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RASSEGNA STAMPA martedì 8 luglio 2014 ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA INTERESSE ASSOCIAZIONE ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO PUBBLICO IL MANIFESTO L’UNITÀ AVVENIRE IL FATTO IL RIFORMISTA PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da Repubblica.it del 07/07/14 Meeting internazionale antirazzista, quest'anno c'è l'"Abbraccio Mediterraneo" Dal 9 al 12 luglio, torna a Cecina Mare (Li) la manifestazione dell'Arci e della Regione Toscana sui temi della lotta al razzismo e a ogni forma di discriminazione. In primo piano, la discussione su diritti e accoglienza e migranti in fuga da guerre e conflitti. Tra gli eventi, il concerto, venerdì 11 luglio, dei Modena City Ramblers FIRENZE - La "questione mediterranea" è al centro della ventesima edizione del Meeting Internazionale Antirazzista (MIA) la manifestazione promossa da Arci e Regione Toscana (con il sostegno di Cesvot, Provincia di Livorno e Comuni di Livorno, Cecina e Rosignano), in programma a Cecina Mare (Li) dal 9 al 12 luglio. Questa ventesima edizione del Meeting, dal titolo Abbraccio Mediterraneo, giunge mentre le coste italiane e del Nord Africa sono ancora volta protagoniste di partenze, sbarchi e tragedie di migranti. Le tre tavole rotonde. La riflessione del MIA 2014 si svilupperà attraverso tre tavole rotonde principali che rispettivamente affronteranno l'analisi delle cause delle migrazioni (Rotte Migranti, giovedì 10 luglio); il confronto sui percorsi di accoglienza e tutela dei diritti nei paesi del Mediterraneo (Mediterranean Civil Society: migrazioni e diritti tra nuove e vecchie democrazie; venerdì 11 luglio); la crescita, anche alla luce dell'esito delle ultime elezioni, di movimenti e partiti xenofobi e razzisti in Europa (Il continente minacciato: l'Europa e il successo dei movimenti xenofobi; sabato 12 luglio). Gli ospiti. Tra gli ospiti ci saranno esponenti di organizzazioni e reti per la tutela dei diritti dei migranti provenienti dai Paesi della sponda sud del Mediterraneo, come Libia, Libano, Marocco, Tunisia: Alaa Talbi (Forum tunisino per i diritti economici e sociali), Farah Salka (Anti-Racism Movement, Libano), Khadija Beseikri (Associazione libica Amzonat). Attesa anche la partecipazione del Presidente della Regione Toscana Enrico Rossi e della neo presidente nazionale dell'Arci Francesca Chiavacci. I luoghi del MIA. Anche quest'anno e dopo aver lasciato l'area della Cecinella, il Meeting si svolgerà nel centro di Cecina Marina. Fulcro delle attività sarà il tendone allestito davanti al Circolo Arci II Risorgimento in piazza Sant'Andrea; gli incontri e le tavole rotonde saranno ospitati presso Villa Ginori in via Ginori 100; i concerti si terranno invece sul palco centrale di Largo Cairoli. I Concerti. Due gli appuntamenti con i grandi eventi, a ingresso gratuito, per questo MIA 2014. In Largo Cairoli, dalle 22, giovedì 10 luglio le sonorità inter-etniche di Baro Drom Orkestar e Zastava Orkestar, mentre venerdì 11 luglio giungeranno (anch'essi con venti anni di carriera alle spalle) i Modena City Ramblers. La Formazione. Anche quest'anno il MIA è luogo di formazione per operatori dell'immigrazione. Si terranno alcune delle lezioni di Unida, l'Università d'Estate sul diritto d'asilo, che per la prima volta si presenta itinerante e si svolgerà in diverse città italiane. I Laboratori. Tre le occasioni per attività laboratoriali. In particolare, il Meeting 2014 si caratterizza per la collaborazione con Comics4=, il premio per il miglior fumetto di autore con origine migrante. Il 10 e l'11 luglio si terrà Comics for Equality, laboratorio di fumetti Antirazzisti, curato da Pierluca Galvan e Sara Bruni. 2 http://www.repubblica.it/solidarieta/diritti-umani/2014/07/07/news/meeting_antirazzista90943977/ Da Ansa del 07/07/14 Immigrazione: al centro Meeting antirazzista Arci a Cecina In Toscana dal 9 al 12 luglio ROMA (ANSA) - ROMA, 7 LUG - Il titolo è evocativo:'Abbraccio Mediterraneo'. Saranno infatti i diritti e l'accoglienza dei migranti in fuga da guerre e conflitti i temi della ventesima edizione del Meeting Internazionale Antirazzista, la manifestazione promossa da Arci e Regione Toscana, in programma a Cecina Mare (Li) dal 9 al 12 luglio prossimi. Dunque sarà affrontata la 'questione mediterranea' mentre le coste italiane e del Nord Africa sono ancora volta protagoniste di partenze, sbarchi e tragedie di migranti. La riflessione si svilupperà attraverso tre tavole rotonde che rispettivamente affronteranno l'analisi delle cause delle migrazioni (Rotte Migranti, giovedì 10 luglio); il confronto sui percorsi di accoglienza e tutela dei diritti nei paesi del Mediterraneo (Mediterranean Civil Society: migrazioni e diritti tra nuove e vecchie democrazie; venerdì 11 luglio); la crescita, anche alla luce dell'esito delle ultime elezioni, di movimenti e partiti xenofobi e razzisti in Europa (Il continente minacciato: l'Europa e il successo dei movimenti xenofobi; sabato 12 luglio). Tra gli ospiti ci saranno esponenti di organizzazioni e reti per la tutela dei diritti dei migranti provenienti dai Paesi della sponda sud del Mediterraneo, come Libia, Libano, Marocco, Tunisia. Poi, come tradizione, concerti, corsi di formazione per operatori dell'immigrazione e laboratori creativi.(ANSA). Da Radio Articolo 1 del 08/07/14 Work in news Con M. Alicino, CdL Bat; A. Cannata, Arci Toscana; C. Pecchioli, Cgil Lombardia - See more at: http://www.radioarticolo1.it/jackets/cerca.cfm?str=work+in+news&contenuto=audio#sthash .n0No751T.dpuf Da And Kronos del 07/07/14 Rapporto diritti, quadro drammatico, si rischia catastrofe globale Più che di crisi, si rischia ormai di dover parlare di catastrofe globale. Dopo sei anni, infatti, tutti gli indicatori economici e sociali rivelano un quadro drammatico e univoco. In Europa le persone che hanno perduto il lavoro sono cresciute di 10 milioni, portando a 27 milioni il totale di disoccupati. E' quanto emerge dal rapporto sui diritti globali 2014 'Dopo la crisi, la crisi', edito da Ediesse, che verrà presentato a Roma domani, alle 11, nella sala Simone Weil della Cgil nazionale, in corso d’Italia 25. Il Rapporto è a cura di Associazione Società Informazione Onlus, promosso da Cgil con la partecipazione di ActionAid, Antigone, Arci, 3 Cnca, Fondazione Basso-Sezione Internazionale, Forum Ambientalista, Gruppo Abele e Legambiente. Per il quinto anno consecutivo, l’occupazione è in calo nel continente. I nuovi poveri sono cresciuti di 13 milioni di unità. Nell’Europa a 28 Paesi, nel 2012, le persone già povere e quelle a rischio di esclusione erano ben 124 milioni, poco meno di una ogni quattro, con una crescita di 2 milioni e mezzo rispetto all’anno precedente. Nel suo piccolo, l’Italia contribuisce significativamente a questa mappa della privazione: il numero di quanti vivono in condizioni di povertà assoluta è esattamente raddoppiato tra il 2007 e il 2012, passando da 2 milioni e 400 mila a 4 milioni e 800 mila, l’8% della popolazione. Il tasso di occupazione nel 2013 è tornato ai livelli del 2002: 59,8%; all’inizio della crisi, nel 2008, era al 63%. Peggio stanno solo i greci (con il 53,2%), i croati (53,9%) e gli spagnoli (58,2%). Tra il 2012 e il 2013 sono stati persi 424 mila posti di lavoro. Secondo il Rapporto, "dall’inizio della crisi hanno perso il lavoro oltre 980 mila persone". "Il tasso di disoccupazione tra i giovani dai 15 ai 24 anni è arrivato al 42,4%. Muoiono le piccole imprese: dal 2008 ne sono scomparse 134 mila. E muoiono le persone: per quanto sia difficile stabilire nessi causali univoci e certi, alcuni studi indicano in 149 le persone che si sarebbero tolte la vita per motivazioni economiche nel 2013, quasi il doppio rispetto agli 89 casi dell’anno precedente", si sottolinea. Numeri moltiplicati e non meno tragici sul panorama mondiale: nel 2013 i disoccupati erano 202 milioni. Lievita anche il fenomeno dei lavoratori poveri: sono 200 milioni e sopravvivono in media con meno di due dollari al giorno. "Questo stato di catastrofe - umanitaria, non solo economica - non è una realtà inevitabile - spiega il Rapporto - bensì il risultato di scelte politiche precise. Nessun serio investimento è stato fatto per promuovere l’occupazione e sostenere il lavoro. La rotta non è stata invertita e nemmeno corretta. Anzi. Le politiche della Banca centrale, del Fondo monetario internazionale e della Commissione europea, la famigerata Troika hanno portato allo stremo i lavoratori e i ceti medi nel paesi destinatari dei programmi di assistenza finanziaria, Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna, Romania". Complice la crisi, è in atto, secondo il Rapporto, "l’intensificazione di una 'lotta di classe dall’alto', una resa dei conti totale con i sistemi democratici e di welfare, per come sono stati edificati nella seconda metà del secolo scorso, a partire dal modello sociale europeo". "Sono potenti le spinte in direzione della privatizzazione dei servizi di protezione sociale in Europa, un potenziale mercato di 3.800 miliardi di euro l’anno, vale a dire ben il 25 del Pil, verso il quale si stanno indirizzando gli incontenibili appetiti dei gruppi finanziari e delle multinazionali", sottolinea. "Le alternative -spiega il Rapporto- invece sono possibili, oltre che necessarie. Ma non possono che sortire dal basso, dalle forze vive del lavoro, della società, dei popoli. Per contrastare quel 'colpo di Stato', difendendo la democrazia, ricucendo la profonda ferita delle diseguaglianze, ristabilendo equità e giustizia sociale. Globalizzando i diritti". http://www.adnkronos.com/soldi/lavoro/2014/07/07/rapporto-diritti-quadro-drammaticorischia-catastrofe-globale_wzB1HPMr9fC4G5SDQIBLSK.html Da Redattore Sociale del 08/07/14 Povertà, il 78 per cento degli italiani taglia la spesa per il pane Rapporto diritti globali. Cibo e casa indicatori principali dell’impoverimento delle famiglie, i cui redditi hanno subito un duro 4 colpo. “Nessuna inversione di tendenza rispetto a Monti, solo qualche misura tampone, come la criticatissima social card” ROMA - Scendono i redditi delle famiglie italiane e comprare anche solo il pane rappresenta un lusso per moltissimi cittadini. A sei anni dall’inizio della recessione l’Italia non è ancor uscita dalla crisi, cresce invece, il tasso di povertà in quasi tutte le aree da nord a sud. A descrivere lo stato di disagio nel nostro paese è il Rapporto sui diritti globali 2014, realizzato dall’Associazione società informazione onlus e promosso da Cgil con la partecipazione di ActionAid, Antigone, Arci, Cnca, Fondazione Basso-Sezione Internazionale, Forum ambientalista, Gruppo Abele e Legambiente. Nello studio, presentato oggi a Roma, si sottolinea in particolare che i redditi degli italiani hanno subito un duro colpo negli ultimi anni, un andamento non smentito neanche nel 2012. Secondo la Banca d’Italia, tra il 2010 e il 2012 il reddito familiare medio è sceso in termini nominali del 7,3 per cento, quello equivalente del 6 per cento e la ricchezza media è diminuita del 6,9 per cento. Un quinto delle famiglie italiane ha un reddito netto annuale inferiore a 14.457 euro, circa 1.200 euro al mese, mentre cresce la disuguaglianza: il 10 per cento delle famiglie con il reddito più basso percepisce, infatti il 2,4 per cento del totale dei redditi, mentre il 10 per cento dei nuclei con redditi più alti percepisce il 26,3 per cento del totale. Stesso trend anche per la ricchezza: il 10 per cento delle famiglie più abbienti possiede il 46,6 per cento della ricchezza netta familiare totale, un punto percentuale più del 2010. Da fonte Istat, nel 2012 il reddito disponibile delle famiglie italiane diminuisce dell’1,9 per cento rispetto all’anno precedente. Le povertà aumentano, soprattutto per operai, giovani, genitori e cittadini del Sud. Nel 2012 la povertà relativa – la cui soglia è attestata per il 2012 su 990,88 euro (-2 per cento rispetto al 2011) – è del 12,7 per cento per i nuclei familiari (oscillante tra il 12,1% e il 13,3%), era dell’11,1 per cento nel 2011 ( +1,6 per cento e del 15,8 per cento per quanto attiene agli individui). Si tratta di 3 milioni e 232 mila famiglie e di 9,5 milioni di persone. Secondo il rapporto “nessuna area del paese si salva e sono le famiglie più numerose e soprattutto con figli minori quelle più esposte”. Il problema riguarda i più giovani, gli anziani e i lavoratori dipendenti. Si registrano, poi, cifre record per chi un lavoro non ce l’ha: le famiglie senza occupati o ritirati dal lavoro sono povere nel 49,1% dei casi, e quelle con ritirati dal lavoro e persone alla ricerca di occupazione, nel 36,9%. La povertà assoluta tocca 1.725.000 famiglie (il 6,8 per cento) e 4.814.000 persone (l’8 per cento), con un aumento sul 2011 dell'1,6 per cento per le famiglie e +2,3 per cento tra gli individui. Il 50 per cento dei poveri assoluti vive al Sud, ben 2.347.000 a fronte dei 1.828.000 del 2011. Ed essere lavoratori non protegge dal rischio: gli operai, soprattutto, sono esposti nel 9,4 per cento dei casi, con ben due punti percentuali in più del 2011, e uno stacco sensibile da impiegati e dirigenti (il 2,6 per cento, +1,3 per cento). Il cibo e la casa: due indicatori di impoverimento dalle cifre allarmanti. Il rapporto sottolinea che diminuisce la spesa delle famiglie per il cibo: a fronte di una spesa media mensile per famiglia di 2.419 euro, diminuita del 2,8 per cento rispetto al 2011 (fonte Istat), la spesa alimentare passa dai 477 euro in media del 2011 ai 468. Le famiglie numerose, in particolare, investono in cibo un quinto dei loro fondi, e va in cibo il 21,1 per cento del salario di un operaio, il 20 per cento del reddito di un pensionato. “La Coldiretti evidenzia come il 78 per cento degli italiani abbia tagliato la spesa per il pane, anche perché il prezzo del pane è aumentato, a volte anche raddoppiato. Anche un’analisi della Coop dice che la spesa per i generi alimentari è attestata nel 2013 a 2.400 euro circa pro capite, un valore da anni Sessanta – si legge nel rapporto - il 14 per cento in meno sui valori del 2007. Tra gli indici di grave deprivazione materiale, quello relativo al non potersi permettere un pasto adeguato almeno ogni due giorni sale tra gli italiani dal 12,4 per cento al 16,8 per cento”. Anche i dati forniti dal Piano di distribuzione degli alimenti agli indigenti 5 2013 segnalano che coloro che hanno problemi di alimentazione erano 2,7 milioni nel 2010, sono saliti a 3,3 milioni nel 2011 e hanno raggiunto i 3,7 milioni nel 2012. La casa è un problema soprattutto per giovani, migranti e nuovi poveri. L’abitazione è fonte di disagio economico per molte famiglie: nel 2012 circa il 10 per cento (+2 per cento sul 2010) ha problemi per affitti non pagati o per rate del mutuo cui non si è potuto far fronte, ed è una cifra che arriva a ben il 30 per cento del reddito familiare. La percentuale sale al 37 per cento se si considerano solo le famiglie in affitto, con +6 per cento sul 2010, e +15 per cento rispetto al 2002. Ha arretrati per mutuo, affitto o bollette in media il 13,6 per cento delle famiglie italiane, il 18 per cento al Sud, e soprattutto quando la famiglia è numerosa (23,3 per cento), con componenti giovani (10,5 per cento), con tre o più figli (22,9 per cento, il 32 per cento se minori). Non riesce poi a riscaldare adeguatamente la propria casa il 21,2 per cento. Nel primo semestre 2013 il totale di sfratti richiesti ammonta a 38.869, di cui 34.736, il 90 per cento, per morosità, 75.348 sono le richieste di esecuzione pendenti e 16.520 gli sfratti eseguiti. Il governo Renzi fa ancora troppo poco. “Il giudizio di chi vorrebbe un’inversione di tendenza nella strategia di uscita dalla crisi non è generoso con il governo Letta, poco di più con quello Renzi, i cui Documenti di economia e finanza (Def) vengono visti in sostanziale continuità con quelli dei tecnici del governo di Mario Monti – si legge nel rapporto - Sul piano delle politiche di contrasto alla povertà e di sostegno al reddito si registrano poche novità. Attorno alla spesa sociale continua il braccio di ferro di sempre tra governo da un lato e sindacati e regioni dall’altro”. Due le aree che secondo il rapporto sono al centro della mobilitazione e dello scontro nel 2013: la non autosufficienza e la lotta alla povertà. “La prima registra una parziale vittoria, anche grazie agli ammalati di Sla – continua lo studio - e alle loro famiglie e organizzazioni, che chiedevano 600 milioni di euro per il 2014, 700 per il 2015 per il Fondo per la non autosufficienza, e incassano invece 275 milioni per il 2014, più altri 75 milioni, dedicati all’assistenza domiciliare a persone affette da disabilità gravi e gravissime”. Sul fronte della lotta alla povertà, invece sono molte le proposte e pochi i riscontri. “Restano inattuati un Piano di lotta alla povertà, coerente e organico, e l’istituzione di una misura di reddito minimo – spiega ancora il rapporto - anche se vi sono diverse proposte in questo senso, come il reddito di inclusione sociale attiva, proposto dalle AclI e Caritas o il sostegno di inclusione attiva, messo a punto da una commissione di esperti designata dal governo Letta. Tutto finisce con il decadere del governo di Enrico Letta, e sembra destinato a non decollare nemmeno con quello di Matteo Renzi. Rimane la criticatissima social card: ha una platea più ampia ed è meglio finanziata (810 milioni), ma resta una misura “tampone” in un contesto senza strategia, che raggiunge al massimo 450 mila poveri assoluti, a fronte di un totale di 5 milioni”. Da Redattore Sociale del 08/07/14 Lavoratori poveri cresciuti di 200 milioni: “Catastrofe dei diritti sociali” Rapporto sui diritti globali 2014. In Ue 13 milioni di nuovi poveri (da noi raddoppiati in 6 anni) e 27 milioni di disoccupati. In Italia tra il 2012 e il 2013 persi 424 mila posti. "Le alternative sono possibili, ma non possono che sortire dal basso" ROMA - Più che di crisi, si tratta di una “catastrofe globale” sul fronte dei diritti sociali ed economici: 27 milioni di disoccupati e 13 milioni di nuovi poveri in Europa. E un picco di 6 privazione anche in Italia dove la povertà assoluta è raddoppiata tra il 2007 e il 2012. A fotografare la situazione preoccupante del welfare nostrano e comunitario è il Rapporto sui diritti globali 2014, realizzato dall’Associazione società informazione onlus e promosso da Cgil con la partecipazione di ActionAid, Antigone, Arci, Cnca, Fondazione Basso-Sezione Internazionale, Forum ambientalista, Gruppo Abele e Legambiente. Dieci milioni di disoccupati in più in Europa. Secondo il rapporto negli ultimi sei anni tutti gli indicatori economici e sociali rivelano un quadro drammatico e univoco. In Europa le persone che hanno perso il lavoro sono cresciute di 10 milioni, portando a 27 milioni il totale di disoccupati. Per il quinto anno consecutivo l’occupazione è in calo nel continente. I nuovi poveri sono cresciuti di 13 milioni di unità. Nell’Europa a 28 Paesi, nel 2012, le persone già povere e quelle a rischio di esclusione erano ben 124 milioni, poco meno di una ogni quattro, con una crescita di 2 milioni e mezzo rispetto all’anno precedente. In Italia raddoppia la povertà assoluta. Nel suo piccolo – spiega il rapporto - l’Italia contribuisce significativamente a questa mappa della privazione: il numero di quanti vivono in condizioni di povertà assoluta è esattamente raddoppiato tra il 2007 e il 2012, passando da 2 milioni e 400 mila a 4 milioni e 800 mila, l’8 per cento della popolazione. Il tasso di occupazione nel 2013 è tornato ai livelli del 2002: 59,8 per cento; all’inizio della crisi, nel 2008, era al 63 per cento. Peggio stanno solo i greci (con il 53,2 per cento), i croati (53,9 per cento) e gli spagnoli (58,2 per cento). Tra il 2012 e il 2013 sono stati persi 424 mila posti di lavoro. Dall’inizio della crisi hanno perso il lavoro oltre 980 mila persone. E il tasso di disoccupazione tra i giovani dai 15 ai 24 anni è arrivato al 42,4 per cento. A morire sono anche le piccole imprese: dal 2008 ne sono scomparse 134 mila, e “per quanto sia difficile stabilire nessi causali univoci e certi, alcuni studi indicano in 149 le persone che si sarebbero tolte la vita per motivazioni economiche nel 2013, quasi il doppio rispetto agli 89 casi dell’anno precedente” si legge nel rapporto. Numeri moltiplicati e non meno tragici sul panorama mondiale: nel 2013 i disoccupati erano 202 milioni. Lievita anche il fenomeno dei lavoratori poveri ("working poor"): sono 200 milioni e sopravvivono in media con meno di due dollari al giorno. Questo stato di catastrofe – umanitaria, non solo economica – non è una realtà inevitabile, bensì il risultato di scelte politiche precise. Nessun serio investimento è stato fatto per promuovere l’occupazione e sostenere il lavoro. La rotta non è stata invertita e nemmeno corretta. Anzi. Secondo il rapporto “le politiche della Banca centrale, del Fondo monetario internazionale e della Commissione europea, la famigerata Troika hanno portato allo stremo i lavoratori e i ceti medi nel paesi destinatari dei programmi di assistenza finanziaria, Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna, Romania”. Complice la crisi, è quindi in atto l’intensificazione di una “lotta di classe dall’alto”, una resa dei conti totale con i sistemi democratici e di welfare, per come sono stati edificati nella seconda metà del secolo scorso, a partire dal modello sociale europeo. Sono potenti le spinte in direzione della privatizzazione dei servizi di protezione sociale in Europa, un potenziale mercato di 3.800 miliardi di euro l’anno, vale a dire ben il 25 del Pil, verso il quale si stanno indirizzando gli incontenibili appetiti dei gruppi finanziari e delle multinazionali. “Risulta sempre più evidente il contrasto tra due idee diverse e antagoniste del mondo, la più forte delle quali, fondata sul dogma del libero mercato e sulla religione del profitto, vuole fare una definitiva tabula rasa di tutti i diritti faticosamente acquisiti dalle classi subalterne nel corso della seconda metà del Novecento – si legge nel rapporto -. La crisi globale ha reso maggiormente manifesta l’incapacità di perseguire alternative. Negli ultimi anni a livello mondiale si è assistito alla bancarotta del liberismo. Eppure i responsabili della crisi – grande finanza, corporations e tecnocrazie – hanno stroncato violentemente ogni ripensamento sui paradigmi della crescita infinita e dell’asservimento totale dei viventi alle logiche del profitto, che sono state architrave di quella dottrina fraudolenta. E ora 7 addirittura rilanciano, con quel Transatlantic Trade and Investment Partnership, il trattato commerciale Usa-Ue che incombe sull’Europa”. Eppure - spiegano i promotori del rapporto - le proposte alternative sono da tempo sul tavolo. Ma “non bastano le piattaforme. Per trasformazioni di tale radicalità occorrono la forza politica, il consenso e la cooperazione sociale. Ma anche nuova cornice culturale e valoriale. Un’altra Europa e un’altra globalizzazione, insomma, quella dei cittadini, dei diritti e della solidarietà politica e sociale, ha bisogno di essere pensata e di nascere presto dalle macerie di quella delle monete e dei mercati – sottolineano. Secondo il rapporto, dunque, serve una riconversione ecologica dell’economia che deve soppiantare il castello di carte della finanza speculativa; un deciso investimento sul lavoro stabile e di qualità e su un nuovo welfare che devono contrastare la politica dell’austerità (solo in Grecia sarebbero 2.200 le morti direttamente riconducibili alle politiche del rigore) che sta strangolando economie e stato sociale e a cui l’Unione Europea e i singoli governi si sono inchinati”. “Le alternative sono possibili, oltre che necessarie. Ma non possono che sortire dal basso, dalle forze vive del lavoro, della società, dei popoli. Per contrastare quel “colpo di Stato”, difendendo la democrazia, ricucendo la profonda ferita delle diseguaglianze, ristabilendo equità e giustizia sociale. Globalizzando i diritti”, conclude il rapporto. Da Redattore Sociale del 08/07/14 Il non profit regge alla crisi, ma è ancora poco riconosciuto Rapporto sui diritti globali. Le associazioni di terzo settore crescono in numeri e dimensioni. Una forza produttiva che però nel 66 per cento dei casi è informale. Bene anche il volontariato: le nuove forme di mutualismo si alimentano nel web ROMA – Il non profit resiste all’impatto della recessione e cresce nei numeri e nelle dimensioni, ma resta sostanzialmente ancora informale: nel decennio 2001-2011, che incorpora anche le prime ricadute della crisi, infatti, sui diversi settori produttivi e dei servizi in cui il terzo settore è impegnato, le imprese non profit di tutte le tipologie crescono complessivamente del 28 per cento, e lo fanno in tutto il Paese sebbene con ampiezza diversa (di più al Centro e al Nord): sono 301.191 nel 2011, erano 235.232. Il non profit rappresenta il 6,4 per cento della realtà produttiva del paese, ed è la prima nei settori della cultura e dello sport (con 239 istituzioni non profit su 100 imprese profit) e dell’assistenza sociale (con 361 istituzioni non profit su 100 profit). A sottolinearlo è il Rapporto sui diritti globali 2014 presentato oggi a Roma. Nonostante il settore rappresenti una “potenza” economica e produttiva, si legge nello studio, resta in esso una caratteristica forte di informalità: il 66,7 per cento delle organizzazioni – oltre 200 mila – è di tipo informale, solo il 22,7 per cento ha una forma giuridica riconosciuta, mentre il 3,7 per cento è rappresentato dalla cooperazione sociale e il 2,1 per cento da fondazioni (6.000). In totale, spiega il rapporto, il non profit contribuisce alla produzione complessiva per il 6,4 per cento e al lavoro retribuito per il 3,4 per cento: 680.811 sono i lavoratori dipendenti (11,9%), 270.769 esterni (4,9%) e 5.544 lavoratori temporanei (0,1%). Secondo dati UnionCamere, l’impresa non profit “tiene” egregiamente l’impatto della crisi: guardando a mortalità e natalità delle imprese cooperative, tra il 2009 e il 2013 il saldo è positivo, con un valore massimo di +2,3 per cento nel 2012 e un discreto +1,9 per cento nel 2013, con 7.784 nuove iscrizioni e 4.918 cancellazioni nel Registro delle Imprese. Nel panorama dei settori produttivi, quelli in cui la cooperazione è 8 più presente, servizi in sanità e nel sociale e istruzione (8,6%) sono anche i settori dove non c’è stata flessione negativa, ma tenuta. La cooperazione ha fatto più fatica, tra il 2012 e il 2013: negli ultimi quattro mesi del 2013 il 19,5% delle cooperative prevedeva tagli all’occupazione e non oltre il 15% prevedeva degli aumenti, dati che potrebbero salire, nel 2014, al 20% compensato da solo il 10% di cooperative in grado di assumere. I nodi sono il credito e i tempi dei pagamenti da parte dei committenti, spesso pubblici. Una cooperativa su tre non ha avuto dal credito le risposte che si aspettava, il 17 per cento ha avuto un netto rifiuto e il 14 per cento un prestito inferiore a quello richiesto; un altro 15,4 per cento ha ricevuto una richiesta di rientro e il 31 per cento ha subito un rialzo dello spread, solo un terzo, il 31 per cento, ha una liquidità soddisfacente. Secondo il rapporto, “il volontariato italiano è solido e sta cambiando”. Lo studio sottolinea infatti che esso ha una base forte, sociale e culturale, e tiene alle prove delle fasi alterne dell’economia e della politica, anche se “le sue modalità sono destinate a modificarsi almeno in parte, per esempio con il decollo di una miriade di forme autoorganizzate di neomutualismo a livello micro territoriale, facilitate dall’accesso al web e da una nuova, pervasiva connettività”. Nel decennio 2001-2011 in Italia si registra una crescita complessiva dei volontari, da 3.300.000 a 4.758.000, e delle associazioni che li includono, da 220.000 a oltre 243.000, di cui quelle che operano solo (o in prevalenza) con volontari sono 235.739 (il 78% del totale). L’incremento più imponente in percentuale dei volontari riguarda le fondazioni (ben +277% in 10 anni), e poi le cooperative sociali (+61%) mentre nelle associazioni informali, non riconosciute, crescono del 54%. Cambiano le forme, si sviluppa in anni recenti più l’aspetto neomutualistico, anche spinto dal bisogno dei cittadini di auto-organizzarsi per supplire a carenze del welfare e comunque per migliorare la qualità della vita e della coesione sociale. Le reti del nuovo mutualismo si alimentano tanto della comunicazione micro territoriale, di vicinato, quanto di quella virtuale: la strada e il web formano in molte città italiane un circolo virtuoso. Da il Velino del 08/07/14 ROMA (ore 11) – Presentazione del Rapporto sui diritti globali 2014 “Dopo la crisi, la crisi” a cura di Associazione Società Informazione onlus, promosso da Cgil con la partecipazione di ActionAid, Antigone, Arci, Cnca, Fondazione Basso-Sezione internazionale, Forum ambientalista, Gruppo Abele, Legambiente. Partecipano: Danilo Barbi, segretario nazionale Cgil; Paolo Beni, commissioni Affari sociali e Affari esteri della Camera; Francesca Chiavacci, presidente nazionale Arci; Marco De Ponte, segretario generale ActionAid Italia; Maurizio Gubbiotti, coordinatore nazionale Legambiente; Alessio Scandurra, Antigone; Sergio Segio, curatore del Rapporto, direttore di Associazione Società Informazione; don Armando Zappolini, presidente coordinamento nazionale Comunità di Accoglienza. Interverrà Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti umani del Senato. Presso la sede della Cgil nazionale, Sala Simone Weil, Corso d’Italia 25. Da Rassegna Sindacale del 08/07/14 Un'altra Europa, un'altra globalizzazione Presentato il nuovo Rapporto sui Diritti Globali (Ediesse). "Più che di crisi, ormai, dobbiamo parlare di catastrofe globale: è il risultato di 9 scelte politiche precise". Camusso: purtroppo la luce della ripresa è ancora troppo lontana perché sia visibile di rassegna.it (immagini di Maurizio Minnucci) Se la parola crisi indica lo stato più grave di una malattia dalla quale si può guarire, allora questa parola non va più bene. Dopo sei anni, tutti gli indicatori economici e sociali rivelano un quadro drammatico e univoco di costante peggioramento. Insomma, anziché crisi, sarebbe il caso di definirla catastrofe globale. In Europa le persone che hanno perduto il lavoro sono cresciute di 10 milioni, portando a 27 milioni il totale dei disoccupati. Per il quinto anno consecutivo l’occupazione è in calo nel continente. I nuovi poveri sono cresciuti di 13 milioni. Nell’Europa a 28 paesi, nel 2012, le persone già povere e quelle a rischio di esclusione erano ben 124 milioni, poco meno di una ogni quattro, con una crescita di 2 milioni e mezzo rispetto all’anno precedente. Di tutto questo e di molto altro ancora parla il Rapporto sui diritti globali (Ediesse), giunto alla dodicesima edizione e presentato oggi a Roma nella sede nazionale della Cgil. Macrocapitoli tematici documentano la situazione e delineano possibili prospettive future in questo imponente dossier a cura dell'Associazione Società Informazione Onlus, promosso da Cgil con la partecipazione di ActionAid, Antigone, Arci, Cnca, Fondazione BassoSezione Internazionale, Forum Ambientalista, Gruppo Abele, Legambiente. Come da tradizione, l’analisi e la ricerca sono corredate da cronologie dei fatti, schede tematiche, quadri statistici, un glossario, una bibliografia e una sitografia. Uno strumento fondamentale d’informazione e formazione per quanti operano nella scuola, nei media e nell’informazione, nella politica, nelle amministrazioni pubbliche, nel mondo del lavoro, nelle professioni sociali, nelle associazioni. Nel suo piccolo, l’Italia contribuisce significativamente alla mappa della privazione. Il numero di quanti vivono in condizioni di povertà assoluta è raddoppiato tra il 2007 e il 2012, arrivando all’8% della popolazione. Il tasso di occupazione nel 2013 è tornato ai livelli del 2002, peggio di noi fanno solo greci, croati e spagnoli. Tra il 2012 e il 2013 sono stati persi 424mila posti di lavoro. Dall’inizio della grande recessione oltre 980mila persone hanno perso il loro impiego. Il tasso di disoccupazione tra i giovani dai 15 ai 24 anni è arrivato al 42,4%. Muoiono le piccole imprese: dal 2008 ne sono scomparse 134mila. E muoiono le persone: per quanto sia difficile stabilire nessi causali univoci e certi, alcuni studi indicano in 149 le persone che si sarebbero tolte la vita per motivazioni economiche nel 2013, quasi il doppio rispetto agli 89 casi dell’anno precedente. Numeri moltiplicati e non meno tragici sul panorama mondiale. Nel 2013 i disoccupati erano 202 milioni. Lievita anche il fenomeno dei lavoratori poveri: sono 200 milioni e sopravvivono in media con meno di due dollari al giorno. "Questo stato di catastrofe umanitaria, non solo economica - si legge nel dossier - non è una realtà inevitabile, bensì il risultato di scelte politiche precise. Nessun serio investimento è stato fatto per promuovere l’occupazione e sostenere il lavoro. La rotta non è stata invertita e nemmeno corretta. Anzi. Le politiche della Banca Centrale, del Fondo Monetario Internazionale e della Commissione Europea, la famigerata Troika hanno portato allo stremo i lavoratori e i ceti medi nel paesi destinatari dei programmi di assistenza finanziaria, Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna, Romania". Le alternative sono da tempo sul tavolo. Certo, non bastano le piattaforme. Per trasformazioni di tale radicalità - è una delle idee lanciate dal Rapporto - occorrono la forza politica, il consenso e la cooperazione sociale. Ma, per determinarne le precondizioni, prima di tutto bisogna definire una nuova cornice culturale e valoriale. Un’altra Europa e un’altra globalizzazione, insomma, quella dei cittadini, dei diritti e della solidarietà politica e sociale, ha bisogno di essere pensata e di nascere presto dalle macerie di quella delle 10 monete e dei mercati. Una riconversione ecologica dell’economia deve soppiantare il castello di carte della finanza speculativa, che da tempo detta le agende ai governi e che vorrebbe ora addirittura forzare e svuotare le Costituzioni antifasciste europee. Un deciso investimento sul lavoro stabile e di qualità e su un nuovo welfare deve spodestare la mortifera politica dell’austerità (solo in Grecia sarebbero 2.200 le morti direttamente riconducibili alle politiche del rigore) che sta strangolando economie e stato sociale e a cui l’Unione Europea e i singoli governi si sono inchinati. Come afferma nel Rapporto Luciano Gallino, "i Parlamenti hanno sbattuto i tacchi e hanno votato alla cieca perché ce lo chiedeva l’Europa. Non esistono alternative, ci è stato detto. Questa espressione è un corollario del colpo di Stato in atto". Le alternative invece sono possibili, oltre che necessarie. Ma non possono che sortire dal basso, dalle forze vive del lavoro, della società, dei popoli. Per contrastare quel “colpo di Stato”, difendendo la democrazia, ricucendo la profonda ferita delle diseguaglianze, ristabilendo equità e giustizia sociale. Globalizzando i diritti. "Il settimo anno della crisi economica che ha investito l’economia mondiale - osserva nella prefazione il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso - ci pone di fronte a un fallimento ormai evidente a tutti: la profonda recessione determinata dalle politiche economiche di stampo liberista, diventate vera e propria ideologia, che si sono dimostrate incapaci di prospettare una qualsivoglia uscita dalle loro stesse contraddizioni. La luce in fondo al tunnel, che in tanti cercano di vedere dietro percentuali di crescita del Prodotto interno lordo dello zero virgola, è, per il momento, un semplice abbaglio. Purtroppo la luce della ripresa è ancora troppo lontana perché sia visibile". http://www.rassegna.it/articoli/2014/07/07/113051/unaltra-europa-unaltra-globalizzazione 11 ESTERI del 08/07/14, ag. 8 A Gaza escalation dal cielo Verso una nuova offensiva israeliana. Dopo 24 ore di attacchi ieri sera l’escalation Michele Giorgio E’ in atto una guerra di nervi parallela a quella combattuta con le armi che ieri ha visto a Gaza il più alto numero di vittime palestinesi di un attacco aereo israeliano dal novembre 2012 e in Israele riecheggiare le sirene di allarme nelle città meridionali per il lancio di razzi palestinesi che ad Ashdod hanno fatto un ferito. A Gaza che la scorsa notte attendeva una nuova offensiva aerea israeliana dopo i pesanti raid della sera, si sta giocando anche una partita che va oltre la spirale di attacchi e rappresaglie vista in questi ultimi giorni. Ieri mentre si svolgevano i funerali dei nove militanti armati di Hamas e del Jihad Islami, uccisi qualche ora prima a Rafah dal violento bombardamento aereo israeliano di domenica notte (che ha causato il ferimento anche di civili tra i quali due bambini e due ragazzine), e i gruppi armati palestinesi indirizzavano per rappresaglia decine di colpi di mortaio e razzi verso il territorio israeliano, la leadership del movimento islamico formulava una richiesta ad alto rischio. Se Israele vuole ripristinare la tregua (hudna) raggiunta dalle due parti il 21 novembre 2012, deve liberare gli 800 palestinesi (secondo i calcoli di Hamas), arrestati a partire dal 12 giugno, in seguito al rapimento dei tre ragazzi ebrei in Cisgiordania. L’approccio “morbido” (si fa per dire) adottato sino a due giorni fa dal premier israeliano Netanyahu nei confronti di Gaza – che ha fatto infuriare il ministro degli esteri Lieberman — fa intravedere al movimento islamista un imprevisto spazio di manovra politica. Tuttavia Hamas con la sua richiesta potrebbe fare proprio il gioco dell’ultradestra nel governo Netanyahu e accorciare i tempi di un massiccio attacco israeliano alla Striscia. Ieri la riunione d’emergenza del gabinetto di sicurezza si è chiusa con la decisione di aumentare “gradualmente” i raid aerei su Gaza, finchè prosegue il lancio di razzi, e il richiamo di 1.500 riservisti anche se non una operazione di terra. Non c’è da stare allegri per i civili. Lungo le linee di demarcazione tra Gaza e Israele la guerra può solo farsi più intesa nei prossimi giorni. Hamas in ogni caso è costretto a giocare ogni carta a sua disposizione, ci spiega Aziz Kahlout, un giornalista di Gaza, «per rompere l’isolamento politico e diplomatico in cui si trova, a causa anche del fallimento del governo di consenso nazionale palestinese nato ai primi di giugno. (Il presidente) Abu Mazen – aggiunge Khalout — aveva fatto delle promesse, come l’apertura del valico di Rafah, ma non le ha mantenute e nessuno sa se, quando e come saranno pagati i 40 mila impiegati dei ministeri del disciolto governo islamico (al potere a Gaza dal 2007 al mese scorso, ndr). Senza dimenticare che la sicurezza palestinese ha contribuito nelle scorse settimane alla campagna israeliana di arresti contro Hamas (in Cisgiordania)». I dirigenti del movimento islamista vogliono la mediazione dell’Egitto per fermare la nuova guerra, aggiunge Kahlout, convinti che questo porterebbe anche alla ripresa dei rapporti tra Hamas e il Cairo, interrotti dopo il colpo di stato dei militari contro il presidente Mohammed Morsi. L’Egitto post-golpe non ha alcuna intenzione di dialogare con Hamas, che considera una “organizzazione terroristica”, ma non può rimanere indifferente alle sofferenze della popolazione di Gaza. E su questo puntano i leader del movimento islamico. Ieri il ministero degli esteri egiziano ha condannato i raid aerei di Israele e ha chiesto un stop degli “attacchi vendicativi” e della “punizione collettiva”. 12 La tensione avvolge anche la Cisgiordania e le aree a maggioranza palestinese all’interno di Israele. Manifestazioni, proteste e scontri si ripetono da giorni. Esercito e la polizia di Israele usano il pugno di ferro. Hebron, Yatta, Tulkarem, Ram e tante altre località si sono trasformate in campi di battaglia con parecchi feriti. Lo sdegno per la brutale uccisione di Mohammed Abu Khdeir non si è placato dopo l’arresto di sei israeliani di Beit Shemesh, Gerusalemme e della colonia di Adam accusati di aver rapito e bruciato vivo il ragazzo palestinese, per vendicare l’omicidio in Cisgiordania dei tre ragazzi ebrei. Tre degli accusati hanno ammesso il delitto e ricostruito la dinamica dell’assassinio. Si è anche saputo che il giorno prima avevano cercato di rapire un bambino palestinese di 9 anni, salvato dalla madre. L’assassinio di Mohammed Abu Khdeir, il pestaggio di suo cugino 15enne Tareq da parte della polizia ripreso in un video che ha fatto il giro del mondo e, naturalmente, la guerra non ancora dichiarata da Netanyahu a Gaza, stanno spaccando la destra israeliana. Il leader ultranazionalista e ministro degli esteri Lieberman ieri ha annunciato la rottura della sua alleanza tra il suo partito Yisrael Beitenu con il Likud di Netanyahu, in polemica con la linea prudente, almeno se paragonata a quella del passato, del primo ministro verso Gaza. E’ ben noto il mal di pancia del leader di Casa Ebraica, Naftali Bennet, ministro dell’economia e alfiere della colonizzazione dei Territori occupati. E ampi settori dell’opinione pubblica israeliana mal digeriscono le dichiarazioni di alcuni leader politici, sincere o dettate da ragioni di opportunità politica. Netanyahu ieri ha espresso a Hussein Abu Khdeir, padre del ragazzo palestinese ucciso, «lo shock di Israele per l’omicidio». Nello Stato di Israele «non c’e’ differenza fra sangue e sangue», hanno scritto in un intervento sulla prima pagina di Yediot Ahronot il presidente uscente Shimon Peres e il suo successore Reuven Rivlin. A coloro che, ai vertici dello Stato, mettono sullo stesso piano l’assassinio per vendetta del ragazzino palestinese Mohammed e gli attentati in cui rimangono uccisi cittadini ebrei, ha risposto infuriato Meir Indor, dell’Associazione Almagor delle Vittime del Terrorismo in una lettera inviata a parlamentari, ministri e alla procura dello Stato per affermare che il paragone è improponibile. Per Indor il terrorismo degli israeliani è meno grave di quello degli arabi. Del 08/07/2014, pag. 1-15 IL CASO Israele e l’orrore dei ragazzi assassini GAD LERNER A ISRAELE, per fortuna, non basta consolarsi additando la barbarie praticata dal nemico per trovare giustificazione alla barbarie perpetrata dai suoi figli. La ricerca di alibi morali, o magari di attenuanti, cede il posto a un profondo turbamento interiore. OGGI Israele deve guardarli in faccia, questi suoi figli che per vendetta hanno afferrato un coetaneo palestinese di 16 anni, Mohammad Abu Khdeir, e lo hanno bruciato vivo in un bosco di Gerusalemme. Li guarda in faccia e li riconosce perché gli sono ben noti, familiari. Magari finora se ne vergognava un po’, ma liquidava la loro esuberanza come teppismo generazionale proletario. Sono i ragazzi di stadio della curva scalmanata del Beitar, organizzati come ultràs in un raggruppamento dal nome sefardita, “La Familia”, scelto in contrapposizione linguistica all’élite tradizionalmente ashkenazita dello Stato. Anche il premier Netanyahu tifa per il Beitar, il che naturalmente non significa nulla, se non che il sabato sugli spalti udiva spesso lo slogan “morte agli arabi” rivolto contro i calciatori arabo-israeliani; così come udiva le irrisioni blasfeme della fede musulmana. 13 Di fronte al baratro della perdizione e del disonore, Netanyahu agisce da politico responsabile di uno Stato di diritto. Parla di «atto ripugnante», telefona le sue condoglianze al padre di Mohammad, assicura che «nella società israeliana non c’è spazio per gli assassini, ebrei o arabi». Lo avevano preceduto, con parole nobilissime, i genitori in lutto per la morte di Eyal, Gilad e Naftali. Loro certamente si sono immedesimati nella sofferenza di una famiglia che non possono sentire nemica. Ma per poter sperare che l’orrore degli adolescenti ammazzati a casaccio rimanga un episodio circoscritto, sarà inevitabile un’autocoscienza collettiva delle società che tanto odio hanno generato. E qui viene il difficile. Estrema e degenere, ma è la filiazione di una storia importante la vendetta che si è consumata all’alba di mercoledì 2 luglio in un bosco di Gerusalemme. Ha rilevato i codici di un fascismo-razzismo che pensavamo rinchiuso negli stadi di calcio, proprio come, vent’anni fa, le belve della guerra etnica dell’ex Jugoslavia si forgiarono nelle tifoserie organizzate. Naturalmente il fascismorazzismo in Israele ha altri luoghi d’aggregazione. La componente ultràs ne rappresenta solo un orpello simbolico, tipico del linguaggio giovanile universale. Non a caso, però, il suo retroterra culturale porta lo stesso nome della squadra di calcio giallo-nera di Gerusalemme. Beitar è il movimento del cosiddetto “sionismo revisionista” fondato nel 1923 da Zeev Jabotinsky, in contrapposizione al sionismo ufficiale accusato di sinistrismo filo-socialista e di eccessiva moderazione. Dal Beitar nascerà il Likud, cioè l’attuale destra israeliana, oggi affiancata (e insidiata) da nuovi movimenti messianici e etnicisti. In forma laica o religiosa, l’ideologia postulata da costoro snatura il significato biblico di terra promessa. Per la precisione, idolatrano la terra e ne rivendicano la proprietà. L’esatto contrario di quanto è scritto nel Levitico 25-23: “…Mia è la terra, perché voi siete forestieri e residenti provvisori presso di Me”. Un Dio che si è fatto annunciare da patriarchi ebrei senza fissa dimora, eternamente stranieri anche nella terra promessa, viene strumentalizzato come fonte del diritto in base a cui negare legittimità alla residenza dei palestinesi. Questo naturalmente non basta a spiegare la predicazione dell’odio trasformatasi in azione violenta già prima che il delitto di Hebron sollecitasse pulsioni di vendetta. L’organizzazione “Price Tag” votata a seminare il terrore fra i palestinesi con centinaia di agguati ai civili e alle loro proprietà è attiva da qualche anno, senza che le forze di sicurezza israeliane agissero efficacemente per smantellarla. A legittimarla non è stato solo il fanatismo religioso, ma anche l’affermarsi di una diversa forma di razzismo: l’islamofobia. L’idea, cioè, che gli arabi, ormai quasi tutti musulmani, per loro stessa natura siano inaffidabili e irriducibili. Solo la forza può tenerli a bada, non intendono altro linguaggio. Poco importa chiedersi le ragioni del loro agire, tanto meno intenerirsi per la loro sofferenza. Bisogna solo combatterli. Allontanarli a meno che accettino di sottomettersi. Va rilevato come questi argomenti riavvicinino la componente ebraica che li propugna alle destre europee che nel frattempo, dopo la Shoah, hanno per lo più ripudiato il loro tradizionale antisemitismo. Anzi, di Israele ammirano proprio l’inflessibilità con cui esercita il suo diritto alla sicurezza e disconosce l’interlocutore palestinese. “Beitar puro per sempre”, avevano scritto su uno striscione gli ultràs di “La Familia” l’anno scorso, quando la loro squadra voleva ingaggiare due calciatori musulmani. La ebbero vinta, in un paese in cui la stessa nozione di purezza razziale dovrebbe far correre tuttora brividi lungo la schiena. Si tratta di quel medesimo gusto per la violazione di un tabù che spinge molti politici della destra israeliana a accusare di nazismo gli avversari. Ma che ha suscitato enorme scalpore quando è stato lo scrittore Amos Oz a paragonare ai “neonazisti europei” gli estremisti che aggrediscono gli arabi o imbrattano di scritte odiose chiese e moschee. C’è chi sostiene amaramente che la ricomparsa di Hitler nel dibattito pubblico, sia pure come estrema provocazione, rappresenti una sua vittoria postuma. Anche quando (succede spesso) sono gli oltranzisti ebrei a definire nazisti Hamas o gli 14 Hezbollah. Temo invece che si tratti di qualcosa di più semplice e feroce al tempo stesso, nascosto chissà dove nella natura umana: l’odio inebriante che può sospingere un ragazzo a cospargere di benzina un suo coetaneo e dargli fuoco, pensando di trarre sollievo dall’annientamento di un corpo indifeso eletto a simbolo del nemico. Il grande storico del fascismo e del pensiero reazionario Zeev Sternhell, vincitore del premio Israele, ha denunciato un cambiamento verificatosi addirittura nella “psicologia della nazione”. La stessa idea di pace si è deformata fino a concepirla possibile solo quando gli arabi accettino il proprio status di inferiorità. I ragazzi ebrei assassini dello stadio di Gerusalemme ne sono una terribile espressione. Del 08/07/2014, pag. 14 l reportage. Un paese sotto shock dopo la confessione degli assassini del giovane palestinese bruciato vivo Da Gaza una pioggia di missili: 100 lanci in poche ore I “ragazzi delle colline” cresciuti nell’odio ora Israele si spacca sul nemico di dentro DAL NOSTRO CORRISPONDENTE FABIO SCUTO GERUSALEMME ISRAELE scopre oggi di avere un pericoloso nemico interno, i nazionalisti religiosi, gli ultrà delle colonie e gli “Hilltop Youth”, i ragazzi delle colline scesi per portare la vendetta fino a Gerusalemme, nel cuore della Terrasanta. Il nemico esterno, Hamas ha sparato più di cento missili in un solo giorno da Gaza su tutto il sud di Israele, mentre si incendiano le città “arabe” del nord e vacilla sotto i colpi della protesta il governo del premier Benjamin Netanyahu. Israele affronta in questi giorni la crisi più complessa e lacerante degli ultimi anni, il nemico dell’Israele laico e democratico non è solo alle frontiere, ma vive a Kiryat Arba, Yitzhar, Sussia, Adam e Beit Yattir. Le colonie un tempo “coccolate” da tutti i politici si stanno rivelando la fucina dell’anti-Stato. Con l’arresto dei sei giovani estremisti ebrei coinvolti nell’omicidio del ragazzo palestinese bruciato, Israele è adesso consapevole del crescente pericolo rappresentato da gruppi più o meno organizzati ma uniti da una violenta ideologia anti-araba. La confessione di tre dei giovani killer è arrivata in un’altra giornata segnata da violenze, specie sul fronte volatile della Striscia di Gaza. Se non cesserà il lancio dei missili, Israele è pronto all’escalation militare ed è ciò che Hamas — isolato e all’angolo senza più “padrini” stranieri — alla fine desidera. «L’omicidio diabolico di Mohammad è l’incubo dello Shin Bet (il servizio segreto interno), uno scenario in cui il conflitto israelo-palestinese si trasforma in contri inter-etnici tra le due comunità, guidati dalla legge biblica del taglione», ha scritto nel suo editoriale Maariv , esprimendo le paure e timori che sia stata imboccata una pericolosa deriva. Ne è ben consapevole il premier Benjamin Netanyahu che ribadisce «che il terrorismo dei nazionalisti ebrei non è differente da quello degli islamisti» e che ieri mattina ha chiamato al telefono il padre del ragazzo arabo assassinato per porgergli le condola glianze e la promessa che gli assassini del figlio «saranno duramente giudicati». Il pericolo del dilagare di queste violente ha spinto ieri i due presidenti d’Israele — l’uscente Shimon 15 Peres e il nuovo eletto Reuven Rivlin — a lanciare un appello congiunto per porre fine alle violenze e ad avere fiducia nella capacità di vivere insieme. All’appello alla pacificazione hanno risposto anche le famiglie dei ragazzi uccisi nei due drammi che si sono consumati in queste settimane, il rapimento e l’uccisione dei tre seminaristi ebrei e l’orrenda vendetta consumata sul ragazzino palestinese. Le famiglie potrebbero presto incontrarsi in una visita di rispettive condoglianze. In questo senso si sono accordati lo zio di Naftali Fraenkel, uno dei tre ragazzi, ed Hussein, padre di Mohammad, che si sono parlati direttamente al telefono durante una visita del sindaco di Gerusalemme, Nir Barkat, alla famiglia Fraenkel. Diversi gruppi di estremisti ebrei sono stati individuati dallo Shin Bet, quelli che gravitano attorno alla squadra dei Beitar Jerusalem tristemente famosi per il loro razzismo anti-arabo noti col nome di “La Familia” (sul website ufficiale ci sono 13 mila adesioni) e un’altra denominata “Lehava”, che invece agisce nelle spedizioni punitive contro negozi e commercianti arabi. La sicurezza israeliana — la popolazione di Israele — sta scoprendo quel mondo oscuro legato alla destra nazionalistareligiosa, delle yeshiva nei Territori occupati guidate da rabbini oltranzisti, degli insediamenti dove l’impasto fra la dottrina ultra ortodossa e il nazionalismo esasperato hanno creato un mix esplosivo che si fa guidare solo dalla “halachà”, la legge religiosa che è sempre superiore a quella dello Stato. E in questa visione messianica e razzista non c’è posto per gli arabi. Alcuni gruppi sono specializzati nelle rappresaglie di solito firmate “Mehir Tag” (il prezzo, in ebraico) e per questo chiamate “Price Tag Gangs” o gli “Hilltop Youth”, i ragazzi delle colline. Sono giovani, giovanissimi e prendono ispirazione da ben noti rabbini come Itzhak Ginzburg, Itzhak Shapira e Drov Lior di Hebron, le cui teorie e predicazioni sono apertamente razziste. Con maligna apatia il mondo della politica ha finora girato il volto da un’altra parte. del 08/07/14, pag. 1/9 La questione israeliana Gian Paolo Calchi Novati Per spezzare l’«arco della guerra» in Medio Oriente potrebbe essere venuto il momento di atti o fatti metapolitici. Se l’esperienza ha un senso, si deve pur prendere atto che il conflitto ha ormai un secolo di vita. Anche il «califfo» che capeggia l’offensiva jihadista fra Iraq e Siria conosce gli accordi Sykes-Picot del 1916. Sono passati 66 anni dalla fondazione dello stato ebraico, 47 dalle occupazioni della guerra dei sei giorni e 21 dall’accordo di Oslo, che in teoria aveva sciolto i nodi essenziali della convivenza fra Israele e Palestina. Non è un caso che l’ultima iniziativa di pace di un certo rilievo sia la preghiera recitata da papa Francesco con i suoi ospiti nei giardini vaticani. Malgrado l’abominio dei due crimini, o proprio per questo, l’assassinio dei tre ragazzi israeliani in Cisgiordania e del ragazzo palestinese a Gerusalemme, se ha rivelato quanto siano forti l’odio e la sete di vendetta, è servito ad aprire gli occhi di molti sull’abisso che sta di fronte a tutti. Una volta si parlava di crisi o guerra «arabo-israeliana». Con l’emergere dell’Olp e soprattutto con l’affermazione della leadership carismatica di Arafat, per anni tenne il campo la «causa palestinese». La novità principale è che il conflitto tende sempre più a configurarsi come una «questione israeliana». Israele ha dalla sua la forza militare, esercita un’ovvia egemonia politica e tiene i territori come ostaggi. L’asimmetria è lampante anche nel diverso ruolo che hanno da una parte gli arabi che vivono in Israele e dall’altra i coloni ebraici dei settlements in quella che dovrebbe essere la Palestina. Con 16 un altro clima, potrebbero essere due testimonials alla pari di una futura convivenza. Al limite, non ci sarebbe bisogno di rimuovere nessuno per ragioni di sicurezza o per rispettare i diritti. Ma fra lo status degli uni e degli altri c’è una sproporzione che nelle condizioni attuali non è colmabile. Se non si ha in mente una realtà plurale – geopolitica, ideologica e morale – in cui non c’è una frontiera divisoria insuperabile, non solo una «linea verde» o un muro ma quel terribile divario astratto fra un Nord percepito come «civiltà» e un Sud retrocesso a «barbarie», si riproduce inevitabilmente un fenomeno di incompatibilità. È così che in Algeria avvenne l’esodo in massa dei pieds-noirs all’atto dell’indipendenza smentendo — proprio i coloni francesi — le ragioni stesse della difesa a oltranza dell’Algérie française. Nell’insieme Israele-Palestina è ancora in palio l’alternativa fra unità o patrie separate che si trascina dai tempi del mandato. A giudicare dai propositi attribuiti al nuovo presidente, da argomento periferico lo stato bi-nazionale è arrivato al vertice del potere di Israele. La politica di Israele si dibatte fra separazione o annessione. Il dilemma non è stato risolto, idealmente e nella pratica, neppure con l’abbandono di Gaza: Sharon si portò dentro quella contraddizione fino al buio dell’invalidità e poi della morte. Israele, Netanyahu dopo Sharon, non si è mai rassegnato alla “perdita” di Gaza, parte integrante, al pari della Giudea e della Samaria, dello spazio fra mito e storia a cui fa riferimento il “ritorno”. La Striscia è trattata come un arto amputato che non si esclude di recuperare. Non si spiega altrimenti il riflesso condizionato che ha determinato due guerre e che ispira la tentazione ricorrente di “intervenire” per domare il “regno” di Hamas. I razzi lanciati dal territorio di Gaza sui villaggi israeliani di frontiera, per quanto carichi di responsabilità da una parte e di sofferenze dall’altra, potrebbero essere solo un falso problema. La difficoltà estrema del negoziato asfittico che si è protratto nei vent’anni dopo la cerimonia fra Arafat, Rabin e Peres alla Casa Bianca deriva da un’agenda che non ha mai scelto chiaramente e definitivamente fra separazione e annessione (che sul lato dell’Olp potrebbe essere intesa come una ricomposizione di una terra fin troppo lacerata). La geografia, la demografia e la democrazia sono state strapazzate in modo insopportabile. Con il tempo l’insediamento umano sul terreno è profondamente mutato (al di là della successione naturale delle generazioni). Sono cambiati i fattori soggettivi e materiali. Sarebbe un dramma se si confermasse la tendenza alla partenza dei “migliori” (i sionisti di sinistra) o, se si preferisce, di coloro che per interessi personali, di ceto o di religione, credono nella concordia prima di ogni soluzione concordata (le élites istruite, i cristiani). Persino la logistica degli ultimi due delitti rispecchia la confusione e sovrapposizione di habitat e identità: i tre israeliani facevano l’autostop su una strada ben dentro la West Bank ma riservata al traffico degli israeliani; il palestinese viveva in un quartiere di Gerusalemme, proclamata capitale eterna di Israele. Israele è oggettivamente scoraggiato dallo strumento della diplomazia così come è stata praticata finora. Non è stato trovato in effetti nessuna intesa sui termini della separazione. Per questo la soluzione dei due stati suona come una causa perduta. Siccome lo status quo è insostenibile, si va in cerca di nuove idee, dando per scontato che si dovrà sacrificare o l’accordo o la separazione o entrambe le due opzioni. L’ipotesi di una Palestina disarmata e neutralizzata, senza confini, senza continuità territoriale, senza la possibilità di comunicare con i paesi arabi vicini, priva delle sorgenti dei fiumi, non è più tanto attraente nemmeno per Israele. Come extrema ratio si propende – non solo i “falchi” — a un’annessione di fatto o di diritto, a volte chiamata più benevolmente “applicare la legge israeliana”. La sovranità “grigia” verso cui stava dirigendosi l’Autorità nazionale palestinese è contraddetta dal comportamento delle forze armate israeliane e dalla disarticolazione dei territori occupati a livello di mobilità. Probabilmente Netanyahu vuol far pagare a Abu Mazen la mezza vittoria fatta registrare con la mezza ammissione all’Onu. 17 Una fattispecie simile a quella del Curdistan iracheno o del Somaliland, garantita rispettivamente da Turchia ed Etiopia, non è riproducibile in Palestina almeno fino a quando l’Egitto non avrà scelto il suo modo d’essere e d’agire. Sono due le ragioni che hanno finora dissuaso l’annessione dei territori presi alla Giordania nel 1967: un contraccolpo a livello internazionale e le implicazioni demografiche. La questione demografica potrebbe essere depotenziata con enclaves e cantoni palestinesi da intendere come “piccole patrie”. Nella società israeliana di oggi l’idea dell’apartheid potrebbe risultare meno ostica di un tempo. L’eventuale opposizione degli Stati Uniti e dell’Unione europea a un passo fatale (ma è più probabile un processo strisciante e graduale) potrebbe essere ammortizzata nello stravolgimento delle alleanze che ha già portato a una specie di asse Israele-Arabia Saudita. I due alleati principali degli Usa nella regione reagiscono così a una politica americana che, dopo i tentennamenti nel gestire le Primavere arabe, è sempre più attirata dalla ricerca di un modus vivendi con l’Iran. Il governo di Israele non è mai stato particolarmente attento alla legalità internazionale. Oggi è al limite di dover subire una campagna di sanzioni ampliando gli interdetti che riguardano già i prodotti provenienti dai settlements. La sua strategia è sempre stata di uscire dall’angolo in cui teme di essere rinchiuso alzando la posta. La vera incognita è rappresentata dallo spettro di una Terza Intifada che veda in campo non Hamas o non solo Hamas ma Al Fatah in prima persona. Sia i servizi segreti che l’opinione pubblica di Israele sono convinti che le rivolte nel mondo arabo hanno migliorato la posizione d’Israele, che infatti non è mai stato coinvolto come bersaglio primario o effetto collaterale. I palestinesi della West Bank si sentono isolati e sono pressoché senza “padrini”. Della convergenza tattica fra Israele e le monarchie sunnite del Golfo si è detto. La Siria è in piena guerra. Una breccia potrebbe aprirsi solo sul fronte libanese. D’altra par</CW>te, appare remota una reale integrazione di Israele nella regione utilizzando le enormi risorse di soft power che avrebbe a disposizione, come si era pensato accadesse quando fu firmata la pace di Camp David. del 08/07/14, pag. 2 In fuga dalla guerra siriana oltre 145mila donne Joseph Giles Rapporto Onu. Un'inchiesta basata su 135 testimonianze raccolte nel 2014 Oltre 145mila donne siriane, sole o con figli, sono scappate dalla Siria a causa del conflitto in corso. La maggior parte ha trovato rifugio in Giordania, Egitto, Libano e Iraq; hanno perso o lasciato i mariti in guerra e un quarto di loro vive in rischiose condizioni di povertà. Le loro storie sono state raccolte dall’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati in un report reso noto stamattina, all’interno del quale vengono effettuati focus sulle attuali vite delle donne siriane. Woman Alone — the Fight for Survival by Syrian Refugee Women si basa sulle testimonianze personali di 135 di queste donne, raccolte in un periodo di tre mesi durante il 2014. «Costrette ad assumersi la responsabilità esclusiva delle famiglie dopo che i loro uomini sono stati uccisi, catturati o allontanati, sono preda di una spirale di disagio, isolamento e ansia», scrivono i relatori del rapporto. L’ostacolo maggiore — si evince — è la mancanza di risorse. 18 La maggior parte di queste donne siriane, ovunque siano riparate, ha difficoltà a pagare l’affitto, a garantire il cibo alla propria famiglia. Alcune di loro hanno venduto le fedi nuziali, nel gesto disperato di ottenere quel piccolo gruzzolo in grado di garantire, per alcui giorni, il nutrimento dei figli. Molte hanno abitato in tende o accampamenti, altre vivono della generosità di chi non fa pagare loro l’affitto o garantisce un posto per dormire in una moschea. Un quarto di loro riceve assistenza in denaro da associazioni, ed è l’unica forma di sostentamento; dipendendo totalmente dagli aiuti, un terzo delle donne ammette di non avere abbastanza cibo per vivere. A questo si aggiunge una difficoltà storica, determinata dalle vicende politiche dei Paesi in cui le donne hanno trovato rifugio, basti pensare all’Egitto o all’attuale Iraq. L’Egitto — «che ha assistito ad un enorme cambiamento politico negli ultimi anni – ha introdotto delle restrizioni ai visti, creando non pochi problemi ai siriani in fuga dal conflitto. Le condizioni socio-economiche difficili e l’ambiente politico instabile hanno inoltre «complicato il lavoro delle agenzie umanitarie nell’aiutare queste comunità, anche a causa di crescenti tensioni con gli ospitanti». Lo scopo dichiarato del report dell’Uhncr, mettendo in evidenza il numero e le condizioni di vita di queste donne, è quello di «chiedere un intervento urgente di nuovi donatori, di governi e agenzie internazionali». Nel percorso di queste donne, la fuga «è solo il primo passo di una vita di disagi», ha dichiarato António Guterres, dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati. «Hanno finito i soldi, devono affrontare ogni giorno minacce alla propria sicurezza, e vengono trattate come reiette, pur non avendo commesso alcun crimine. È vergognoso. Vengono umiliate per aver perso tutto». Il 60 percento delle donne ha espresso sentimenti di insicurezza, una su tre si è detta spaventata e sopraffatta, alcune hanno il timore di lasciare la propria casa, altre fingono un’esistenza con il marito che non c’è, per la paura di violenze e umiliazioni. E, infatti, spesso il riparo non è migliore del luogo da cui si è fuggite: «Abbiamo lasciato la nostra casa in Siria, racconta una delle intervistate, per scoprire ben presto la miseria che ci aspettava qui in Egitto». Infine, la maggior parte delle donne intervistate ha raccontato che la loro più grande preoccupazione è l’impatto della vita da profughi sui propri figli: «Devo preoccuparmi per le finanze e per la scuola. Devo proteggere loro, e dare loro l’amore di una madre», racconta una di loro riparata in Egitto. Altre temono che i loro figli stiano crescendo troppo in fretta, con troppi pesi sulle spalle. «I nostri ragazzi, dicono, sono già dei piccoli uomini, ci aiutano con il lavoro, corrono per aiutarci nelle commissioni e sviluppano il senso protettivo di un adulto». Le ragazze – a loro volta – si prendono cura dei fratelli e adempiono «alle faccende di casa». Anche di fronte a queste circostanze preoccupanti, specifica il report, «molte donne siriane hanno dimostrato una notevole intraprendenza nei paesi in cui hanno cercato e trovato rifugio». Le storie in questo rapporto fanno emergere persone che stanno cercando di tirare fuori il meglio, da una situazione di disperazione. «I rifugiati e le comunità di accoglienza, così come l’Unhcr, conclude il rapporto — e i suoi partner, stanno cercando di mettere insieme ogni risorsa disponibile, per fornire loro supporto e assistenza». del 08/07/14, pag. 8 Da Aleppo (Siria) a Diyala (Iraq) “governa” la Shari’a dell’Isil Chiara Cruciati 19 Iraq. A Mosul piovono bombe senza nome mentre Al-Baghdadi introduce i primi regolamenti. In Siria l'Isil espelle 60mila persone Lo stallo del par-la-mento ira-cheno con-tro il nuovo “ordi-na-mento” del calif-fato di Al Bagh-dadi. Men-tre i par-la-men-tari di Bagh-dad, eletti a fine aprile, per la seconda volta in una set-ti-mana alza-vano ban-diera bianca e riman-da-vano l’elezione del pre-si-dente al 12 ago-sto, il nuovo califfo det-tava le regole da seguire nel cor-ri-doio da Aleppo a Diyala, sotto il con-trollo dell’Isil da quasi un mese. Nella capi-tale le fazioni poli-ti-che hanno rin-viato nuo-va-mente la nomina del pro-prio pre-si-dente e, indi-ret-ta-mente, del nuovo ese-cu-tivo. Secondo quanto ripor-tato da un depu-tato sun-nita, Salim Al-Jabour, lo stallo è dovuto «alla man-canza di con-senso poli-tico». Lo scorso mar-tedì erano stati i par-la-men-tati sun-niti e curdi a far sal-tare la prima ses-sione, abban-do-nando l’aula e facendo venir meno il numero legale. A due mesi dal voto e con un terzo del paese sotto il con-trollo di mili-zie isla-mi-ste, l’Iraq non ha ancora un governo uffi-ciale. Quello ancora in carica è ber-sa-glio di cri-ti-che da parte della comu-nità inter-na-zio-nale e della classe poli-tica ira-chena, che in ogni caso non sem-bra in grado di pro-durre un ese-cu-tivo alternativo. Molto più orga-niz-zati appa-iono i mili-ziani isla-mi-sti che a Mosul comin-ciano ad imple-men-tare la loro per-so-nale legge, i “rego-la-menti” del calif-fato. Non solo modelli di com-por-ta-mento, ma anche docu-menti di iden-tità: secondo alcune orga-niz-za-zioni locali, lo Stato Isla-mico intende rila-sciare pas-sa-porti ai resi-denti. E per fare cassa, pro-verà a ven-dere il greg-gio “occu-pato”, pro-ve-niente dai gia-ci-menti di petro-lio sotto il con-trollo isla-mi-sta. Dif-fi-cile che i jiha-di-sti tro-vino com-pra-tori uffi-ciali, ma la sola minac-cia spa-venta Bagh-dad per-ché sim-bolo della debo-lezza del potere centrale. E poi c’è la Shari’a: vie-tato per le donne uscire di casa a meno che non sia stret-ta-mente neces-sa-rio e vie-tato per gli uomini gio-care a poker. Le siga-rette costano già il dop-pio e c’è chi teme che met-te-ranno al bando anche quelle. Ma, più pre-oc-cu-pante, è l’utilizzo che di que-sta auto-rità sta facendo Al-Baghdadi tra Iraq e Siria: ieri dalla comu-nità di Shu-heil, nella pro-vin-cia orien-tale siriana di Deir Ezzor, sono state espulse oltre 30mila per-sone. A but-tarle fuori l’Isil, come aveva fatto nei giorni scorsi con i 30mila resi-denti delle città di Kosham e Tabia Jazeera. Oltre 60mila pro-fu-ghi nel giro di pochi giorni. In un video pub-bli-cato online si vedono alcuni mili-ziani det-tare le regole dell’espulsione: i cit-ta-dini di Shu-heil devono lasciare le pro-prie case e le armi in loro pos-sesso fino a quanto la stessa Isil riterrà la comu-nità «sicura». Un’avanzata che sem-bra inar-re-sta-bile, soprat-tutto agli occhi di una Bagh-dad sem-pre più debole. Per difen-dere quanto resta dell’autorità del potere cen-trale, ieri l’esercito ha innal-zato bar-ri-cate intorno alla città di Adeim, nella pro-vin-cia di Diyala, occu-pata dall’Isil nelle scorse set-ti-mane. Nella pro-vin-cia di Ninawa a par-lare, invece, sono le bombe, anche se nes-suno ne riven-dica il lan-cio. Nei giorni scorsi la città di Mosul è stata tar-get di una serie di bom-bar-da-menti: testi-moni hanno rac-con-tato di almeno quat-tro case distrutte e due intere fami-glie uccise. Secondo fonti medi-che i morti sareb-bero sette, 30 i feriti. E se un ex gene-rale in pen-sione ha rife-rito alla stampa di aver chia-ra-mente visto un C-130 sta-tu-ni-tense (in dota-zione all’esercito ira-cheno), sia il pre-mier Nouri al-Maliki che il pre-si-dente Usa Obama hanno negato il pro-prio coin-vol-gi-mento nei bombardamenti. Il caos pare allar-garsi tanto da pre-oc-cu-pare anche l’Egitto e il nuovo pre-si-dente al-Sisi che non ha nasco-sto il timore di un con-ta-gio del Cairo. L’ex gene-rale, fau-tore del golpe che ha depo-sto il pre-si-dente Morsi un anno fa, ha impie-gato gli ultimi mesi nella repres-sione duris-sima e la can-cel-la-zione poli-tica e sociale della Fra-tel-lanza Musul-mana in Egitto e non intende assi-stere all’avanzata di un altro gruppo isla-mi-sta. Il timore – ha detto Al-Sisi ieri – è quello di una spac-ca-tura interna dell’Iraq che potrebbe 20 dan-neg-giare gli equi-li-bri dell’intera regione. Il dito è pun-tato anche sul Kur-di-stan ira-cheno e sul suo pre-si-dente Bar-zani, la cui pro-po-sta di un refe-ren-dum per l’indipendenza da Bagh-dad è stato defi-nito dal pre-si-dente egi-ziano «una poten-ziale catastrofe». del 08/07/14, pag. 9 Afghanistan, vince Ghani con il 56,44% Emanuele Giordana Presidenziali. Tensione per i risultati definitivi del secondo turno. Al tagico Abdullah il 43,56% A volte la politica riserva sorprese, altre volte scopre un segreto di Pulcinella. Sembra questo il caso delle presidenziali afghane di cui ieri sono stati forniti, con cinque giorni di ritardo, i risultati preliminari che danno la vittoria ad Ashraf Ghani, il tecnocrate in odore di laicità che piace ai modernisti, alla gioventù colta e anche ai tradizionalisti che vedono in lui la continuità della reggenza pashtun. La contestata Commissione elettorale (contestata dal perdente appena dopo il voto del secondo turno) gli attribuisce il 56,44% dei voti contro il 43,56 del rivale, il campione tagico Abdullah Abdullah, che ha giocato la carta etnica assai più di Ghani, vecchio uomo di potere nel Nord e a Kabul, alleato con una pletora di islamisti locali distinti dai taleban – ideologicamente — forse solo per il colore del turbante. In queste settimane c’è stato un gran lavorio, con la presenza, stavolta poco ingombrante, di un Karzai che ha fatto più da capo di Stato che non da padre padrone del Paese. I rumor dicono che la trattativa tra rivali è stata condotta sia sul fronte monetario sia su quello dei futuri incarichi e persino giocata su un possibile stravolgimento costituzionale che attribuisse a uno la presidenza e all’altro il premierato. Ma i giochi per ora non sono conclusi. Intanto c’è un accordo bilaterale per rivagliare i risultati di oltre 7mila seggi e poi chissà che altro ancora prima che si sappiano con certezza gli esiti definitivi. La Commissione ha dato anche i dati dell’affluenza del secondo turno: 60% con un 38% di voto femminile su 8.109493 di voti validi. Anche se sembra profilarsi un accordo che alla fine metterà a tacere Abdullah e anche se, finora, le contestazioni del candidato nordista si sono limitate a manifestazioni di piazza e proclami senza che si sia passati dalla dialettica politica all’antico gioco delle armi, le presidenziali 2014 non ne escono gran bene. E gli afghani lo sanno, come lo sa la comunità internazionale, americani in testa, per i quali una sconfessione del processo elettorale equivarrebbe a una dichiarazione di fallimento generale il che ha fatto correre ai ripari le cancellerie con pressioni di ogni tipo per evitare uno scandalo sullo stile di quello che accompagnò la vittoria di Karzai nel 2009 quando anche quella volta – con brogli certificati dal numero due dell’Onu a Kabul — Abdullah gettò il sasso nello stagno della polemica per poi ritirare la mano – dicono i maligni – dopo un’offerta che non poteva rifiutare. Tant’è, anche giocando sulla stanchezza degli afghani, tutto sembra destinato a concludersi a tarallucci e tè e un tutti a casa che non lasci morti o feriti. «Un dramma afghano», come ci diceva giorni fa a Kabul un diplomatico. Un modo elegante per non dire melodramma, un’arte politico teatrale in cui anche noi italiani siamo maestri. 21 del 08/07/14, pag. 10 Assedio ai filorussi Giù i ponti a Donetsk U. D. G. Sul fronte ucraino a prevalere è la «diplomazia del cannone». Si stringe la morsa delle truppe di Kiev intorno alle roccaforti filorusse. Mentre secondo alcuni osservatori, Mosca è sempre più riluttante a offrire sostegno ai separatisti. Nel frattempo i soldati ucraini continuano la loro azione sui secessionisti e l’esercito nazionale ha ripreso il controllo di diverse località precedentemente nelle mani dei ribelli pro Mosca. La bandiera ucraina è stata nuovamente issata sulla maggioranza delle roccaforti nelle regioni di Donetsk e Lugansk: 20 aree su 36, secondo quanto scrive su Facebook, l’informatissimo blogger Dmitry Tymchuk. I militari hanno ristabilito il controllo sulle città come Kramatorsk e Slavyansk, dove in base ad alcune fonti i separatisti sono stati lasciati senza munizioni, denaro e cibo. Secondo le ultime informazioni, la bandiera bicolore è comparsa sopra il Consiglio comunale della città di Konstantinovka, da dove precedentemente era stata ammainata. ASSALTO FINALE Intanto il WallStreetJournal ha rilevato come la battaglia per Donetsk sia irta di rischi per Mosca, come per Kiev. E a fronte della difficoltà in cui versano i separatisti, «Mosca non ha mostrato segni di voler intervenire per aiutarli». Ma nel frattempo aumenterebbero le pressioni per un intervento russo intorno al presidente Vladimir Putin. Nelle città liberate, unità militari stanno lavorando per sminare le strade, gli edifici, i ponti, e nel prossimo futuro, il governo potrebbe adottare un programma di riabilitazione per tali insediamenti, ha detto secondo radio Liberty il ministro degli interni ucraino Arseny Avakov. La situazione rimane tesa in diverse città della regione di Lugansk: Donetsk, Gorlovka, Lugansk, Krasnodon, Antratsyt e Severodonetsk, secondo il ministero della Difesa. La situazione resta molto difficile soprattutto a Lugansk, con bombardamenti e incendi. Attualmente, il piano strategico principale dell'esercito ucraino è l’assedio di Lugansk e Donetsk, che dovrebbe costringere i separatisti a deporre le armi. Ma quest’ultimi non hanno alcuna intenzioni di alzare bandiera bianca. Tre ponti su strade che portano a Donetsk sono stati fatti saltare. Le principali via d’accesso alla città sono quindi bloccate. Un giornalista di Associated Press sul posto ha visto un ponte collassato nel villaggio di Novobakhmutivka, dove corre una linea ferroviaria verso Donetsk. Un cessate-il-fuoco e misure di «confidence- building» per aprire una «fase nuova» in Ucraina. Sono gli obiettivi al centro della missione di Federica Mogherini a Kiev e a Mosca, missione iniziata ieri e che si protrarrà fino al 10 luglio. «Un cessate il fuoco bilaterale e reciproco in Ucraina è cruciale e può essere l’unico modo per fermare gli scontri», aveva affermato la titolare della Farnesina giovedì scorso illustrando in Parlamento gli ultimi sviluppi di politica estera in relazione al semestre di presidenza italiana dell’Ue. Ieri Mogherini ha incontrato Yulia Timoshenko a Kiev. 22 del 08/07/14, pag. 7 Mogherini di pace in Ucraina, con una nave spia nel Mar Nero Simone Pieranni Ucraina. La ministra prova «la soluzione diplomatica al conflitto», mentre l’Italia prende parte a una missione di guerra Mentre una nave spia italiana, l’Elettra, entra nel mar Nero, non per un’esercitazione, ma per una operazione reale, l’Italia sbandiera la missione di pace del proprio ministro degli Esteri, in Ucraina prima e a Mosca poi. L’esordio internazionale del semestre italiano di presidenza Ue della ministra degli esteri italiani Federica Mogherini infatti, è in Ucraina. La ministra è arrivata ieri a Kiev — dove è stato annullato il Gay Pride previsto nel week end, a causa delle minacce contro gli organizzatori dei neonazi di Settore Destro — poi sarà la volta di Mosca. Nella capitale ucraina Mogherini ha specificato l’obiettivo principale del suo viaggio, ossia tentare in extremis una risoluzione pacifica alla crisi ucraina, proprio mentre pare essere in atto l’attacco finale da parte dell’esercito del neo presidente Poroshenko. Mogherini ha specificato di avere intenzione di «intensificare il lavoro diplomatico» affinché si realizzi il «cessate il fuoco», dopo aver annunciato l’avvio delle indagini di Kiev sulla morte del giornalista italiano Andrea Rocchelli, ucciso dai mortai dell’esercito nazionale. Ma, prima della missione affidata a Mogherini, ne è partita un’altra, affidata alle navi da guerra italiane. È infatti appena entrato nel Mar Nero uno dei quattro gruppi navali permanenti della Nato, agli ordini del capitano Giovanni Piegaja a bordo della fregata Its Aviere, la nave ammiraglia, affiancata da un’altra nave da guerra italiana, una turca e una britannica. Il gruppo che si avvale dell’integrazione di unità statunitensi e greche, sta compiendo esercitazioni congiunte con le marine bulgara e rumena in evidente funzione anti-Russia. Insieme al gruppo navale Nato sotto comando italiano, è entrata nel Mar Nero, non per una esercitazione ma per una operazione reale, la nave spia italiana Elettra, con a bordo un centinaio di marinai e tecnici dell’intelligence e una trentina di sistemi elettronici e acustici, installati anche su un sommergibile che dalla nave può scendere a 1000 metri di profondità. La nave spia, grazie alla sua capacità di navigare ai limiti delle acque territoriali russe, è in grado di intercettare le comunicazioni delle installazioni costiere e interne in Russia e in Crimea. Il governo Renzi, che ora sbandiera la «missione di pace» della Mogherini, ha cercato di tenere segreta la missione di guerra dell’Elettra, che però è venuta alla luce ed è stata denunciata da Mosca. Un bell’inizio di politica estera del semestre italiano di presidenza Ue. Mentre in Ucraina la situazione diventa di ora in ora più drammatica. Le truppe di Kiev — stando a quanto trapela dal governo ucraino, si preparano a stringere d’assedio le città di Donetsk e Lugansk, capoluoghi delle omonime regioni «separatiste» dell’Ucraina sudorientale, dopo che nei giorni scorsi hanno riportato la bandiera ucraina in alcune città occupate dai miliziani filorussi, tra cui l’importante centro di Sloviansk. L’arrivo al potere di Poroshenko e il cambio del ministro della Difesa sembrano aver sbloccato la situazione dell’esercito ucraino, precedentemente affossato da disguidi, defezioni e clamorose sconfitte. Emerge inoltre la mancanza di supporto della Russia ai filorussi, che nei giorni scorsi hanno lamentato la mancata assistenza di Mosca. E dal Cremlino arrivano altre notizie sui profughi, minimizzati da Kiev, ma sottolineati anche da recenti rapporti delle Nazioni unite. Oltre 20mila cittadini ucraini hanno chiesto 23 asilo in Russia da quando è iniziato il conflitto, secondo quanto riferito dal vice direttore del Servizio federale russo di migrazione Anatoli Kuznetsov. Del 08/07/2014, pag. 11 Si alza il muro tra Europa e Usa Divisi da banche, Ogm e politica La relazione transatlantica è in uno stato di apatia. O forse di atrofia, come scriveva ieri il Financial Times. Certamente, la confusione e l’incomprensione stanno prendendo il sopravvento nei rapporti tra Stati Uniti ed Europa. L’alleanza delle democrazie che per decenni ha dato stabilità a buona parte del pianeta è al livello di intensità più basso dal dopoguerra. E al momento non si sa come l’amicizia fattiva possa essere riparata e soprattutto chi sia in grado di farlo. Ieri, il ministro delle Finanze francese Michel Sapin ha evocato — appoggiato da voci influenti dell’industria — la necessità di limitare l’uso del dollaro come valuta principe del commercio mondiale. Si tratta, in buona misura, di una reazione alla vicenda Bnp-Paribas, la banca francese multata per quasi nove miliardi di dollari da Washington per il ruolo che svolse a favore del governo del Sudan proprio nel momento in cui le milizie sudanesi effettuavano massacri nel Darfur. Ora: gli europei hanno la responsabilità di non aver fermato la condotta vergognosa di alcune banche (non solo Bnp) nella vicenda africana. Ma l’azione di «polizia bancaria » americana è stata altamente discutibile: sotto la minaccia di un processo che avrebbe potuto concludersi con il ritiro dell’autorizzazione a operare negli Stati Uniti (una sentenza di morte per una banca internazionale) Washington ha costretto Bnp a dichiararsi colpevole e ad accettare la sanzione. Nessun tribunale coinvolto, qualcosa che secondo alcuni si avvicina al ricatto e che mette in evidenza il lato certe volte arrogante e unilaterale dell’America. Il risultato è la crescita del nervosismo tra le due sponde dell’Atlantico. Per parte sua, da Pechino dove è in visita d’affari, Angela Merkel ha protestato risolutamente contro le attività di spionaggio americane in Germania, che continuano anche dopo che Barack Obama aveva assicurato del contrario in seguito allo scandalo delle intercettazioni della Nsa. E, nelle settimane scorse, di fronte alla crisi in Ucraina, America ed Unione Europea si sono divise sulla risposta da dare alla Russia di Vladimir Putin: Vecchio Continente incerto sulle sanzioni, Washington accusatoria per le scarse e calanti spese militari del lato europeo della Nato. Sullo sfondo, l’impressione, che gli Stati Uniti di Obama siano sempre meno interessati a garantire gli alleati e a rimanere il punto di stabilità in regioni importanti del pianeta (oltre all’Ucraina, la Siria, l’Iraq, l’Afghanistan, l’Iran, la Libia e, c’è chi teme, in prospettiva anche l’Est asiatico). È «il pericolo — secondo l’ex segretario al Tesoro americano Larry Summers — che gli Usa abdichino alla responsabilità che hanno intrapreso per 70 anni, sin dalla Seconda guerra mondiale, di sostenere un’economia globale più integrata, fondata sempre più sulle regole e ad alta crescita». In discussione è il ruolo dell’Occidente in un mondo in cui emergono nuove potenze che non necessariamente condividono le sue idee di libertà, di commercio aperto e multilaterale, di responsabilità negli affari internazionali. Un’iniziativa che avrebbe dovuto essere il grande rilancio dell’alleanza tra Usa ed Europa, cioè le trattative per la Partnership economica transatlantica (Ttip), rischia così di rivelare la realtà di confusione e mancanza di leadership dell’Occidente. I negoziati sono ogni giorno più difficili – dice chi li segue da vicino. Questioni come gli standard alimentari, le regole finanziarie, la privacy e la proprietà intellettuale sono gli ostacoli che impediscono di arrivare a una partnership 24 che nelle intenzioni dovrebbe creare un mercato unico transatlantico. E la volontà politica di raggiungere un accordo sembra sempre più flebile: a Washington, dove l’interesse del Congresso è scarso, e a Bruxelles, dove l’opposizione ad aperture commerciali da parte di alcuni Paesi si accoppia all’irritazione verso l’America. La speranza di raggiungere un accordo in tempi brevi per ora rimane. Il ministro del Commercio britannico, Lord Livingston, potrebbe proporre — anche su spinta dell’Italia che detiene la presidenza semestrale della Ue — di firmare un patto transatlantico sulle questioni su cui già c’è consenso e di rinviare le altre a trattative successive. Sarebbe un early harvest, un raccolto anticipato, su temi come tariffe, energia, appalti pubblici e liberalizzazioni in sei settori industriali già individuati: un esito ridimensionato e anche rischioso, perché renderebbe difficile raggiungere gli obiettivi più ambiziosi con cui erano iniziate le trattative; ma forse darebbe il segno della volontà politica di fare sentire la voce dell’Occidente in un momento di confusione. Nemmeno questo risultato minimo, però, è garantito: l’Atlantico, oggi, è un oceano che divide. Danilo Taino @danilotaino Del 08/07/2014, pag. 17 «Fuori i fucili dai negozi» La lobby delle madri anti-armi Sotto la loro pressione un’altra catena li proibisce NEW YORK — «Leave the gun and take the cannoli», lascia la pistola e prendi i cannoli. Torna in mente l’immortale battuta di Clemenza nel Padrino, di fronte alla coraggiosa decisione di Target, gigante americano della distribuzione discount, che ha deciso di chiedere «con rispetto» ai suoi clienti di non avere addosso armi quando vanno a fare acquisti in uno dei suoi 1.789 punti vendita, sparsi in 47 Stati americani. Messo sotto pressione dai cosiddetti «mom groups», i collettivi di mamme che da mesi sono in rivolta contro l’incapacità della classe politica di regolare il porto di ordigni da fuoco di fronte al continuo ripetersi di tragiche sparatorie, Target segue l’esempio già dato da Starbucks, Chipotle, CostCo e altre catene commerciali che hanno invitato la clientela a lasciare a casa l’artiglieria quando entrano nei loro negozi. Ma la decisione ha un valore simbolico enorme, trattandosi di un leader della distribuzione a prezzi convenienti negli Stati Uniti. «Portare armi da fuoco da Target crea un ambiente che è in contrasto con lo shopping familiare e l’esperienza di lavoro che noi ci sforziamo di creare », ha detto l’amministratore delegato ad interim di Target, John Mulligan, spiegando che la richiesta vale anche per le comunità dove entrare in un negozio armati è legale. Per quanto la richiesta sia volontaria e non vincolante, l’importanza dell’annuncio non va sottovalutata: per la prima volta negli Usa un movimento di opinione dal basso impone un cambio di politica commerciale a una grande azienda, su un terreno incandescente e finora dominato dalla potente lobby delle armi. A far da miccia alla ribellione delle madri sono state le azioni dimostrative di gruppi texani come Open Carry, che avevano incoraggiato i loro membri a farsi vedere più spesso in giro armati — facendo acquisti, andando nei ristoranti e quant’altro — per farlo sembrare normale. Guida la rivolta Moms Demand Action for Gun Sense, un gruppo fondato e finanziato dall’ex sindaco di New York Michael Bloomberg, campione della campagna anti-armi nella quale è pronto a investire 50 milioni di dollari del suo patrimonio personale. «Abbiamo aperto gli occhi di una icona 25 del business, convincendola che è più importante ascoltare la maggioranza della clientela che non quella di una minoranza prepotente — ha detto Shannon Watts, leader di Moms Demand Action —. Se il cambiamento non viene dalla legge, verrà dalla nostra voce e dai nostri portafogli». Detto altrimenti, è soprattutto la paura di perdere clienti che muove le aziende a voltare le spalle alla lobby delle armi e ascoltare le ragioni del buon senso. E’ un cambio epocale di prospettiva in un dibattito che va alle radici della cultura americana, quella incarnata dal Secondo emendamento alla Costituzione, che nella lettura prevalente proibisce ogni limitazione del diritto a possedere armi. A spingerlo sono stati i colpi di frusta inferti alla psiche nazionale da stragi come quella di Newtown, in Connecticut, dove nel 2012 venti bambini e 6 adulti vennero massacrati da un giovane armato di carabina semi-automatica, che aveva prima ucciso sua madre e poi si suicidò. La conflittualità rimane alta. I fautori del libero commercio e della libera circolazione delle armi minacciano rappresaglie e invitano al boicottaggio delle aziende come Target che li hanno dichiarati persona non grata. La National Rifle Association rimane una lobby potente, forte di 5 milioni di iscritti e in grado di gettare il suo peso dietro i candidati al Congresso o negli Stati, che promettono di opporsi a ogni misura restrittiva. La differenza è che ora, anche grazie a Bloomberg, una lobby anti-armi è in embrione. Oltre a Moms Demand Action, l’ex sindaco ha creato infatti un altro gruppo, Everytown for Gun Safety, che ha annunciato di voler inviare a ogni candidato alle prossime elezioni di Midterm, in programma a novembre, un formulario in dieci parti, per spiegare esattamente la sua posizione in materia di armi da fuoco. «Gli elettori hanno il diritto di sapere cosa i candidati pensino di proposte ragionevoli per regolare il possesso, il commercio e la circolazione delle armi». Paolo Valentino 26 INTERNI del 08/07/14, pag. 4 Riforme, Big George ha detto stop Andrea Fabozzi ROMA Riforme. Del bicameralismo si è discusso abbastanza. Con una mossa mai vista, Napolitano interviene sui lavori del senato. In aiuto al premier e sostituendosi al presidente del senato che era stato chiamato in causa Otto sedute per votare otto emendamenti, tutti dei relatori e solo sugli aspetti secondari della riforma costituzionale. È il lavoro svolto dalla prima commissione del senato nelle ultime due settimane. Restano da definire la funzione e la composizione delle camere e manca ancora l’intero capitolo del regionalismo, il famoso Titolo V. Bisogna votare altri dodici emendamenti dei relatori su tutti gli aspetti centrali della riforma (come si scelgono i senatori? di cosa si devono occupare?) e ci sono un numero enorme di proposte alternative della maggioranza «allargata» e della minoranza. Ebbene, per rispettare la tabella di marcia, tutto questo lavoro bisognerà farlo in due o tre giorni. E se fino a ieri a dettare i tempi del senato era il capo del governo, adesso è direttamente il capo dello stato. Una mossa mai vista da parte del presidente Napolitano, che ieri ha deciso di intervenire in prima persona nel dibattito, accesissimo in queste ore, tra sostenitori e critici della riforma costituzionale governativa. Basta, ha detto, si è discusso abbastanza. Che si debba correre lo sostiene Renzi, eppure il presidente della Repubblica assicura di parlare «senza pronunciarsi sui termini delle scelte in discussione». Ma i termini, adesso, sono proprio questi: bisogna necessariamente chiudere al senato entro la pausa estiva, o c’è il tempo di correggere l’esecutivo? Non c’è tempo, dice il Quirinale. Secondo il Colle bisogna evitare «ulteriori spostamenti in avanti dei tempi di un confronto che non può scivolare, come troppe volte è già accaduto, nell’inconcludenza». A Napolitano si erano rivolti in molti in questi giorni. Ma per la ragione opposta: invitavano il presidente, garante di tutti, a tutelare la separazione di ruoli tra il parlamento e l’esecutivo, specie in materia di leggi di revisione costituzionale. La legge in discussione, in particolare, è stata scritta direttamente dal presidente del Consiglio. Gli emendamenti accolti sono stati tutti discussi a palazzo Chigi. E i tempi della discussione sono quelli che vuole il capo del governo, che da marzo sta andando avanti di ultimatum in ultimatum. Tant’è che un gruppo di senatori, i cosiddetti «dissidenti» di tutti i partiti, era pronto a chiedere al presidente del senato di esprimersi, e di assegnare alla commissione e all’aula un congruo tempo di approfondimento. Chiedevano alla seconda carica dello stato, Grasso, di frenare la corsa di Renzi. È stato proprio in questo momento che ha deciso di intervenire la prima carica, Napolitano. Per accelerare. La nota del Colle sposa in tutto l’impostazione renziana, e abbonda di riferimenti per dimostrare che ormai del bicameralismo paritario e «delle sue ricadute negative sul processo di formazione delle leggi» si è discusso abbastanza. Il presidente dice che c’è stata «un’ampia apertura di dibattito» e che si è «prolungata notevolmente rispetto agli annunci iniziali», cioè la promessa di Renzi di chiudere al senato in un mese, entro lo scorso 25 maggio. Non solo: il capo dello stato si spinge a valutare la quantità di audizioni che sono state svolte in commissione affari costituzionali al senato — «larghe audizioni» 27 — e non trascura un giudizio sul numero di correzioni suggerite dai relatori al testo del governo (con l’ok del governo) — «ricca messe di emendamenti». La cronaca parlamentare del Colle spalanca al disegno di legge Renzi-Boschi le porte dell’aula del senato. Che ha bisogno di accogliere la «grande riforma» renziana tra la fine di questa settimana e l’inizio della prossima, al massimo. È questa la condizione indispensabile per provare a mandare gli italiani, e i parlamentari, in vacanza con un primo passaggio compiuto sulle riforme costituzionali. È la prima emergenza nazionale? Non pare, ma a Renzi importa così e il parlamento, sezione distaccata di palazzo Chigi, deve adeguarsi. Ieri sera c’è stata l’ennesima riunione dei senatori del Pd, anche questa dedicata non a discutere l’impostazione governativa ma a richiamare all’ordine i dissidenti. Tant’è che Renzi non si è neanche presentato: non c’era nulla da spiegare. Nessuna risposta neanche sulle questioni rimaste senza soluzione, quelle che anche i renziani ammettono che andranno registrate. Così è ancora previsto che il presidente della Repubblica sia eleggibile da un solo partito, che i deputati non diminuiscano di un’unità (vanificando il decantato «risparmio» sul senato), che un sindaco o un consigliere regionale nei guai con la giustizia possano trovare riparo nell’immunità senatoriale… Si correggerà? E come? Solo a chiederlo si finisce tra i frenator. La fretta è persino maggiore di quella che guidò alla camera l’approvazione della legge elettorale, quella che adesso tutti vogliono cambiare. O in altre legislature ispirò le riforme costituzionali dell’articolo 81 e di tutto il Titolo V, due fallimenti riconosciuti. Da ieri sera il «patto del Nazareno» tra Renzi e Berlusconi è più forte. La guardia di Napolitano indebolisce i senatori critici e lascia poco spazio ai tentativi di correzione della riforma. Sono oltre quaranta gli articoli della Costituzione da modificare e l’importante, dice Napolitano, è farlo. Se c’è un argomento che il presidente della Repubblica dimentica, ecco a ricordarlo il capogruppo Pd Zanda: è urgente trasformare sindaci e consiglieri regionali in senatori perché «ce lo chiede l’Europa». Del 08/07/2014, pag. 3 E Renzi si sente più forte “Ora i grillini sono in partita l’Italicum resta la bussola” “Sul Senato il sì arriverà entro il 20 luglio o passano le riforme o si torna a votare” GOFFREDO DE MARCHIS «ACCETTANDO il premio di maggioranza al primo partito e non alla coalizione, loro introducono un elemento decisivo soprattutto per noi, per il Pd». Il premier è piuttosto euforico alla fine di una giornata cominciata con uno scontro a tutto campo con Beppe Grillo e finita con l’umore a mille per il cedimento dei 5stelle. «Alla fine hanno mollato. Grillo non voleva dare alcuna risposta ma è stato costretto». Costretto dai suoi, intende il premier, da una frattura che nei 5stelle diventa ogni giorno più marcata. Il 40,8 per cento delle Europee inizia a dare i suoi frutti. Renzi registra le novità sul doppio fronte delle riforme. «Al di là del merito, questa giornata segna il fatto che i grillini sono scesi dal tetto. Stanno nella partita e questo è un bene perché io, nonostante tutto, ho sempre fatto sul serio con loro», racconta il premier. Ha letto le 10 risposte dei grillini ai 10 punti del Pd. Ci sono i “ma”, le correzioni, le provocazioni. Ma c’è il dato nuovo di un dialogo che, dentro il Movimento, viene tenuto in 28 vita. «La storia delle soglie e del 52 per cento come premio sono, secondo me, ridicole. Ma vedo che viene accettato il ballottaggio ossia il secondo turno ed è una svolta. Penso che sull’impianto generale si può ragionare ». Peraltro, l’intera campagna sull’autoritarismo di Renzi, sulle pulsioni dittatoriali dell’ex sindaco risulta alla fine demolita dalle stesse tesi grilline. «Mi chiedo: ma se accetto l’idea che il premio vada al primo partito e non alla coalizione come faccio poi a parlare di dittatura? Significa ammettere il principio cardine del maggioritario abbandonando qualsiasi base proporzionalista», ragiona il premier. Questo spiraglio grillino inoltre servirà a Renzi per contrastare le resistenze dentro al Pd che piano piano si stanno spostando dal Senato alla legge elettorale, collegando i due livelli. «L’ipotesi maggioritaria per il partito e non per le ammucchiate del passato è quella che al Pd dovrebbe interessare di più. Per un partito come il nostro è evidente che si apre un terreno di discussione ancora più ampio». E più vantaggioso, è il sottinteso. Adesso la trappola potrebbe arrivare da Forza Italia. La politica dei due forni rischia di allarmare Berlusconi e, ancora più dell’ex Cavaliere, gli azzurri frondisti che si sentono prigionieri del patto del Nazareno e del potenziale conflitto d’interessi del loro capo. «Ma io non abbandono l’Italicum – spiega Renzi -. Resta la mia bussola. Non cambio la maggioranza delle riforme, non ci penso proprio. Osservo che ci sono disponibilità e aperture utili. E che siamo vicini anche ad altre posizioni, che le divergenze si riducono ». Renzi sottolinea un avvicinamento dei 5stellenon solo sulla legge elettorale. «Per la prima volta Grillo apre sulla fine del bicameralismo perfetto », dice il premier. Del resto, è il traguardo a portata di mano della riforma del Senato ad aver convinto e terremotato i 5stelle. «Hanno capito che erano destinati all’irrilevanza, sono stati costretti a entrare nel merito ». L’incontro saltato ieri, ora viene considerato fattibile a breve. Renzi considera il match di Palazzo Madama vicino alla conclusione. Con una vittoria «di portata storica. Sarà una riforma enorme, il raggiungimento concreto di un obiettivo ». Le scadenze sono fissate nella mente del premier, che ha il pallino del cronoprogramma. «Entro il 20 luglio approvazione del disegno di legge sul Senato e titolo V. A quel punto si comincia a lavorare sull’Italicum e si deve approvare in commissione prima della pausa estiva. In aula arriverà dopo l’estate». C’è da ringraziare Giorgio Napolitano che con l’intervento di ieri sui tempi e l’urgenza delle riforme «è stato bravissimo, perfetto». C’è anche da sorvolare sugli attacchi dei dissidenti Pd. «Il paragone con Putin è inaccettabile», si sfoga Renzi. «Ma io non caccio nessuno, questo sia chiaro». I numeri delle riforme non si discutono. «Davvero contro la riforma sono solo quei tre...». I «giornalisti», li chiama Renzi, ovvero Massimo Mucchetti, Augusto Minzolini e Corradino Mineo. In verità i conti a Largo del Nazareno sono meno trionfali. Non è un caso che nella sede del partito abbiano messo in preventivo una miniscissione: il Pd potrebbe perdere per strada almeno 6 o 7 senatori. Il loro no alla modifica di Palazzo Madama è molto probabile. Un dato che non mette in pericolo l’approvazione del disegno di legge Boschi ma può avere riflessi sulla tenuta della maggioranza di governo. L’ultima fiducia votata al Senato ha fatto registrare 169 voti favorevoli. Se si tolgono 7 voti democratici e 2 o 3 voti di Popolari vicini a Mario Mauro, i numeri per l’esecutivo diventano a rischio. Per questo motivo da alcuni giorni il vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini sta telefonando e coccolando i 14 dissidenti del suo partito. Alcuni gli hanno chiaramente detto che combatteranno la “buona battaglia” fino in fondo. Sanno di essere all’ultima legislatura e «vogliono fare la cosa giusta», dicono. Tra loro, ci sono sicuramente Vannino Chiti, Paolo Corsini, Walter Tocci e lo stesso Mineo. Guerini continua a telefonare. L’assemblea dei senatori, ieri notte, non ha portato novità. Alcuni, come Miguel Gotor e Francesco Russo, hanno messo in guardia dal combinato disposto Senato-Italicum. Ma il voto del gruppo è rinviato. Comunque Renzi è il meno preoccupato: «La riforma sarà approvata con 190-200 voti a favore. Tutti devono sapere che o passano le riforme o si torna a votare. Se invece il 29 percorso va a buon fine, la legislatura arriva in fondo». E la tenuta della maggioranza? «Dalla maggioranza non uscirà nessuno. E se potessi raccontare quanta gente ci vuole entrare...». Del 08/07/2014, pag. 4 Quei sessanta voti in bilico che fanno tremare Palazzo Madama GIOVANNA CASADIO ROMA Il pallottoliere segna una sessantina di dissidenti, tra i 50 e i 60, per l’esattezza. Ma a Palazzo Chigi i conti sono al ribasso. Renzi è convinto che la dinastia “Minzmin”, la fronda cioè capitanata dal forzista Augusto Minzolini e dal democratico Corradino Mineo, non rovinerà il cammino rapido delle riforme e che il requiem del bicameralismo con il nuovo Senato di non eletti, arriverà all’approdo con una maggioranza ampia di 236 senatori. Forse troppo ottimista. Le incognite infatti sono molte. Al netto di dissensi e incertezze comunque, il governo dovrebbe contare su 175 o 183 fedelissimi. Seppure i “ribelli” del Pd e di Forza Italia sulla riforma del Senato si squagliassero cammin facendo come neve al sole, si può stare certi che cercheranno una rivincita sull’Italicum. E a quel punto il dissenso può diventare maggioranza. Un documento di Francesco Russo a favore del Senato come lo vuole Renzi ma che pone l’alt all’Italicum, è stato sottoscritto da una ventina di senatori dem. Ma sono soprattutto i 29 di “Area riformista”, la corrente guidata da Roberto Speranza e che a Palazzo Madama può contare tra gli altri su Miguel Gotor, Maurizio Migliavacca, Valeria Fedeli, Federico Fornaro, Carlo Pegorer, a chiedere la modifica della nuova legge elettorale. L’allarme lo ha lanciato Pier Luigi Bersani, l’ex segretario per il quale non si può scherzare con il fuoco e l’Italicum «va corretto», punto e basta. Lo ripetono in tanti nel Pd e trovano sponda negli alfaniani. Nel governo è il ministro Maurizio Martina ad avanzare dubbi e ad incalzare: «L’Italicum francamente è da migliorare». Gotor nella riunione di corrente elenca minuziosamente i cambiamenti che la riforma del Senato non può ignorare, a cominciare dai Grandi elettori a cui è affidato il compito di scegliere il capo dello Stato. «A meno che non si voglia un presidenzialismo strisciante, una svolta autoritaria pericolosa... «, si scalda. Nell’assemblea dei senatori ieri sera viene appunto presentato il documento firmato dal drappello che si autodefinisce dei “facilitatori”. Russo illustra le ragioni del Senato di non eletti, che sarebbe «un errore incomprensibile frenare». Insomma sul Senato elettivo anche il capogruppo Luigi Zanda si sente più tranquillo. I “dissidenti” dem che porteranno il loro emendamento fino al voto dell’aula sono 19: Vannino Chiti, Felice Casson, Walter Tocci, Paolo Corsini i trainer. Tuttavia fanno asse con i forzisti che appoggiano Minzolini e i malpancisti al seguito di Fitto. Lucio Malan che sponsorizza la via mediana di «aggiustamenti per consentire un voto compatto in Forza Italia », confida nell’incontro promesso da Berlusconi con i senatori. Riuscirà a metterli in riga, l’ex Cavaliere? I senatori berlusconiani attendono il leader a Palazzo Madama e immaginano un “serriamo le file” tramite mozione degli affetti: «Io mi sono impegnato con Renzi, non lasciatemi ora solo», dovrebbe essere l’appello di Berlusconi. La tela della maggioranza si sgrana anche nel Nuovo centrodestra. A dire “no” al Ddl Boschi sono in due: Roberto Fomigoni e Antonio Azzollini si sono uniti alla fronda pro-Senato elettivo. Formigoni l’ha anche twittato, spingendosi ad appoggiare il capogruppo forzista alla Camera, Renato Brunetta con cui non c’è mai stato buon sangue. Ora invece apprezza: «Il lodo Brunetta per elezione dei 30 senatori è una buona idea, come la proposta originaria #ncd di una lista separata contestuale alle regionali ». E ci sono le incertezze leghiste. Roberto Calderoli, uno dei due relatori delle riforme, aveva già fatto sapere che se lo smottamento contro la Camera delle autonomie composta da senatori non eletti fosse diventato una frana, allora i malumori della Lega sarebbe stato difficile tenerli a bada. In realtà la partita del Carroccio si gioca tutta sul Titolo V e le competenze alle Regioni. Ma una cosa più di tutte i renziani hanno in odio in queste ore. È il collegamento che dissidenti e malpancisti in casa democratica creano tra riforme istituzionali e nuova legge elettorale. L’ha detto il vice segretario Lorenzo Guerini, l’uomo a cui Renzi ha affidato il partito: «È sbagliato collegare riforme istituzionali e Italicum». Potrebbe saltare tutto se Berlusconi ad esempio si irrigidisse pretendendo una blindatura subito dell’Italicum per votare il nuovo Senato. Il “patto del Nazareno” è sottoposto a continue scosse. Renzi e i suoi conoscono quanto accidentato sia il terreno. Per questo anche il documento dei “facilitatori” si rivela una mina. Afferma Russo: «Il dibattito sul nuovo Senato ha chiarito a tutti la necessità di mettere mano e cambiare profondamente la legge elettorale così come approvata dalla Camera...». Quindi l’elenco dei tre punti da modificare: le soglie, la parità di genere e, prima di tutto, lo stop alle liste bloccate e a un Parlamento di nominati attraverso le preferenze o i collegi uninominali. Del 08/07/2014, pag. 3 Ma ora i frondisti si concentrano sull’Italicum Bersani avverte: servono correzioni Critiche anche dal ministro Martina Legge elettorale, spunta un documento «Signori, facciamo i seri. Le differenze tra il Senato che vogliono gli amici come Chiti e il Senato che prevede il testo del governo sono differenze quasi tecniche. Se uno lo riconosce, bene. Ma se vengono a dire che la differenza tra i due disegni è la stessa che passa tra una democrazia compiuta da un lato e dall’altro la dittatura, il Pcus, Stalin, Mao, Lin Biao... Ecco, questo non è vero, non ci siamo». Alle 19.50, poco prima di infilarsi nell’assemblea dei senatori del Pd, il senatore Giorgio Tonini si prepara per il dibattito con la fronda che si oppone al governo. «Sia chiaro, a persone come Chiti e Mineo io parlo in amicizia. Se dici che il tuo partito propone una riforma che sa di dittatura, è ovvio che da quel partito finisci fuori. E non certo perché ti cacciano. Ricordo per esempio che Cesare Salvi non aderì al Pd perché diceva che il Pd non sarebbe stato nel socialismo europeo. Oggi il Pd è il primo partito del socialismo europeo. Salvi, invece, non c’è...». Corradino Mineo, prima di entrare nella riunione, lancia un telegramma. «Non facciamo una bella figura se trasformiamo questo scontro in una battaglia personalistica. Non mi si può dire “ah, Mineo, tu sei stato nominato e non eletto”. Anche perché lo sto dicendo io che basta col Parlamento dei nominati. E per sempre». L’assemblea comincia dopo le 20. Anna Finocchiaro annuncia un mezzo colpo di scena. «Giovedì la relazione va in Aula. E i primi voti saranno da martedì prossimo». Tutto slitta , insomma. «Oggi eviterei di contarci», scandisce il capogruppo Luigi Zanda. L’atmosfera sembra serena. Ma basta che nel menù della riunione entri il tema dell’Italicum ed ecco che, da Palazzo Madama, si sente una puzza di bruciato che arriva anche a Palazzo Chigi. Il super-lettiano Francesco Russo la mette così: «Se la riforma del Senato fosse stata quella prevista dal primo testo Boschi, allora avrei votato no. Ma ora il testo è profondamente cambiato. Ora — qui la parte più 31 “calda” del suo intervento — siamo più forti per cambiare l’Italicum su parità di genere, soglie di preferenza e scelta ai cittadini». Quest’ultima, probabilmente, è una formula eufemistica dietro la quale si nasconde la parola «preferenze». «È una forzatura mettere insieme legge elettorale e riforma costituzionale», prova a parare il colpo il renziano Andrea Marcucci. Ma poi ecco che, in soccorso di Russo, arriva lo storico Miguel Gotor. «La riforma è migliorata ma resta il tema dell’elezione del capo dello Stato. Non è possibile che, se un partito vince il premio di maggioranza alla Camera, possano bastargli solo 26 senatori per eleggersi l’inquilino del Colle da solo». E poi, ecco l’affondo del senatore bersaniano, «l’Italicum dovrà cambiare. Non possiamo andare avanti con un Parlamento di nominati. Dobbiamo evitare a tutti i costi una deriva oligarchica ».. Non sono soltanto parole. Nella riunione, infatti, piomba un documento bersanian-lettiano in cui si chiede, esplicitamente, di rimettere mano alla riforma elettorale. Magari reintroducendo le preferenze, magari anche solo per una quota di eletti. La trappola dell’Italicum, evidentemente, è scattata. In un solo giorno, oltre agli interventi nell’assemblea del Pd, dalla legge dell’accordo Renzi-Berlusconi si smarca un ministro del governo (Maurizio Martina, che boccia la legge durante un’intervista con l’Huffington Post). E torna a parlare anche Pier Luigi Bersani: «Facciamo pure in fretta, ma sulle riforme non si può scherzare, vanno corrette». E ancora, sempre dalla voce dell’ex segretario del Pd, che non si pente «affatto» di avere accettato a suo tempo il dialogo con Grillo: «Se la riforma del Senato rimane così insieme all’Italicum si creerebbe una situazione insostenibile.». Poco prima, la renzianissima senatrice Rosa Maria De Giorgi s’era lasciata scappare quanto segue: «Dentro Forza Italia si vedono cose strane. Ma sarà vero che Berlusconi vuole il rinvio del voto? Se è così, quelli della fronda del Pd daranno una mano alle strane mosse dei berlusconiani...». Ce ne sarà un’altra, di assemblea, prima che la riforma arrivi in Aula. Si discuterà dei problemi relativi all’elezione del capo dello Stato. E dell’Italicum, ovviamente. E si voterà, la prossima volta. del 08/07/14, pag. 12 La spinta delle lobby Usa Così decollano gli F35 MICHELE DI SALVO L’aumento delle pressioni dei gruppi militari industriali in America coincide con la decisione di archiviare il progetto Eurofighter in Europa Davvero è stata Una scelta fondata su ragioni tecniche? Abbiamo un aereo che funziona, prodotto da un consorzio europeo, con ampie ricadute occupazionali e industriali e di fatturato sull'Italia, e «chiudiamo il programma» per affidare il monopolio della nostra difesa aerea ad un progetto americano, di un’azienda americana, che costa di più, non garantisce le stesse ricadute economiche, industriali ed occupazionali, ed in più senza che i nostri militari abbiano in mano le chiavi di accesso del nostro armamento strategico. Come è stato possibile? Uno squarcio su questa lunga e ricchissima vicenda ci viene oggi dagli Stati Uniti, perchè qualcosa in questo complesso meccanismo si è incrinato. L’esercito americano ha deciso di lasciare a terra tutta la flotta dei suoi Joint Strike Fighter-F35 per ispezionare i motori dopo l’incendio scoppiato a bordo di un velivolo in Florida. L’Aeronautica e la Marina hanno ordinato di fermare tutti i voli dopo l’incendio (l’ennesimo) del 23 giugno alla base aerea Eglin. «Sono stati richiesti 32 ulteriori controlli ai motori degli F-35 e la ripresa dei voli sarà decisa sulla base dell’esito dei controlli e dell’analisi delle informazioni raccolte», ha detto il portavoce del Pentagono, ammiraglio John Kirby. I fatti non stanno però esattamente in questo modo. Di fronte a numerosi rapporti di volo particolarmente allarmati, e dopo l’ennesimo aumento dei costi da parte del costruttore, il Pentagono - che aveva già sospeso ulteriori acquisti e bloccato in attesa di chiarimenti gli ordini correnti già da un anno - ha richiesto a Pierre Sprey, progettista dell’F16 (il più diffuso e maneggevole caccia Usa) - di esaminare i rapporti dei piloti e confrontarli con le specifiche tecniche richieste e con la realtà degli aerei acquistati. Il rapporto finale è atteso per fine settembre, ma a quanto risulta anche dalle dichiarazioni precedenti, questo aereo «non dovrebbe affatto essere messo in condizione di volare » perché «insicuro per i piloti e inutile per gli scopi richiesti» oltre che «decisamente inferiore ai suoi omologhi di altri costruttori». Tutto questo senza entrare nel merito dei costi e di contratti di appalto. L’indicazione che l’F35 sia l’unica scelta su cui puntare è di un paio di anni fa. Un’affermazione che nessuno pare mettere in discussione, considerandola come vera, ed accreditata anche dai militari nelle audizioni parlamentari. Tutto nasce da alcune «improvvise e inspiegate» variazioni nei costi dei bilanci delle aeronautiche europee. In Germania ad esempio alla fine di aprile, il Bundesrechnungshof (la Corte dei conti tedesca) afferma che i costi del programma Eurofighter sono in qualche modo fuori controllo e che alla fine la Germania spenderà 60 miliardi di euro per l’aereo, contro i 30 inizialmente previsti. COSTI LIEVITATI Conclusioni simili a quelle dei controllori tedeschi sono contenute Management of the Typhoon Project del National Audit Office britannico del marzo 2011 che aveva denunciato l’impennata dei costi del programma, soprattutto per quanto riguarda le spese di gestione e mantenimento. Con i soldi inizialmente stanziati si sono potuti comprare molti meno aerei del previsto. I britannici circa 160 Typhoon contro i 232 iniziali, i tedeschi 140 invece che 180 a dei prezzi unitari sostanzialmente comparabili: 87milioni di euro gli inglesi, 84 i tedeschi. La metà del costo di un singolo F35. Numeri che fanno impressione soprattutto perché si sono formati in modo opaco. A un certo punto dalle previsioni di costo del programma italiano, ancora in fase di sviluppo, sparì il Defensive Aids Sub System (Dass), il sottosistema elettronico di difesa, una componente essenziale dell’aereo (per chiarire, sarebbe come acquistare un’auto senza impianto elettrico e considerarlo da parte del costruttore un optional). Sulla base dei numeri ufficiali, da mesi soprattutto i militari continuano a sostenere l’altrimenti insostenibile bugia che il Typhoon fa meno e costa di più dell’F-35. Stando ai dati del nostro Ministero della Difesa un caccia italiano verrebbe infatti a costare quasi 218 milioni di euro, quasi un quarto di miliardo. Che il Typhoon sia in grado già oggi, ma ancor più nei prossimi anni, di svolgere l’intera gamma delle operazioni aria-suolo lo dimostra l’impiego massiccio che ne ha fatto la Raf, l’aeronautica britannica, in Libia, e l’intenzione della stessa Raf di non ordinare per ora F-35 (è stata annunciato un possibile acquisto di 48 velivoli della versione F-35B a decollo corto e atterraggio verticale), tanto che sta già convertendo alcuni reparti dotati del cacciabombardiere Tornado sul nuovo Typhoon. Non risulterebbe fondato inoltre che per dare ai Typhoon la capacità di attacco al suolo sarebbero serviti ulteriori finanziamenti. Tutti i contratti di sviluppo sono già stati finanziati, compresi quelli per il completamento della tranche 3 del velivolo. Finanziati anche dall’Italia, tanto che il primo Typhoon tranche 3 di produzione Alenia è uscito il 4 marzo dalla linea di montaggio di Caselle e sarà consegnato la prossima estate all’Aeronautica Militare. E anche le prove di volo che si stanno svolgendo per certificare l’impiego del missile Storm Shadow (un missile capace di 400 chili di esplosivo trasportato a 500 chilometri di distanza) a bordo del Typhoon si sono svolte a Decimomannu, in Sardegna, con aerei italiani del reparto Sperimentale di Volo di Pratica 33 di Mare. Appare quindi quantomeno singolare che gli stessi vertici della Marina e dell’Aeronautica italiani smentiscano gli esiti di test condotti in proprio. Secondo il Washington Post, Lockheed Martin, General Dynamics e Raytheon hanno speso nel 2011 oltre 34 milioni di dollari in attività di lobbying nei soli Stati Uniti e solo nella politica federale, con un incremento del 10% rispetto al 2010. La sola Lockheed Martin ha incrementato la propria spesa in un solo anno del 19%. General Dynamics (produttore di carri armati Abrams e dei jet Gulfstream) ha speso 11,3 milioni dollari in lobbying con un incremento del 4,6 per cento. Raytheon (il più grande produttore di missili al mondo) ha speso 7,1 milioni dollari, con un aumento del 2,9 per cento. Northrop Grumman (che produce il drone Global Hawk) ha speso 12,8milioni dollari nel 2011. LE FORBICI DI OBAMA Secondo Michael Herson, presidente di American Defense International, una società di lobbying del settore, le aziende della difesa hanno concentrato la loro attività di lobbying sulla protezione dei contratti e programmi esistenti dai tagli immediati. Un aiuto a comprendere cosa sia successo ce lo offre un'analisi compiuta da Sheila Krumholz, a capo di OpenSecrets.org, un’organizzazione che pubblica e rende noti i contributi delle aziende private alle lobby, e quelli di queste ultime ai singoli partiti e politici. In più OpenSecrets «fa i nomi», ed indica anche con due categorie, non solo chi sono i lobbisti, ma anche chi sono i politici pagati dalle lobby, con quali cifre, e i «Revolving Door profile» - ovvero politici, congressisti, senatori,maanche dipendenti degli enti pubblici, che passano indistintamente e ciclicamente come in una porta girevole dal settore pubblico (spesso acquirente) al privato (normalmente fornitore). Secondo i report il Carlyle Group (che ha nel suo board Bush padre e figlio, e tra gli azionisti la famiglia Bin Laden) conta ben 85 lobbisti e 44 «revolvers» (il 52%). La Lockheed Martin opera di concerto con altre tre strutture: Bae Systems North America, Carlyle Group e United Defense. Ha sempre avuto dal 1990 una media di spesa di 5 milioni di dollari per spese di lobbying a Washington, tranne tra il 1999 e il 2000 in cui si è avuta un’impennata a 16 milioni l’anno. Livelli tornati «normali» sino al 2008, quando l’amministrazione Obamaha deciso un taglio complessivo della spesa militare di circa 1000 miliardi di dollari in 10 anni. I volumi delle spese di lobbying sono quindi risaliti a 19 milioni l’anno. L’unico programma sino ad oggi sostenuto destinato all’esportazione e al mantenimento dei contratti in essere è proprio l’F35, che assicura lauti fatturati di produzione e manutenzione proprio a Lockheed Martin, General Dynamics e Raytheon, nonchè a Bae Systems North America, Carlyle Group e United Defense. Dal 2008 in tutta Europa la Nato mette in discussione il programma Eurofighter. Lo fanno per primi i generali americani a capo delle strutture, prima di andare in pensione e rientrare nel settore privato come consulenti con stipendi a sette cifre. Lo fanno i governi delle regioni in cui sono presenti le basi di assemblaggio dell’aereo europeo, cui vengono assicurati sulla carta contratti che bilancino le perdite occupazionali dovute all’abbandono del progetto europeo, anche se i nuovi contratti hanno numeri equivalenti «solo sulla carta». Lo fanno alcuni smembri dello Stato Maggiore che cominciano a parlare improvvisamente di «un solo aereo militare possibile», senza alcuna altra alternativa, mentre nei bilanci di previsione della manutenzione delle varie aeronautiche i costi per l’aereo europeo cominciano ad apparire esponenziali, senza alcun riscontro contabile e senza alcuna motivazione. Ciò che sino a ieri costava 80 milioni, risulta in previsione per l’anno successivo a 212 milioni, tanto da far apparire un affare l’F35, anche se costa 160milioni di dollari. In ballo tuttavia non c’è solo un appalto - anche se parliamo del più grande appalto militare della storia, stimato in circa 1.600 miliardi di dollari in 40 anni -ma c’è l’intero impianto della sicurezza Nato. Un sistema nel quale gli Stati Uniti, indipendentemente dal numero di aerei acquistati o effettivamente in volo, avranno in mano l’intera infrastruttura 34 di attacco e difesa aerea dell’Occidente, senza alternative. Per l’industria bellica americana c’è in ballo la possibile distruzione di qualsiasi alternativa a se stessa in un settore così strategico per l’innovazione tecnologica nel suo complesso che, una volta smantellato, sarà inimmaginabile ricostruire. Chiunque fosse tra i fornitori del programma Eurofighter è stato «importato» con promesse di lavoro e fatturato nel nuovo progetto, o è stato acquisito essendo in ballo anche le forniture tecniche nel settore dell’aviazione civile. La partita degli F35 è dunque la madre di tutte le partite di geopolitica e controllo strategico in Occidente, teoricamente tra alleati, dalla seconda guerra mondiale, destinata a tracciare i rapporti di forza militari ed industriali del prossimo secolo. 2-fine. La prima puntata è uscita il 7 luglio 35 LEGALITA’DEMOCRATICA dell’8/07/14, pag. 6 OPPIDO L’ORGOGLIO MAFIOSO DEL PAESE CHE S’INCHINA AI BOSS TEATRO DAGLI ANNI OTTANTA DI UNA SANGUINOSA FAIDA OGGI IL PARROCO DON BENEDETTO RUSTICO SI GIUSTIFICA: “DEFERENZA? MA LE NOSTRE CASE SONO PIENE DI ARRESTATI” di Enrico Fierro e Lucio Musolino Oppido Mamertina (Rc) Se volete capire certi paesi di quel cuore nero del Sud che è la Calabria, non dovete parlare con i vivi, ma con i morti. Perché qui i vivi raccontano bugie, parlano per nascondere verità che sono sotto gli occhi di tutti da sempre, da secoli. La ’n d r a ngheta non esiste, sono tutte falsità, la Madonna non si è inchinata, la mia famiglia tutti galantuomini: mentono i figli rozzi e ignoranti della mafia e mentono quelli che hanno studiato, i sindaci, gli avvocati, i “luigini” di paese: attaccati ad uno stantio latinorum per loro il problema è sempre un altro. MENTONO pure i sacerdoti di un Cristo che qui viene messo in croce ogni giorno. E allora è con i morti che bisogna parlare, solo loro sono in grado di dirti la verità su Oppido Mamertina e la sua mafia fatta di vecchi boss malati e di moderni criminali capaci di tutto: accumulare milioni di euro nell’Italia di sopra, giocare con i colletti bianchi per accaparrarsi i beni delle aste giudiziarie nella Capitale e uccidere un loro rivale gettandolo in pasto ai porci. “Orate pro defunctus”, c’è scritto all’ingresso del cimitero di Oppido. Preghiamo per i morti della lunga guerra di mafia che dal 1986 lascia cadaveri a terra a decine in questo paese. Faida la chiamano, e sbagliano, perché quei 30 morti e la ventina di feriti gravi non sono il frutto di arcaiche vendette tra famiglie, qui non si recita una improbabile Cavalleria rusticana, no, sono le vittime di una guerra di potere. L’onore non c’entra, le arcaiche tradizioni neppure, questo è materiale buono per i gonzi, la guerra è per i soldi, i beni da accumulare, la roba da conquistare. Per questo si sono combattute le famiglie dei FerraroRaccosta da una parte e dei Mazzagatti, Polimeni, Bonarrigo, dall’altra. Per i danari hanno ucciso. PER I DANARI una sera di maggio del 1998, freddarono Giovanni Polimeni. Spararono come ossessi i killer quella sera, e ammazzarono malacarne e innocenti. Uomini senza onore e senza pietà, uccisero Mariangela Anzalone, nove anni appena. Per la conquista della “locale” di Oppido – la cellula dell’organizzazione mafiosa nel paese che era importante tanto da avere potere di parola e decisione anche nella lontana Lombardia – don Peppe Mazzagatti un giorno di aprile del ’93 perse il figlio Pasquale che aveva 33 anni. Pasquale, due figli maschi e tre femmine, aveva fatto un buon matrimonio che allargò e rafforzò le alleanze della sua famiglia. Sposò una nipote di don Saro Mammoliti, un grande boss di una famiglia che contava, lo chiamavano il playboy di Castellace, era bello ed elegante, ma ancora di più intelligente e aveva capito che il pizzo, i sequestri e le rapine erano roba da pezzenti, che ora c’era la droga e i soldi da investire in attività pulite. Come tutti gli uomini che contano nella ’ndrangheta sapeva che la vendetta è un piatto che si mette a tavola gelato. E la morte di Pasquale Mazzagatti fu vendicata quarantotto mesi 36 dopo, una sera d’agosto. Tre morti a terra. “Noi dopo Pasquale siamo stati fermi quattro anni. Sono passati quattro anni e nun ficimu nenti”. È il 5 giugno del 1998 e la voce di Giuseppina Polimeni, la moglie del vecchio boss Peppe Mazzagatti, non tradisce un filo di emozione mentre parla con la figlia di quella vendetta. I MORTI PARLANO e ti raccontano la lunga guerra di Oppido, il terrore della gente onesta, un paese intero piegato agli interessi criminali di poche famiglie. Il rispetto, le parentele. In paese giustificano il prete che ha consentito l’inchino della Madonna nei pressi della casa del boss con i legami familiari. Dicono che un suo primo cugino, Carmelo, abbia sposato una delle figlie di don Peppe Mazzagatti. E quindi la Madonna, la madre di Cristo, l’immagine della pietà umiliata per onorare uomini sanguinari. Appena due anni fa Francesco Raccosta, colpevole di aver ammazzato il boss Mimmo Bonarrigo, alleato della famiglia Mazzagatti, fu ucciso in modo orrendo. Ferito a morte con una spranga, fu gettato in pasto ai porci. “È stata una sensazione non bella, di più. Ho aperto la gabbia della femmina, un maiale da due quintali, e temevo che quella puttana non se lo mangiava perché lui era sporco di sangue. Mamma mia come strillava, ho visto scrocchiare la tibia…caz zo come mangiava quel maiale”. Il giovane carabiniere addetto all’intercettazione dovette strapparsi le cuffie e andare in bagno a vomitare dopo aver ascoltato le parole del killer. Mentono i vivi. Si appella alla Madonna Mimma Mazzagatti, la figlia del boss. “O signuri, o signuri tu che vedi tutto, mio padre è innocente, mio fratello è innocente. Sono orgogliosa di mio padre, sono orgogliosa della mia famiglia. Li misero in croce come Giuda mise in croce a Cristo. Ma quale ’ndrangheta, qui non esiste nulla sono solo menzognità . Il Signore grida vendetta…”. Non vede, non sente e non sapeva il prete don Benedetto Rustico. Intervistato dal sito calabrese Strill.it parla di processione antica, di percorsi che si fanno da sempre. “Nessun inchino a nessuno, forse ci può essere una interpretazione visto che in quella casa abita questa famiglia che loro dicono… ma applicando questo criterio le nostre case sono piene di queste persone arrestate… tornassi indietro annullerei la processione”. Eppure il Papa aveva chiesto coraggio ai preti di Calabria, sapendo quanta generosità c’è nella chiesa di quella terra, ma anche quanta vigliaccheria alligna nelle oscure sacrestie. Non sono state ascoltate le parole di Francesco. DI FRONTE a tanti don Abbondio, la mente va al “Pre - vitocciolo”, il racconto scandalo di uno scrittore di Oppido, don Luca Asprea, Carmine Ragno, sulle perversioni e le complicità di certa società calabrese e di certo clero. Il ricordo oscuro del seminario, dove i seminaristi scrivevano W il Papa sui muri dei bagni con i loro escrementi. Del 08/07/2014, pag. 10 LA GIORNATA Il capo dei vescovi calabresi “Fermate le processioni” indaga la procura antimafia Bufera su Oppido Mamertina dopo l’inchino al capo del clan Monsignor Nunnari: più coraggio, i preti dovevano scappare GIUSEPPE BALDESSARRO OPPIDO MAMERTINA Associazione a delinquere di stampo mafioso. La Dda di Reggio Calabria ha ufficialmente aperto ieri un fascicolo sui fatti di Oppido Mamertina. E lo ha fatto ipotizzando il reato principe della criminalità organizzata, il 416 bis. I pm sostengono insomma che chi ha 37 ordinato e fatto eseguire “l’inchino” della statua della Madonna delle Grazie verso la casa del boss Giuseppe Mazzagatti abbia agito in quanto appartenente alla ‘ndrangheta. E se il procuratore Federico Cafiero de Raho parla di «un episodio di assoluta gravità», la Chiesa, dal canto suo, anche ieri è stata durissima. Attraverso l’Osservatore Romano, la Santa Sede spiega che vicende come quella di Oppido ricorrono «in zone dove il pervertimento del sentimento religioso si accompagna spesso all’azione della criminalità e a un’acquiescenza, dettata da paura o interesse, purtroppo ancora diffusi tra le popolazioni». In paese la tensione resta alta. La magistratura ha iniziato ad acquisire immagini ed informative dettagliate su quanto accaduto durante la processione e nelle ore sia precedenti che immediatamente successive. Sono in corso anche le identificazioni di quanti, con ruoli sia pure diversi, sono stati protagonisti della processione, e, anche se al momento si procede formalmente contro ignoti, tutto lascia presupporre che la storia avrà seguiti importanti sul piano giudiziario. Sul fronte religioso tiene banco soprattutto il comportamento dei parroci presenti alla cerimonia che, secondo monsignor Salvatore Nunnari, presidente della Conferenza episcopale calabrese, avrebbero dovuto lasciare la processione. A Nunnari «dispiace che i preti non abbiamo avuto il coraggio di andare via, di scappare dalla processione». Per l’arcivescovo di Cosenza, «quando i carabinieri hanno lasciato, i preti dovevano scappare dalla processione. Avrebbero dato un segnale, e di questi segnali abbiamo bisogno». Nunnari chiede ai preti non restare più a guardare: «Bisogna avere il coraggio di fermare le processioni» dal momento che può capitare che «sotto la vara ci sia il mafioso di turno che poi fa il capo». E conclude che se fosse lui vescovo di quella città «per un po’ di anni non farei processioni e credo che sarebbe cosa gradita alla Madonna». Intanto l’amministrazione comunale, che era presente alla processione e che non ha lasciato il corteo nonostante la dissociazione dei carabinieri, ieri ha annunciato che, qualora fossero accertati dei reati, si costituirà parte civile in difesa del buon nome di Oppido. Il sindaco Domenico Giannetta ha ripetuto che la processione si è svolta come si fa da anni, ma ha anche sottolineato che qualora risultassero episodi accertati dall’inchiesta della magistratura, il Comune sarà presente tra le parti lese. 38 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE del 08/07/14, pag. 2 Non sono questioni minori Carlo Lania INVIATO AD AUGUSTA (SIRACUSA) Augusta, il comune sciolto per mafia nel 2013, si prende cura di 450 migranti tra i 15 e i 17 anni. La macchina dell’accoglienza procede soprattutto grazie al lavoro dei volontari. Ma non è sufficiente Seduti all’ingresso tre ragazzini del Mali e due tunisini ascoltano le notizie trasmesse dalla televisione francese. «Si interessano a tutto, ma vanno pazzi per il calcio», spiega Vincenzo Amato, il dipendente della Protezione civile responsabile di questa ex scuola diventata un punto di accoglienza per i piccoli immigrati che arrivano da soli in Italia. «Abbiamo chiesto alle squadre di calcio locali di regalarci le loro magliette da dare ai ragazzi e le vogliono tutti. Tra l’altro giocano anche bene. C’è un ragazzo nigeriano che assomiglia molto a Balotelli e per scherzo gli diciamo: ’bravo ci hai fatto perdere il mondiali’». I mondiali forse no, ma una piccola Coppa d’Africa alla scuola verde di Augusta, in provincia di Siracusa, si potrebbe giocare di sicuro. «Sono bravi soprattutto a palleggiare», spiega ancora Vincenzo mentre un ragazzino egiziano con una maglietta grigia e verde e in testa un cappellino da baseball gli chiede per l’ennesima volta l’accendino. «Eccolo, ma a fumare vai fuori, no smoking qui» risponde Enzo facendo per finta la voce grossa. Fino a settembre dell’anno scorso la scuola verde, come la chiamano tutti per via dei muri esterni di questo colore, era solo un vecchio edificio scolastico abbandonato e in attesa di essere ristrutturato. Allora non c’era da affrontare nessuna particolare emergenza legata all’immigrazione, tanto che bisogna risalire almeno a dieci anni fa per trovare traccia del primo e unico sbarco avvenuto ad Augusta. Forse più un errore di rotta che altro. L’operazione Mare nostrum ha invece trovato nella cittadina siciliana un porto sicuro dove far arrivare le migliaia di disperati in fuga dalle sponde opposte del Mediterraneo. E la situazione è improvvisamente cambiata. «Da ottobre dell’anno scorso a oggi ci sono stati 67 sbarchi», spiega il prefetto Maria Carmela Librizzi, uno dei tre commissari che dal marzo dei 2013 governano il comune dopo il suo scioglimento per mafia. «In questi mesi sono arrivati 30mila migranti, e di questi 3.174 sono minori non accompagnati». Se si considera che, secondo Save the Children, dal 1 gennaio al 17 giugno scorso sono arrivati in tutto circa 6.000 bambini senza un adulto che badasse a loro, si capisce come Augusta abbia dovuto affrontare il peso maggiore di questa situazione. E ha reagito come meglio non avrebbe potuto, cercando di fare il possibile per dare a questi piccoli migranti in fuga da guerra e miseria un futuro. Oggi il comune di Augusta si prende cura di 450 migranti tra i 15 e i 17 anni, quasi tutti maschi e distribuiti in quattro strutture: 180 alla scuola verde, 100 nel centro papa Francesco di Priolo, 70 all’hotel Haloa di Porto Palo e 100 alla villa Montevago di Caltagirone. Arrivano da Egitto, Mali, Nigeria, Eritrea e Senegal. «Parliamoci chiaro: sono strutture di emergenza, inadatte a dei minori, ma nelle quali siamo comunque in grado di offrire loro la migliore assistenza possibile», spiega il prefetto Librizzi. Quella dei bambini migranti che viaggiano da soli è una novità degli sbarchi di quest’anno, almeno per il gran numeri di arrivi. Partono da soli sperando di poter raggiungere i parenti che già si trovano in Europa, o vengono caricati sui barconi dalle famiglie che così 39 sperano di salvarli dalle guerre che devastano i loro Paesi e di garantire loro, forse, un futuro altrimenti impossibile. Sfruttando a volte anche il fatto che far viaggiare un minore costa meno di un adulto. Quando arrivano in Italia hanno alle spalle viaggi durati molti mesi, e non privi di rischi e violenze. «Fisicamente non presentano grosse patologie, e di sicuro nessun problema dal punto di vista epidemiologico, come purtroppo a volte si tende a esagerare», spiega Michele Iacovelli, coordinatore di Emergency a Siracusa. I problemi più gravi spesso sono psicologi. Ad Augusta, nella scuola verde, il comune riesce comunque a garantire un’assistenza, sia medica che psicologica. Dodici medici, tra Asl, guardia medica e volontari, si alternano ogni giorno insieme a cinque assistenti sociali, mediatori culturali e psicologi. E nessuno bada agli straordinari. «Molti sono volontari», prosegue il prefetto. «Bisogna tenere conto che mentre i minori che richiedono asilo politico sono di competenza del ministero degli Interni, che li invia negli Sprar (sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), quelli che non fanno richiesta di asilo dipendono dal ministero del Lavoro e delle politiche sociali che, al contrario di quanto fa il Viminale, non si preoccupa di reperire le strutture dove alloggiarli né delle spese, fatta eccezione per un contributo di 20 euro pro capite al giorno mentre ne servirebbero almeno 70». Se non tutto, molto è allora affidato ai volontari. I boyscout organizzano corsi di italiano e la domenica invitano i piccoli immigrati a mangiare con loro, la parrocchia fornisce vestiti e pasti, ma c’è anche chi ha preso in affido un ragazzo. Il Comune è poi riuscito a stipulare una convenzione con una mensa che garantisce pasti adeguati a 5 euro. Questi sono giorni di Ramadan e la stragrande maggioranza dei ragazzi a mezzogiorno ancora dorme. «Interrompono il digiuno alle otto di sera e poi restano svegli fino alle sei del mattino, per questo sono stanchi. E per questo le stanze sono in disordine, altrimenti fanno a gara a chi ha la stanza più pulita», spiega Vincenzo. Ogni camerata una nazionalità e almeno una decina di brandine allineate. Chi non dorme, si avvia verso la doccia, guarda la televisione o gioca a calcio nel campetto di cemento che si trova nel cortile interno della scuola. Oppure esce e va in giro per la città, dove non è raro che qualcuno gli offra da magiare. «Poi vengono qui e dicono che il cibo non è buono, anche se poi fanno sempre sparire tutto», si lamentano gli operatori. Il menù prevede datteri, latte, pollo e pasta, inoltre ogni nuovo arrivato riceve un kit composto da un paio di pantaloni in cotone blu, una maglietta bianca, mutande usa e getta, spazzolino e dentifricio. Più sapone e shampoo per l’igiene personale. E poi ci sono i vestiti donati dagli abitanti di Augusta. «Wait in line» ammonisce un cartello sulla porta del magazzino vestiti. «Il Comune fa quello che può, ma è chiaro che la gestione dei minori non può essere affidata solo alla buona volontà dei servizi sociali dei comuni. Manca ancora una visione nazionale del problema dei minori non accompagnati», osserva Alessio Fasulo, coordinatore interventi Frontiera Sud di Save the Children. Un problema che conosce bene anche il prefetto Librizzi. «Abbiamo chiesto alla regione di istituire una cabina di regia per coordinare gli interventi — dice — E poi c’è il rammarico di non poter offrire a questi ragazzi un futuro, l’impossibilità almeno per ora di avviare dei corsi professionali». Con una preoccupazione in più, che il prefetto conosce bene: «Bisogna stare sempre molto attenti, perché in questo momento i ragazzi immigrati rappresentano anche una fonte di guadagno e qualcuno potrebbe approfittarne aprendo comunità di accoglienza dove chissà poi come verrebbero trattati». del 08/07/14, pag. 3 Rimpallo Ue, oggi i ministri decidono 40 Migranti Malstrom assicura i fondi ma rimprovera il Viminale: “Dovete prendere le impronte digitali a tutti” Giorgio Salvetti Almeno su una cosa l’Europa è unità. Nessuno vuole farsi carico delle migliaia di disperati che ogni giorno attraversano il Canale di Sicilia. Neppure quando muoiono a centinaia. Ci si chiede come è stato possibile lo schiavismo, tra qualche decennio ci si chiederà come è stato possibile questa strage infinita ancora una volta ad opera dell’Occidente. Oggi a Milano si terrà il vertice europeo dei ministri dell’interno di tutti i paesi Ue, il primo evento che l’Italia ospiterà nel corso del tanto sbandierato semestre di presidenza. La città lanciata nell’affanosa rincorsa a Expo si rifa di nuovo il trucco: sventolano bandiere dei vari stati, si appendono manifesti e si estendono i controlli di sicurezza. Ma basta fare un giro in Stazione Centrale per capire che la realtà è molto lontana dagli sfarzi degli eventi legati a questi summit. Milano da giorni non sa come gestire l’arrivo massiccio di stranieri. Sono uomini, donne e bambini sbarcati nel sud dopo essere stati soccorsi nell’ambito dell’operazione Mare Nostrum. Sono stati lasciati a loro destino e sono venuti a Milano nel tentativo di andarsene dall’Italia. Nell’ultimo fine settimana hanno attraversato il mare altri 2.600 migranti. Non passa ora senza che venga avvistato un nuovo barcone. A centiania ieri sono sbarcati anche nel porto di Lampedusa dove il centro di accoglienza non è più agibile ma è stato riaperto nell’attesa che i nuovi arrivati venissero trasbordati in Sicilia. Ieri il ministro degli interni Alfano era ad Agrigento per incontrare la sindaca di Siculiana dove la popolazione è spaventata dal massiccio arrivo di stranieri. “L’Europa ha finalmente capito che noi non abbiamo più tempo per aspettare – ha detto il ministro – Nel semestre ci giochiamo davvero tutto. Oggi Alfano incontrerà a Milano il commissario degli affari interni della Ue Cecilia Malstrom che però non sembra aver colto il messaggio. “Non è giusto dire che l’Europa ha abbandonato l’Italia – ha dichiarato – l’Italia ha ricevuto dall’Ue 500 milioni di euro e sarà il più grande ricevente di fondi dal 2014 al 2020. Stiamo facendo appello agli altri paesi membri per la spartizione dei rifugiati”. Poi però non ha rinunciato a bacchettarci: “Abbiamo avuto indicazioni da alcuni stati membri che l’Italia e altri paesi non adempiono agli obblighi sulle impronte digitali degli immigrati che chiedono asilo. Stiamo cercando di capire se il problema è dovuto alla forte pressione o è sistemico”. E’ la verità. Le autorità italiane non prendono le impronte perchè altrimenti dovrebbero farsi carico dei rifugiati. Li soccorriamo in mare ma poi chiudiamo gli occhi nella speranza che riescano da soli ad andarsene nei paesi più a nord. Si tratta di un’ipocrita braccio di ferro sulla pelle di queste persone nell’inutile tentativo di rimpallarsi esseri umani facendo a gara e chi riesce a fare il meno possibile per dare un vero aiuto. Un rapporto dell’Ocse commissionato dal Cnel rende noto che l’Italia e la Spagna sono i due paesi dove l’immigrazione è cresciuta di più: la popolazione straniera è quadruplicata dal 1996 al 2011 fino a raggiungere 4,5 milioni, pari al 9% del totale. Una percentuale più alta di Grecia e Portogallo ma più bassa degli altri paesi con un Pil paragonabile al nostro. Le ultime ricerche testimoniano che sono sempre di più quelli che lasciano il nostro paese, mentre un altro studio pubblicato ieri dall’Ue dimostra che l’Italia nel 2013 era al quinto posto per il numero di richiedenti asilo: oltre 27 mila (+61% rispetto al 2013). In Germania però sono quasi 127 mila (+64%) e in tutta l’Ue sono aumentati del 30%. L’Italia dunque è il paese più esposto per la sua posizione geografica ma non è certo quello che accoglie più rifugiati. E quando lo fa, lo fa malissimo. Altro che sbattere i pugni sui tavoli di Bruxelles. 41 Del 08/07/2014, pag. 10 Immigrati, le rimesse a 5,5 miliardi Come gli italiani all’estero nel '68 Ammontano a 5,5 miliardi di euro nel 2013 le somme che gli immigrati stranieri in Italia hanno inviato alle loro famiglie d’origine, secondo i dati diffusi da Banca d’Italia. Si tratta del dato più basso degli ultimi sette anni e corrisponde a poco più della stessa cifra, attualizzata, che gli emigranti italiani inviavano nel nostro Paese nel 1968 (5,1 miliardi), quando ormai gli espatri annui, grazie al boom economico, erano crollati, posizionandosi sotto le 200 mila unità. La crisi nel 2013 ha ridotto le rimesse straniere di 1,3 miliardi (20%) in un anno. A testa ogni immigrato ha mandato mediamente a casa in dodici mesi 1.250 euro, il 25% in meno rispetto al 2012 e ben 800 euro in meno rispetto al 2007, quando la cifra superava i duemila euro. Anche nel 2012 si era registrato un calo, limitato però a un -7,6%. Secondo uno studio della Fondazione Leone Moressa, molto è dipeso dalla Cina che da sempre è il Paese verso il quale maggiormente si indirizzano le rimesse dall’Italia: nel 2012 il peso della Cina era pari al 40% dell’importo complessivo mandato all’estero, mentre nel 2013 la quota si è dimezzata passando a 1,1 miliardi di euro da 2,7. Più ridotto il calo delle altre nazionalità: filippini -7,3% , marocchini e peruviani meno dell’1%, mentre si registrano gli incrementi degli immigrati del Bangladesh (+ 52%), dell’India (+ 22%) e dello Sri Lanka (+ 62%). Il maggior calo si è verificato nel Lazio (-48%), dove le rimesse si sono attestate a un miliardo contro l’1,2 della Lombardia. Ma cosa succede nel frattempo agli italiani che hanno cercato fortuna all’estero? Anche se ormai i risparmi rimpatriati pesano in misura inferiore al passato sulla bilancia dei pagamenti e sui conti economici nazionali, in passato hanno rappresentato una fonte di ricchezza non indifferente. Il flusso migratorio iniziato nel secondo dopoguerra, che produceva rimesse nel 1947 pari a 183 milioni di euro (dati attualizzati), esplode tra il 1958 e il 1963, quando il dato annuale delle rimesse raddoppia: da 336,1 milioni di dollari nel 1958 a 638,2 milioni di dollari nel 1963. In dati attualizzati se nel 1950 le rimesse ammontavano a circa 791 milioni di euro, dopo dieci anni erano passate a 3 miliardi e nel 1968 toccavano i cinque miliardi. Nel corso del tempo il flusso migratorio si è ridotto di pari passo con l’espansione della nostra economia e di conseguenza anche le rimesse hanno rappresentato una percentuale del Pil (Prodotto interno lordo) assai più ridotta. Fino al 2001 quando, in coincidenza con la crisi americana ed europea, il fenomeno migratorio è ripartito. In questo modo dal 2001 al 2011 le rimesse sono aumentate del 33% passando da 359 milioni di euro a 478. Soltanto tra il 2010 e il 2011 sono cresciute del 9,9%, passando da 435 milioni di euro a 478 milioni di euro, per poi attestarsi a 486 l’anno successivo, dato confermato nel 2013. Ma da dove vengono questi soldi? I dati suggeriscono di guardare con grande attenzione alla realtà europea, perché tre su quattro tra i Paesi in testa alle statistiche sulla presenza italiana nel mondo (Germania, Svizzera e Francia) sono europei, mentre l’unico extraeuropeo è l’Argentina. Per inquadrare correttamente l’importanza di questo nuovo fenomeno, che è caratterizzato da una emigrazione di livello culturale e professionale più elevato, l’Ispi mette a confronto i dati con altri indicatori economici relativi agli ultimi anni. Confrontando, ad esempio, l’andamento delle rimesse con quello del Pil, emerge che nel periodo 2009-2011 il volume di rimesse dall’estero è aumentato tendenzialmente di anno in anno in modo più cospicuo rispetto al Pil, e quando è diminuito, è calato meno di quanto sia calato il Pil. Ecco come: tra il 2008 e il 2009 il Pil italiano è calato del 5,1%, le rimesse del 4,6%; tra il 2009 e il 2010 il Pil è aumentato dell’1,3%, le rimesse del 42 5,3%; tra il 2010 e il 2011 l’incremento del Pil è stato dello 0,4%, quello delle rimesse del 9,9% (dati Banca d’Italia). Se ne deduce che in un momento di crisi economica, come quello che caratterizza il triennio in questione, l’emigrazione può garantire alla bilancia dei pagamenti una risorsa ulteriore per la stabilità. La crescita delle rimesse dall’estero è da mettere in relazione con la parallela crescita delle partenze degli italiani. Come rileva l’Aire (anagrafe dei residenti italiani all’estero), l’emigrazione ha conosciuto negli ultimi anni un significativo incremento: nel 2009 gli iscritti all’Aire erano 4.028.370, nel 2011 erano passati a 4.208.977 (dati Fondazione Migrantes). Risultato: nel 2011 le rimesse, pari a 1.580.220 milioni di euro, hanno influito sul Pil italiano per lo 0,03%. Antonella Baccaro del 08/07/14, pag. 3 L’Alta corte blocca i respingimenti del governo Abbott E. Ma Australia. Per la prima volta l’ammissione di aver riconsegnato 41 profughi tamil allo Sri Lanka. I giudici di Canberra impongono uno stop alla pratica delle intercettazioni in mare dei boat people La politica dei respingimenti in mare dei profughi che ha caratterizzato fin da subito il governo conservatore di Canberra ha ora un oppositore interno istituzionale. L’Alta corte di giustizia ha bloccato ieri il tentativo del ministro dell’Immigrazione e della Protezione delle frontiere (questa la nuova denominazione del dicastero), Scott Morrison, di riconsegnare alle autorità dello Sri Lanka i 153 profughi tamil fuggiti dal Paese e intercettati dalla marina australiana su un barcone al largo delle coste del continente. Secondo quanto riportato dall’Abs News, i giudici di Canberra hanno imposto all’esecutivo centrale della federazione australiana di congelare il respingimento fino a martedì prossimo, quando il caso sarà discusso davanti all’Alto tribunale. L’imposizione è arrivata ieri dopo che il governo del conservatore Tony Abbott si è visto costretto — per la prima volta in assoluto — ad ammettere di aver respinto in mare aperto e consegnato, domenica mattina, alla marina srilankese che ne aveva dato notizia altri due natanti con 41 richiedenti asilo. Secondo la denuncia di alcuni esponenti politici australiani e di molte organizzazioni per i diritti umani del Paese, anche in questo caso quasi tutti i profughi respinti sarebbero di origine tamil, e dunque a rischio di persecuzioni, arresti e torture nello Sri Lanka. Anche l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) ha espresso «profonda preoccupazione» per la violazione dei diritti umani e delle leggi internazionali, e ha chiesto all’esecutivo australiano di fare chiarezza sulla vicenda. La marina srilankese, infatti, ha confermato di aver ricevuto i 41 profughi e di averli consegnati alla Divisione investigazioni penali, nel porto di Galle. E il governo dello Sri Lanka ha fatto sapere che i fuggiaschi saranno accusati di aver lasciato il Paese illegalmente e, se ritenuti colpevoli, saranno condannati al «carcere duro». Solo a questo punto il ministro Morrison — che fin dall’insediamento, a settembre 2013, ha promesso mano dura verso i boat people – dopo una settimana di silenzio si è visto costretto a fornire i dettagli sul respingimento dei due barconi intercettati alla fine di giugno a ovest delle isole Cocos. Morrison ha raccontato, secondo quanto riferisce la Bbc news, che i profughi sono stati riportati domenica in acque srilankesi, al largo di Batticaloa, per essere riconsegnati alle autorità del Paese, dove sarebbero stati subito «sottoposti ad un 43 accusato screening», ma che tra loro — ha aggiunto il ministro dell’Immigrazione australiano — ci sarebbero stati «solo quattro tamil» le cui richieste di asilo sono state valutate «in teleconferenza». Secondo Morrison, solo uno dei richiedenti asilo tamil avrebbe potuto ottenere lo status di rifugiato in Australia, ma avrebbe scelto di rinunciare alla richiesta e di tornare nello Sri Lanka dopo aver appreso che sarebbe stato rinchiuso a tempo indefinito in attesa di una decisione — come avviene regolarmente con gli asylum seeekers, per lo più iraniani, iracheni o curdi, provenienti dall’Indonesia — in un campo di detenzione allestito dalle autorità australiane nelle isole Manus o Nauru, nel Pacifico, o in Papua Nuova Guinea. Contemporaneamente, però, il ministro si è rifiutato di rispondere alle domande riguardo la sorte dei 152 profughi tamil che, secondo i media australiani, provenivano da un campo profughi in India e che starebbero per essere riconsegnati dalle autorità australiane nelle mani della polizia di frontiera dello Sri Lanka. L’isola dell’Oceano Indiano è sotto osservazione speciale dell’Unhcr per la violazione dei diritti umani fin dalla guerra contro i separatisti tamil che si concluse nel 2009. Eppure il governo australiano, che finora non aveva mai ammesso questa pratica di respingimento contro i barconi di profughi provenienti dai Paesi limitrofi, si difende, come fa notare la Bbc, spiegando che «la sua politica in materia di asilo mira a salvare vite umane». del 08/07/14, pag. 3 Il Cnel: bisogna cambiare la Bossi-Fini Giorgio Salvetti È questo in sostanza il parere del Cnel. Il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro ha commissionato all’Ocse una ricerca dal titolo «L’integrazione degli immigrati e dei loro figli». Secondo il Cnel bisognerebbe subito concedere lo «ius soli» ai nati in Italia da genitori stranieri e il voto amministrativo a tutti gli immigrati. Dal rapporto dell’Ocse emerge che in Italia gli stranieri sono per lo più impiegati nell’edilizia e come badanti, il loro tasso di occupazione è più alto in percentuale rispetto a quello degli italiani ma sono spesso sottopagati, sfruttati o lavorano in nero. I giovani fanno fatica ad ottenere un titolo di studio superiore alla terza media. Solo il 50% prosegue gli studi. Gli uomini sono stati colpiti duramente dalla crisi nel settore manifatturiero ed edilizio: i disoccupati sono aumentati del 10%, il doppio degli italiani. Le donne invece che lavorano come badanti sono molto legate all’erosione crescente dei risparmi delle famiglie. Rispettivamente uomini e donne stranieri rappresentano il 31 e il 40% dei lavoratori poco qualificati in Italia. Mentre un terzo degli immigrati in età compresa tra i 15 e i 24 anni non riesce né a studiare né a lavorare. 44 SOCIETA’ Del 08/07/2014, pag. 1-28 LA COPERTINA Ecco come i social network manipolano le emozioni FABIO CHIUSI L’ONDATA di indignazione levatasi contro Facebook per l’esperimento con cui avrebbe “manipolato le emozioni” di 700mila iscritti rivela, più di ogni altra cosa, la scarsa dimestichezza del pubblico con i meccanismi utilizzati nel marketing e sì, anche dai colossi web. Perché quello recentemente pubblicato sulla rivista Pnas , la pietra dello scandalo, non è l’unico condotto da Facebook. E quella di Mark Zuckerberg non è certo l’unica azienda ad avvalersi della manipolazione emotiva, se ciò serve a migliorare l’esperienza d’uso degli iscritti. «A Facebook conduciamo oltre mille esperimenti ogni giorno», scriveva il 3 aprile 2014 il data scientist Eytan Bakshy, con l’obiettivo di «ottimizzare risultati specifici», o per «informare decisioni sul design della piattaforma nel lungo periodo». Test che potevano, fino a pochi mesi fa, essere condotti in assenza di limiti o quasi, dice Andrew Ledvina, un ex collega, al Wall Street Journal: «Non c’è un processo di revisione. Chiunque in quel team può fare un test. Stanno continuamente cercando di modificare il comportamento delle persone». Google, nel 2012 e per bocca del responsabile del settore antispam Matt Cutts, ha ammesso di farne fino a 20 mila all’anno sui risultati di ricerca. Famoso l’esempio di Merissa Mayer che, prima di passare a Yahoo, nel 2009, fece testare 41 sfumature di blu per le pagine web di Google: cercava di capire a quale tonalità fosse associato un maggiore numero di click da parte degli utenti. Sempre Google, scrive Business Insider , «testa milioni di inserzioni pubblicitarie ogni giorno », mutandone la composizione del messaggio, il posizionamento sulla pagina e le immagini associate. «Lo stesso fanno Amazon e dozzine di altre compagnie», tutto a nostra insaputa con l’obiettivo di migliorare i propri prodotti. Studi sui propri utenti e i loro dati sono condotti da Yahoo, Microsoft e Twitter. E, nota lo psicologo Tal Yarkoni, «tipicamente queste manipolazioni non vengono effettuate per studiare il “contagio emotivo”», come nel discusso caso di Facebook, «ma con il fine esplicito di aumentare il fatturato ». Per esempio, Taco Bell paga BuzzFeed per scrivere pubblicità in formato virale sulle proprie visitatissime pagine. Parte di quel denaro finisce anche nelle tasche di Facebook, ricorda Vox, per assicurarsi che quei contenuti finiscano sotto ai nostri occhi. In altre parole, «visto che il punto stesso della pubblicità è creare una relazione emotiva tra noi e il prodotto, non è per nulla scorretto dire che Taco Bell paga Facebook per manipolare le nostre emozioni alterando il News Feed». Che poi è lo stesso che cerca di fare McDonald’s quando adotta come slogan «I’m lovin’it », o quando la Coca Cola lancia una vera e propria «campagna per la felicità». Il punto è che funziona: da un’analisi del britannico Institute of Practicioners in Advertising su 1400 campagne pubblicitarie di successo è emerso che quelle con contenuti puramente emotivi restituiscono tassi di soddisfazione doppi rispetto a quelli puramente “razionali”. Cosa cambia dunque nel mercato delle emozioni digitali? I metodi, prima di tutto. Che possono avvalersi di campioni osservabili in tempo reale e con possibilità di intervento inedite finora. Non a caso Adam Kramer, tra gli autori dell’esperimento che ha fatto discutere il mondo, ha sostenuto di essere entrato a Facebook perché «costituisce il più ampio studio sul campo della storia». Per comprendere le emozioni online, spiega a 45 Repubblica Luigi Curini, docente di scienza politica e autore del libro Social Media e Sentiment Analysis. L’evoluzione dei fenomeni sociali attraverso la Rete , si può fare ricorso a «dizionari ontologici che hanno già predefinito tutta una serie di parole connotate “positivamente” o “negativamente”». «Questa — prosegue — è una pratica assai comune, che ha l’indubbio vantaggio di essere completamente automatizzata. Il problema è che non si colgono i doppi sensi, l’humour, i giochi di parole». Un’alternativa è codificare manualmente un sottoinsieme di post che parlano del tema che interessa ai ricercatori in senso positivo o negativo, e lasciare sia l’algoritmo a connotare i rimanenti nell’universo di riferimento, per estensione. Di “rivoluzionario”, suggerisce Curini, «c’è che sei in grado di controllare l’impatto del tuo esperimento in tempi ben più rapidi» rispetto per esempio alla proiezione ripetuta di una pubblicità durante la finale dei mondiali. «Insomma, il Sacro Graal dei pubblicitari». Con il risultato che spesso «siccome devi “inseguire” la Rete per essere davvero efficace, allora alla fine è la Rete che ti detterà il contenuto, e non viceversa». Di norma si utilizzano i cosiddetti «test A/B», in cui c’è un gruppo di controllo con le condizioni di partenza e uno sperimentale in cui viene introdotta la variabile che si vuole studiare. «Per esempio», spiega il social media strategist di BlogMeter, Vincenzo Cosenza, «se uso il colore giallo o quello rosso per il pulsante “compra” otterrò un numero maggiore di click? Si erogano entrambe le soluzioni a gruppi diversi di persone e si misurano i risultati. Quella più efficace verrà poi implementata stabilmente». Il punto è che non tutte le applicazioni sono così innocue. Lo studio di Facebook sulle emozioni ha fatto discutere per le implicazioni etiche, sollevando giustamente la questione del rapporto tra il «consenso informato» richiesto dalla scienza — ma non dal marketing — per sperimentazioni su esseri umani e termini di utilizzo del social network, lunghi, tortuosi e poco trasparenti. Ma c’è molto altro. Grazie a Edward Snowden, infatti, sappiamo per certo che quei dati sono di estremo interesse per l’intelligence, che nel caso delle agenzie di sicurezza britanniche significa creare contenuti ad arte per distruggere la reputazione dei bersagli. Ed è la Difesa Usa a usare lo studio delle emozioni sui social per cercare di prevedere rivolte sociali, come avvenuto in Egitto nel 2011 o in Turchia nel 2013. Poi c’è la politica. Già nel 2010 un semplice badge per dire agli amici su Facebook “ho votato” ha scosso dall’indolenza 340 mila individui che altrimenti non si sarebbero recati alle urne. Oggi è una prassi adottata per tutte le tornate elettorali, la più recente quella in India, dove è stato cliccato da 4,1 milioni di persone. Ma lo scenario più inquietante è quello descritto da The New Republic : se Zuckerberg preferisse un candidato, potrebbe far comparire sul News Feed l’invito a votare solo per gli iscritti che sa — proprio per l’analisi emotiva — essere favorevoli al suo stesso candidato, e non per chi invece supporta l’avversario. Ipotizziamo che il risultato sia sufficiente da capovolgere l’esito elettorale: «la legge dovrebbe impedire un comportamento simile? ». Bella domanda. Al momento, ricorda Cosenza, «solo pochissimi studiano le emozioni in rete ». Per il futuro, tuttavia, meglio attrezzarsi. 46 INFORMAZIONE del 08/07/14, pag. 1/15 Al lettori Oggi abbiamo invitato i colleghi della Stampa e gli amici del giornale in redazione (ore 12) per raccontare tutte le volte che non siamo stati ascoltati. Tutte le volte che i giornalisti de l’Unità hanno denunciato la malagestione del giornale, l’assenza di un progetto serio, la mancanza di trasparenza e di solidità aziendale, hanno avuto come risposta solo un’alzata di spalle. Fino all’ultimo, scandaloso episodio di un’azionista di FI nella nostra società: ultimo atto di una progressiva parabola discendente, che ha portato il giornale sull’orlo del baratro. Oggi se ne sono accorti tutti, perché i fatti sono testardi e alla fine si prendono le loro ragioni. Proprio noi, che avevamo ragione dall’inizio, rischiamo di pagare caro questo sistematico disegno di dismissione. Noi, con voi lettori che ci seguite dimostrando affetto e solidarietà verso una testata che non ha eguali in Italia quanto a storia radicata nel mondo della sinistra, nella militanza politica. Il rischio è che il giornale fallisca se entro luglio non arriva un’offerta credibile per rilevare l’attività. I due liquidatori hanno dato al Cdr un quadro allarmante della situazione. Da mesi si rincorrono dichiarazioni pubbliche di impegno e attenzione alle vicende che coinvolgono il giornale fondato da Antonio Gramsci. È arrivato il momento di passare dalle parole ai fatti. Chi volesse aspettare il fallimento, per agire magari un minuto dopo, sappia fin da ora che a quel punto non si salverebbe l’Unità ma solo una scatola vuota. Sarebbe una sconfitta per tutti. IL CDR 47 CULTURA E SCUOLA del 08/07/14, pag. 17 SUL WEB Le cicatrici del cinema Forbici, roghi, tagli 100 anni di censura in Italia Gabriella Gallozzi BERNARDO BERTOLUCCI E PASOLINI, OVVIAMENTE. MA ANCHE TOTÒ, ROSSELLINI E LUCIANO EMMER che, dopo il «massacro» del suo La ragazza in vetrina, colpevole di raccontare l’amore di un emigrato per una prostituta, smette col cinema per dedicarsi solo ai Caroselli. Stiamo parlando della censura. Patria istituzione che fin dal 1914, con Regio decreto, ha imposto «il comune senso del pudore » al cinema italiano e non solo, colpendo a 360 gradi autori impegnati, ma anche pellicole di cassetta, cinegiornali, pubblicità e manifesti. A cent’anni dalla sua nascita la Direzione Cinema del Ministero dei beni culturali e del turismo insieme al Centro sperimentale di cinematografia ha creato una grande mostra virtuale dal titolo esplicativo: Cinecensura. Cent’anni di revisione cinematografica in Italia (www.cinemacensura.com). Suddiviso per voci, politica, violenza, sesso e religione, il sito propone un appassionante e ricchissimo viaggio tra tagli, documenti, foto, video, locandine a dimostrazione della solerte attività degli «sforbiciatori» di Stato a cui Chiesa e politica hanno imposto da sempre le loro direttive. Se Andreotti diede filo da torcere al Neorealismo( «i panni sporchi si lavano in casa») non mancarono certo tanti altri politici di minor spessore, «saliti dalla provincia a Montecitorio», come spiega Tatti Sanguineti, tra i massimi esperti in fatto di censura e curatore della mostra, preoccupati della «denigrazione» del loro Paese all’estero e capaci quindi di imporre il divieto di esportazione del film. Per non parlare dei temi sociali politicamente troppo caratterizzati e ancor peggio l’evocazione dello spettro del fascismo come in Anni difficili di Luigi Zampa da una novella di Brancati o il documentario Tragica alba a Dongo che, rievocando l’esecuzione di Mussolini con la Petacci, si beccò nei Cinquanta il divieto di uscita in sala ed è tutt’ora inedito. La preoccupazione per il buon nome delle forze dell'ordine, della politica e dei funzionari statali poi, spingono a «sforbiciature » pesanti anche nelle commedie. Totò e Carolina di Monicelli è uno dei film più censurati della storia: i democristiani lo contestano perché non è rispettoso nei confronti delle forze dell’ordine, appunto, e la Chiesa più direttamente lo contesta per il tentato suicidio di Carolina, la giovane protagonista sbandata. Così quando il film riesce finalmente ad uscire in sala, dopo un taglio record di 200 metri di pellicola, la frase «il suicidio è un lusso, i poveri non hanno neanche la libertà di uccidersi», viene cancellata dalla colonna sonora. Le istituzioni non vanno denigrate, figuratevi dunque quanto dovette patire Rossellini per il suo Dov’è la libertà in cui Totò nei panni di un ex galeotto è talmente deluso dall’Italia che trova fuori da desiderare di tornare dietro alle sbarre. La religione, Dio ce ne guardi, scatena poi le ire dei censori sopra ad ogni cosa. Imponendo particolare attenzione alle rappresentazioni della Chiesa cattolica e dei suoi esponenti. Nelle forbici della Chiesa incapperanno, tra i più celebri, Umberto D. e Alvaro piuttosto corsaro, La dolce vita (la squenza scandalo del finto miracolo) e Laricottadi Pasolini arrivata nelle aule del tribunale. «In seguito gli interventi saranno sporadici ma non infrequenti - si legge nel sito - , fino alla proibizione assoluta (poi rientrata) di Totò che visse due volte di Ciprì e Maresco, che affronterà anch'esso un processo per vilipendio 48 della religione». I casi più noti sono tutti in mostra. Ma tante sono anche le sorprese e le «chicche» per cinefili. A dire dell’ossessione del sesso dei nostri censori, quelli per intenderci che hanno letteralmente mandato al rogo Ultimo tango a Parigi, esemplare resta Odissea nuda di Franco Rossi, del ‘61, parabola sull’abbandono della civiltà da parte di un intellettuale, di cui colgono - e quindi censurano - soltanto l’eccesso di sensualità ed erotismo. «Negli anni del miracolo economico - si legge ancora nel sito -, l'avanzata dei costumi si scontrerà in maniera più diretta con interventi del potere politico e giudiziario, e a fare da apripista saranno vari film d'autore, da L'avventura a La dolce vita a Dolci inganni. E negli anni '70, prima dell'arrivo del cinema a luci rosse, la battaglia contro le immagini di sesso man mano dilaganti apparirà perduta in partenza».Mostrando cosi - lo sottolinea Sanguineti - che «nulla come la censura sopporta le macchine del tempo». del 08/07/14, pag. 20 COPIA PRIVATA Dori Ghezzi difende il decreto “I cd non si vendono, artisti da tutelare” di Andrea Scanzi Dori Ghezzi, Presidente Onoraria della PMI (Produttori Musicali Indipendenti), ha fatto le 4 di notte dalla rabbia: “Troppi attacchi al decreto Franceschini”. Quello che garantisce il diritto d’autore anche sui contenuti digitali copiati o registrati su apparecchi elettronici. “Sono attacchi politici, ma qui la politica non c’entra. L’Italia era l’unico paese civile che non aveva regolamentato questo aspetto”. Quattro euro su tivù, 5.20 per un computer, 9 per una pendrive: nuove “tasse”? “Sono le aliquote più basse d’Europa, ovunque all’8% e in Germania al 30%. In Italia si fermano al 4%”. Sembra un decreto scritto dalla Siae. “Il presidente Gino Paoli lo condivide interamente e stimo molto Franceschini: è il primo ministro che ha avuto il coraggio di metterci la firma. E ora si occuperà di Google e YouTube”. ALLA SIAE arriveranno più di 150 milioni di euro l’anno. “I dischi non si vendono più. Finora un artista lavorava e non aveva stipendio. Non solo: altri guadagnavano al suo posto, per esempio le multinazionali che producono smartphone e tablet. Prima era facile: c’erano i dischi, il giradischi e basta. Oggi l’artista deve avere qualcosa anche da chi sfrutta la sua arte. L’iPod lo compri per ascoltare musica, il cd vergine lo compri per metterci musica. Non c’è nulla di ingiusto nel prendere una parte del loro venduto, è una cosa naturale”. Così però aumenteranno costi di iPod e tablet. “Non è colpa della Siae ma delle multinazionali, che fornivano gratis opere che costano tantissimo agli artisti. Non c’erano altre strade”. Del 08/07/2014, pag. 49 La rassegna diretta da Marco Müller in crisi di fondi I premi saranno assegnati direttamente dagli spettatori 49 Il Festival di Roma abolisce la giuria “Non ci sono i soldi” FRANCO MONTINI ROMA IL Festival cinematografico di Roma abolisce le giurie: ad assegnare i premi nella prossima edizione, in programma dal 16 al 25 ottobre, sarà unicamente il pubblico. Al termine di ogni proiezione tutti gli spettatori potranno esprimere il proprio gradimento sul film e i riconoscimenti previsti per le diverse sezioni, da quest’anno tutte competitive, andranno alle opere maggiormente apprezzate dal pubblico. La novità non è cosa da poco e ha una doppia motivazione. Una, diciamo più nobile e di carattere filosofico. La volontà di coinvolgere maggiormente gli spettatori, poiché, spiega Paolo Ferrari, presidente della Fondazione Cinema per Roma: «Ci è stato chiesto di organizzare una manifestazione che tornasse allo spirito originario, più festa che festival ». L’altra ragione è puramente questione di soldi. Lo ammette lo stesso Ferrari: «L’abolizione delle giurie ci consentirà un risparmio di spesa, al momento non sappiamo ancora quantificarlo. I costi infatti variano, di anno in anno, a seconda dalla provenienza e delle richieste dei diversi giurati, ma si tratta in ogni caso di cifre consistenti». Con quest’ultima decisione comunque anche il Festival di Roma si adegua al clima generale di spending review e, definitivamente tramontata l’idea di far concorrenza alla Mostra di Venezia che aveva guidato la fondazione della rassegna, guarda ora al modello portato avanti dal festival di Toronto, che contrariamente a tutte le altre grandi kermesse cinematografiche, da Cannes a Berlino, non prevede giurie di esperti, più o meno glamour, per l’assegnazione dei premi. Secondo le intenzioni del direttore Marco Müller il prossimo sarà un festival più snello anche nelle dimensioni: il responsabile ha promesso che l’edizione 2014 proporrà complessivamente, suddivise nelle diverse sezioni, tutte ribattezzate, non più di 40 film. Inoltre al momento non è prevista la realizzazione di alcuna tecnostruttura esterna e tutto il festival si svolgerà all’interno dell’Auditorium Parco della Musica. Del resto per il Festival di Roma la necessità di contenere i costi e risparmiare è a questo punto vitale. Il preventivo di spesa per il 2014 è di 9 milioni di euro. Di cui 5 proverranno dai soci pubblici. Ma poiché Regione, Comune, Camera di Commercio hanno convenuto di non aumentare il proprio intervento e sosteranno il Festival 2014 con 1,130 milioni di euro ciascuno, mentre il contributo della Provincia scenderà a 300 mila euro, si cercano nuove partecipazioni. Attraverso il sindaco Ignazio Marino si sarebbe ottenuto l’intervento del ministero dei Beni e delle Attività Culturali, con l’ingresso nella Fondazione Cinema per Roma dell’Istituto Luce. Questo nuovo intervento pubblico dovrebbe garantire ulteriori risorse per circa un milione di euro. Il condizionale, tuttavia, è d’obbligo perché le promesse al momento non sono ancora state formalizzate da un accordo scritto. La situazione economica del paese non agevola la ricerca di sponsor privati e rispetto alle prime edizioni il loro contributo, che era maggioritario, si è più che dimezzato. Intanto si segnala una novità per il Roma Fiction Festival, in programma dal 13 al 18 settembre: la Regione Lazio ha infatti nominato Carlo Freccero nuovo direttore artistico. Quanto all’ipotesi di accorpamento per le due manifestazioni, altro elemento di possibile risparmio, se ne riparlerà l’anno prossimo. 50 Del 08/07/2014, pag. I RM Cultura, 44 giorni senza assessore DOPO LE DIMISSIONI DELLA BARCA / APPELLO DI ATTORI E REGISTI A SINDACO E MINISTRO UNA breve lettera, molte firme e un ultimatum: «il sindaco nomini l’assessore alla Cultura entro il 14 luglio o sarà protesta». A sottoscriverla un gruppo di attori, autori, registi di teatro che chiedono al sindaco Marino di prendere una decisione sulla carica vacante della sua Giunta. Da Maccarinelli a Lavia, da Placido a Comencini, la richiesta inoltrata al ministro Franceschini è di rendere note le “linee strategiche” di una «situazione alla paralisi non per carenze creative». INDICANO, COME ULTIMATUM, la data simbolica del 14 luglio per conoscere il nome del nuovo assessore alla Cultura: un gruppo di registi e attori, protagonisti della scena artistico-teatrale — da Piero Maccarinelli a Michele Placido, da Gabriele Lavia a Sergio Rubini, da Manuela Mandracchia a Annamaria Guarnieri — scrive un appello al sindaco Marino, indirizzato “per conoscenza” anche al ministro Dario Franceschini, rimarcando «la grave urgenza in cui versa il sistema culturale della città», in particolare collegandolo alla mancata nomina di un nuovo assessore alla Cultura. Una breve lettera, molti firmatari e una forte richiesta di intervento da parte del Campidoglio, che costituisca una svolta alla situazione della «vita culturale romana che sta collassando per paralisi istituzionale, non certo creativa ». Scrivono gli autori: «Riteniamo che sia inconcepibile che Roma Capitale non abbia un assessore alla Cultura » come è dal 26 maggio, giorno in cui Flavia Barca ha dato le dimissioni. Un’uscita di scena che ha aggravato il quadro, generando una vacatio senza precedenti nella vita culturale della città: «Riteniamo fondamentale che, avendo voluto lei assumere ad interim la carica di assessore debba provvedere quanto prima a comunicarci il suo progetto per la città. — si legge ancora nella missiva — Musei, biblioteche, teatri, istituzioni culturali aspettano in un clima preagonico da troppo tempo sue indicazioni». Il 14 luglio «data simbolica nella storia europea che confidiamo possa essere altrettanto simbolica per nominare un assessore alla cultura facente funzione e comunicarci qualche linea strategica». Con una chiusa che denota una stanchezza e l’intenzione di spingere oltre l’impegno verso l’obiettivo: «in assenza di un suo riscontro nel concreto ci impegniamo ad adottare qualsiasi forma di protesta dandone ampia comunicazione». Tra gli altri firmatari anche Giuseppe Manfridi, Francesca Comencini, Carmen Pignataro, Luciano Virgilio, Sandra Toffolatti, Marco Balsamo. Nei giorni scorsi, anche nel corso del Forum nella redazione di Repubblica ad un anno dal suo insediamento, il sindaco Marino ha dichiarato di voler procedere alla nomina del nuovo assessore prima della chiusura del bilancio. Orientamento che ha ripetuto, di fronte alla stampa, anche ieri: «Il nuovo assessore sarà una donna. Si tratta di un incarico per il quale puntiamo a una personalità di alto profilo. Ma purtroppo, molte persone, quando verificano il compenso previsto per questo incarico, declinano» del 08/07/14, pag. 15 Il problema non è il Teatro Valle ma il sindaco Marino 51 Sandro Medici Roma . Un’esperienza che altre capitali ci invidiano ma la nostra amministrazione cittadina mal sopporta. Siamo il paese della Storia contro il "contemporaneo" Non succede solo oggi che le esperienze artistiche più avanzate e politicamente trasgressive suscitino biasimo e incomprensioni, e siano censurate, ostacolate, se non represse. Da sempre, la libera espressività comporta reazioni sprezzanti. Il caso del Teatro Valle di Roma ne è la plastica riprova. Un’occupazione che va avanti da tre anni ha strappato quell’opaco sipario dietro il quale si era stratificata una politica culturale pigra e attardata, compiacente con il potere politico, subalterna al mercato. In una città che ripropone all’infinito materiale repertoriale e antologico, dove il contemporaneo (quando c’è) viene relegato in qualche angoletto residuale, l’avvento di quest’esperienza avventata e sgrammaticata ha improvvisamente (e impietosamente) rivelato l’angustia della programmazione teatrale pubblica. Di fronte allo slancio creativo, alla ricerca artistica, all’azzardo politico del Valle, tutto il resto si è palesato per quel che è: sfiorito, appesantito, ripetitivo. Un esempio? Solo l’ultimo della serie. La Carmen dell’Orchestra di Piazza Vittorio ha ottenuto una sola data nelle stagione estiva del Teatro dell’Opera. Era l’unica interpretazione originale dell’intero Cartellone: ovviamente, bisognava comprimerla. Pazienza se poi i biglietti si sono esauriti in mezza giornata e si è stati felicemente costretti ad allestire una prova generale aperta al pubblico. E stiamo parlando dell’Orchestra di Piazza Vittorio, la più vivace e significativa realtà artistica nel panorama romano degli ultimi anni. Apprezzata e corteggiata in mezzo mondo, ma qui da noi appena tollerata. Anche il Valle vive la stessa condizione d’isolamento, al cospetto delle consorterie culturali dominanti, dei sonnolenti consigli d’amministrazione, delle boriose direzioni artistiche, di manager scattanti e occhiuti consulenti. E infatti riceve premi e riconoscimenti solo all’estero, oltreché inchieste e paginoni sulle più prestigiose riviste internazionali. Del resto, a Roma c’è San Pietro e il Colosseo, Caravaggio e Michelangelo, forse Fellini e la dolce vita, forse Pasolini e i ragazzi di vita. E poi? E poi c’è il vuoto della contemporaneità. Un’esperienza come il Valle uno se la dovrebbe inventare, per dare un po’ di smalto a una città in declino. A Berlino, a Barcellona, a Parigi, questo genere di realtà vengono non solo accolte e favorite, ma perfino finanziate. Il valore immateriale che ne deriva è straordinariamente magnetico, crea un’affascinante suggestione, stimola l’immaginario, dà prestigio e autorevolezza. Il sindaco Marino dovrebbe ringraziarli, i ragazzi e le ragazze del Valle, per quello che fanno e per quello che semplicemente suscitano. Con loro Roma è migliore e, suo malgrado, può contare su un’eccellenza culturale che diversamente non avrebbe. E invece? Il sindaco Marino alza il sopracciglio, abbozza un sorriso e invita a «rendere disponibili i locali illegalmente occupati». Della serie: o ve ne andate con le buone o sarò costretto a sgomberarvi. Fantastico, ha capito tutto. Ha intenzione di chiudere l’unico teatro cittadino conosciuto nel mondo, che programma quel che di meglio si produce, che detiene il record di spettatori (e di spettacoli), l’unico aperto anche d’estate, che in secoli di storia non ha mai visto tanta gente e tanto interesse. A volte, si ha l’impressione che davvero non capisca bene dove si trovi e cosa succeda intorno a lui. O che non capisca che la realtà è qualcosa di più ampio e complesso di aridi principi e regole polverose. C’è un’insorgenza generalizzata di nuove forme dell’agire sociale che nascono dai bisogni, materiali e immateriali. Forme che difficilmente si allineano all’attuale intelaiatura politica e giuridica. Hanno a che fare con il bene comune, che è qualcosa di più e di meglio del bene pubblico, e che infatti non è né pubblico né privato. E’ la tensione a riappropriarsi di ciò 52 che è proprio, di quel patrimonio collettivo che la politica non garantisce più e che per questo va sottratto al mercato e restituito alla società perché legittimamente ne goda. Qui non si tratta di stabilire se e quanto sia legale occupare uno stabile abbandonato per riconvertirlo a un uso sociale o culturale. Qui si tratta di schierarsi. O si sta con i bisogni o si sta con gli interessi. 53 ECONOMIA E LAVORO del 08/07/14, pag. 6 Ripresa, Sud al palo 4 su 10 senza lavoro ANDREA BONZI Una ripresa a due velocità: va avanti (piano) al Centro-Nord, è completamente ferma al palo nel Mezzogiorno. È la fotografica scattata dalla Banca d’Italia, che ieri ha presentato la pubblicazione «L’economia delle regioni italiane nel 2013». L’anno scorso, infatti, nelle regioni del Sud si è registrato un calo del -4% del Prodotto interno lordo (Pil), in peggioramento dal -2,9% dell’anno precedente. In dettaglio, mentre il 2012 c’è stata un deciso miglioramento delle stime sia al Centro (-1,8% dal -2,5% dell’anno prima), sia al Nord Est (-1,5% dal -2,5% del 2012) sia soprattutto al Nord Ovest (-0,6% dal -2,3% dell’anno precedente), la flessione dei consumi e degli investimenti nei territori del Sud si è accentuata maggiormente. UN EXPORT SCARSO Uno dei macigni che pesa sul Mezzogiorno è la ridotta portata degli scambi di importexport con l’estero. E per il 2014, segnala Bankitalia, la situazione non migliorerà dappertutto allo stesso modo, anzi. «Emergono segnali di ripresa, sebbene ancora moderati e differenziati tra le diverse aree - si legge nel report diffuso dall’istituzione -. Il riavvio dell’attività delle regioni centro- settentrionali non si è ancora esteso a quelle meridionali, meno aperte agli scambi internazionali». IN CERCA DI OCCUPAZIONE A complicare il quadro delle aree più depresse del Paese, il dato dell’occupazione: secondo quanto rileva Bankitalia il tasso di disoccupazione ha raggiunto nel 2013 il 19,7% nel Meridione (+2,5% rispetto all’anno scorso), il 9,1% al Centro Nord (+1,1%); per i giovani fino a 29 anni, è rispettivamente pari al 42,9% e al 23%. Ciò significa che, nel Mezzogiorno, quattro ragazzi su 10 non hanno un’occupazione. E crescono anche gli scoraggiati, ovvero quelli che hanno smesso di cercare una ricollocazione: nel 2013 la quota di cittadini (tra i 15 e i 64 anni) in queste condizioni nel Mezzogiorno era pari al 7,2%, ovvero oltre tre volte quella registrata al Centro Nord, dove si ferma all’1,7%. Un altro elemento analizzato dalla ricerca è quello del credito. Nella seconda metà del 2013, le condizioni di offerta del credito, soprattutto nel Nord Est e nel Mezzogiorno, hanno pesato meno sull’andamento dei prestiti alle imprese. La domanda di finanziamenti è rimasta debole in tutte le aree ed in tutti i settori, in particolare nel comparto delle costruzioni, specie nelle regioni del Nord Ovest e del Mezzogiorno. Nello stesso periodo, «la domanda di mutui per l’acquisto di abitazioni si è stabilizzata nel Centro Nord, mostrando segnali di ripresa nel Nord Est - si legge nel report apposito della Banca d’Italia -. Nel Mezzogiorno si è registrato un ulteriore indebolimento ». Le condizioni di offerta alle famiglie, «ancora prudenti, mostrano primi segnali di miglioramento nel Mezzogiorno e nel Nord Est». 54 Del 08/07/2014, pag. 7 Ecofin, è già scontro sulle richieste di flessibilità Padoan: “Il nostro debito è tra i più sostenibili” ANDREA BONANNI BRUXELLES Il debito pubblico italiano è uno dei più sostenibili dell’Unione europea. Lo assicura il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan, che è arrivato ieri a Bruxelles per partecipare ai lavori dell’eurogruppo e, oggi, dell’Ecofin sotto presidenza italiana. Una discussione che si preannuncia dura e di importanza cruciale. Per la prima volta dopo anni, infatti, su impulso dell’Italia, i governi europei vogliono definire nel dettaglio quali siano i margini di flessibilità che si potranno sfruttare per mettere a punto i bilanci dell’anno prossimo, che vanno presentati entro ottobre. Proprio in vista di questa discussione, il ministro Padoan ha chiarito: «La sostenibilità del debito dipende da tre variabili: il tasso di crescita, i tassi d’interesse e lo sforzo di bilancio. Quanto allo sforzo di bilancio italiano abbiamo il surplus primario più alto dell’Ue, con la Germania. I tassi sono scesi, mentre il tasso di crescita nominale è ancora insoddisfacente. In ogni caso, anche con una crescita insoddisfacente, la sostenibilità del nostro debito è assolutamente fuori discussione. Lo dice la Commissione europea nei suoi rapporti». Ieri all’eurogruppo la discussione è stata centrata sulla necessità di ridurre le tasse sul lavoro senza compromettere l’equilibrio dei conti pubblici. Il comunicato finale consiglia di trasferire parte del carico fiscale verso «imposte meno penalizzanti per la crescita, come le tasse sui consumi, sulla proprietà e sull’inquinamento ». L’Italia è tra gli undici Paesi che, secondo la Commissione, hanno un cuneo fiscale troppo elevato e Padoan è stato chiamato a presentare lo sgravio di ottanta euro in busta paga voluto dal governo e le relative coperture di spesa. L’ultimo vertice europeo ha deciso di utilizzare «i margini di flessibilità esistenti» nelle norme per favorire le riforme e la crescita, ma quali sono concretamente questi margini? Padoan ha spiegato: «Le priorità indicate dall’Italia sono: più integrazione del mercato, riforme e investimenti strutturali. Su queste c’è stato un ampio scambio di vedute e un generale accordo, ma c’è divergenza di vedute su quale tipo di specifiche misure siano necessarie. Lo considero un inizio molto incoraggiante sulla discussione che ci sarà all’Ecofin». Le posizioni di partenza sono però lontane. Se il presidente Hollande ieri ha insistito che «tutti i margini di flessibilità devono essere utilizzati per tenere conto delle riforme avviate», il ministro delle Finanze tedesco, Schauble, è stato più prudente: «L’obiettivo della crescita e degli investimenti non deve essere un pretesto o una scappatoia per non fare quello che si deve fare ». Ieri Padoan ha proposto una posizione di mediazione: «Le riforme strutturali vanno votate, tradotte in legge e attuate: alla luce degli sforzi di attuazione discuteremo tutti insieme come possiamo tenere conto dell’impatto che hanno sulla sostenibilità dei bilanci». La discussione si dovrebbe chiudere entro l’autunno per consentire la preparazione dei bilanci 2015. Sul fronte pro crescita il Tesoro ha ieri pubblicato il decreto sulla garanzia statale che permetterà alle imprese di cedere alle banche i crediti vantati e certificati verso la Pa, ultimo tassello per pagare 60 miliardi di arretrati entro l’anno. 55 del 08/07/14, pag. 14 «Sfruttamento e molestie» Rivolta nella coop Mr.Job La denuncia di un gruppo di addette immigrate vessate e umiliate dal caporeparto in una società che lavora in appalto per Yoox ● I carabinieri indagano sui fatti; le aziende annunciano verifiche Massimo Franchi Un magazzino dell’Interporto di Bologna, una delle piattaforme logistiche e intermodali più grandi in Europa. Un centinaio di lavoratrici socie della cooperativa di facchini - con sede a Modena - della Mr.Job che lavora per uno dei marchi di moda on-line più importanti in Italia, la Yoox, dal 2009 quotata in Borsa. Se fino al mese scorso gli scioperi delle lavoratrici erano per denunciare salari da fame e condizioni indegne di un paese civile («Facciamo imbustaggio, sigillo e controllo integrità dei vestiti in un magazzino dove d’inverno si muore di freddo e d’estate di caldo: dovremmo essere part time ma invece ci chiedono sempre straordinario che poi non ci pagano e non ci concedono pause, io un mese mi sono ritrovata una busta paga negativa: dovevo ridare 15 euro, naturalmente senza rispettare il contratto nazionale e il calcolo delle ferie e della tredicesima», racconta una di loro), da qualche giorno la faccenda è molto più seria e grave. SFRUTTAMENTO LAVORATIVO Dodici lavoratrici - in gran parte marocchine - hanno denunciato uno dei loro capi «per una serie di condotte di sfruttamento lavorativo che vanno dalle offese al credo religioso ad un caso di molestie sessuali», come spiega l’avvocato Marina Prosperi che le assiste e che è entrata in contatto con loro tramite il sindacato Si Cobas, molto forte nella rappresentanza e nella lotta (come nel caso della Granarolo) dei facchini e nella logistica. «Il quadro che mi è stato prospettato dalle lavoratrici è grave e unico per quanto il sistema era massiccio e continuativo, visto che va avanti dal 2011», precisa la legale. Uno dei capi della Mr.Job «ci seguiva in macchina fin sotto casa», ha denunciato una delle dipendenti. E parte le offese a livello personale («Voi marocchine siete tutte porche») e avances continue («La prossima sei tu») con i caso di rifiuto altre minacce («Lo racconto alla tua famiglia cosa fai a letto») e spostamenti forzati («Mi ha messo da sola a cucire in una stanza buia senza finestre») e umiliazioni («Mi hanno obbligata a pulire gli orinatoi degli uomini mentre loro erano dentro il bagno »). Dal punto di vista giudiziario, «dopo la denuncia gli unici a essersi mossi sono i Carabinieri di Bentivoglio, Comune a Nord Est di Bologna». Per ora «hanno interrogato un testimone, ma non hanno ancora ascoltato nessuno delle vittime - spiega Prosperi - e la nostra paura è che i tempi si allunghino, mentre molte delle lavoratrici sono state licenziate o messi in ferie forzate. Ma quello che ci aspettavamo al più presto era una reazione da parte della azienda che ha dato l’appalto». La Yoox, la ditta fondata 15 anni fa da Federico Marchetti, in una nota, ribadisce estraneità ai fatti imputati alla società Mr.Job con il quale «c’è un contratto d’appalto in un magazzino satellite di Mr.Job, con lavoratori dipendenti di quest’ultima gestiti in autonomia e sotto la responsabilità di Mr.Job». Yoox, appreso «di una situazione asseritamente gravissima, ha immediatamente avviato le proprie verifiche per adottare i provvedimenti del caso». La società ha poi «già richiesto, in via cautelativa, di non adibire alle attività inerenti a Yoox il personale di Mr.Job che risulta essere implicato nei fatti, sino al loro al chiarimento». Yoox sottolinea che, al momento della stipula dei contratti, ha richiesto a Mr.Job, cosi come a tutti i suoi fornitori anche di servizi, l’impegno 56 a rispettare gli obblighi in materia di tutela dei lavoratori. Yoox occupa per oltre il 50% donne e sottolinea di dare «grande importanza al rispetto dei diritti dei lavoratori», recita la nota. CAMBIARE LE COSE Il giudizio di sindacati e avvocati sul comportamento della Yoox non è però totalmente positivo. «Sappiamo che dopo le nostre denunce stanno cambiando per esempio il bagno che era unico e in condizioni gravi, ma per quanto riguarda la denuncia per molestie, a noi risulta che il capo che abbiamo denunciato sia stato messo in ferie, non sospeso. Quando tornerà dalle ferie c’è il forte rischio che le cose tornino come prima», spiega l’avvocato Prosperi. Anche perché le lavoratrici parlano di un contratto capestro fra la Yoox e la Mr.Job: «Prevede 8mila pezzi al giorno mentre noi pur lavorando come schiavi non arriviamo a 6mila pezzi al giorno e quindi la Mr.Job deve pagare delle penali», spiega una ragazza della cooperativa. 57