso-
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
nale, aprendoci alla sua conoscenza». Significativo, secondo monsignor
Ruspi anche la scelta di dedicare una serie delle catechesi «alla preghiera
e alla preghiera di Gesù, che anche in questo ci è maestro».
«Potrebbe essere preso di esempio da tutti i catechesti» aggiunge don
Danilo Marin, responsabile regionale della catechesi nella regione ecclesiastica del Triveneto. «Ho partecipato a qualche udienza generale e ho
potuto apprezzare questo linguaggio semplice e chiaro, ma ricco di concetti e di messaggi». E, altro elemento a sorpresa, «mi ha colpito la sua
capacità di rapportarsi con i fedeli. L’ho potuto sperimentare in un’udienza più ristretta a cui partecipai come responsabile di una casa di Esercizi
spirituali della Fies: davvero grande umanità e attenzione agli altri».
Una caratteristica che don Dino Pirri, responsabile della catechesi per
la regione ecclesiastica delle Marche e assistente spirituale nazionale
dell’Azione cattolica ragazzi (Acr), ha potuto verificare anche nell’incontro con i più piccoli, con i bambini. «Mi ha sempre colpito la capacità
di Benedetto XVI di mettersi in rapporto con i bambini. L’ho visto in occasione degli incontri che ha con l’Acr per Natale. Colpisce l’attenzione,
la tenerezza e anche lo stupore che Benedetto XVI esprime incontrando
anche i più piccoli». E quest’ultimi «ne sono conquistati, dopo l’iniziale
emozione e timidezza di trovarsi davanti al Papa». Quest’anno, racconta
ancora don Pirri, «abbiamo notato come il Papa abbia dedicato molto
più tempo all’incontro con i piccoli dell’Acr in quello che è stato il loro
ultimo incontro con Benedetto XVI». Sembrava quasi che volesse prolungare quell’incontro. Grandi o piccoli che fossero i suoi interlocutori,
il Papa catechista «ha voluto indicare con chiarezza la strada verso il
Padre» dice monsignor Ruspi. Sapendo entrare nel cuore del messaggio,
così «come ha fatto anche nei tre libri sulla persona di Gesù». E «senza
tirarsi indietro dal confronto con altri contributi culturali e di pensiero»,
ma mantenendo con tutti «un linguaggio comunicativo chiaro con ogni
suo interlocutore». Anche monsignor Ruspi ha un ricordo legato al Papa
con i giovani. «Eravamo alla Giornata mondiale della gioventù a Sydney
nel 2008 e stavamo navigando sulla nave. È stato bellissimo vedere come
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Benedetto XVI ascoltava con interesse e sincera curiosità le parole del
giovane ragazzo maori che stava al suo fianco e gli illustrava il panorama. Colpiva il suo stupore e la sua meraviglia per quanto gli veniva
spiegato. Il Papa si lasciava istruire con grande passione».
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
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Un padre e un maestro
Dritto al cuore dei giovani
di Mimmo Muolo
C
he sarebbe stata una sintonia a prima vista lo si era capito subito. Per
la precisione il 23 aprile 2005, appena quattro giorni dopo l’elezione. Quella mattina Benedetto XVI tenne la sua prima udienza pubblica
nell’Aula Paolo VI, udienza formalmente rivolta agli operatori dei mass
media che avevano seguito il Conclave. Ma a sorpresa ci trovò anche
diverse migliaia di giovani che lo circondarono con il loro affetto e ritmarono il suo nome alla maniera dei vecchi cori dedicati a Giovanni Paolo
II. Da allora in poi il legame tra Papa Ratzinger e il «volto giovane della
Chiesa» è andato via via alimentandosi grazie a tre Gmg (Colonia 2005,
Sydney 2008 e Madrid 2011), numerosi incontri durante i viaggi nelle
diocesi italiane e all’estero e soprattutto grazie alla profonda tensione
spirituale che Benedetto XVI ha saputo instillare nei cuori dei ragazzi
dei cinque continenti incontro dopo incontro. Il suggello, probabilmente,
il Pontefice l’ha posto a Cuatro Vientos, l’aeroporto madrileno che ha
ospitato gli atti conlusivi della terza Gmg di Papa Ratzinger. Era la sera
del 19 agosto 2011 e chi c’era non potrà mai dimenticarlo. Lo scatenarsi
improvviso degli elementi atmosferici, acqua, vento, grandine. Tensostrutture che non reggono, pezzi di palco che cadono pericolosamente
vicini al Papa, ma lui che, contro i consigli dei suoi collaboratori, decide di non cercare rifugio altrove. «Se restano loro, resto anch’io», dice
indicando i due milioni di giovani fradici di pioggia davanti sé. E il suo
gesto di fermezza e di coraggio non solo scatena l’entusiasmo e infonde
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
sicurezza, ma diventa un’immagine emblematica. Che lo stesso Benedetto XVI traduce così: «Abbiamo vissuto un’avventura insieme. Saldi nella
fede in Cristo, avete resistito alla pioggia. Vi ringrazio per il meraviglioso
esempio che avete dato. Come questa notte, con Cristo potrete sempre
affrontare le prove della vita. Non lo dimenticate». Parole pronunciate a
braccio che restano scolpite nei cuori, oltre che negli annali della cronaca
papale. E diventano perciò parte integrante della grande eredità lasciata
da Benedetto XVI ai giovani. Con i suoi gesti, con il suo magistero e con
la sua spiritualità semplice ed esigente al tempo stesso, Papa Ratzinger
ha infatti dimostrato che il rapporto instaurato dal suo predecessore con
le nuove generazioni di tutto il mondo è un patrimonio ormai stabilmente
acquisito alla Chiesa. Egli, anzi, ha lavorato perché quel rapporto fosse
approfondito grazie alla preghiera, al silenzio, al raccoglimento e affinché nessuno fosse tentato di scambiare i grandi raduni delle Gmg per una
variante cattolica di quelli che andavano di moda negli anni ’70 presso
il popolo hippy. Ora, dunque, l’eredità delle Gmg che Benedetto XVI
consegna al suo successore è fatta sì di gioia e di canti, di applausi ed
entusiasmi tipicamente giovanili, ma anche e soprattutto di adorazione.
In altre parole è riempita sempre più di una Presenza, quella del Signore
contemplato sotto le specie eucaristiche, verso la quale il Papa ha saputo
indirizzare – quasi come un vivente cartello stradale – il percorso di vita
di tanti ragazzi e ragazze che lo hanno seguito durante i suoi quasi otto
anni di Pontificato. Lo si era già visto a Marienfeld, la località poco distante da Colonia della sua prima Gmg. Se ne è avuta conferma a Sydney,
nell’ippodromo di Randwick trasformato in un cenacolo a cielo aperto,
e soprattutto a Madrid, quando – dopo la tempesta – era giunta la quiete di quei minuti in ginocchio davanti al tabernacolo in un silenzio che
potevi tagliare quasi con il coltello, tanto era spesso, eppure così leggero
da portare in alto i cuori di tutti. Quegli stessi cuori ai quali il Pontefice
ha puntato dritto per trasmettere il suo amore verso Gesù. Perciò, anche nel dopo Papa Ratzinger, la pastorale giovanile non potrà non tenere
conto della sua “lezione”, in cui gesti e parole sono come le due facce
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
della stessa medaglia. Chi non ricorda ad esempio le splendide immagini
dell’arrivo a Colonia e Sydney a bordo due bianche imbarcazioni, quasi
a sottolineare, anche visivamente, che la Chiesa è da sempre come una
barca che solca le onde ora calme, ora agitate della storia? E a commento
di quelle immagini ecco l’insegnamento di Benedetto XVI: «Spalancate
il vostro cuore, lasciatevi sorprendere da Cristo e dalla Chiesa. Solo da
Dio infatti viene la vera rivoluzione» (Gmg di Colonia). «La vita non è
semplicemente accumulare ed è ben più che avere successo» (Gmg di
Sydney). E infine, forse l’insegnamento che li riassume tutti e che proietta il rapporto Chiesa-giovani nel futuro, all’insegna della speranza. «Dio
ci ama. Questa è la grande verità della nostra vita che dà senso a tutto il
resto. Non siamo frutto del caso o dell’irrazionalità, ma all’origine della
nostra esistenza c’è un progetto d’amore di Dio» (Gmg di Madrid). Quel
progetto Papa Ratzinger l’ha testimoniato con la sua vita tutti i giorni.
Persino con la decisione della sua rinuncia. Adesso tocca ai giovani seguirne l’esempio lungo la rotta che porta a Rio de Janeiro e oltre. Sotto la
guida del nuovo Papa.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
«Ha saputo incantarli
con parole piene di senso»
di don Michele Falabretti *
C
hi è stato – qualche volta – sulla spianata di una Gmg, ha visto questa scena: a un certo punto viene annunciato l’ingresso della jeep
bianca che porta il Papa in mezzo ai giovani. Come allo sparo dello starter di una corsa, improvvisamente tutti scattano in piedi e si mettono a
correre. Gli spazi al centro dei settori di colpo si svuotano e tutti si accalcano a ridosso delle transenne. Rigorosamente con il telefonino in mano
per scattare una foto. Era quello l’inizio di un dialogo che poi proseguiva
sul palco papale: parole, gesti e canti erano l’inizio di un coinvolgimento
anche spettacolare.
Poi le cose sono un po’ cambiate. A Colonia le transenne non c’erano e
fu impossibile far passare la jeep. Ultimamente era ripreso il giro prima
della Messa della domenica mattina. Ma niente corse. Perché l’appuntamento con Benedetto XVI è da un’altra parte. Ricordo soprattutto la notte
di Sydney, quando il Papa ha parlato ai giovani utilizzando sant’Agostino: «L’allontanamento dal Signore è solo un futile tentativo di fuggire da
noi stessi».
Lì per lì rimango perplesso: chissà cosa avranno capito. Poi, con una
semplicità quasi disarmante, il Papa comincia a scavare nel profondo del
cuore di ciascuno. Sempre utilizzando Agostino. Rimango sospeso: troppo bello, ma non sarà troppo difficile per loro? A un certo punto incrocio
lo sguardo di qualcuno: aveva gli occhi lucidi…
Era iniziata una nuova stagione. L’euforia si trasforma in incanto. Le
parole, misurate, pronunciate con dolcezza e delicatezza, manifestano
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
sempre di più tutta la loro potenza. E la capacità di andare dritte al cuore
dell’esistenza. La scuola del silenzio sembra la pia illusione di chi è ancorato a forme ormai superate: chi si sarebbe aspettato di poter ancora far
sognare i giovani facendo loro attraversare un silenzio abitato da parole
di senso? Soltanto chi non ha visto questo percorso, non è riuscito a comprendere i famosi dieci minuti di adorazione della spianata di Madrid.
Ma noi, mentre il vento caldo ci asciugava dalla pioggia appena ricevuta,
ce ne stavamo in ginocchio a vedere le spalle del Papa. Poco più oltre la
Presenza: dell’Unico per cui vale la pena vivere. C’era un Papa al quale
quella sera non era stato concesso di parlare: il temporale sembrava averla vinta. Sorridente, non si era scomposto. Paziente, aveva atteso. Quella
sera il discorso l’avrebbe fatto in ginocchio, voltando le spalle alla marea
di giovani. Ma portandoci tutti con sé: il maestro ci aveva preso per mano
per portarci dal Maestro aspettava tutti e ciascuno.
* direttore del Servizio nazionale di pastorale giovanile
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
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La fede e il rito
Nella liturgia il primato di Dio
di Gianni Cardinale
«Q
uando ho deciso, dopo qualche esitazione, di accettare il progetto di una edizione di tutte le mie opere, mi è stato subito chiaro
che vi dovesse valere l’ordine delle priorità del Concilio, e che quindi
il primo volume a uscire doveva essere quello con i miei scritti sulla
liturgia. La liturgia della Chiesa è stata per me, fin dalla mia infanzia,
l’attività centrale della mia vita, ed è diventata, alla scuola teologica di
maestri come Schmaus, Söhngen, Pascher e Guardini, anche il centro del
mio lavoro teologico». Queste parole Benedetto XVI le ha scritte nella
prefazione del primo volume dell’opera omnia pubblicato in Germania
nel 2008 e in Italia, per i tipi della Libreria editrice Vaticana, nel 2010. E
spiegano bene la centralità che la liturgia, studiata e praticata, ha avuto
e continua ad avere nella vita di Joseph Ratzinger. Centralità che papa
Benedetto non attribuisce ad un suo gusto personale, ma proprio al Concilio Vaticano II il cui primo documento fu proprio la Costituzione sulla
Sacra Liturgia solennemente votato il 4 dicembre 1963. Sempre nella
stessa prefazione scrive infatti il Pontefice che regnerà fino al prossimo
28 febbraio: «Ciò che a prima vista potrebbe sembrare un caso, si rivela,
guardando alla gerarchia dei temi e dei compiti della Chiesa, come la
cosa anche intrinsecamente più giusta». Infatti «cominciando con il tema
“liturgia”, si mise inequivocabilmente in luce il primato di Dio, la priorità
del tema “Dio”. Dio innanzitutto, così ci dice l’inizio della costituzione
sulla liturgia». Perché «quando lo sguardo su Dio non è determinante ogni
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
altra cosa perde il suo orientamento». E «le parole della regola benedettina “Ergo nihil Operi Dei praeponatur” (43, 3: “Quindi non si anteponga
nulla all’Opera di Dio”) – ricorda papa Ratzinger – valgono in modo specifico per il monachesimo, ma hanno valore, come ordine delle priorità,
anche per la vita della Chiesa e di ciascuno nella sua rispettiva maniera».
Questo insomma è stato il filo d’oro che ha guidato Benedetto XVI in
questi suoi otto anni di pontificato. Un filo d’oro che è passato attraverso
grandi atti magisteriali o di governo della Curia. È il caso ad esempio l’esortazione Sacramentum caritatis del febbraio 2007 che contenendo importanti insegnamenti liturgici, (come quando spiega che «l’ars celebrandi deve favorire il senso del sacro e l’utilizzo di quelle forme esteriori che
educano a tale senso, come, ad esempio, l’armonia del rito, delle vesti
liturgiche, dell’arte e del luogo sacro», o che «la celebrazione eucaristica
trova giovamento là dove i sacerdoti e i responsabili della pastorale liturgica si impegnano a fare conoscere i vigenti libri liturgici e le relative
norme...»). Ed è anche il caso del Motu proprio Summorum Pontificum
del luglio dello stesso anno che ha dato piena cittadinanza alla liturgia
preconciliare nella vita della Chiesa (vedi box), e dell’altro Motu proprio
Quaerit semper del 2011 con cui viene ristrutturata la Congregazione per
il culto divino liberandola da alcune attribuzioni “giudiziarie”, come il
trattamento dei casi di dispensa dal matrimonio rato e non consumato,
per concentrarla di più proprio sulle questioni liturgiche. La sensibilità di
papa Ratzinger in questo campo si è manifestata anche con il suo esempio, tramite le celebrazioni pontificie, e i ritocchi nei riti della Consegna
del Pallio agli Arcivescovi metropoliti o in quello delle Canonizzazioni e
dei Concistori. Ritocchi curati dall’Ufficio delle Cerimonie liturgiche del
Sommo pontefice presieduto dal monsignor Guido Marini, avendo sempre come obiettivo quello di distinguere gli atti più “giuridici” da quelli
strettamente liturgici. Significativa anche la decisione del Papa di distribuire l’eucaristia, nelle messe da lui presiedute, solo in ginocchio e solo
nella bocca. Una decisione che il cardinale Antonio Canizares Llovera,
prefetto della Congregazione per il culto divino, ha spiegato come «ini-
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
ziativa bella e edificante del vescovo di Roma» per «dare maggiore risalto alla dovuta reverenza con cui dobbiamo accostarci al Corpo di Gesù».
Il pontificato ratzingeriano è stato poi impreziosito anche da una serie di
provvedimenti “piccoli” ma assolutamente non secondari. Intanto il varo
della nuova traduzione inglese del Messale, più fedele all’originale latino
come previsto dall’istruzione Liturgiam authenticam del 2001, e dallo
stesso Benedetto XVI incoraggiata. Poi il ritocco della traduzione del
“pro multis” (da “per tutti” a “per molti”) della Consacrazione del calice
nella Messa già avvenuta in tante nazioni e che papa Ratzinger chiesto
spiegandolo in una lettera personale all’episcopato tedesco scritta nell’aprile 2012. Infine è da segnalare un ultimo ritocco nel rito del Battesimo
di bambini, con la sostituzione di una parola ritenuta teologicamente ambigua, che è stata già decisa ma che deve essere ancora pubblicata. Ma
papa Ratzinger non ha parlato solo con atti magisteriale di governo, ma
anche con la sua predicazione lungo l’anno liturgico, con le sue splendide
e inconfondibili omelie pronunciate nel corso delle grandi solennità. «Per
me – confessa monsignor Juan-Miguel Ferrer y Grenesche, sottosegretario della Congregazione per il culto – l’insieme delle sue omelie lungo
il ciclo liturgico costituiscono davvero un vero modello d’insegnamento liturgico-spirituale di grandissimo valore per capire la liturgia come
“fons et culmen” della vita della Chiesa». Una scelta ragionata di alcuni
brani dei queste omelie, insieme a brani tratti da libri o da conversazioni
a braccio, è stata selezionato dall’Ufficio delle cerimonie pontificie che
lo ha messo a disposizione di tutti nel proprio sito ufficiale (http://www.
vatican.va/news_services/liturgy/index_it.htm). È lì che si possono trovare, tra l’altro, alcune spiegazioni importanti come quella relativa alla
“partecipazione attiva” dei fedeli nella liturgia, che «non va confusa con
l’agire esterno» (Messaggio per la chiusura del 50° Congresso eucaristico internazionale celebrato in Irlanda nel giugno 2012). È lì che si ritrova
il richiamo al fatto che nel campo liturgico «ogni vero riformatore, infatti, è un obbediente della fede: non si muove in maniera arbitraria, né si
arroga alcuna discrezionalità sul rito; non è il padrone, ma il custode del
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
tesoro istituito dal Signore e a noi affidato» (dal discorso ai vescovi italiani riuniti in assemblea generale nel novembre 2010). La Chiesa intera è
presente in ogni liturgia: aderire alla sua forma è condizione di autenticità
di ciò che si celebra. È lì che si trovano le memorabili risposte che il Papa
pronunciò a braccio nell’incontro di catechesi e di preghiera con i bambini della prima comunione a piazza San Pietro il 15 ottobre 2005. In essa
il pontefice, da grande catechista, spiegò con parole semplici e profonde
il significato della presenza reale di Gesù nell’eucaristia («l’elettricità, la
corrente non le vediamo, ma la luce la vediamo», «e così anche il Signore
risorto non lo vediamo con i nostri occhi, ma vediamo che dove è Gesù,
gli uomini cambiano, diventano migliori»), sull’importanza di confessarsi regolarmente («se non mi confesso mai, l’anima rimane trascurata e,
alla fine, sono sempre contento di me e non capisco più che devo anche
lavorare per essere migliore, che devo andare avanti»), o cosa fosse l’adorazione eucaristica («nella sua essenza è un abbraccio con Gesù, nel
quale gli dico: “Io sono tuo e ti prego sii anche tu sempre con me”»).
Insomma, è un patrimonio ricco quindi, quello che Benedetto XVI lascia
alla Chiesa. Un patrimonio di cui il successore farà certamente tesoro.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Con il «Summorum Pontificum»
torna il messale preconciliare
C
on il Motu proprio «Summorum Pontificum», emanato nel luglio
2007, Benedetto XVI ha voluto dare piena cittadinanza nella Chiesa
al messale in uso prima del Concilio, con la puntualizzato che non c’è
«nessuna contraddizione» tra il Messale pre e quello post-conciliare, che
costituiscono, rispettivamente, la forma straordinaria e ordinaria dell’unico Rito Romano. Il Papa ha voluto offrire a tutti i fedeli la liturgia antica, «considerata tesoro prezioso da conservare»; «garantire e assicurare»
effettivamente l’uso della forma straordinaria, «nel presupposto che l’uso
della Liturgia Romana in vigore nel 1962 sia una facoltà elargita per
il bene dei fedeli e pertanto vada interpretata in un senso favorevole ai
fedeli che ne sono i principali destinatari»; e infine ma, non per ultimo,
«favorire la riconciliazione in seno alla Chiesa». Con l’Istruzione applicativa «Universae Ecclesiae», emanata nel maggio 2011, si ribadisce che
spetta al vescovo «adottare le misure necessarie per garantire il rispetto»
della forma straordinaria, la quale può essere richiesta da un gruppo di fedeli – senza che venga indicato un numero minimo di aderenti –, che può
essere costituito anche da persone «che provengano da diverse parrocchie o diocesi» e si sottolinea che i richiedenti la messa del 1962 non devono in nessun modo sostenere o appartenere a gruppi che si manifestano
contrari alla «validità o legittimità» delle liturgie postconciliari. (G.C.)
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
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La Città di Pietro
Il legame con Roma
dai poveri ai parroci
di Angelo Zema
L
a consegna della lettera «sul compito urgente dell’educazione», rivolta alla diocesi e alla città. Il dialogo da «padre» con i detenuti
di Rebibbia. La visita in Campidoglio con l’appello alla città perché recuperi le sue «radici civili e cristiane». L’ingresso nella Sinagoga tra i
«fratelli ebrei». Sfogliando idealmente l’album di otto anni di pontificato
di Benedetto XVI a Roma, sarebbe difficile indicarne l’immagine più significativa. Tanti i momenti che, nella sobrietà dello stile, risaltano come
piccole grandi luci destinate a lasciare il segno, soprattutto nei cuori di
chi li ha potuti vivere di persona.
Più facile, invece, individuare un filo conduttore che si esprime in alcuni
temi chiave: la centralità della questione della verità; l’impegno a mettere
in guardia da un relativismo distruttivo, diventato «una sorta di dogma»,
che offusca il senso religioso; l’appello all’evangelizzazione – meglio,
alla rievangelizzazione – in un contesto dove la fede non si può dare più
per scontata; la riaffermazione della centralità della famiglia e della difesa della vita, dal concepimento sino alla fine naturale; la sollecitudine per
la condizione dei poveri. Grandi linee del pontificato declinate sul territorio della sua Chiesa locale e della città che Benedetto XVI ha vissuto pienamente nella sua identità, cioè più come pastore di anime che come «cittadino adottivo». «Vivendo a Roma da tantissimi anni – dice parlando il 9
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
marzo 2009 dal Campidoglio – ormai sono diventato un po’ romano; ma
più romano mi sento come vostro vescovo». E come vescovo interpreta
al meglio il suo ministero, andando incontro alla gente, sia pure nella sobrietà dei numeri delle visite, dettata dallo sguardo realista sulla sua età.
Ecco allora i dodici incontri con le comunità parrocchiali, con la dedicazione di tre chiese nelle periferie della Capitale, gesto di grande significato per un vescovo. Senza contare la presenza in altre due parrocchie,
Santa Maria del Divino Amore, con il suo santuario caro ai romani, per
la recita del Rosario, e San Lorenzo fuori le Mura, per una celebrazione
a 1.750 anni dal martirio del santo. Ai «suoi» preti – di cui, dice, conosce
la «fatica quotidiana» – Benedetto XVI riserva un’attenzione particolare:
dal primo appuntamento, meno di un mese dopo l’elezione, assurto alle
cronache per l’annuncio della dispensa dai cinque anni di attesa per l’apertura della causa di beatificazione di Giovanni Paolo II, fino all’ultimo,
commovente, pochi giorni fa, con i suoi ricordi del Concilio Vaticano II.
Non solo: ogni anno conferisce le ordinazioni sacerdotali per la diocesi,
rinnovando l’appello alla preghiera per le vocazioni; e ogni anno riceve
l’abbraccio degli alunni dei seminari romani, a cominciare da quel marzo
2006 in cui al Seminario Maggiore ricorda don Andrea Santoro, ucciso
poche settimane prima in Turchia.
Ma Benedetto XVI è dentro il cuore della città, accanto alla fede del popolo. Lo testimonia il bagno di folla in occasioni come la celebrazione
del Corpus Domini a San Giovanni in Laterano, con la processione fino
a Santa Maria Maggiore; il rito della Via Crucis al Colosseo; l’atto di
venerazione all’Immacolata in piazza di Spagna. Ne è prova l’affetto dei
giovani e degli universitari che pregano con lui in alcuni appuntamenti
nei «tempi forti» dell’anno liturgico. Sono tre le università che lo accolgono (Cattolica, Gregoriana, Lateranense), ma è costretto a rinunciare
alla visita alla Sapienza a causa di proteste che Ruini addita come «tristi
vicende». Il Papa teologo si fa piccolo tra i piccoli, visitando l’ospedale Bambino Gesù, per testimoniare l’amore che Cristo rivolge ai bimbi.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Dialoga con i fanciulli in uno speciale incontro per coloro che hanno
ricevuto la prima comunione. Riceve i ragazzi dell’Azione cattolica per
la Carovana della pace e guarda sorridente le colombe, lanciate dal suo
studio, che di volare non vogliono saperne.
Nel suo itinerario romano non mancano le visite ai luoghi della carità,
della sofferenza e della cura. Segno della sua predilezione per i poveri,
che definisce «il tesoro della Chiesa». Entra nella mensa e nell’ostello
della Caritas diocesana, siede a tavola con i poveri assistiti dalla Comunità di Sant’Egidio, porta la sua carezza ai degenti dell’hospice Sacro
Cuore, dove la vita è custodita fino in fondo come dono prezioso. Il suo
amore per Roma emerge con chiarezza anche nelle udienze agli amministratori locali, dove insiste sul sostegno alla famiglia e sulla difesa della
vita.
Ma è al Convegno diocesano che Benedetto XVI offre le grandi linee pastorali per la diocesi: otto interventi, sempre in apertura dei lavori, anno
dopo anno. Invoca una «pastorale dell’intelligenza» di fronte alle sfide
che attendono la Chiesa, auspica che le nuove generazioni possano «fare
esperienza della Chiesa come di una compagnia di amici affidabile», invita a fare tesoro della «via della bellezza» nella catechesi. Ancora, rilancia l’impegno per «una rinnovata stagione di evangelizzazione». Forse
la principale consegna affidata alla comunità ecclesiale per la Roma che
verrà.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
L’emergenza educativa
di Daniela Pozzoli
D
i emergenza educativa Benedetto XVI aveva parlato chiaro già nel
giugno del 2005, nel discorso d’apertura del Convegno ecclesiale
della diocesi di Roma. Senza «la luce della verità», metteva in guardia il
Santo Padre, non è possibile una vera educazione. E a insidiare l’opera
educativa era ed è proprio quel relativismo «che non riconoscendo nulla
come definitivo, lascia come ultima cultura solo il proprio io con le sue
voglie». Nella Lettera alla diocesi di Roma «sul compito urgente dell’educazione» (21 gennaio 2008) Papa Ratzinger rassicura genitori, insegnanti, educatori: «Non temete», dice loro, perchè le difficoltà non sono
insormontabili. Anche se «ogni vero educatore deve innanzitutto donare
qualcosa di sé». E non serve tenere al riparo i più giovani da ogni difficoltà ed esperienza del dolore perchè così «rischiamo di far crescere persone
fragili e poco generose». Occorrono ai bambini e ai giovani regole certe
anche nella vita di tutti i giorni altrimenti, avverte, «non si va da nessuna
parte. E se il rapporto educativo è l’«incontro tra due libertà», Benedetto
XVI chiama in causa la responsabilità dell’educatore ma anche, in misura
che cresce con l’età, la responsabilità del figlio, dell’alunno, del giovane
che deve rispondere a se stesso e agli altri.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
E il grande teologo
tenne ferma la scala dell’elettricista
di Giovanni Ruggiero
S
orride ancora un po’ divertita: «Qualche volta – dice la signora Venerina – l’abbiamo mandato via!» Con il figlio, Nicola Marchesani, conduce il ristorante del Borgo che porta il suo nome. Tante volte al vescovo
e poi cardinale Joseph Ratzinger toccò di cercarsi un altro ristorante. Un
giorno il suo segretario, Joseph Clemens, trovando per l’ennesima volta
la porta sbarrata, la prese di petto: «Ma lei, signora, sa chi è il cardinale
Ratzinger?» «E certo che lo so! – replicò lei – Ma se il posto non c’è...
non c’è!» Per quindici anni Benedetto XVI è venuto in questo ristorante
da dove, prima o poi, passano per pranzo o per cena tutti i cardinali. Lei
li chiama «i miei vicini di bottega». «I primi tempi – dice – mio figlio,
giovane e poco pratico, mica l’aveva capito che se un cardinale tendeva
la mano era per farsela baciare. Nicola stringeva la mano a tutti. Con il
Papa non c’è mai stato problema perché ci abbracciava». Si aspettava la
signora Venerina la decisione del Papa? «Qui non è che stiamo ad origliare – precisa – ma è ovvio che, servendo a tavola, qualche parola si afferra.
Ma non so – aggiunge dubbiosa – forse è impressione mia, ma un po’ me
l’aspettavo». Il motivo per andare da Venerina c’è sempre: le fettuccine
con gamberi, zucchine e zafferano. Dice che era il piatto preferito di Benedetto XVI.
O forse la carbonara, come assicura invece Roberto Fulvimari, proprietario del “Passetto del Borgo” che pure ha visto il Papa tra gli avventori per
molti anni, il Papa che volle la fotografia del suo cane Billy quando morì.
«Specie la sera – dice l’anfitrione Roberto – il cardinale Ratzinger veniva
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
da noi, finché non è entrato lì dentro». Quel lì dentro sta per il Conclave
che lo elevò al Soglio pontificio. Il prossimo Papa quasi certamente almeno una volta ha mangiato qui. Ieri a pranzo Roberto si è avvicinato a
un porporato che aveva appena pagato il conto: «Eminenza – gli ha detto
– si lasci salutare perché magari dopo che è entrato lì dentro qui non verrà
più». Non se l’aspettava proprio che il Papa rinunciasse: «Si vede – dice
– che proprio non ce la faceva più». Ha il ricordo del Papa che cenava da
lui con la sorella Maria e il cardinale Mayer. Ma si parla di venti anni fa
o forse più.
Angelo Mosca, sempre al Borgo, ha un negozio di materiale elettrico. Per
una cosa o per un’altra passava di qui la segretaria di Benedetto XVI, Ingrid. «Nel negozio il cardinale – dice Angelo Mosca – non è mai venuto.
Andavo io da lui!». Il primo intervento, tanti anni fa, fu per un blackout
nell’abitazione di Piazza della Città Leonina. Mosca cominciò a darsi da
fare dopo essere salito su una scala. Il Papa si preoccupò: «Faccia attenzione. È sicuro di non cadere?» E l’elettricista: «Se m’arregge lei non
cado». E il futuro Papa tenne ferma la scala per tutto il tempo che durò
l’intervento. La segretaria Ingrid ha continuato a servirsi nel negozio per
conto del Papa. Mosca una volta le chiese: «Ma il Papa si ricorda ancora
di noi?» Ingrid lo rassicurò. Pochi giorni dopo l’invito a partecipare alla
Messa nella cappella privata. Ecco la prova: due belle foto che lo mostrano insieme a Benedetto XVI subito dopo il rito. Mosca le fa vedere poi le
ripone nella cartellina rossa. «Ma il Papa come sta?», ha sempre chiesto
alla segretaria Ingrid tutte le volte che è passata per il negozio e lo rassicurava. Poi l’annuncio clamoroso: «E certo che no, non me lo aspettavo.
Ma era stanco. Si capiva. Non ha potuto fare diversamente!».
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
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Un Paese con lui
La sua mano sulla spalla dell’Italia
di Mimmo Muolo
U
na foto per riassumere il rapporto tra Benedetto XVI e l’Italia. Il
Papa appoggia la mano sulla spalla del presidente della Repubblica
Giorgio Napolitano in un atteggiamento che sa di amicizia e stima, ma
anche di sostegno e incoraggiamento. È la sera del 4 febbraio scorso e
nell’Aula “Paolo VI” in Vaticano è appena terminato il concerto offerto
dal capo dello Stato al Pontefice. Quel gesto, però, è ben più che un semplice ringraziamento. Diventa quasi un simbolo di questi quasi otto anni
di Pontificato nei quali, si potrebbe dire, Papa Ratzinger (che l’Italia la
conosceva bene anche prima di essere eletto) ha veramente appoggiato
la mano sulla spalla dell’intera Penisola. Su quella della comunità ecclesiale nazionale, in primis, con la sua guida pastorale discreta nelle forme, ma ferma nei principi, a cominciare dal primato di Dio. E anche su
quella dell’intero corpo sociale italiano al quale – sia nel rapporto con le
Istituzioni, sia nei contatti con la gente – ha sempre indicato la via di una
fede amica dell’intelligenza, attenta ai bisogni degli ultimi e soprattutto
desiderosa di dare il proprio contributo alla costruzione della città terrena. Anzi, da questo punto di vista, il magistero “italiano” del Pontefice
tedesco ha costituito un sicuro punto di riferimento per tutti coloro che
hanno a cuore e la ricerca del bene comune e l’unità nazionale (si veda a
tal proposito la Lettera inviata proprio a Napolitano per il 150° anniversario dello Stato unitario, di cui parliamo a parte). In sostanza il Papa ha
offerto alle Chiese della Penisola un paradigma di dialogo con il mondo
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
non a prescindere, ma anzi a partire dal proprio credo. Emblematica da
questo punto di vista è l’omelia pronunciata al Congresso eucaristico di
Bari nel 2005, primo viaggio in assoluto del Pontificato, poco più di un
mese dopo l’elezione. In pratica il suo biglietto da visita per le comunità
ecclesiali dalle Alpi alla Sicilia. «Noi dobbiamo riscoprire con fierezza –
disse in quella assolata domenica di fine maggio – la gioia della domenica cristiana. Dobbiamo riscoprire con fierezza il privilegio di partecipare
all’Eucaristia, che è il sacramento del mondo rinnovato». Da qui, da questo primato di una liturgia, fonte e culmine della vita cristiana, Benedetto
XVI ha invitato tutti a ripartire. E infatti un anno dopo, al Convegno di
Verona (in pratica gli stati generali della Chiesa in Italia), quell’invito è
risuonato all’interno di uno dei discorsi più importanti del Pontificato.
«Il nostro atteggiamento non dovrà mai essere quello di un rinunciatario
ripiegamento su noi stessi: occorre invece mantenere vivo e se possibile
incrementare il nostro dinamismo, occorre aprirsi con fiducia a nuovi
rapporti, non tralasciare alcuna delle energie che possono contribuire alla
crescita culturale e morale dell’Italia». È in sostanza l’invito a rendere
visibile anche nell’Italia toccata dalle correnti della secolarizzazione «il
grande sì della fede». Ed eccola allora la mano poggiata sulla spalla della Chiesa italiana. Se si ripercorrono infatti i sette discorsi pronunciati
all’Assemblea generale della Cei, guidata prima dal cardinale Camillo
Ruini e poi dal cardinale Angelo Bagnasco, non è difficile accorgersi di
quante volte il Papa abbia messo l’accento sulla grande tradizione cattolica dell’Italia (definita nel 2006 «la principale ricchezza del Paese») e incoraggiato i vescovi a rafforzarla soprattutto attraverso la cura pastorale
dei giovani. «La fede cattolica e la presenza della Chiesa – affermava nel
2007 – rimangono il grande fattore unificante di questa amata Nazione ed
un prezioso serbatoio di energie morali per il suo futuro». Invece, il grande nemico, più volte denunciato, è «la cultura improntata al relativismo
morale, povera di certezze e ricca invece di rivendicazioni non di rado ingiustificate». In questo quadro, perciò, Benedetto XVI inserisce la difesa
della vita dal concepimento al suo termine naturale, la promozione della
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
famiglia fondata sul matrimonio tra l’uomo e la donna e la riaffermazione
della libertà di educare i figli. Cioè i temi che dal 30 marzo 2006 (giorno del suo discorso ai parlamentari del Ppe) verranno designati come i
«principi non negoziabili» più volte sottolineati anche negli incontri con
i vescovi italiani riuniti in assemblea. Ciò che spinge il Papa non è però
(discorso del 2005 all’Assemblea della Cei) l’esigenza di difendere gli
interessi cattolici, ma l’uomo «creatura di Dio». Benedetto XVI è infatti
convinto – e lo dirà apertamente il 29 maggio 2008 – che è questo «il
problema fondamentale oggi». «Nessun altro problema umano e sociale
potrà essere davvero risolto se Dio non torna al centro della nostra vita».
Per questo egli riformula anche il principio di una «sana laicità» e afferma, sempre nello stesso discorso, che «occorre resistere ad ogni tendenza
a considerare la religione, e in particolare il cristianesimo, come un fatto
soltanto privato: le prospettive che nascono dalla nostra fede possono
offrire invece un contributo fondamentale al chiarimento e alla soluzione
dei maggiori problemi sociali e morali dell’Italia e dell’Europa oggi».
In tal modo il biglietto da visita presentato al Congresso eucaristico di
Bari (centralità della domenica), e ribadito nel 2011 a quello di Ancona,
diventa progetto anche pastorale, che si può cogliere persino nella speciale geografia dei viaggi italiani di Papa Ratzinger. Trenta in tutto, che
solcano la Penisola e le due isole maggiori in lungo e in largo e in cui,
accanto alle grandi città (Torino, Milano, Cagliari, Palermo, Napoli, Genova e Venezia), figurano i nomi dei più famosi santuari nostrani: Assisi,
Pompei e Loreto (ultima tappa, prima di aprire l’Anno della Fede), ma
anche La Verna, Montecassino, Serra San Bruno, San Giovanni Rotondo
e Santa Maria di Leuca. Come dire che il Papa teologo e professore di
università (che si reca a visitare a Pavia la tomba del suo amato Sant’Agostino) non disdegna (tutt’altro) la fede degli umili e dei semplici, la
religiosità popolare e capillarmente diffusa nel popolo italiano. A patto
però che questa fede sappia coniugarsi con la vita vissuta. E anche in
questo caso Benedetto XVI poggia una mano paterna sulla spalla della
Chiesa italiana e offre il suo esempio e la sua guida. Nel 2011 presiede la
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
recita del Rosario in Santa Maria Maggiore insieme con i vescovi della
Cei e tocca una serie di problemi concreti, chiedendo ad esempio che
sia superato il precariato dei giovani, che Nord e Sud d’Italia, anziché
dividersi, si integrino meglio e che i cristiani partecipino alla vita politica
(esigenza manifestata per la prima volta nel viaggio a Cagliari, settembre
2008). Giovani ed emergenza educativa sono gli altri due grandi temi di
un magistero “tricolore” che ha avuto nelle visite ad limina dei vescovi,
interrotte dalla rinuncia (il Papa ha ricevuto 13 dei 30 gruppi in agenda)
e nel discorso alla Cei del 2012 i suoi punti di approdo. Quest’ultimo intervento diventa anzi, alle luce dei fatti di questi giorni, quasi una sorta di
testamento spirituale di Benedetto XVI per l’Italia. «Gli uomini vivono
di Dio e noi abbiamo il compito di annunciarlo, di mostrarlo, di guidare
all’incontro con Lui. Ma è sempre importante ricordarci che la prima
condizione per parlare di Dio è parlare con Dio, diventare sempre più
uomini di Dio». In altri termini, lasciare che sia Lui a metterci una mano
sulla spalla.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
La lettera per il 150°:
«Ecco come il cristianesimo
ha plasmato la storia del Paese»
di Mimmo Muolo
H
a riletto, lui tedesco, la storia italiana. Non solo quella degli ultimi
150 anni, ma anche tutto ciò che l’ha preceduta. E ci ha consegnato
un “ritratto di famiglia” che è una sintesi mirabile della migliore italianità. Dove sta, infatti, la radice profonda dell’identità nazionale? Benedetto
XVI, il 16 marzo 2011, nella lettera inviata a Giorgio Napolitano per il
150° anniversario dell’unità, risponde così: «Il Cristianesimo ha contribuito in maniera fondamentale alla costruzione dell’identità italiana attraverso l’opera della Chiesa, delle sue istituzioni educative ed assistenziali, fissando modelli di comportamento, configurazioni istituzionali,
rapporti sociali». L’analisi di Papa Ratzinger è a 360 gradi. Abbraccia la
cultura italiana in tutte le sue espressioni: Dante, Giotto, Michelangelo,
Raffaello, Pierluigi da Palestrina, Caravaggio, Scarlatti, Bernini, Borromini e Manzoni. Non dimentica le stelle di quel firmamento di santità che
si stende ininterrottamente sopra i 2000 anni di storia cristiana della Penisola (San Francesco d’Assisi e Santa Caterina da Siena, non caso i due
patroni d’Italia) e cita anche tutti coloro che (Da Cesare Balbo a Massimo
d’Azeglio, da Antonio Rosmini a Vincenzo Gioberti) si adoperarono per
la costruzione di un’Italia unita e libera da condizionamenti stranieri. Ma
soprattutto Benedetto XVI tiene a ribadire un concetto. Se «l’unità d’Italia, realizzatasi nella seconda metà dell’Ottocento, ha potuto aver luogo
non come artificiosa costruzione politica di identità diverse, ma come
naturale sbocco politico di una identità nazionale forte e radicata» è stato
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
perché quell’identità formatasi anche grazie all’opera della Chiesa era
«sussistente da tempo». «La comunità politica unitaria nascente a conclusione del ciclo risorgimentale ha avuto, in definitiva, come collante
che teneva unite le pur sussistenti diversità locali, proprio la preesistente
identità nazionale, al cui modellamento il Cristianesimo e la Chiesa hanno dato un contributo fondamentale». È chiaro che queste notazioni, oltre
a una serena analisi storica, contengono anche un’indicazione di prospettiva. Perché in tutte le fasi degli ultimi 150 anni «l’identità nazionale degli italiani, così fortemente radicata nelle tradizioni cattoliche, costituì in
verità la base più solida della conquistata unità politica». Il Papa ricorda
a tal proposito «l’apporto fondamentale dei cattolici italiani all’elaborazione della Costituzione repubblicana» e l’Accordo di revisione del
Concordato firmato nel 1984. Un atto che, conclude Banedetto XVI, ha
visto ancora una volta «la Chiesa e i cattolici impegnati in vario modo a
favore della “promozione dell’uomo e del bene del Paese”».
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Le voci dei continenti
Con la fede oltre la muraglia cinese
di Bernardo Cervellera
P
ochi giorni fa, alla notizia della rinuncia di Benedetto XVI al ministero petrino, il portavoce del ministero cinese degli Esteri, Hong Lei,
incalzato dai giornalisti è stato costretto a dare una valutazione del gesto
Papale. La sua risposta, che sa di imparaticcio, è che «il Vaticano non
deve interferire negli affari interni della Cina» e che «il Vaticano deve
interrompere le relazioni diplomatiche con Taiwan».
Da quasi 40 anni la Cina continua a predicare queste due condizioni per
giungere agli accordi diplomatici: le ha dette fin dai tempi di Pio XII,
accusando la Chiesa cattolica di essere al servizio del capitalismo americano, fino a Giovanni Paolo II. Che Hong Lei le abbia ripetute, come
un disco rotto, davanti a Benedetto XVI, non è segno del fallimento della
politica vaticana, ma di Pechino che con sgomento balbetta qualcosa di
ormai superato dai tempi.
Il ministero di Benedetto XVI verso la Cina non ha mai avuto alcun
aspetto politico, né in opposizione, né a favore della Cina o Taiwan, o del
comunismo come sistema sociale. Egli ha sempre e solo posto la questione della libertà religiosa della comunità cattolica in Cina, richiamandosi
alla costituzione cinese, che difende (alquanto in teoria) la libertà religiosa, ai protocolli Onu sui diritti civili e politici, che Pechino ha firmato
negli anni ’90, e alle caratteristiche dogmatiche della Chiesa cattolica,
che implicano il ministero universale del Papa e il diritto alle nomine dei
vescovi.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Questo atteggiamento franco e amichevole (dicendo «la verità col linguaggio dell’amore») è emerso nella Lettera ai cattolici cinesi (maggio
2007), dove si sottolinea il desiderio di aprire «uno spazio di dialogo con
le Autorità della Repubblica popolare cinese, in cui, superate le incomprensioni del passato, si possa lavorare insieme per il bene del popolo
cinese e per la pace nel mondo». In essa egli precisa che la Chiesa «non
è legata a nessun sistema politico» e che la Chiesa cattolica in Cina «ha
la missione non di cambiare la struttura o l’amministrazione dello Stato,
bensì di annunziare agli uomini il Cristo, Salvatore del mondo».
A causa di ciò egli chiedeva per la Chiesa uno spazio di libertà nella società e la libertà ultima nella scelta dei vescovi (ammettendo anche una
consultazione con il governo). In conseguenza di ciò egli rifiutava come
«inconciliabili con la dottrina cattolica» gli organismi di controllo della
Chiesa ufficiale: l’Associazione patriottica e l’Assemblea dei rappresentanti cattolici, entrambi fautori di indipendenza, autonomia, autogestione
della Chiesa.
Come segno di rispetto verso la leadership cinese, il Vaticano ha inviato
le bozze della lettera a Pechino attendendo suggerimenti. Ma Pechino,
dopo mesi di silenzio, ha chiesto di bloccare la diffusione della Lettera.
Naturalmente il Papa ha optato per il diritto alla libertà religiosa, pubblicando lo scritto.
In quel periodo ero in viaggio in Cina e ho potuto constatare come la Lettera ha creato una profonda divisione nella leadership: membri del ministero degli esteri la elogiavano come un documento importantissimo e
aperto; membri del ministero degli affari religiosi la disprezzavano come
un testo fatto da «ignoranti», che non capiscono la Cina.
A quasi sei anni di distanza da quel testo, possiamo dire che il Papa è
stato il catalizzatore di una revisione all’interno del potere in Cina. Fino
ad allora il potere del Partito comunista era giustificato dall’aver liberato
il Paese dai giapponesi (insieme a Chiang Kai-shek); poi con Deng Xiao-
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
ping, dall’aver dato ai cinesi la possibilità di diventare «ricchi e gloriosi»;
con Jiang Zemin di divenire una potenza economica mondiale. Ma con
Hu Jintao le contraddizioni della società cinese sono emerse cocenti: l’industrializzazione selvaggia ha creato il Paese più inquinato della terra; il
monopolio del potere ha creato la corruzione più aspra; l’enorme ricchezza di pochi è affianco all’abissale povertà di molti. Le rivolte sociali – al
ritmo di 300-500 al giorno – stavano e stanno ad indicare che per una
«società armoniosa», tanto desiderata da Hu Jintao, occorre dare potere
al popolo, creando riforme politiche e democratiche, con uno Stato che si
distingua dal Partito, che serva i diritti inalienabili delle persone, anche il
diritto alla libertà religiosa.
Ancora oggi, con il passaggio del potere a Xi Jinping, questa discussione
è fortissima: lo stesso Xi ha detto che se il Partito non cambia e fa le riforme, rischia di crollare. Ma accanto a lui vi sono gruppi che non vogliono
cambiare. Fra questi il Fronte unito (che controlla gli affari religiosi) e
l’oligarchia capitalista legata ancora a Jiang Zemin che non vuole manomettere questa gallina dalle uova d’oro che è il popolo cinese sfruttato
dal Partito.
Dalla Lettera del Papa in poi, la politica del Partito comunista cinese verso la Chiesa cattolica è stata contraddittoria: apertura e libertà durante le
Olimpiadi (2008); controllo e arresti domiciliari per i sacerdoti e vescovi
non ufficiali; permesso di nomi e ed ordinazioni di vescovi approvati
dalla Santa Sede e da Pechino; raffica di ordinazione di vescovi senza il
mandato della Santa Sede; durezza verso le indicazioni vaticane; timidi
tentativi di dialogo con personalità vaticane.
Benedetto XVI non ha infierito su questa schizofrenia della leadership
e si è preoccupato della missione della Chiesa. Dal 2007 egli ha anche
istituito una Commissione per la Chiesa in Cina, a cui partecipano membri della Segreteria di Stato, di Propaganda Fide, insieme a vescovi e
cardinali cinesi di Hong Kong, Macao e Taiwan. Tale Commissione si è
preoccupata di rafforzare l’unità della Chiesa cinese, ancora polarizza-
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
ta fra ufficiali (riconosciuti dal governo) e non ufficiali (sotterranei); di
potenziare la formazione fra i seminaristi, i sacerdoti, i vescovi e i fedeli; di denunciare gli arresti e le violenze contro i fedeli. Grazie ad essa
è cresciuta la sensibilità e la partecipazione della Chiesa universale ai
problemi e alla testimonianza dei cattolici cinesi. A questo ha anche contribuito l’istituzione – avvenuta con la Lettera del Papa – della Giornata
mondiale di preghiera per la Chiesa e per la Cina, che cade il 24 maggio,
festa della Madonna di Sheshan. Così, mentre la leadership di Pechino
cerca di risolvere le contraddizioni al suo interno, cresce l’integrazione
fra la Chiesa di Cina e la Chiesa universale, mentre i cattolici si guadagnano uno spazio nella società cinese divenuta assetata di Dio e di valori
spirituali dopo decenni di materialismo comunista e consumista.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Messico
“Ha abbracciato un Paese ferito”
Rodrigo Guerra López *
I
l Messico non dimenticherà mai Benedetto XVI: il Papa ha lasciato
un’impronta indelebile nel Paese, con la sua visita del marzo scorso. Il
ricordo vivo di un testimone che rompe con le norme del “politicamente
corretto” è rimasto impresso nella memoria della gente. Il Santo Padre ci
annunciato che Gesù vive e può essere incontrato da chiunque. E lo ha
fatto con una freschezza e una libertà straordinarie. Uno stile che toccato nel profondo il cuore dei messicani. Nessuno si è sentito intossicato
da un discorso moralista. Al contrario, la parola e la testimonianza del
Pontefice hanno mostrato che Gesù è una presenza reale anche da questa
parte del mondo, ferita dalla terribile narcoguerra. In mezzo alla violenza
estrema, il Papa ha offerto l’abbraccio di Cristo – Colui che vince la morte – alle vittime e anche ai carnefici. La meraviglia del Vangelo consiste
proprio nel suo essere la buona notizia per tutti, in qualunque circostanza
si trovino. Nel contesto messicano, questo ha un’importanza straordinaria: la lotta contro il crimine organizzato è destinata al fallimento se
la soluzione non tocca il cuore delle persone. Per questo, il ruolo della
Chiesa nel processo di riconciliazione nazionale è insostituibile. Uno dei
momenti più toccanti è stata la moltitudinaria Messa che il Santo Padre
ha celebrato ai piedi del monumento del Cristo Re. Un luogo chiave perché simboleggia la lotta dei cattolici in favore della libertà religiosa. Lì il
Papa ha spiegato che il Regno di Dio non si impone con la forza. La sua
essenza è l’amore che Dio ha trasmesso al mondo. Il Regno non è frutto
della volontà umana, non è un progetto politico ma un dono immeritato
che dobbiamo ricevere con docilità.
* filosofo
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Egitto
“Ci ha insegnato la vera libertà”
di Wael Farouq *
N
on considero Benedetto XVI un intellettuale o un letterato eccezionale, e nemmeno un leader spirituale a capo di milioni di fedeli che
aspettano, appesi alle sue labbra, le direttive di un caro amico. Ratzinger
rappresenta invece, per me, uno dei rari casi in cui l’uomo diventa evento, e l’evento uomo. È uno dei rari casi in cui le risposte si tramutano in
domande, e le domande in un percorso di stupore, la cui meta significa lo
spalancarsi di un nuovo orizzonte di libertà. Una libertà, come la intende
il Papa, che è l’unica garanzia perché l’amore e la fede non abbiano mai
limiti.
Senza libertà, infatti, l’amore e la fede diventano mera ideologia. Le motivazioni e gli obiettivi dell’ideologia non sono necessariamente cattivi,
ma essa rimane una prigione per i sentimenti, per i desideri e per le nobili
aspettative. L’ideologia è un atto di amore e di fede privo di libertà. È una
prigione perché non è in grado, senza libertà, di comunicare con la realtà.
È come una madre amorevole che mette sotto una campana di vetro suo
figlio perché lei stessa è preda delle sue paure. È per questo che l’ideologia conosce solo il potere e ambisce soltanto ad esso. Il potere è, infatti,
la sua unica garanzia per dominare la realtà. Il seguace dell’ideologia è
un carcerato che lotta per diventare carceriere. La rinuncia del Papa al
pontificato non è altro che l’incarnazione di questa libertà scaturita da
una profonda modestia che considera se stessa, pur avendo raggiunto il
vertice della gerarchia ecclesiastica, soltanto come uno dei sentieri di
Dio, che sono tanti quante le persone che li percorrono. Ratzinger ci invita ad avere il coraggio e la volontà di discernimento e di interazione con
la nostra realtà sempre rinnovata.
* docente al Cairo
(traduzione di Camille Eid)
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Sudan
“Straordinaria prova d’umiltà”
di William Deng *
L
a scelta del Papa di ritirarsi ha riempito di sorpresa gli africani: la
gente per strada commentava la decisione con tono incredulo. Del
resto non è un evento che capito molto spesso. Dopo lo stupore iniziale,
però, all’Africa – a tutti, cittadini, vescovi e soprattutto leader – resta una
straordinaria lezione di umiltà da parte di Benedetto XVI. Il cuore del
messaggio che il Papa, fino all’ultimo, ci ha donato è che il carisma del
Santo Padre, successore di San Pietro, nasce dall’amore di Dio per gli
uomini. Da questo amore è nata la sua scelta di rinunciare nel momento
in cui ha sentito di non avere più le forze per portare avanti il suo ministero. Con questo gesto, il Papa ha dato l’ennesima dimostrazione della sua
profonda fede nel Signore. Ora tutta l’Africa è in trepidante attesa che lo
Spirito Santo designi il successore di Benedetto XVI, il nuovo messaggero di amore e speranza per il Continente. Tutte le volte che ha visitato
le terre africane, il Papa ha saputo portare alle persone una testimonianza
di speranza autentica, tanto importante per i nostri Paesi afflitti da grandi
problemi di povertà, disuguaglianza, ingiustizia, violenza. Le parole di
Benedetto XVI sono state un balsamo di forza per gli africani che si sono
sentiti amati e accolti dal Pontefice. L’Africa si è sentita davvero dentro
al cuore del Santo Padre. Per questo, non gli saremo mai grati abbastanza. Ora, dopo il suo ritiro nel monastero romano, siamo certi che il pensiero di Benedetto XVI non ci abbandonerà. Il Santo Padre continuerà a
pregare per il bene e la salvezza del Continente e per l’intera Chiesa.
* segretario generale dell’Istruzione dell’Arcidiocesi di Khartoum
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
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Grazie perché...
“Atto estremo d’amore”
di Salvatore Mannuzzu
L
e dimissioni di Benedetto XVI sono, fondamentalmente, un atto del
suo magistero: un atto forte, altissimo, definitivo del magistero papale. Definitivo non tanto perché concludono un pontificato: ma perché
segnano una curva nodale, di non ritorno, nelle vicende della Chiesa. Si
tratta d’una delle lezioni più grandi, e più ardue, che un Papa possa dare.
Rispetto a essa, le condizioni personali di Benedetto XVI – la sua vecchiaia, la sua salute vacillante, la sua fragilità umana – sono l’occasione necessaria: l’occasione provvidenziale. È la provvidenza di Dio che
adesso ci vuole concedere un Papa vecchio e stanco, perché questo Papa
trovi, nella sua santa vecchiaia e nella sua santa stanchezza, la condizione per dire a tutti noi che non ci regge più. La condizione e insieme lo
strumento – lo strumento capace d’una terribile, insostituibile eloquenza
– per dire a tutti noi basta. Per sollecitare tutti noi, qualsiasi sia il livello
delle nostre responsabilità, alla conversione. Dentro una fase storica nella
quale la conversione è tale solo se comporta una rottura straordinaria e
un radicale cambiamento: in modo che il viso materno della Chiesa non
sia più deturpato da noi; in modo che Dio non venga più adoperato da noi
per i nostri miserabili fini egoistici.
Così il Papa soccorre la sua Chiesa: con un atto estremo. E proprio perché
si tratta d’un atto estremo, non ne possiamo ignorare l’insegnamento, che
dice alla Chiesa dove è giunta: quali sono i rischi che in realtà corre, quali
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
sono i pericoli gravi che la minacciano. Un atto estremo, ma insieme di
estremo amore: dà al Papa il diritto di attendersi da noi una risposta che
non si neghi all’amore. E quindi sia fatta d’una profonda presa di coscienza e d’un ravvedimento completo, epocale. Aspetta questa risposta,
il nostro Papa, sulla croce dalla quale adesso ci guarda; e sulla quale ha
scelto di rimanere finché vive, nella posizione più difficile: quella della
rinuncia, del silenzio, del buio.
Sì, colui che è ancora il nostro Papa continuerà – anche quando non lo
sarà più, quando noi non sapremo più niente di lui – a guardarci e a patire
con noi, malgrado l’aggravarsi dell’età e della fatica. Continuerà a pregare per noi, finché Dio gli darà vita, da quella sua oscura croce uscita
apparentemente dalla storia e confitta invece nel cuore vivo della storia.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Francesco Totti: “Il Papa
è il mio capitano”
di Lucia Bellaspiga
«T
ra i ricordi più cari che conserverò sempre di lui c’è un Rosario
che Papa Benedetto mi ha fatto recapitare dalle mani di monsignor Lucio Adrian Ruiz... Me lo ha consegnato proprio a nome del Santo
Padre, che lo donava a me personalmente. È stato un onore inaspettato e
commovente». Erano i tempi della Giornata mondiale della Gioventù di
Madrid, nel 2011, e il capo del Servizio Internet vaticano era in visita a
Trigoria, cuore della Roma ma, grazie al sito ufficiale di Francesco Totti
che in quei giorni si faceva portavoce dei giovani di Papa Benedetto,
anche cuore pulsante di tanti credenti (e tifosi). «La mattina in cui si è
diffusa la notizia delle sue dimissioni prima ho stentato a credere che
fosse vero, poi ho provato una profonda tristezza, ma anche tanta fiducia: se il Santo Padre aveva deciso così, certamente era per il bene della
Chiesa e di tutti noi e la sua scelta anche questa volta, come sempre,
andava prima accettata e poi capita». È una fiducia che parte da lontano,
quella del capitano della Roma per la figura del Papa, un affidamento che
inizia con l’incontro a sette anni con Papa Wojtyla e prosegue oggi con
Papa Ratzinger: «La fede è sempre stata importante nella mia vita, prima
di tutto grazie a mia madre Fiorella, cattolica osservante, e poi grazie a
incontri fondamentali. Non ho mai scordato la carezza che mi diede da
bambino Giovanni Paolo II quando ero in visita con i compagni delle
elementari in Aula Nervi, ricordo che mi fece una grande impressione la
forza che emanava. Ma quella stessa impressione è sempre riuscito a darmela anche Benedetto XVI, seppure in modo diverso... Perché il Papa,
qualunque Papa, anche quello che avremo tra poche settimane, è l’uomo
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
che Dio ci manda per rappresentarLo sulla terra. Insomma – sorride Totti
– è lui il Capitano della grande squadra».
Si definisce cattolico osservante, racconta che quando è possibile partecipa alla Messa e che gli anni del catechismo con don Aldo, nella parrocchia di famiglia in via Latina, e successivamente i consigli spirituali
di don Fernando lasciano ancora oggi il segno nel cuore del calciatore
italiano più noto al mondo. «Spesso, quando mi capita di leggere o sentire alla tivù le parole di papa Ratzinger, provo ancora lo stesso sentimento
di allora, di quando a indicare la via era don Aldo. Questo Papa fino
all’ultimo ci ha insegnato tanto, in periodi molto difficili per l’umanità e
soprattutto per i giovani ci ha ricordato che cosa deve fare il buon cristiano... la fatica è riuscirci».
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Paolo Portoghesi:
“Ci ha mostrato la vera bellezza”
di Paolo Portoghesi
L’
incontro con papa Benedetto, in occasione dell’omaggio degli artisti per il sessantesimo compleanno del suo sacerdozio, ha lasciato
nella mia memoria una traccia profonda. Mentre il Papa sostava davanti
al modello di una chiesa che avevo progettata in omaggio alla sua visione della liturgia, il gesto accogliente e prolungato delle sue mani che
stringevano le mie, mi dava la sensazione del fluire dentro di me, insieme
alla grazia della sua affettuosa indulgenza, di due sentimenti contrastanti,
il disagio nei confronti di una società che giorno per giorno si allontana
dalle verità del Vangelo e una piena fiducia nella possibilità che il mondo
torni a sentire la forza del messaggio cristiano.
Il Papa ascoltava con indulgenza le mie spiegazioni che collegavano le
scelte architettoniche a ciò che, da cardinale e poi da Papa aveva scritto,
in tanti anni di profonda riflessione e sorrideva con quell’inimitabile sorriso tenero e mite quanto severo e deciso, così lontano dall’esibizionismo
e dalla competitiva aridità che segna il nostro tempo.
Nel discorso fatto agli artisti nella Cappella Sistina, Benedetto XVI aveva ripreso i temi degli incontri con gli artisti dei due grandi Pontefici che
l’hanno preceduto, ma aveva introdotto una distinzione che rivela la sua
diffidenza verso il relativismo, che vorrebbe conciliare l’inconciliabile,
mettere d’accordo la Chiesa con il consumismo e i suoi riti nel campo
dell’arte. «Troppo spesso però la bellezza che viene propagandata è illusoria e mendace, superficiale e abbagliante fino allo stordimento e invece
di far uscire gli uomini da sé e aprirli a orizzonti di vera libertà attirandoli
verso l’alto li imprigiona in se stessi e li rende ancora più schiavi, privi
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
di speranza e di gioia. Si tratta di una seducente ma ipocrita bellezza,
che ridesta la brama, la volontà di potere, di possesso, di sopraffazione
sull’altro, assumendo i volti dell’oscenità, della trasgressione o della provocazione fine a se stessa. L’autentica bellezza invece schiude il cuore
umano alla nostalgia, al desiderio profondo di conoscere, di amare, di
andare verso l’Oltre da sé». Non sono parole di circostanza ma moniti
da non trascurare, parte di questa eredità che la Chiesa si accinge a raccogliere mentre chi ha tentato la strada del cambiamento entra ora umilmente nell’“Orto degli Olivi” indicando alla Chiesa la via della salvezza.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Antonia Arslan
“Fermezza in anni scomposti”
di Antonia Arslan
M
olti anni fa lo sentii parlare, con quella sua voce coltivata e piena
di intensità, e mi parve che vi affiorasse un sorriso nascosto, come
di chi è molto serio sulle cose in cui crede, ma di se stesso sempre un
poco sorride.
Era un’intervista televisiva, e quando guardai il suo viso mi tornò in mente il professore che ci insegnava letteratura tedesca all’università di Gottinga, un nobile vecchio dai capelli bianchissimi, senza nessuna arroganza accademica, ma che quando cominciava a recitare i poeti che amava ci
portava tutti alle lacrime.
Quando Joseph Ratzinger venne eletto Papa ero a St. Paul, Minnesota.
Un’amica carissima mi telefonò di aprire il televisore, e lo vidi, con lo
stesso sorriso, che sceglieva il nome di Benedetto, come il Papa che tanto
si spese per la pace durante la prima guerra mondiale.
«È un uomo coraggioso – pensai – ha la forza e la determinazione dei
miti». E in questi anni scomposti e aggressivi, pieni di odio e di forzature
a tutto campo, l’ho visto sempre conservare quel tocco di ritrosa eleganza
e di quieta fermezza. Una visione del mondo profonda e agguerrita, che
non fa sconti ma che è basata sull’amore; un’immagine di padre che consola e sostiene, a cui rivolgersi nei momenti di dubbio e di inquietudine,
perché si è sicuri che non vacillerà.
Ma lui, chi lo sostiene, quando il buio incombe? Papa Benedetto è diventato un guerriero in difesa dei valori in cui crede, ha guidato la Chiesa
in questi tempi calamitosi. Ma certo è acutamente consapevole dell’immensa confusione del mondo occidentale, della fatua leggerezza con
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
cui si autodistrugge, delle forze sotterranee che si sono scatenate, anche
all’interno stesso della sua Chiesa. Lui si sente ormai stanco, il suo corpo
lo tradisce. E decide di passare il testimone, a qualcuno più giovane e
gagliardo, che possa combattere senza sfinirsi, con l’aiuto dello Spirito.
Perché la strada rimanga aperta, nei secoli. Questa è la speranza.
E allora auguri, vecchio Padre. Credo di sapere quanto ti costi andartene
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Pupi Avati:
“Ho scoperto un uomo buono”
di Pupi Avati
H
o avuto una sola occasione di incontrare Benedetto XVI. Per celebrare i 60 anni dalla sua prima Messa, invitò un anno fa in sala Nervi artisti, musicisti, scultori, pittori. Sessanta personalità che avrebbero
dovuto portare sessanta doni.
Io rappresentavo il cinema, ma il cinema non è facile da “regalare”. Mi
consultai con il cardinale Ravasi: “Che facciamo?”. L’idea fu quella di
far fare gli auguri al Papa da parte di tutto il cinema italiano. Con il contributo della Cineteca Nazionale misi insieme un filmato con spezzoni di
cinquanta film importanti girati da cinquanta grandi autori, che raccontava la storia del cinema italiano da Carmine Gallone a Matteo Garrone.
Ogni frammento presentava una evocazione spirituale, un afflato che si
ritrovava anche in autori ostentatamente laici o boriosamente atei. Perché, ne sono convinto, c’è sempre noi una crepa, uno spiraglio di trascendente.
Il filmato durava 6 minuti e le immagini più belle e commoventi scorrevano in un crescendo emotivo sulle note dell’”Inno alla gioia” di Beethoven
che sapevamo essere molto amato da Papa Ratzinger. Il film si concludeva con una sorpresa finale. Un archivista del Centro Sperimentale, Luca
Pallanca, aveva scovato in una cineteca tedesca un piccolo documentario
in 16 millimetri sulla consacrazione a sacerdote del Santo Padre.
Così questo augurio del cinema italiano si concludeva con le immagini dove si vedeva Ratzinger sdraiato davanti al vescovo, poi l’uscita in
processione dei nuovi sacerdoti e, infine, un primo piano strettissimo di
Joseph ventenne. Scattò un grande applauso, un momento di alta com-
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
mozione. Il Papa, anch’egli commosso, mi chiamò a sé e mi disse cose di
una dolcezza estrema.
Da lì, ho scoperto oltre al grande intellettuale e teologo, anche la sua bontà. Io lo definirei un “Papa buono” proprio come Giovanni XXIII. E lo sta
anche dimostrando in questo difficile momento di uscita.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
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Breve dizionario ratzingeriano
di Umberto Folena
AUSCHWITZ. «In un luogo come questo vengono meno le parole».
Verrebbero meno a tutti. Figuriamoci a un Papa, e a un Papa tedesco. È il
28 maggio 2006 quando Benedetto XVI – commosso, dolente – varca la
soglia di uno dei più noti e terribili campi di sterminio. Ed è un “Papa disarmato” quello che confessa: vengono meno le parole, qui, e «può restare soltanto uno sbigottito silenzio, un silenzio che è interiore grido verso
Dio: perché, Signore, hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto ciò?».
BUFALE. Ovvero menzogne spacciate per verità. Come le «scarpe Prada» del Papa, rosse per vezzo e non come simbolo del martirio. Una
sciocchezza. È noto che dal 2003 le scarpe vengono donate da un artigiano piemontese, Adriano Stefanelli («le regalo, perché a volte la passione
paga più del denaro»). E quando si sciupano, perché graffiate o consumate, a metterle a nuovo ci pensa Antonio Arellano, ciabattino peruviano
con bottega nei pressi del Vaticano. Ma la bufala appare perfino sulla
“Repubblica” on-line, che molti, a torto, ritengono attendibile se non infallibile. La bufala ormai vola nel web, in mille e mille copie. Inafferrabile...
CORTILE DEI GENTILI. O atrium gentium, idea lanciata alla vigilia
del Natale 2009 e affidata al Pontificio Consiglio della cultura guidato dal
cardinale Gianfranco Ravasi: «Luogo d’incontro e di dialogo – si legge
sul sito ufficiale – spazio di espressione per coloro che non credono e
per coloro che si pongono delle domande riguardo alla propria fede, una
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
finestra sul mondo, sulla cultura contemporanea e un ascolto delle voci
che vi risuonano».
DIALOGO INTERRELIGIOSO. È il 27 ottobre 2011. I leader religiosi, 25 anni dopo l’incontro voluto – fortemente, tenacemente, irresistibilmente – da Giovanni Paolo II, si ritrovano ad Assisi per una «Giornata
di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo».
Voluta altrettanto fermamente da Benedetto XVI. Che ammonirà: «L’assenza di Dio porta al decadimento dell’uomo».
ENCICLICHE. Fede, speranza carità, tre virtù per tre encicliche, in un
formidabile crescendo: Deus caritas est (2005), Spe salvi (2007) e Caritas in veritate (2009).
FURTO. Un ladro. Una delle persone a lui più vicine. A cui dava ogni
giorno fiducia. Là dove lui, il Papa, avrebbe dovuto sentirsi più al sicuro.
Alla fine, perdonare potrebbe essere stato più facile che vincere l’amarezza annidata nel cuore.
GMG. Gli uccellacci del malaugurio, quelli che la sanno lunga, quelli
che non sono ingenui come noi, avevano pronosticato: Ratzinger non
è Wojtyla, non ha il suo fascino magnetico e i giovani lo snobberanno.
Colonia 2005, Sydney 2008, Madrid 2011. Tre Giornate mondiali della
gioventù affollate quanto e forse più di prima. Il messaggio, in estrema
sintesi, rimane lo stesso ed è il segreto per parlare al cuore dei giovani:
«Il Signore vi vuole bene e vi chiama suoi amici – ricorda Benedetto XVI
il 20 agosto 2011 a Cuatro Vientos, durante la veglia del sabato notte sotto un acquazzone – e la vostra forza è più grande della pioggia». Frisinga,
Seminario interdiocesano bavarese. Il giovane studente Joseph Aloisius
Ratzinger qui vive, studia, si appassiona. Discute la tesi in teologia su
sant’Agostino. Il correlatore – sorridiamo pure – lo accusa di «modernismo». Nasce l’amicizia con Karl Rahner. Gli anni della formazione.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
IRLANDA. «Avete tradito...». È uno dei capitoli più duri e dolorosi del
pontificato. Il 20 marzo 2010, Benedetto XVI indirizza una lettera pastorale ai fedeli d’Irlanda. Rivolgendosi ai sacerdoti e ai religiosi colpevoli
di abusi sessuali, scrive: «Avete tradito la fiducia riposta in voi da giovani innocenti e dai loro genitori. Dovete rispondere di ciò davanti a Dio
Onnipotente, come pure davanti a tribunali debitamente costituiti. Avete
perso la stima della gente d’Irlanda e rovesciato vergogna e disonore sui
vostri confratelli».
JOSEPH. Così decide di chiamarlo suo padre il 16 aprile 1927. D’altronde anche lui si chiama Joseph, Giuseppe. E la mamma si chiama... Maria.
Da sempre devoto di san Giuseppe, papa Ratzinger così dirà all’Angelus
del 10 dicembre 2010: «In lui si profila l’uomo nuovo, che guarda con
fiducia e coraggio al futuro, non segue il proprio progetto, ma si affida
totalmente all’infinita misericordia di Colui che avvera le profezie e apre
il tempo della salvezza».
KÜNG. Hans e Joseph, lo svizzero e il tedesco, giovani brillanti teologi
al Concilio. Le loro strade divergono drasticamente alla fine degli anni
Sessanta. Il Papa lo riceve a Castel Gandolfo il 26 settembre 2005. Ma
nulla cambia. Il primo rimane acido e sprezzante, il secondo fermo ma
accogliente. Da parte di Küng giudizi netti, vere sentenze: «Pontificato di
opportunità mancate» (2012). Senza appello.
LATINO. Il 7 luglio 2007, con il motu proprio Summorum pontificum
papa Ratzinger consente la celebrazione della messa secondo il rito latino
tradizionale. Chi applaude, chi storce il naso. Carlo Cardia, su “Avvenire”, commenta: «Può crescere l’armonia nelle diverse componenti della
Chiesa. Una armonia fondata sulla possibilità di pregare secondo la sensibilità culturale, e linguistica, di ciascuna comunità, e di ciascun fedele.
(...) Quindi il latino torna non per dividere ma per unire e arricchire».
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
MOSCHEA. A Istanbul, la Moschea Blu (Sultan Ahmet Camii) è proprio di fronte a Santa Sofia. Benedetto XVI vi entra il 30 novembre 2006.
Non è il primo Papa a entrare in una moschea, Giovanni Paolo II vi era
stato ospite a Damasco. Ma è comunque un evento storico: «Preghiamo
per la fratellanza e il bene dell’umanità».
NATURA. «Il rispetto per l’essere umano e il rispetto per la natura sono
tutt’uno» (alla Fondazione “Sorella natura”, novembre 2011).
ORSO. Simbolo dell’arcidiocesi di Frisinga, è presente anche sullo
stemma papale. Un orso gli uccise il cavallo e allora san Corbiniano gli
fece portare il suo bagaglio fino a Roma. Il commento di sant’Agostino
al salmo 72 ben si adatta all’orso, e a Ratzinger: «Sono divenuto per te
come una bestia da soma, e così sono in tutto e per sempre vicino a te».
PIANOFORTE. Mozart, Beethoven, Chopin... Ratzinger studia musica
fin da ragazzo con il fratello maggiore Georg, che sarà direttore della
Cappella del Duomo di Ratisbona. Il pianoforte lo ha accompagnato sempre e sarà con lui anche dopo il 28 febbraio, nella sua nuova residenza.
QUARESIMA. «La fede ci invita a guardare al futuro con la virtù della
speranza». (Messaggio per Quaresima 2013). Da rileggere e rimeditare
oggi, dopo la rinuncia.
RINUNCIA. «Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero
petrino...». È l’11 febbraio scorso, il Papa sta rivolgendosi ai cardinali
in latino. Alcuni capiscono subito, altri pensano di non aver capito bene.
La prima a dare la notizia è l’agenzia Ansa. Una sola riga. Che scuote il
mondo.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
SINAGOGA. Domenica 17 gennaio 2010, 24 anni dopo papa Wojtyla,
anche papa Ratzinger entra nella sinagoga di Roma, accolto da Riccardo Pacifici e Renzo Gattegna, presidenti rispettivamente della Comunità
ebraica di Roma e d’Italia. Scrive Gad Lerner sul mensile degli ebrei
romani “Shalom”: «Ciò che per secoli e secoli fu semplicemente inconcepibile – la visita di un papa cristiano nel tempio degli ebrei – risulta
oggi accettato come gesto normale (...). Il papa non è solo il benvenuto.
Ormai è il bentornato in sinagoga».
TWITTER. «Cari amici, è con gioia che mi unisco a voi via Twitter.
Grazie per la vostra generosa risposta. Vi benedico tutti di cuore». È il 12
dicembre 2012 e il Papa si misura per la prima volta con le 140 battute di
Twitter. «Che posto ha Dio nella mia vita? È Lui il Signore o sono io?»
La domanda, posta all’Udienza dell’ultimo mercoledì delle Ceneri, è uno
dei fili conduttori del pontificato. Fatto di udienze sempre affollate. Dove
l’affetto dei fedeli è sempre stato tangibile.
VERITÀ. «Cooperatores veritatis» (collaboratori della verità) è il motto
scelto da arcivescovo di Monaco e Frisinga, nel 1977. La passione per
la verità è antica: «Ho scelto questo motto perché nel mondo d’oggi il
tema della verità viene quasi totalmente sottaciuto; appare infatti come
qualcosa di troppo grande per l’uomo, nonostante che tutto si sgretoli se
manca la verità».
WOJTYLA. A 6 anni e un mese dalla morte, il primo maggio 2011,
Karol Wojtyla viene proclamato beato: «Il giorno tanto atteso – annuncia
Benedetto XVI – è arrivato; è arrivato presto, perché così è piaciuto al
Signore: Giovanni Paolo II è beato!».
ZIZZANIA. Il cardinale Joseph Ratzinger conduce la Via Crucis, Giovanni Polo II è morente. «Signore – prega – spesso la tua Chiesa ci sem-
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
bra una barca che sta per affondare (...). E anche nel tuo campo vediamo
più zizzania che grano. La veste e il volto così sporchi della tua Chiesa
ci sgomentano. Ma siamo noi stesi a sporcarli (...). Abbi pietà della tua
Chiesa». È il 25 marzo 2005. Pochi giorni dopo, il 19 aprile, il Signore
chiama proprio lui, Joseph Ratzinger, a guidare la sua Chiesa.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
CAPITOLO 3
Parola di Ratzinger
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
1
“Necessario il vigore di corpo e animo”
11 febbraio: la «declaratio» ai cardinali
Carissimi Fratelli,
vi ho convocati a questo Concistoro non solo per le tre canonizzazioni,
ma anche per comunicarvi una decisione di grande importanza per la vita
della Chiesa. Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero
petrino. Sono ben consapevole che questo ministero, per la sua essenza
spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma
non meno soffrendo e pregando. Tuttavia, nel mondo di oggi, soggetto
a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita
della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è
necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli
ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia
incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato. Per questo,
ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di
rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a
me affidato per mano dei Cardinali il 19 aprile 2005, in modo che, dal 28
febbraio 2013, alle ore 20,00, la sede di Roma, la sede di San Pietro, sarà
vacante e dovrà essere convocato, da coloro a cui compete, il Conclave
per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice.
Carissimi Fratelli, vi ringrazio di vero cuore per tutto l’amore e il lavoro
con cui avete portato con me il peso del mio ministero, e chiedo perdono
per tutti i miei difetti. Ora, affidiamo la Santa Chiesa alla cura del suo
Sommo Pastore, Nostro Signore Gesù Cristo, e imploriamo la sua santa
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Madre Maria, affinché assista con la sua bontà materna i Padri Cardinali
nell’eleggere il nuovo Sommo Pontefice. Per quanto mi riguarda, anche
in futuro, vorrò servire di tutto cuore, con una vita dedicata alla preghiera, la Santa Chiesa di Dio.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
2
Il Signore non si stanca di bussare alla
nostra porta
13 febbraio: udienza generale
Cari fratelli e sorelle, oggi, Mercoledì delle Ceneri, iniziamo il tempo
liturgico della Quaresima, quaranta giorni che ci preparano alla celebrazione della Santa Pasqua; è un tempo di particolare impegno nel nostro
cammino spirituale. Il numero quaranta ricorre varie volte nella Sacra
Scrittura. In particolare, come sappiamo, esso richiama i quarant’anni
in cui il popolo di Israele peregrinò nel deserto: un lungo periodo di formazione per diventare il popolo di Dio, ma anche un lungo periodo in
cui la tentazione di essere infedeli all’alleanza con il Signore era sempre
presente. Quaranta furono anche i giorni di cammino del profeta Elia per
raggiungere il Monte di Dio, l’Horeb; come pure il periodo che Gesù
passò nel deserto prima di iniziare la sua vita pubblica e dove fu tentato
dal diavolo. Nell’odierna catechesi vorrei soffermarmi proprio su questo
momento della vita terrena del Signore, che leggeremo nel Vangelo di
domenica prossima.
Anzitutto il deserto, dove Gesù si ritira, è il luogo del silenzio, della povertà, dove l’uomo è privato degli appoggi materiali e si trova di fronte
alle domande fondamentali dell’esistenza, è spinto ad andare all’essenziale e proprio per questo gli è più facile incontrare Dio. Ma il deserto è
anche il luogo della morte, perché dove non c’è acqua non c’è neppure
vita, ed è il luogo della solitudine, in cui l’uomo sente più intensa la tentazione. Gesù va nel deserto, e là subisce la tentazione di lasciare la via
indicata dal Padre per seguire altre strade più facili e mondane (cfr Lc
4,1-13). Così Egli si carica delle nostre tentazioni, porta con Sè la nostra
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
miseria, per vincere il maligno e aprirci il cammino verso Dio, il cammino della conversione.
Riflettere sulle tentazioni a cui è sottoposto Gesù nel deserto è un invito
per ciascuno di noi a rispondere ad una domanda fondamentale: che cosa
conta davvero nella mia vita? Nella prima tentazione il diavolo propone
a Gesù di cambiare una pietra in pane per spegnere la fame. Gesù ribatte
che l’uomo vive anche di pane, ma non di solo pane: senza una risposta
alla fame di verità, alla fame di Dio, l’uomo non si può salvare (cfr vv.
3-4). Nella seconda tentazione, il diavolo propone a Gesù la via del potere: lo conduce in alto e gli offre il dominio del mondo; ma non è questa la
strada di Dio: Gesù ha ben chiaro che non è il potere mondano che salva
il mondo, ma il potere della croce, dell’umiltà, dell’amore (cfr vv. 5-8).
Nella terza tentazione, il diavolo propone a Gesù di gettarsi dal pinnacolo
del Tempio di Gerusalemme e farsi salvare da Dio mediante i suoi angeli, di compiere cioè qualcosa di sensazionale per mettere alla prova Dio
stesso; ma la risposta è che Dio non è un oggetto a cui imporre le nostre
condizioni: è il Signore di tutto (cfr vv. 9-12). Qual è il nocciolo delle tre
tentazioni che subisce Gesù? È la proposta di strumentalizzare Dio, di
usarlo per i propri interessi, per la propria gloria e per il proprio successo.
E dunque, in sostanza, di mettere se stessi al posto di Dio, rimuovendolo
dalla propria esistenza e facendolo sembrare superfluo. Ognuno dovrebbe chiedersi allora: che posto ha Dio nella mia vita? È Lui il Signore o
sono io?
Superare la tentazione di sottomettere Dio a sé e ai propri interessi o
di metterlo in un angolo e convertirsi al giusto ordine di priorità, dare
a Dio il primo posto, è un cammino che ogni cristiano deve percorrere
sempre di nuovo. «Convertirsi», un invito che ascolteremo molte volte in
Quaresima, significa seguire Gesù in modo che il suo Vangelo sia guida
concreta della vita; significa lasciare che Dio ci trasformi, smettere di
pensare che siamo noi gli unici costruttori della nostra esistenza; significa
riconoscere che siamo creature, che dipendiamo da Dio, dal suo amore, e
soltanto «perdendo» la nostra vita in Lui possiamo guadagnarla. Questo
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
esige di operare le nostre scelte alla luce della Parola di Dio. Oggi non si
può più essere cristiani come semplice conseguenza del fatto di vivere in
una società che ha radici cristiane: anche chi nasce da una famiglia cristiana ed è educato religiosamente deve, ogni giorno, rinnovare la scelta
di essere cristiano, cioè dare a Dio il primo posto, di fronte alle tentazioni
che una cultura secolarizzata gli propone di continuo, di fronte al giudizio
critico di molti contemporanei. Le prove a cui la società attuale sottopone
il cristiano, infatti, sono tante, e toccano la vita personale e sociale. Non
è facile essere fedeli al matrimonio cristiano, praticare la misericordia
nella vita quotidiana, lasciare spazio alla preghiera e al silenzio interiore;
non è facile opporsi pubblicamente a scelte che molti considerano ovvie,
quali l’aborto in caso di gravidanza indesiderata, l’eutanasia in caso di
malattie gravi, o la selezione degli embrioni per prevenire malattie ereditarie. La tentazione di metter da parte la propria fede è sempre presente
e la conversione diventa una risposta a Dio che deve essere confermata
più volte nella vita.
Ci sono di esempio e di stimolo le grandi conversioni come quella di san
Paolo sulla via di Damasco, o di sant’Agostino, ma anche nella nostra
epoca di eclissi del senso del sacro, la grazia di Dio è al lavoro e opera
meraviglie nella vita di tante persone. Il Signore non si stanca di bussare
alla porta dell’uomo in contesti sociali e culturali che sembrano inghiottiti dalla secolarizzazione, come è avvenuto per il russo ortodosso Pavel Florenskij. Dopo un’educazione completamente agnostica, tanto da
provare vera e propria ostilità verso gli insegnamenti religiosi impartiti
a scuola, lo scienziato Florenskij si trova ad esclamare: «No, non si può
vivere senza Dio!», e a cambiare completamente la sua vita, tanto da farsi
monaco. Penso anche alla figura di Etty Hillesum, una giovane olandese
di origine ebraica che morirà ad Auschwitz. Inizialmente lontana da Dio,
lo scopre guardando in profondità dentro se stessa e scrive: «Un pozzo
molto profondo è dentro di me. E Dio c’è in quel pozzo. Talvolta mi riesce di raggiungerlo, più spesso pietra e sabbia lo coprono: allora Dio è
sepolto. Bisogna di nuovo che lo dissotterri». (Diario, 97). Nella sua vita
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
dispersa e inquieta, ritrova Dio proprio in mezzo alla grande tragedia del
Novecento, la Shoah. Questa giovane fragile e insoddisfatta, trasfigurata
dalla fede, si trasforma in una donna piena di amore e di pace interiore,
capace di affermare: «Vivo costantemente in intimità con Dio».La capacità di contrapporsi alle lusinghe ideologiche del suo tempo per scegliere
la ricerca della verità e aprirsi alla scoperta della fede è testimoniata da
un’altra donna del nostro tempo, la statunitense Dorothy Day. Nella sua
autobiografia, confessa apertamente di essere caduta nella tentazione di
risolvere tutto con la politica, aderendo alla proposta marxista: «Volevo
andare con i manifestanti, andare in prigione, scrivere, influenzare gli
altri e lasciare il mio sogno al mondo. Quanta ambizione e quanta ricerca di me stessa c’era in tutto questo!». Il cammino verso la fede in un
ambiente così secolarizzato era particolarmente difficile, ma la Grazia
agisce lo stesso, come lei stessa sottolinea: «È certo che io sentii più spesso il bisogno di andare in chiesa, a inginocchiarmi, a piegare la testa in
preghiera. Un istinto cieco, si potrebbe dire, perché non ero cosciente di
pregare. Ma andavo, mi inserivo nell’atmosfera di preghiera¿». Dio l’ha
condotta ad una consapevole adesione alla Chiesa, in una vita dedicata
ai diseredati.
Nella nostra epoca non sono poche le conversioni intese come il ritorno
di chi, dopo un’educazione cristiana magari superficiale, si è allontanato per anni dalla fede e poi riscopre Cristo e il suo Vangelo. Nel Libro
dell’Apocalisse leggiamo: «Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno
ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed
egli con me» (3, 20). Il nostro uomo interiore deve prepararsi per essere
visitato da Dio, e proprio per questo non deve lasciarsi invadere dalle
illusioni, dalle apparenze, dalle cose materiali. In questo tempo di Quaresima, nell’Anno della fede, rinnoviamo il nostro impegno nel cammino
di conversione, per superare la tendenza di chiuderci in noi stessi e per
fare, invece, spazio a Dio, guardando con i suoi occhi la realtà quotidiana. L’alternativa tra la chiusura nel nostro egoismo e l’apertura all’amore
di Dio e degli altri, potremmo dire che corrisponde all’alternativa delle
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
tentazioni di Gesù: lternativa, cioè, tra potere umano e amore della Croce, tra una redenzione vista nel solo benessere materiale e una redenzione
come opera di Dio, cui diamo il primato nell’esistenza. Convertirsi significa non chiudersi nella ricerca del proprio successo, del proprio prestigio, della propria posizione, ma far sì che ogni giorno, nelle piccole cose,
la verità, la fede in Dio e l’amore diventino la cosa più importante.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
3
Le divisioni deturpano il volto della Chiesa
13 febbraio: omelia per il Mercoledì delle Ceneri
Venerati fratelli, cari fratelli e sorelle! Oggi, Mercoledì delle Ceneri, iniziamo un nuovo cammino quaresimale, un cammino che si snoda per
quaranta giorni e ci conduce alla gioia della Pasqua del Signore, alla vittoria della Vita sulla morte. Seguendo l’antichissima tradizione romana
delle stationes quaresimali, ci siamo radunati per la celebrazione dell’Eucaristia. Tale tradizione prevede che la prima statio abbia luogo nella
Basilica di Santa Sabina sul colle Aventino. Le circostanze hanno suggerito di radunarsi nella Basilica Vaticana. Stasera siamo numerosi intorno
alla tomba dell’apostolo Pietro anche a chiedere la sua intercessione per
il cammino della Chiesa in questo particolare momento, rinnovando la
nostra fede nel Pastore Supremo, Cristo Signore. Per me è un’occasione
propizia per ringraziare tutti, specialmente i fedeli della diocesi di Roma,
mentre mi accingo a concludere il ministero petrino, e per chiedere un
particolare ricordo nella preghiera. Le Letture che sono state proclamate
ci offrono spunti che, con la grazia di Dio, siamo chiamati a far diventare
atteggiamenti e comportamenti concreti in questa Quaresima. La Chiesa
ci ripropone, anzitutto, il forte richiamo che il profeta Gioele rivolge al
popolo di Israele: «Così dice il Signore: ritornate a me con tutto il cuore,
con digiuni, con pianti e lamenti» (2,12). Va sottolineata l’espressione
«con tutto il cuore», che significa dal centro dei nostri pensieri e sentimenti, dalle radici delle nostre decisioni, scelte e azioni, con un gesto
di totale e radicale libertà. Ma è possibile questo ritorno a Dio? Sì, perché c’è una forza che non risiede nel nostro cuore, ma che si sprigiona
dal cuore stesso di Dio. È la forza della sua misericordia. Dice ancora il
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
profeta: «Ritornate al Signore, vostro Dio, perché egli è misericordioso
e pietoso, lento all’ira, di grande amore, pronto a ravvedersi riguardo al
male» (v.13).
Il ritorno al Signore è possibile come “grazia”, perché è opera di Dio e
frutto della fede che noi riponiamo nella sua misericordia. Ma questo
ritornare a Dio diventa realtà concreta nella nostra vita solo quando la
grazia del Signore penetra nell’intimo e lo scuote donandoci la forza di
«lacerare il cuore». È ancora il profeta a far risuonare da parte di Dio
queste parole: «Laceratevi il cuore e non le vesti» (v.13). In effetti, anche
ai nostri giorni, molti sono pronti a «stracciarsi le vesti» di fronte a scandali e ingiustizie - naturalmente commessi da altri -, ma pochi sembrano
disponibili ad agire sul proprio «cuore», sulla propria coscienza e sulle
proprie intenzioni, lasciando che il Signore trasformi, rinnovi e converta.
Quel «ritornate a me con tutto il cuore», poi, è un richiamo che coinvolge non solo il singolo, ma la comunità. Abbiamo ascoltato sempre nella
prima Lettura: «Suonate il corno in Sion, proclamate un solenne digiuno,
convocate una riunione sacra. Radunate il popolo, indite un’assemblea
solenne, chiamate i vecchi, riunite i fanciulli, i bambini lattanti; esca lo
sposo dalla sua camera e la sposa dal suo talamo» (vv.15-16). La dimensione comunitaria è un elemento essenziale nella fede e nella vita cristiana. Cristo è venuto «per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi»
(cfr Gv 11,52). Il «Noi» della Chiesa è la comunità in cui Gesù ci riunisce
insieme (cfr Gv 12,32): la fede è necessariamente ecclesiale. E questo è
importante ricordarlo e viverlo in questo tempo della Quaresima: ognuno
sia consapevole che il cammino penitenziale non lo affronta da solo, ma
insieme con tanti fratelli e sorelle, nella Chiesa.
Il profeta, infine, si sofferma sulla preghiera dei sacerdoti, i quali, con
le lacrime agli occhi, si rivolgono a Dio dicendo: «Non esporre la tua
eredità al ludibrio e alla derisione delle genti. Perché si dovrebbe dire fra
i popoli: “Dov’è il loro Dio?”» (v.17). Questa preghiera ci fa riflettere
sull’importanza della testimonianza di fede e di vita cristiana di ciascuno
di noi e delle nostre comunità per manifestare il volto della Chiesa e come
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
questo volto venga, a volte, deturpato. Penso in particolare alle colpe
contro l’unità della Chiesa, alle divisioni nel corpo ecclesiale. Vivere la
Quaresima in una più intensa ed evidente comunione ecclesiale, superando individualismi e rivalità, è un segno umile e prezioso per coloro che
sono lontani dalla fede o indifferenti. «Ecco ora il momento favorevole,
ecco ora il giorno della salvezza!» (2 Cor 6,2). Le parole dell’apostolo
Paolo ai cristiani di Corinto risuonano anche per noi con un’urgenza che
non ammette assenze o inerzie. Il termine «ora» ripetuto più volte dice
che questo momento non può essere lasciato sfuggire, esso viene offerto
a noi come un’occasione unica e irripetibile. E lo sguardo dell’Apostolo
si concentra sulla condivisione con cui Cristo ha voluto caratterizzare la
sua esistenza, assumendo tutto l’umano fino a farsi carico dello stesso
peccato degli uomini. La frase di san Paolo è molto forte: Dio «lo fece
peccato in nostro favore». Gesù, l’innocente, il Santo, «Colui che non
aveva conosciuto peccato» (2 Cor 5,21), si fa carico del peso del peccato
condividendone con l’umanità l’esito della morte, e della morte di croce. La riconciliazione che ci viene offerta ha avuto un prezzo altissimo,
quello della croce innalzata sul Golgota, su cui è stato appeso il Figlio di
Dio fatto uomo. (...)
Nella pagina del Vangelo di Matteo, che appartiene al cosiddetto Discorso della montagna, Gesù fa riferimento a tre pratiche fondamentali previste dalla Legge mosaica: l’elemosina, la preghiera e il digiuno; sono
anche indicazioni tradizionali nel cammino quaresimale per rispondere all’invito di «ritornare a Dio con tutto il cuore». Ma Gesù sottolinea
come sia la qualità e la verità del rapporto con Dio ciò che qualifica
l’autenticità di ogni gesto religioso. Per questo Egli denuncia l’ipocrisia
religiosa, il comportamento che vuole apparire, gli atteggiamenti che cercano l’applauso e l’approvazione. Il vero discepolo non serve se stesso o
il «pubblico», ma il suo Signore, nella semplicità e nella generosità: «E il
Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6,4.6.18). La nostra
testimonianza allora sarà sempre più incisiva quanto meno cercheremo
la nostra gloria e saremo consapevoli che la ricompensa del giusto è Dio
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
stesso, l’essere uniti a Lui, quaggiù, nel cammino della fede, e, al termine
della vita, nella pace e nella luce dell’incontro faccia a faccia con Lui per
sempre (cfr 1 Cor 13,12).
Cari fratelli e sorelle, iniziamo fiduciosi e gioiosi l’itinerario quaresimale. Risuoni forte in noi l’invito alla conversione, a «ritornare a Dio con
tutto il cuore», accogliendo la sua grazia che ci fa uomini nuovi, con
quella sorprendente novità che è partecipazione alla vita stessa di Gesù.
Nessuno di noi, dunque, sia sordo a questo appello, che ci viene rivolto
anche nell’austero rito, così semplice e insieme così suggestivo, dell’imposizione delle ceneri, che tra poco compiremo. Ci accompagni in questo
tempo la Vergine Maria, Madre della Chiesa e modello di ogni autentico
discepolo del Signore. Amen!
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
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Il vero Vaticano II, via del rinnovamento
14 febbraio: discorso a parroci e sacerdoti della diocesi di Roma
Eminenza, cari fratelli nell’episcopato e nel sacerdozio! È per me un
dono particolare della Provvidenza che, prima di lasciare il ministero petrino, possa ancora vedere il mio clero, il clero di Roma. È sempre una
grande gioia vedere come la Chiesa vive, come a Roma la Chiesa è vivente; ci sono Pastori che, nello spirito del Pastore supremo, guidano il
gregge del Signore. E’ un clero realmente cattolico, universale, e questo
risponde all’essenza della Chiesa di Roma: portare in sé l’universalità, la
cattolicità di tutte le genti, di tutte le razze, di tutte le culture.
Nello stesso tempo, sono molto grato al cardinale Vicario che aiuta a
risvegliare, a ritrovare le vocazioni nella stessa Roma, perché se Roma,
da una parte, dev’essere la città dell’universalità, dev’essere anche una
città con una propria forte e robusta fede, dalla quale nascono anche vocazioni. E sono convinto che, con l’aiuto del Signore, possiamo trovare
le vocazioni che Egli stesso ci dà, guidarle, aiutarle a maturare, e così
servire per il lavoro nella vigna del Signore. Oggi avete confessato davanti alla tomba di san Pietro il Credo: nell’Anno della fede, mi sembra
un atto molto opportuno, necessario forse, che il clero di Roma si riunisca
sulla tomba dell’apostolo al quale il Signore ha detto: «A te affido la mia
Chiesa. Sopra di te costruisco la mia Chiesa» (cfr Mt 16,18-19). Davanti
al Signore, insieme con Pietro, avete confessato: «Tu sei Cristo, il Figlio
del Dio vivo» (cfr Mt 16,15-16). Così cresce la Chiesa: insieme con Pietro, confessare Cristo, seguire Cristo. E facciamo questo sempre. Io sono
molto grato per la vostra preghiera, che ho sentito l’ho detto mercoledì
quasi fisicamente. Anche se adesso mi ritiro, nella preghiera sono sempre
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
vicino a tutti voi e sono sicuro che anche voi sarete vicini a me, anche se
per il mondo rimango nascosto.
Per oggi, secondo le condizioni della mia età, non ho potuto preparare un
grande, vero discorso, come ci si potrebbe aspettare; ma piuttosto penso
ad una piccola chiacchierata sul Concilio Vaticano II, come io l’ho visto. Comincio con un aneddoto: io ero stato nominato nel ‘59 professore
all’Università di Bonn, dove studiano gli studenti, i seminaristi della diocesi di Colonia e di altre diocesi circostanti. Così, sono venuto in contatto con il cardinale di Colonia, il cardinale Frings. Il cardinale Siri, di
Genova mi sembra nel ‘61 aveva organizzato una serie di conferenze di
diversi cardinali europei sul Concilio, e aveva invitato anche l’arcivescovo di Colonia a tenere una delle conferenze, con il titolo: Il Concilio e il
mondo del pensiero moderno. Il cardinale mi ha invitato il più giovane
dei professori a scrivergli un progetto; il progetto gli è piaciuto e ha proposto alla gente, a Genova, il testo come io l’avevo scritto. Poco dopo,
papa Giovanni lo invita ad andare da lui e il cardinale era pieno di timore
di avere forse detto qualcosa di non corretto, di falso, e di venire citato
per un rimprovero, forse anche per togliergli la porpora. Sì, quando il suo
segretario lo ha vestito per l’udienza, il cardinale ha detto: «Forse adesso
porto per l’ultima volta questo abito». Poi è entrato, papa Giovanni gli va
incontro, lo abbraccia, e dice: «Grazie, eminenza, lei ha detto le cose che
io volevo dire, ma non avevo trovato le parole». Così, il cardinale sapeva
di essere sulla strada giusta e mi ha invitato ad andare con lui al Concilio,
prima come suo esperto personale; poi, nel corso del primo periodo mi
pare nel novembre ‘62 sono stato nominato anche perito ufficiale del
Concilio.
Allora, noi siamo andati al Concilio non solo con gioia, ma con entusiasmo. C’era un’aspettativa incredibile. Speravamo che tutto si rinnovasse,
che venisse veramente una nuova Pentecoste, una nuova era della Chiesa,
perché la Chiesa era ancora abbastanza robusta in quel tempo, la prassi
domenicale ancora buona, le vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa
erano già un po’ ridotte, ma ancora sufficienti. Tuttavia, si sentiva che la
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Chiesa non andava avanti, si riduceva, che sembrava piuttosto una realtà
del passato e non la portatrice del futuro. E in quel momento, speravamo
che questa relazione si rinnovasse, cambiasse; che la Chiesa fosse di nuovo forza del domani e forza dell’oggi. E sapevamo che la relazione tra la
Chiesa e il periodo moderno, fin dall’inizio, era un po’ contrastante, cominciando con l’errore della Chiesa nel caso di Galileo Galilei; si pensava di correggere questo inizio sbagliato e di trovare di nuovo l’unione tra
la Chiesa e le forze migliori del mondo, per aprire il futuro dell’umanità,
per aprire il vero progresso. Così, eravamo pieni di speranza, di entusiasmo, e anche di volontà di fare la nostra parte per questa cosa. Mi ricordo
che un modello negativo era considerato il Sinodo Romano.
Si disse non so se sia vero che avessero letto i testi preparati, nella Basilica di San Giovanni, e che i membri del Sinodo avessero acclamato,
approvato applaudendo, e così si sarebbe svolto il Sinodo. I vescovi dissero: No, non facciamo così. Noi siamo vescovi, siamo noi stessi soggetto del Sinodo; non vogliamo soltanto approvare quanto è stato fatto, ma
vogliamo essere noi il soggetto, i portatori del Concilio. Così anche il
cardinale Frings, che era famoso per la fedeltà assoluta, quasi scrupolosa,
al Santo Padre, in questo caso disse: Qui siamo in altra funzione. Il Papa
ci ha convocati per essere come Padri, per essere Concilio ecumenico, un
soggetto che rinnovi la Chiesa. Così vogliamo assumere questo nostro
ruolo. Il primo momento, nel quale questo atteggiamento si è mostrato, è
stato subito il primo giorno. Erano state previste, per questo primo giorno, le elezioni delle Commissioni ed erano state preparate, in modo si
cercava imparziale, le liste, i nominativi; e queste liste erano da votare.
Ma subito i Padri dissero: No, non vogliamo semplicemente votare liste
già fatte. Siamo noi il soggetto. Allora, si sono dovute spostare le elezioni, perché i Padri stessi volevano conoscersi un po’, volevano loro stessi
preparare delle liste. E così è stato fatto. I cardinali Liénart di Lille, il
cardinale Frings di Colonia avevano pubblicamente detto: Così no. Noi
vogliamo fare le nostre liste ed eleggere i nostri candidati. Non era un
atto rivoluzionario, ma un atto di coscienza, di responsabilità da parte dei
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Padri conciliari.
Così cominciava una forte attività per conoscersi, orizzontalmente, gli
uni gli altri, cosa che non era a caso. Al «Collegio dell’Anima», dove
abitavo, abbiamo avuto molte visite: il cardinale era molto conosciuto,
abbiamo visto cardinali di tutto il mondo. Mi ricordo bene la figura alta
e snella di monsignor Etchegaray, che era segretario della Conferenza
episcopale francese, degli incontri con cardinali, eccetera. E questo era
tipico, poi, per tutto il Concilio: piccoli incontri trasversali. Così ho conosciuto grandi figure come padre de Lubac, Daniélou, Congar, eccetera.
Abbiamo conosciuto vari vescovi; mi ricordo particolarmente del vescovo Elchinger di Strasburgo, eccetera. E questa era già un’esperienza
dell’universalità della Chiesa e della realtà concreta della Chiesa, che non
riceve semplicemente imperativi dall’alto, ma insieme cresce e va avanti,
sempre sotto la guida naturalmente del Successore di Pietro.
Tutti, come ho detto, venivano con grandi aspettative; non era mai stato
realizzato un Concilio di queste dimensioni, ma non tutti sapevano come
fare. I più preparati, diciamo quelli con intenzioni più definite, erano
l’episcopato francese, tedesco, belga, olandese, la cosiddetta «alleanza
renana». E, nella prima parte del Concilio, erano loro che indicavano la
strada; poi si è velocemente allargata l’attività e tutti sempre più hanno
partecipato nella creatività del Concilio. I francesi ed i tedeschi avevano diversi interessi in comune, anche con sfumature abbastanza diverse.
La prima, iniziale, semplice apparentemente semplice intenzione era la
riforma della liturgia, che era già cominciata con Pio XII, il quale aveva
già riformato la Settimana Santa; la seconda, l’ecclesiologia; la terza, la
Parola di Dio, la Rivelazione; e, infine, anche l’ecumenismo.
I francesi, molto più che i tedeschi, avevano ancora il problema di trattare
la situazione delle relazioni tra la Chiesa e il mondo. Cominciamo con il
primo. Dopo la Prima Guerra Mondiale, era cresciuto, proprio nell’Europa centrale e occidentale, il movimento liturgico, una riscoperta della ricchezza e profondità della liturgia, che era finora quasi chiusa nel
Messale Romano del sacerdote, mentre la gente pregava con propri libri
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di preghiera, i quali erano fatti secondo il cuore della gente, così che si
cercava di tradurre i contenuti alti, il linguaggio alto, della liturgia classica in parole più emozionali, più vicine al cuore del popolo. Ma erano
quasi due liturgie parallele: il sacerdote con i chierichetti, che celebrava
la Messa secondo il Messale, ed i laici, che pregavano, nella Messa, con
i loro libri di preghiera, insieme, sapendo sostanzialmente che cosa si
realizzava sull’altare. Ma ora era stata riscoperta proprio la bellezza, la
profondità, la ricchezza storica, umana, spirituale del Messale e la necessità che non solo un rappresentante del popolo, un piccolo chierichetto,
dicesse Et cum spiritu tuo eccetera, ma che fosse realmente un dialogo
tra sacerdote e popolo, che realmente la liturgia dell’altare e la liturgia del
popolo fosse un’unica liturgia, una partecipazione attiva, che le ricchezze
arrivassero al popolo; e così si è riscoperta, rinnovata la liturgia. Io trovo
adesso, retrospettivamente, che è stato molto buono cominciare con la
liturgia, così appare il primato di Dio, il primato dell’adorazione. Operi
Dei nihil praeponatur: questa parola della Regola di san Benedetto (cfr
43,3) appare così come la suprema regola del Concilio. Qualcuno aveva
criticato che il Concilio ha parlato su tante cose, ma non su Dio. Ha parlato su Dio! Ed è stato il primo atto e quello sostanziale parlare su Dio e
aprire tutta la gente, tutto il popolo santo, all’adorazione di Dio, nella comune celebrazione della liturgia del Corpo e Sangue di Cristo. In questo
senso, al di là dei fattori pratici che sconsigliavano di cominciare subito
con temi controversi, è stato, diciamo, realmente un atto di Provvidenza
che agli inizi del Concilio stia la liturgia, stia Dio, stia l’adorazione.
Adesso non vorrei entrare nei dettagli della discussione, ma vale la pena
sempre tornare, oltre le attuazioni pratiche, al Concilio stesso, alla sua
profondità e alle sue idee essenziali. Ve n’erano, direi, diverse: soprattutto il Mistero pasquale come centro dell’essere cristiano, e quindi della
vita cristiana, dell’anno, del tempo cristiano, espresso nel tempo pasquale e nella domenica che è sempre il giorno della Risurrezione. Sempre di
nuovo cominciamo il nostro tempo con la Risurrezione, con l’incontro
con il Risorto, e dall’incontro con il Risorto andiamo al mondo. In que-
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sto senso, è un peccato che oggi si sia trasformata la domenica in fine
settimana, mentre è la prima giornata, è l’inizio; interiormente dobbiamo
tenere presente questo: che è l’inizio, l’inizio della creazione, è l’inizio
della ricreazione nella Chiesa, incontro con il Creatore e con Cristo Risorto. Anche questo duplice contenuto della domenica è importante: è
il primo giorno, cioè festa della creazione, noi stiamo sul fondamento
della creazione, crediamo nel Dio Creatore; e incontro con il Risorto, che
rinnova la creazione; il suo vero scopo è creare un mondo che è risposta
all’amore di Dio.
Poi c’erano dei principi: l’intelligibilità, invece di essere rinchiusi in una
lingua non conosciuta, non parlata, ed anche la partecipazione attiva.
Purtroppo, questi principi sono stati anche male intesi. Intelligibilità non
vuol dire banalità, perché i grandi testi della liturgia anche se parlati,
grazie a Dio, in lingua materna non sono facilmente intelligibili, hanno
bisogno di una formazione permanente del cristiano perché cresca ed
entri sempre più in profondità nel mistero e così possa comprendere. Ed
anche la Parola di Dio – se penso giorno per giorno alla lettura dell’Antico Testamento, anche alla lettura delle Epistole paoline, dei Vangeli: chi
potrebbe dire che capisce subito solo perché è nella propria lingua? Solo
una formazione permanente del cuore e della mente può realmente creare
intelligibilità ed una partecipazione che è più di una attività esteriore, che
è un entrare della persona, del mio essere, nella comunione della Chiesa
e così nella comunione con Cristo.
Secondo tema: la Chiesa. Sappiamo che il Concilio Vaticano I era stato
interrotto a causa della guerra tedesco-francese e così è rimasto con una
unilateralità, con un frammento, perché la dottrina sul primato che è stata
definita, grazie a Dio, in quel momento storico per la Chiesa, ed è stata
molto necessaria per il tempo seguente era soltanto un elemento in un’ecclesiologia più vasta, prevista, preparata. Così era rimasto il frammento.
E si poteva dire: se il frammento rimane così come è, tendiamo ad una
unilateralità: la Chiesa sarebbe solo il primato. Quindi già dall’inizio c’era questa intenzione di completare l’ecclesiologia del Vaticano I, in una
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data da trovare, per una ecclesiologia completa. Anche qui le condizioni
sembravano molto buone perché, dopo la Prima Guerra Mondiale, era rinato il senso della Chiesa in modo nuovo. Romano Guardini disse: «Nelle anime comincia a risvegliarsi la Chiesa», e un vescovo protestante parlava del «secolo della Chiesa». Veniva ritrovato, soprattutto, il concetto,
che era previsto anche dal Vaticano I, del Corpo Mistico di Cristo. Si
voleva dire e capire che la Chiesa non è un’organizzazione, qualcosa di
strutturale, giuridico, istituzionale – anche questo –, ma è un organismo,
una realtà vitale, che entra nella mia anima, così che io stesso, proprio
con la mia anima credente, sono elemento costruttivo della Chiesa come
tale. In questo senso, Pio XII aveva scritto l’Enciclica Mystici Corporis
Christi, come un passo verso un completamento dell’ecclesiologia del
Vaticano II.
Direi che la discussione teologica degli anni ‘30-’40, anche ‘20, era completamente sotto questo segno della parola Mystici Corporis. Fu una scoperta che ha creato tanta gioia in quel tempo ed anche in questo contesto
è cresciuta la formula: Noi siamo la Chiesa, la Chiesa non è una struttura;
noi stessi cristiani, insieme, siamo tutti il Corpo vivo della Chiesa. E,
naturalmente, questo vale nel senso che noi, il vero «noi» dei credenti,
insieme con l’«Io» di Cristo, è la Chiesa; ognuno di noi, non «un noi»,
un gruppo che si dichiara Chiesa. No: questo «noi siamo Chiesa» esige
proprio il mio inserimento nel grande «noi» dei credenti di tutti i tempi
e luoghi. Quindi, la prima idea: completare l’ecclesiologia in modo teologico, ma proseguendo anche in modo strutturale, cioè: accanto alla
successione di Pietro, alla sua funzione unica, definire meglio anche la
funzione dei vescovi, del Corpo episcopale. E, per fare questo, è stata
trovata la parola «collegialità», molto discussa, con discussioni accanite,
direi, anche un po’ esagerate. Ma era la parola forse ce ne sarebbe anche
un’altra, ma serviva questa per esprimere che i vescovi, insieme, sono la
continuazione dei Dodici, del Corpo degli apostoli. Abbiamo detto: solo
un vescovo, quello di Roma, è successore di un determinato apostolo,
di Pietro. Tutti gli altri diventano successori degli Apostoli entrando nel
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Corpo che continua il Corpo degli apostoli. Così proprio il Corpo dei
vescovi, il collegio, è la continuazione del Corpo dei Dodici, ed ha così
la sua necessità, la sua funzione, i suoi diritti e doveri. Appariva a molti
come una lotta per il potere, e forse qualcuno anche ha pensato al suo
potere, ma sostanzialmente non si trattava di potere, ma della complementarietà dei fattori e della completezza del Corpo della Chiesa con i
vescovi, successori degli apostoli, come elementi portanti; ed ognuno di
loro è elemento portante della Chiesa, insieme con questo grande Corpo.
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Rimettiamo il Signore al centro della nostra vita
17 febbraio: Angelus in piazza San Pietro
Cari fratelli e sorelle! Mercoledì scorso, con il tradizionale rito delle Ceneri, siamo entrati nella Quaresima, tempo di conversione e di penitenza
in preparazione alla Pasqua. La Chiesa, che è madre e maestra, chiama
tutti i suoi membri a rinnovarsi nello spirito, a ri-orientarsi decisamente
verso Dio, rinnegando l’orgoglio e l’egoismo per vivere nell’amore. In
questo Anno della fede la Quaresima è un tempo favorevole per riscoprire la fede in Dio come criterio-base della nostra vita e della vita della
Chiesa. Ciò comporta sempre una lotta, un combattimento spirituale, perché lo spirito del male naturalmente si oppone alla nostra santificazione e
cerca di farci deviare dalla via di Dio. Per questo, nella prima domenica
di Quaresima, viene proclamato ogni anno il Vangelo delle tentazioni di
Gesù nel deserto.Gesù infatti, dopo aver ricevuto l’«investitura» come
Messia - «Unto» di Spirito Santo - al Battesimo nel Giordano, fu condotto dallo stesso Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo. Al
momento di iniziare il suo ministero pubblico, Gesù dovette smascherare
e respingere le false immagini di Messia che il tentatore gli proponeva. Ma queste tentazioni sono anche false immagini dell’uomo, che in
ogni tempo insidiano la coscienza, travestendosi da proposte convenienti
ed efficaci, addirittura buone. Gli evangelisti Matteo e Luca presentano
tre tentazioni di Gesù, diversificandosi in parte solo per l’ordine. Il loro
nucleo centrale consiste sempre nello strumentalizzare Dio per i propri
interessi, dando più importanza al successo o ai beni materiali. Il tentatore è subdolo: non spinge direttamente verso il male, ma verso un falso
bene, facendo credere che le vere realtà sono il potere e ciò che soddisfa
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i bisogni primari. In questo modo, Dio diventa secondario, si riduce a un
mezzo, in definitiva diventa irreale, non conta più, svanisce. In ultima
analisi, nelle tentazioni è in gioco la fede, perché è in gioco Dio. Nei
momenti decisivi della vita, ma, a ben vedere, in ogni momento, siamo
di fronte a un bivio: vogliamo seguire l’io o Dio? L’interesse individuale
oppure il vero Bene, ciò che realmente è bene?
Come ci insegnano i Padri della Chiesa, le tentazioni fanno parte della
«discesa» di Gesù nella nostra condizione umana, nell’abisso del peccato
e delle sue conseguenze. Una «discesa» che Gesù ha percorso sino alla
fine, sino alla morte di croce e agli inferi dell’estrema lontananza da Dio.
In questo modo, Egli è la mano che Dio ha teso all’uomo, alla pecorella
smarrita, per riportarla in salvo. Come insegna sant’Agostino, Gesù ha
preso da noi le tentazioni, per donare a noi la sua vittoria (cfr Enarr. in
Psalmos, 60,3: PL 36, 724). Non abbiamo dunque paura di affrontare
anche noi il combattimento contro lo spirito del male: l’importante è che
lo facciamo con Lui, con Cristo, il Vincitore. E per stare con Lui rivolgiamoci alla Madre, Maria: invochiamola con fiducia filiale nell’ora della
prova, e lei ci farà sentire la potente presenza del suo Figlio divino, per
respingere le tentazioni con la Parola di Cristo, e così rimettere Dio al
centro della nostra vita.
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Avete portato con me il peso
del ministero petrino
23 febbraio: discorso ai membri della Curia Romana
al termine degli Esercizi spirituali di Quaresima
Cari fratelli, cari amici! Alla fine di questa settimana spiritualmente così
densa, rimane solo una parola: grazie! Grazie a voi per questa comunità
orante in ascolto, che mi ha accompagnato in questa settimana. Grazie,
soprattutto, a lei, eminenza, per queste “camminate” così belle nell’universo della fede, nell’universo dei Salmi. Siamo rimasti affascinati dalla
ricchezza, dalla profondità, dalla bellezza di questo universo della fede
e rimaniamo grati perché la Parola di Dio ci ha parlato in nuovo modo,
con nuova forza.
«Arte di credere, arte di pregare» era il filo conduttore. Mi è venuto in
mente il fatto che i teologi medievali hanno tradotto la parola “logos” non
solo con “verbum”, ma anche con “ars”: “verbum” e “ars” sono intercambiabili. Solo nelle due insieme appare, per i teologi medievali, tutto
il significato della parola “logos”. Il “Logos” non è solo una ragione matematica: il “Logos” ha un cuore, il “Logos” è anche amore. La verità è
bella, verità e bellezza vanno insieme: la bellezza è il sigillo della verità.
E tuttavia lei, partendo dai Salmi e dalla nostra esperienza di ogni giorno, ha anche fortemente sottolineato che il “molto bello” del sesto giorno – espresso dal Creatore – è permanentemente contraddetto, in questo
mondo, dal male, dalla sofferenza, dalla corruzione. E sembra quasi che
il maligno voglia permanentemente sporcare la creazione, per contraddire Dio e per rendere irriconoscibile la sua verità e la sua bellezza. In
un mondo così marcato anche dal male, il “Logos”, la Bellezza eterna e
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l’”Ars” eterna, deve apparire come “caput cruentatum”. Il Figlio incarnato, il “Logos” incarnato, è coronato con una corona di spine; e tuttavia
proprio così, in questa figura sofferente del Figlio di Dio, cominciamo a
vedere la bellezza più profonda del nostro Creatore e Redentore; possiamo, nel silenzio della “notte oscura”, ascoltare tuttavia la Parola. Credere
non è altro che, nell’oscurità del mondo, toccare la mano di Dio e così,
nel silenzio, ascoltare la Parola, vedere l’Amore.
Eminenza, grazie per tutto e facciamo ancora “camminate”, ulteriormente, in questo misterioso universo della fede, per essere sempre più capaci
di orare, di pregare, di annunciare, di essere testimoni della verità, che è
bella, che è amore.
Alla fine, cari amici, vorrei ringraziare tutti voi, e non solo per questa settimana, ma per questi otto anni, in cui avete portato con me, con grande
competenza, affetto, amore, fede, il peso del ministero petrino. Rimane
in me questa gratitudine e anche se adesso finisce l’”esteriore”, “visibile” comunione - come ha detto il cardinale Ravasi - rimane la vicinanza
spirituale, rimane una profonda comunione nella preghiera. In questa certezza andiamo avanti, sicuri della vittoria di Dio, sicuri della verità della
bellezza e dell’amore.
Grazie a tutti voi.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
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Il Signore mi chiama a salire sul monte
24 febbraio: l’ultimo Angelus in piazza San Pietro
Cari fratelli e sorelle! Grazie per il vostro affetto!
Oggi, seconda domenica di Quaresima, abbiamo un Vangelo particolarmente bello, quello della Trasfigurazione del Signore. L’evangelista Luca
pone in particolare risalto il fatto che Gesù si trasfigurò mentre pregava:
la sua è un’esperienza profonda di rapporto con il Padre durante una sorta
di ritiro spirituale che Gesù vive su un alto monte in compagnia di Pietro,
Giacomo e Giovanni, i tre discepoli sempre presenti nei momenti della
manifestazione divina del Maestro (Lc 5,10; 8,51; 9,28). Il Signore, che
poco prima aveva preannunciato la sua morte e risurrezione (9,22), offre
ai discepoli un anticipo della sua gloria. E anche nella Trasfigurazione,
come nel Battesimo, risuona la voce del Padre celeste: «Questi è il figlio
mio, l’eletto; ascoltatelo!» (9,35). La presenza poi di Mosè ed Elia, che
rappresentano la Legge e i Profeti dell’antica Alleanza, è quanto mai significativa: tutta la storia dell’Alleanza è orientata a Lui, il Cristo, che
compie un nuovo «esodo» (9,31), non verso la terra promessa come al
tempo di Mosè, ma verso il Cielo. L’intervento di Pietro: «Maestro, è
bello per noi essere qui» (9,33) rappresenta il tentativo impossibile di
fermare tale esperienza mistica. Commenta sant’Agostino: «[Pietro]…
sul monte…aveva Cristo come cibo dell’anima. Perché avrebbe dovuto
scendere per tornare alle fatiche e ai dolori, mentre lassù era pieno di
sentimenti di santo amore verso Dio e che gli ispiravano perciò una santa
condotta?» (Discorso 78,3: PL 38,491). Meditando questo brano del Vangelo, possiamo trarne un insegnamento molto importante. Innanzitutto, il
primato della preghiera, senza la quale tutto l’impegno dell’apostolato e
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
della carità si riduce ad attivismo. Nella Quaresima impariamo a dare il
giusto tempo alla preghiera, personale e comunitaria, che dà respiro alla
nostra vita spirituale. Inoltre, la preghiera non è un isolarsi dal mondo e
dalle sue contraddizioni, come sul Tabor avrebbe voluto fare Pietro, ma
l’orazione riconduce al cammino, all’azione. «L’esistenza cristiana – ho
scritto nel Messaggio per questa Quaresima – consiste in un continuo salire il monte dell’incontro con Dio, per poi ridiscendere portando l’amore
e la forza che ne derivano, in modo da servire i nostri fratelli e sorelle con
lo stesso amore di Dio» (n. 3).
Cari fratelli e sorelle, questa Parola di Dio la sento in modo particolare
rivolta a me, in questo momento della mia vita. Grazie! Il Signore mi
chiama a “salire sul monte”, a dedicarmi ancora di più alla preghiera e
alla meditazione. Ma questo non significa abbandonare la Chiesa, anzi,
se Dio mi chiede questo è proprio perché io possa continuare a servirla
con la stessa dedizione e lo stesso amore con cui ho cercato di farlo fino
ad ora, ma in un modo più adatto alla mia età e alle mie forze. Invochiamo l’intercessione della Vergine Maria: lei ci aiuti tutti a seguire sempre
il Signore Gesù, nella preghiera e nella carità operosa.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
8
Non mi sono mai sentito solo
27 febbraio: l’ultima udienza generale in piazza San Pietro
Venerati fratelli nell’episcopato e nel presbiterato! Distinte autorità! Cari
fratelli e sorelle! Vi ringrazio di essere venuti così numerosi a questa mia
ultima udienza generale.
Grazie di cuore! Sono veramente commosso! E vedo la Chiesa viva! E
penso che dobbiamo anche dire un grazie al Creatore per il tempo bello
che ci dona adesso ancora nell’inverno.
Come l’apostolo Paolo nel testo biblico che abbiamo ascoltato, anch’io
sento nel mio cuore di dover soprattutto ringraziare Dio, che guida e fa
crescere la Chiesa, che semina la sua Parola e così alimenta la fede nel
suo popolo. In questo momento il mio animo si allarga ed abbraccia tutta
la Chiesa sparsa nel mondo; e rendo grazie a Dio per le «notizie» che
in questi anni del ministero petrino ho potuto ricevere circa la fede nel
Signore Gesù Cristo, e della carità che circola realmente nel corpo della
Chiesa e lo fa vivere nell’amore, e della speranza che ci apre e ci orienta
verso la vita in pienezza, verso la patria del Cielo.
Sento di portare tutti nella preghiera, in un presente che è quello di Dio,
dove raccolgo ogni incontro, ogni viaggio, ogni visita pastorale. Tutto
e tutti raccolgo nella preghiera per affidarli al Signore: perché abbiamo
piena conoscenza della sua volontà, con ogni sapienza e intelligenza spirituale, e perché possiamo comportarci in maniera degna di Lui, del suo
amore, portando frutto in ogni opera buona (cfr Col 1,9-10).
In questo momento, c’è in me una grande fiducia, perché so, sappiamo
tutti noi, che la Parola di verità del Vangelo è la forza della Chiesa, è la
sua vita. Il Vangelo purifica e rinnova, porta frutto, dovunque la comunità
dei credenti lo ascolta e accoglie la grazia di Dio nella verità e nella cari-
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
tà. Questa è la mia fiducia, questa è la mia gioia.
Quando, il 19 aprile di quasi otto anni fa, ho accettato di assumere il
ministero petrino, ho avuto la ferma certezza che mi ha sempre accompagnato: questa certezza della vita della Chiesa dalla Parola di Dio. In quel
momento, come ho già espresso più volte, le parole che sono risuonate
nel mio cuore sono state: Signore, perché mi chiedi questo e che cosa mi
chiedi? È un peso grande quello che mi poni sulle spalle, ma se Tu me lo
chiedi, sulla tua parola getterò le reti, sicuro che Tu mi guiderai, anche
con tutte le mie debolezze. E otto anni dopo posso dire che il Signore mi
ha guidato, mi è stato vicino, ho potuto percepire quotidianamente la sua
presenza. È stato un tratto di cammino della Chiesa che ha avuto momenti di gioia e di luce, ma anche momenti non facili; mi sono sentito come
san Pietro con gli Apostoli nella barca sul lago di Galilea: il Signore ci ha
donato tanti giorni di sole e di brezza leggera, giorni in cui la pesca è stata
abbondante; vi sono stati anche momenti in cui le acque erano agitate ed
il vento contrario, come in tutta la storia della Chiesa, e il Signore sembrava dormire. Ma ho sempre saputo che in quella barca c’è il Signore e
ho sempre saputo che la barca della Chiesa non è mia, non è nostra, ma è
sua. E il Signore non la lascia affondare; è Lui che la conduce, certamente
anche attraverso gli uomini che ha scelto, perché così ha voluto. Questa è
stata ed è una certezza, che nulla può offuscare. Ed è per questo che oggi
il mio cuore è colmo di ringraziamento a Dio perché non ha fatto mai
mancare a tutta la Chiesa e anche a me la sua consolazione, la sua luce,
il suo amore.
Siamo nell’Anno della fede, che ho voluto per rafforzare proprio la nostra fede in Dio in un contesto che sembra metterlo sempre più in secondo piano. Vorrei invitare tutti a rinnovare la ferma fiducia nel Signore, ad
affidarci come bambini nelle braccia di Dio, certi che quelle braccia ci
sostengono sempre e sono ciò che ci permette di camminare ogni giorno,
anche nella fatica. Vorrei che ognuno si sentisse amato da quel Dio che
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
ha donato il suo Figlio per noi e che ci ha mostrato il suo amore senza
confini. Vorrei che ognuno sentisse la gioia di essere cristiano. In una
bella preghiera da recitarsi quotidianamente al mattino si dice: «Ti adoro,
mio Dio, e ti amo con tutto il cuore. Ti ringrazio di avermi creato, fatto
cristiano…». Sì, siamo contenti per il dono della fede; è il bene più prezioso, che nessuno ci può togliere! Ringraziamo il Signore di questo ogni
giorno, con la preghiera e con una vita cristiana coerente. Dio ci ama, ma
attende che anche noi lo amiamo!
Ma non è solamente Dio che voglio ringraziare in questo momento. Un
Papa non è solo nella guida della barca di Pietro, anche se è la sua prima
responsabilità Io non mi sono mai sentito solo nel portare la gioia e il
peso del ministero petrino; il Signore mi ha messo accanto tante persone
che, con generosità e amore a Dio e alla Chiesa, mi hanno aiutato e mi
sono state vicine. Anzitutto voi, cari fratelli cardinali: la vostra saggezza,
i vostri consigli, la vostra amicizia sono stati per me preziosi; i miei collaboratori, ad iniziare dal mio segretario di Stato che mi ha accompagnato
con fedeltà in questi anni; la segreteria di Stato e l’intera Curia Romana,
come pure tutti coloro che, nei vari settori, prestano il loro servizio alla
Santa Sede: sono tanti volti che non emergono, rimangono nell’ombra,
ma proprio nel silenzio, nella dedizione quotidiana, con spirito di fede e
umiltà sono stati per me un sostegno sicuro e affidabile. Un pensiero speciale alla Chiesa di Roma, la mia diocesi! Non posso dimenticare i fratelli
nell’episcopato e nel presbiterato, le persone consacrate e l’intero popolo
di Dio: nelle visite pastorali, negli incontri, nelle udienze, nei viaggi, ho
sempre percepito grande attenzione e profondo affetto; ma anch’io ho
voluto bene a tutti e a ciascuno, senza distinzioni, con quella carità pastorale che è il cuore di ogni Pastore, soprattutto del vescovo di Roma, del
Successore dell’apostolo Pietro. Ogni giorno ho portato ciascuno di voi
nella preghiera, con il cuore di padre.
Vorrei che il mio saluto e il mio ringraziamento giungesse poi a tutti: il
cuore di un Papa si allarga al mondo intero. E vorrei esprimere la mia
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
gratitudine al Corpo diplomatico presso la Santa Sede, che rende presente la grande famiglia delle Nazioni. Qui penso anche a tutti coloro
che lavorano per una buona comunicazione e che ringrazio per il loro
importante servizio.
A questo punto vorrei ringraziare di vero cuore anche tutte le numerose
persone in tutto il mondo, che nelle ultime settimane mi hanno inviato segni commoventi di attenzione, di amicizia e di preghiera. Sì, il Papa non è
mai solo, ora lo sperimento ancora una volta in un modo così grande che
tocca il cuore. Il Papa appartiene a tutti e tantissime persone si sentono
molto vicine a lui. È vero che ricevo lettere dai grandi del mondo – dai
capi di Stato, dai capi religiosi, dai rappresentanti del mondo della cultura eccetera. Ma ricevo anche moltissime lettere da persone semplici che
mi scrivono semplicemente dal loro cuore e mi fanno sentire il loro affetto, che nasce dall’essere insieme con Cristo Gesù, nella Chiesa. Queste
persone non mi scrivono come si scrive ad esempio ad un principe o ad
un grande che non si conosce. Mi scrivono come fratelli e sorelle o come
figli e figlie, con il senso di un legame familiare molto affettuoso. Qui
si può toccare con mano che cosa sia Chiesa – non un’organizzazione,
un’associazione per fini religiosi o umanitari, ma un corpo vivo, una comunione di fratelli e sorelle nel corpo di Gesù Cristo, che ci unisce tutti.
Sperimentare la Chiesa in questo modo e poter quasi toccare con le mani
la forza della sua verità e del suo amore, è motivo di gioia, in un tempo
in cui tanti parlano del suo declino. Ma vediamo come la Chiesa è viva
oggi!
In questi ultimi mesi, ho sentito che le mie forze erano diminuite, e ho
chiesto a Dio con insistenza, nella preghiera, di illuminarmi con la sua
luce per farmi prendere la decisione più giusta non per il mio bene, ma
per il bene della Chiesa. Ho fatto questo passo nella piena consapevolezza della sua gravità e anche novità, ma con una profonda serenità d’animo. Amare la Chiesa significa anche avere il coraggio di fare scelte difficili, sofferte, avendo sempre davanti il bene della Chiesa e non se stessi.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Qui permettetemi di tornare ancora una volta al 19 aprile 2005. La gravità della decisione è stata proprio anche nel fatto che da quel momento
in poi ero impegnato sempre e per sempre dal Signore. Sempre – chi assume il ministero petrino non ha più alcuna privacy. Appartiene sempre
e totalmente a tutti, a tutta la Chiesa. Alla sua vita viene, per così dire,
totalmente tolta la dimensione privata. Ho potuto sperimentare, e lo sperimento precisamente ora, che uno riceve la vita proprio quando la dona.
Prima ho detto che molte persone che amano il Signore amano anche il
Successore di san Pietro e sono affezionate a lui; che il Papa ha veramente fratelli e sorelle, figli e figlie in tutto il mondo, e che si sente al sicuro
nell’abbraccio della vostra comunione; perché non appartiene più a se
stesso, appartiene a tutti e tutti appartengono a lui.
Il «sempre» è anche un «per sempre» - non c’è più un ritornare nel privato. La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non
revoca questo. Non ritorno alla vita privata, a una vita di viaggi, incontri, ricevimenti, conferenze eccetera. Non abbandono la croce, ma resto
in modo nuovo presso il Signore Crocifisso. Non porto più la potestà
dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera
resto, per così dire, nel recinto di san Pietro. San Benedetto, il cui nome
porto da Papa, mi sarà di grande esempio in questo. Egli ci ha mostrato
la via per una vita, che, attiva o passiva, appartiene totalmente all’opera
di Dio.
Ringrazio tutti e ciascuno anche per il rispetto e la comprensione con cui
avete accolto questa decisione così importante. Io continuerò ad accompagnare il cammino della Chiesa con la preghiera e la riflessione, con
quella dedizione al Signore e alla sua Sposa che ho cercato di vivere fino
ad ora ogni giorno e che vorrei vivere sempre. Vi chiedo di ricordarmi
davanti a Dio, e soprattutto di pregare per i cardinali, chiamati ad un
compito così rilevante, e per il nuovo Successore dell’apostolo Pietro: il
Signore lo accompagni con la luce e la forza del suo Spirito.
Invochiamo la materna intercessione della Vergine Maria Madre di Dio
e della Chiesa perché accompagni ciascuno di noi e l’intera comunità
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
ecclesiale; a Lei ci affidiamo, con profonda fiducia.
Cari amici! Dio guida la sua Chiesa, la sorregge sempre anche e soprattutto nei momenti difficili. Non perdiamo mai questa visione di fede, che
è l’unica vera visione del cammino della Chiesa e del mondo. Nel nostro
cuore, nel cuore di ciascuno di voi, ci sia sempre la gioiosa certezza che
il Signore ci è accanto, non ci abbandona, ci è vicino e ci avvolge con il
suo amore. Grazie!
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
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La Chiesa è una realtà vivente
28 febbraio: il saluto al Collegio cardinalizio
nell’ultimo giorno di pontificato
Venerati e cari fratelli! Con grande gioia vi accolgo e porgo a ciascuno
di voi il mio più cordiale saluto. Ringrazio il cardinale Angelo Sodano
che, come sempre, ha saputo farsi interprete dei sentimenti dell’intero
Collegio: Cor ad cor loquitur. Grazie eminenza di cuore. E vorrei dire –
riprendendo il riferimento all’esperienza dei discepoli di Emmaus – che
anche per me è stata una gioia camminare con voi in questi anni, nella
luce della presenza del Signore risorto.
Come ho detto ieri davanti alle migliaia di fedeli che riempivano piazza
San Pietro, la vostra vicinanza e il vostro consiglio mi sono stati di grande aiuto nel mio ministero. In questi otto anni, abbiamo vissuto con fede
momenti bellissimi di luce radiosa nel cammino della Chiesa, assieme a
momenti in cui qualche nube si è addensata nel cielo. Abbiamo cercato di
servire Cristo e la sua Chiesa con amore profondo e totale, che è l’anima
del nostro ministero. Abbiamo donato speranza, quella che ci viene da
Cristo, che solo può illuminare il cammino. Insieme possiamo ringraziare
il Signore che ci ha fatti crescere nella comunione, e insieme pregarlo di
aiutarvi a crescere ancora in questa unità profonda, così che il Collegio
dei cardinali sia come un’orchestra, dove le diversità – espressione della
Chiesa universale – concorrano sempre alla superiore e concorde armonia.
Vorrei lasciarvi un pensiero semplice, che mi sta molto a cuore: un pensiero sulla Chiesa, sul suo mistero, che costituisce per tutti noi - possiamo
dire - la ragione e la passione della vita. Mi lascio aiutare da un’espressione di Romano Guardini, scritta proprio nell’anno in cui i Padri del
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Concilio Vaticano II approvavano la costituzione Lumen Gentium, nel
suo ultimo libro, con una dedica personale anche per me; perciò le parole
di questo libro mi sono particolarmente care. Dice Guardini: La Chiesa
«non è un’istituzione escogitata e costruita a tavolino…, ma una realtà
vivente… Essa vive lungo il corso del tempo, in divenire, come ogni essere vivente, trasformandosi… Eppure nella sua natura rimane sempre la
stessa, e il suo cuore è Cristo». È stata la nostra esperienza, ieri, mi sembra, in piazza: vedere che la Chiesa è un corpo vivo, animato dallo Spirito
Santo e vive realmente dalla forza di Dio. Essa è nel mondo, ma non è
del mondo: è di Dio, di Cristo, dello Spirito. Lo abbiamo visto ieri. Per
questa è vera ed eloquente anche l’altra famosa espressione di Guardini:
«La Chiesa si risveglia nelle anime». La Chiesa vive, cresce e si risveglia
nelle anime, che - come la Vergine Maria - accolgono la Parola di Dio e
la concepiscono per opera dello Spirito Santo; offrono a Dio la propria
carne e, proprio nella loro povertà e umiltà, diventano capaci di generare
Cristo oggi nel mondo. Attraverso la Chiesa, il Mistero dell’Incarnazione
rimane presente per sempre. Cristo continua a camminare attraverso i
tempi e tutti i luoghi.
Rimaniamo uniti, cari fratelli, in questo Mistero: nella preghiera, specialmente nell’Eucaristia quotidiana, e così serviamo la Chiesa e l’intera
umanità. Questa è la nostra gioia, che nessuno ci può togliere.
Prima di salutarvi personalmente, desidero dirvi che continuerò ad esservi vicino con la preghiera, specialmente nei prossimi giorni, affinché
siate pienamente docili all’azione dello Spirito Santo nell’elezione del
nuovo Papa. Che il Signore vi mostri quello che è voluto da Lui. E tra
voi, tra il Collegio cardinalizio, c’è anche il futuro Papa al quale già oggi
prometto la mia incondizionata reverenza ed obbedienza. Per questo, con
affetto e riconoscenza, vi imparto di cuore la benedizione apostolica.
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
10
Ora sono un semplice pellegrino
28 febbraio: il congedo a Castel Gandolfo
Grazie! Grazie a voi! Cari amici, sono felice di essere con voi, circondato
dalla bellezza del creato e dalla vostra simpatia che mi fa molto bene.
Grazie per la vostra amicizia, il vostro affetto. Voi sapete che questo mio
giorno è diverso da quelli precedenti; non sono più Sommo Pontefice
della Chiesa cattolica: fino alle otto di sera lo sarò ancora, poi non più.
Sono semplicemente un pellegrino che inizia l’ultima tappa del suo pellegrinaggio in questa terra. Ma vorrei ancora, con il mio cuore, con il mio
amore, con la mia preghiera, con la mia riflessione, con tutte le mie forze
interiori, lavorare per il bene comune e il bene della Chiesa e dell’umanità. E mi sento molto appoggiato dalla vostra simpatia. Andiamo avanti
insieme con il Signore per il bene della Chiesa e del mondo. Grazie, vi
imparto adesso con tutto il cuore la mia Benedizione.
Ci benedica Dio onnipotente, Padre e Figlio e Spirito Santo. Grazie, buona notte! Grazie a voi tutti!
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
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Guida alla lettura
I pilastri della cattedrale
Nulla per sé tutto per Cristo
CAPITOLO 1
L’eco dell’annuncio
Tutti stretti a Pietro
La guida è Cristo
Cresca il vero Concilio
L’Italia per Benedetto
Il tempo della preghiera
Il popolo di Benedetto
Il professor Ratzinger
Il Conclave all’orizzonte
Verso l’ultimo Angelus
Sotto la finestra di Benedetto
“Pregherò per l’Italia”
“Sul monte della preghiera”
Lo sguardo va oltre
“La croce e voi, per sempre”
Il pellegrino obbediente
Ora la Chiesa attende
In preghiera verso il Conclave
CAPITOLO 2
In dialogo con il mondo
Parole per il XXI secolo
Il volto e le radici
Il linguaggio della bellezza
La memoria e l’identità
La svolta della “Caritas in veritate”
I punti fermi
Uno sguardo più grande
Un cammino di purificazione
Caterina Bua - [email protected] - 09/05/2013
Un cuore solo
Religioni in dialogo
La Chiesa di tutti
Un padre e un maestro
La fede e il rito
La Città di Pietro
Un Paese con lui
Le voci dei continenti
Grazie perché...
Breve dizionario ratzingeriano
CAPITOLO 3
“Necessario il vigore di corpo e animo”
Il Signore non si stanca di bussare alla nostra porta
Le divisioni deturpano il volto della Chiesa
Il vero Vaticano II, via del rinnovamento
Rimettiamo il Signore al centro della nostra vita
Avete portato con me il peso
del ministero petrino
Il Signore mi chiama a salire sul monte
Non mi sono mai sentito solo
La Chiesa è una realtà vivente
Ora sono un semplice pellegrino