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RASSEGNA STAMPA
martedì 8 luglio 2014
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
CULTURA E SCUOLA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
PUBBLICO
IL MANIFESTO
L’UNITÀ
AVVENIRE
IL FATTO
IL RIFORMISTA
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Repubblica.it del 07/07/14
Meeting internazionale antirazzista,
quest'anno c'è l'"Abbraccio Mediterraneo"
Dal 9 al 12 luglio, torna a Cecina Mare (Li) la manifestazione dell'Arci e
della Regione Toscana sui temi della lotta al razzismo e a ogni forma di
discriminazione. In primo piano, la discussione su diritti e accoglienza e
migranti in fuga da guerre e conflitti. Tra gli eventi, il concerto, venerdì
11 luglio, dei Modena City Ramblers
FIRENZE - La "questione mediterranea" è al centro della ventesima edizione del Meeting
Internazionale Antirazzista (MIA) la manifestazione promossa da Arci e Regione Toscana
(con il sostegno di Cesvot, Provincia di Livorno e Comuni di Livorno, Cecina e Rosignano),
in programma a Cecina Mare (Li) dal 9 al 12 luglio. Questa ventesima edizione del
Meeting, dal titolo Abbraccio Mediterraneo, giunge mentre le coste italiane e del Nord
Africa sono ancora volta protagoniste di partenze, sbarchi e tragedie di migranti.
Le tre tavole rotonde. La riflessione del MIA 2014 si svilupperà attraverso tre tavole
rotonde principali che rispettivamente affronteranno l'analisi delle cause delle migrazioni
(Rotte Migranti, giovedì 10 luglio); il confronto sui percorsi di accoglienza e tutela dei diritti
nei paesi del Mediterraneo (Mediterranean Civil Society: migrazioni e diritti tra nuove e
vecchie democrazie; venerdì 11 luglio); la crescita, anche alla luce dell'esito delle ultime
elezioni, di movimenti e partiti xenofobi e razzisti in Europa (Il continente minacciato:
l'Europa e il successo dei movimenti xenofobi; sabato 12 luglio).
Gli ospiti. Tra gli ospiti ci saranno esponenti di organizzazioni e reti per la tutela dei diritti
dei migranti provenienti dai Paesi della sponda sud del Mediterraneo, come Libia, Libano,
Marocco, Tunisia: Alaa Talbi (Forum tunisino per i diritti economici e sociali), Farah Salka
(Anti-Racism Movement, Libano), Khadija Beseikri (Associazione libica Amzonat). Attesa
anche la partecipazione del Presidente della Regione Toscana Enrico Rossi e della neo
presidente nazionale dell'Arci Francesca Chiavacci.
I luoghi del MIA. Anche quest'anno e dopo aver lasciato l'area della Cecinella, il Meeting si
svolgerà nel centro di Cecina Marina. Fulcro delle attività sarà il tendone allestito davanti
al Circolo Arci II Risorgimento in piazza Sant'Andrea; gli incontri e le tavole rotonde
saranno ospitati presso Villa Ginori in via Ginori 100; i concerti si terranno invece sul palco
centrale di Largo Cairoli.
I Concerti. Due gli appuntamenti con i grandi eventi, a ingresso gratuito, per questo MIA
2014. In Largo Cairoli, dalle 22, giovedì 10 luglio le sonorità inter-etniche di Baro Drom
Orkestar e Zastava Orkestar, mentre venerdì 11 luglio giungeranno (anch'essi con venti
anni di carriera alle spalle) i Modena City Ramblers.
La Formazione. Anche quest'anno il MIA è luogo di formazione per operatori
dell'immigrazione. Si terranno alcune delle lezioni di Unida, l'Università d'Estate sul diritto
d'asilo, che per la prima volta si presenta itinerante e si svolgerà in diverse città italiane.
I Laboratori. Tre le occasioni per attività laboratoriali. In particolare, il Meeting 2014 si
caratterizza per la collaborazione con Comics4=, il premio per il miglior fumetto di autore
con origine migrante. Il 10 e l'11 luglio si terrà Comics for Equality, laboratorio di fumetti
Antirazzisti, curato da Pierluca Galvan e Sara Bruni.
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http://www.repubblica.it/solidarieta/diritti-umani/2014/07/07/news/meeting_antirazzista90943977/
Da Ansa del 07/07/14
Immigrazione: al centro Meeting antirazzista
Arci a Cecina
In Toscana dal 9 al 12 luglio
ROMA
(ANSA) - ROMA, 7 LUG - Il titolo è evocativo:'Abbraccio Mediterraneo'. Saranno infatti i
diritti e l'accoglienza dei migranti in fuga da guerre e conflitti i temi della ventesima
edizione del Meeting Internazionale Antirazzista, la manifestazione promossa da Arci e
Regione Toscana, in programma a Cecina Mare (Li) dal 9 al 12 luglio prossimi.
Dunque sarà affrontata la 'questione mediterranea' mentre le coste italiane e del Nord
Africa sono ancora volta protagoniste di partenze, sbarchi e tragedie di migranti. La
riflessione si svilupperà attraverso tre tavole rotonde che rispettivamente affronteranno
l'analisi delle cause delle migrazioni (Rotte Migranti, giovedì 10 luglio); il confronto sui
percorsi di accoglienza e tutela dei diritti nei paesi del Mediterraneo (Mediterranean Civil
Society: migrazioni e diritti tra nuove e vecchie democrazie; venerdì 11 luglio); la crescita,
anche alla luce dell'esito delle ultime elezioni, di movimenti e partiti xenofobi e razzisti in
Europa (Il continente minacciato: l'Europa e il successo dei movimenti xenofobi; sabato 12
luglio).
Tra gli ospiti ci saranno esponenti di organizzazioni e reti per la tutela dei diritti dei migranti
provenienti dai Paesi della sponda sud del Mediterraneo, come Libia, Libano, Marocco,
Tunisia. Poi, come tradizione, concerti, corsi di formazione per operatori dell'immigrazione
e laboratori creativi.(ANSA).
Da Radio Articolo 1 del 08/07/14
Work in news
Con M. Alicino, CdL Bat; A. Cannata, Arci Toscana; C. Pecchioli, Cgil Lombardia
- See more at:
http://www.radioarticolo1.it/jackets/cerca.cfm?str=work+in+news&contenuto=audio#sthash
.n0No751T.dpuf
Da And Kronos del 07/07/14
Rapporto diritti, quadro drammatico, si
rischia catastrofe globale
Più che di crisi, si rischia ormai di dover parlare di catastrofe globale. Dopo sei anni, infatti,
tutti gli indicatori economici e sociali rivelano un quadro drammatico e univoco. In Europa
le persone che hanno perduto il lavoro sono cresciute di 10 milioni, portando a 27 milioni il
totale di disoccupati. E' quanto emerge dal rapporto sui diritti globali 2014 'Dopo la crisi, la
crisi', edito da Ediesse, che verrà presentato a Roma domani, alle 11, nella sala Simone
Weil della Cgil nazionale, in corso d’Italia 25. Il Rapporto è a cura di Associazione Società
Informazione Onlus, promosso da Cgil con la partecipazione di ActionAid, Antigone, Arci,
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Cnca, Fondazione Basso-Sezione Internazionale, Forum Ambientalista, Gruppo Abele e
Legambiente.
Per il quinto anno consecutivo, l’occupazione è in calo nel continente. I nuovi poveri sono
cresciuti di 13 milioni di unità. Nell’Europa a 28 Paesi, nel 2012, le persone già povere e
quelle a rischio di esclusione erano ben 124 milioni, poco meno di una ogni quattro, con
una crescita di 2 milioni e mezzo rispetto all’anno precedente.
Nel suo piccolo, l’Italia contribuisce significativamente a questa mappa della privazione: il
numero di quanti vivono in condizioni di povertà assoluta è esattamente raddoppiato tra il
2007 e il 2012, passando da 2 milioni e 400 mila a 4 milioni e 800 mila, l’8% della
popolazione. Il tasso di occupazione nel 2013 è tornato ai livelli del 2002: 59,8%; all’inizio
della crisi, nel 2008, era al 63%. Peggio stanno solo i greci (con il 53,2%), i croati (53,9%)
e gli spagnoli (58,2%). Tra il 2012 e il 2013 sono stati persi 424 mila posti di lavoro.
Secondo il Rapporto, "dall’inizio della crisi hanno perso il lavoro oltre 980 mila persone". "Il
tasso di disoccupazione tra i giovani dai 15 ai 24 anni è arrivato al 42,4%. Muoiono le
piccole imprese: dal 2008 ne sono scomparse 134 mila. E muoiono le persone: per quanto
sia difficile stabilire nessi causali univoci e certi, alcuni studi indicano in 149 le persone che
si sarebbero tolte la vita per motivazioni economiche nel 2013, quasi il doppio rispetto agli
89 casi dell’anno precedente", si sottolinea.
Numeri moltiplicati e non meno tragici sul panorama mondiale: nel 2013 i disoccupati
erano 202 milioni. Lievita anche il fenomeno dei lavoratori poveri: sono 200 milioni e
sopravvivono in media con meno di due dollari al giorno.
"Questo stato di catastrofe - umanitaria, non solo economica - non è una realtà inevitabile
- spiega il Rapporto - bensì il risultato di scelte politiche precise. Nessun serio
investimento è stato fatto per promuovere l’occupazione e sostenere il lavoro. La rotta non
è stata invertita e nemmeno corretta. Anzi. Le politiche della Banca centrale, del Fondo
monetario internazionale e della Commissione europea, la famigerata Troika hanno
portato allo stremo i lavoratori e i ceti medi nel paesi destinatari dei programmi di
assistenza finanziaria, Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna, Romania".
Complice la crisi, è in atto, secondo il Rapporto, "l’intensificazione di una 'lotta di classe
dall’alto', una resa dei conti totale con i sistemi democratici e di welfare, per come sono
stati edificati nella seconda metà del secolo scorso, a partire dal modello sociale europeo".
"Sono potenti le spinte in direzione della privatizzazione dei servizi di protezione sociale in
Europa, un potenziale mercato di 3.800 miliardi di euro l’anno, vale a dire ben il 25 del Pil,
verso il quale si stanno indirizzando gli incontenibili appetiti dei gruppi finanziari e delle
multinazionali", sottolinea.
"Le alternative -spiega il Rapporto- invece sono possibili, oltre che necessarie. Ma non
possono che sortire dal basso, dalle forze vive del lavoro, della società, dei popoli. Per
contrastare quel 'colpo di Stato', difendendo la democrazia, ricucendo la profonda ferita
delle diseguaglianze, ristabilendo equità e giustizia sociale. Globalizzando i diritti".
http://www.adnkronos.com/soldi/lavoro/2014/07/07/rapporto-diritti-quadro-drammaticorischia-catastrofe-globale_wzB1HPMr9fC4G5SDQIBLSK.html
Da Redattore Sociale del 08/07/14
Povertà, il 78 per cento degli italiani taglia la
spesa per il pane
Rapporto diritti globali. Cibo e casa indicatori principali
dell’impoverimento delle famiglie, i cui redditi hanno subito un duro
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colpo. “Nessuna inversione di tendenza rispetto a Monti, solo qualche
misura tampone, come la criticatissima social card”
ROMA - Scendono i redditi delle famiglie italiane e comprare anche solo il pane
rappresenta un lusso per moltissimi cittadini. A sei anni dall’inizio della recessione l’Italia
non è ancor uscita dalla crisi, cresce invece, il tasso di povertà in quasi tutte le aree da
nord a sud. A descrivere lo stato di disagio nel nostro paese è il Rapporto sui diritti globali
2014, realizzato dall’Associazione società informazione onlus e promosso da Cgil con la
partecipazione di ActionAid, Antigone, Arci, Cnca, Fondazione Basso-Sezione
Internazionale, Forum ambientalista, Gruppo Abele e Legambiente.
Nello studio, presentato oggi a Roma, si sottolinea in particolare che i redditi degli italiani
hanno subito un duro colpo negli ultimi anni, un andamento non smentito neanche nel
2012. Secondo la Banca d’Italia, tra il 2010 e il 2012 il reddito familiare medio è sceso in
termini nominali del 7,3 per cento, quello equivalente del 6 per cento e la ricchezza media
è diminuita del 6,9 per cento. Un quinto delle famiglie italiane ha un reddito netto annuale
inferiore a 14.457 euro, circa 1.200 euro al mese, mentre cresce la disuguaglianza: il 10
per cento delle famiglie con il reddito più basso percepisce, infatti il 2,4 per cento del totale
dei redditi, mentre il 10 per cento dei nuclei con redditi più alti percepisce il 26,3 per cento
del totale. Stesso trend anche per la ricchezza: il 10 per cento delle famiglie più abbienti
possiede il 46,6 per cento della ricchezza netta familiare totale, un punto percentuale più
del 2010. Da fonte Istat, nel 2012 il reddito disponibile delle famiglie italiane diminuisce
dell’1,9 per cento rispetto all’anno precedente.
Le povertà aumentano, soprattutto per operai, giovani, genitori e cittadini del Sud. Nel
2012 la povertà relativa – la cui soglia è attestata per il 2012 su 990,88 euro (-2 per cento
rispetto al 2011) – è del 12,7 per cento per i nuclei familiari (oscillante tra il 12,1% e il
13,3%), era dell’11,1 per cento nel 2011 ( +1,6 per cento e del 15,8 per cento per quanto
attiene agli individui). Si tratta di 3 milioni e 232 mila famiglie e di 9,5 milioni di persone.
Secondo il rapporto “nessuna area del paese si salva e sono le famiglie più numerose e
soprattutto con figli minori quelle più esposte”. Il problema riguarda i più giovani, gli anziani
e i lavoratori dipendenti. Si registrano, poi, cifre record per chi un lavoro non ce l’ha: le
famiglie senza occupati o ritirati dal lavoro sono povere nel 49,1% dei casi, e quelle con
ritirati dal lavoro e persone alla ricerca di occupazione, nel 36,9%. La povertà assoluta
tocca 1.725.000 famiglie (il 6,8 per cento) e 4.814.000 persone (l’8 per cento), con un
aumento sul 2011 dell'1,6 per cento per le famiglie e +2,3 per cento tra gli individui. Il 50
per cento dei poveri assoluti vive al Sud, ben 2.347.000 a fronte dei 1.828.000 del 2011.
Ed essere lavoratori non protegge dal rischio: gli operai, soprattutto, sono esposti nel 9,4
per cento dei casi, con ben due punti percentuali in più del 2011, e uno stacco sensibile da
impiegati e dirigenti (il 2,6 per cento, +1,3 per cento).
Il cibo e la casa: due indicatori di impoverimento dalle cifre allarmanti. Il rapporto sottolinea
che diminuisce la spesa delle famiglie per il cibo: a fronte di una spesa media mensile per
famiglia di 2.419 euro, diminuita del 2,8 per cento rispetto al 2011 (fonte Istat), la spesa
alimentare passa dai 477 euro in media del 2011 ai 468. Le famiglie numerose, in
particolare, investono in cibo un quinto dei loro fondi, e va in cibo il 21,1 per cento del
salario di un operaio, il 20 per cento del reddito di un pensionato. “La Coldiretti evidenzia
come il 78 per cento degli italiani abbia tagliato la spesa per il pane, anche perché il
prezzo del pane è aumentato, a volte anche raddoppiato. Anche un’analisi della Coop dice
che la spesa per i generi alimentari è attestata nel 2013 a 2.400 euro circa pro capite, un
valore da anni Sessanta – si legge nel rapporto - il 14 per cento in meno sui valori del
2007. Tra gli indici di grave deprivazione materiale, quello relativo al non potersi
permettere un pasto adeguato almeno ogni due giorni sale tra gli italiani dal 12,4 per cento
al 16,8 per cento”. Anche i dati forniti dal Piano di distribuzione degli alimenti agli indigenti
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2013 segnalano che coloro che hanno problemi di alimentazione erano 2,7 milioni nel
2010, sono saliti a 3,3 milioni nel 2011 e hanno raggiunto i 3,7 milioni nel 2012.
La casa è un problema soprattutto per giovani, migranti e nuovi poveri. L’abitazione è
fonte di disagio economico per molte famiglie: nel 2012 circa il 10 per cento (+2 per cento
sul 2010) ha problemi per affitti non pagati o per rate del mutuo cui non si è potuto far
fronte, ed è una cifra che arriva a ben il 30 per cento del reddito familiare. La percentuale
sale al 37 per cento se si considerano solo le famiglie in affitto, con +6 per cento sul 2010,
e +15 per cento rispetto al 2002. Ha arretrati per mutuo, affitto o bollette in media il 13,6
per cento delle famiglie italiane, il 18 per cento al Sud, e soprattutto quando la famiglia è
numerosa (23,3 per cento), con componenti giovani (10,5 per cento), con tre o più figli
(22,9 per cento, il 32 per cento se minori). Non riesce poi a riscaldare adeguatamente la
propria casa il 21,2 per cento. Nel primo semestre 2013 il totale di sfratti richiesti ammonta
a 38.869, di cui 34.736, il 90 per cento, per morosità, 75.348 sono le richieste di
esecuzione pendenti e 16.520 gli sfratti eseguiti.
Il governo Renzi fa ancora troppo poco. “Il giudizio di chi vorrebbe un’inversione di
tendenza nella strategia di uscita dalla crisi non è generoso con il governo Letta, poco di
più con quello Renzi, i cui Documenti di economia e finanza (Def) vengono visti in
sostanziale continuità con quelli dei tecnici del governo di Mario Monti – si legge nel
rapporto - Sul piano delle politiche di contrasto alla povertà e di sostegno al reddito si
registrano poche novità. Attorno alla spesa sociale continua il braccio di ferro di sempre tra
governo da un lato e sindacati e regioni dall’altro”.
Due le aree che secondo il rapporto sono al centro della mobilitazione e dello scontro nel
2013: la non autosufficienza e la lotta alla povertà. “La prima registra una parziale vittoria,
anche grazie agli ammalati di Sla – continua lo studio - e alle loro famiglie e
organizzazioni, che chiedevano 600 milioni di euro per il 2014, 700 per il 2015 per il Fondo
per la non autosufficienza, e incassano invece 275 milioni per il 2014, più altri 75 milioni,
dedicati all’assistenza domiciliare a persone affette da disabilità gravi e gravissime”. Sul
fronte della lotta alla povertà, invece sono molte le proposte e pochi i riscontri. “Restano
inattuati un Piano di lotta alla povertà, coerente e organico, e l’istituzione di una misura di
reddito minimo – spiega ancora il rapporto - anche se vi sono diverse proposte in questo
senso, come il reddito di inclusione sociale attiva, proposto dalle AclI e Caritas o il
sostegno di inclusione attiva, messo a punto da una commissione di esperti designata dal
governo Letta. Tutto finisce con il decadere del governo di Enrico Letta, e sembra
destinato a non decollare nemmeno con quello di Matteo Renzi. Rimane la criticatissima
social card: ha una platea più ampia ed è meglio finanziata (810 milioni), ma resta una
misura “tampone” in un contesto senza strategia, che raggiunge al massimo 450 mila
poveri assoluti, a fronte di un totale di 5 milioni”.
Da Redattore Sociale del 08/07/14
Lavoratori poveri cresciuti di 200 milioni:
“Catastrofe dei diritti sociali”
Rapporto sui diritti globali 2014. In Ue 13 milioni di nuovi poveri (da noi
raddoppiati in 6 anni) e 27 milioni di disoccupati. In Italia tra il 2012 e il
2013 persi 424 mila posti. "Le alternative sono possibili, ma non
possono che sortire dal basso"
ROMA - Più che di crisi, si tratta di una “catastrofe globale” sul fronte dei diritti sociali ed
economici: 27 milioni di disoccupati e 13 milioni di nuovi poveri in Europa. E un picco di
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privazione anche in Italia dove la povertà assoluta è raddoppiata tra il 2007 e il 2012. A
fotografare la situazione preoccupante del welfare nostrano e comunitario è il Rapporto sui
diritti globali 2014, realizzato dall’Associazione società informazione onlus e promosso da
Cgil con la partecipazione di ActionAid, Antigone, Arci, Cnca, Fondazione Basso-Sezione
Internazionale, Forum ambientalista, Gruppo Abele e Legambiente.
Dieci milioni di disoccupati in più in Europa. Secondo il rapporto negli ultimi sei anni tutti gli
indicatori economici e sociali rivelano un quadro drammatico e univoco. In Europa le
persone che hanno perso il lavoro sono cresciute di 10 milioni, portando a 27 milioni il
totale di disoccupati. Per il quinto anno consecutivo l’occupazione è in calo nel continente.
I nuovi poveri sono cresciuti di 13 milioni di unità. Nell’Europa a 28 Paesi, nel 2012, le
persone già povere e quelle a rischio di esclusione erano ben 124 milioni, poco meno di
una ogni quattro, con una crescita di 2 milioni e mezzo rispetto all’anno precedente.
In Italia raddoppia la povertà assoluta. Nel suo piccolo – spiega il rapporto - l’Italia
contribuisce significativamente a questa mappa della privazione: il numero di quanti vivono
in condizioni di povertà assoluta è esattamente raddoppiato tra il 2007 e il 2012, passando
da 2 milioni e 400 mila a 4 milioni e 800 mila, l’8 per cento della popolazione. Il tasso di
occupazione nel 2013 è tornato ai livelli del 2002: 59,8 per cento; all’inizio della crisi, nel
2008, era al 63 per cento. Peggio stanno solo i greci (con il 53,2 per cento), i croati (53,9
per cento) e gli spagnoli (58,2 per cento). Tra il 2012 e il 2013 sono stati persi 424 mila
posti di lavoro. Dall’inizio della crisi hanno perso il lavoro oltre 980 mila persone. E il tasso
di disoccupazione tra i giovani dai 15 ai 24 anni è arrivato al 42,4 per cento. A morire sono
anche le piccole imprese: dal 2008 ne sono scomparse 134 mila, e “per quanto sia difficile
stabilire nessi causali univoci e certi, alcuni studi indicano in 149 le persone che si
sarebbero tolte la vita per motivazioni economiche nel 2013, quasi il doppio rispetto agli 89
casi dell’anno precedente” si legge nel rapporto.
Numeri moltiplicati e non meno tragici sul panorama mondiale: nel 2013 i disoccupati
erano 202 milioni. Lievita anche il fenomeno dei lavoratori poveri ("working poor"): sono
200 milioni e sopravvivono in media con meno di due dollari al giorno. Questo stato di
catastrofe – umanitaria, non solo economica – non è una realtà inevitabile, bensì il
risultato di scelte politiche precise. Nessun serio investimento è stato fatto per promuovere
l’occupazione e sostenere il lavoro. La rotta non è stata invertita e nemmeno corretta.
Anzi. Secondo il rapporto “le politiche della Banca centrale, del Fondo monetario
internazionale e della Commissione europea, la famigerata Troika hanno portato allo
stremo i lavoratori e i ceti medi nel paesi destinatari dei programmi di assistenza
finanziaria, Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna, Romania”. Complice la crisi, è quindi in
atto l’intensificazione di una “lotta di classe dall’alto”, una resa dei conti totale con i sistemi
democratici e di welfare, per come sono stati edificati nella seconda metà del secolo
scorso, a partire dal modello sociale europeo. Sono potenti le spinte in direzione della
privatizzazione dei servizi di protezione sociale in Europa, un potenziale mercato di 3.800
miliardi di euro l’anno, vale a dire ben il 25 del Pil, verso il quale si stanno indirizzando gli
incontenibili appetiti dei gruppi finanziari e delle multinazionali.
“Risulta sempre più evidente il contrasto tra due idee diverse e antagoniste del mondo, la
più forte delle quali, fondata sul dogma del libero mercato e sulla religione del profitto,
vuole fare una definitiva tabula rasa di tutti i diritti faticosamente acquisiti dalle classi
subalterne nel corso della seconda metà del Novecento – si legge nel rapporto -. La crisi
globale ha reso maggiormente manifesta l’incapacità di perseguire alternative. Negli ultimi
anni a livello mondiale si è assistito alla bancarotta del liberismo. Eppure i responsabili
della crisi – grande finanza, corporations e tecnocrazie – hanno stroncato violentemente
ogni ripensamento sui paradigmi della crescita infinita e dell’asservimento totale dei viventi
alle logiche del profitto, che sono state architrave di quella dottrina fraudolenta. E ora
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addirittura rilanciano, con quel Transatlantic Trade and Investment Partnership, il trattato
commerciale Usa-Ue che incombe sull’Europa”.
Eppure - spiegano i promotori del rapporto - le proposte alternative sono da tempo sul
tavolo. Ma “non bastano le piattaforme. Per trasformazioni di tale radicalità occorrono la
forza politica, il consenso e la cooperazione sociale. Ma anche nuova cornice culturale e
valoriale. Un’altra Europa e un’altra globalizzazione, insomma, quella dei cittadini, dei diritti
e della solidarietà politica e sociale, ha bisogno di essere pensata e di nascere presto
dalle macerie di quella delle monete e dei mercati – sottolineano. Secondo il rapporto,
dunque, serve una riconversione ecologica dell’economia che deve soppiantare il castello
di carte della finanza speculativa; un deciso investimento sul lavoro stabile e di qualità e
su un nuovo welfare che devono contrastare la politica dell’austerità (solo in Grecia
sarebbero 2.200 le morti direttamente riconducibili alle politiche del rigore) che sta
strangolando economie e stato sociale e a cui l’Unione Europea e i singoli governi si sono
inchinati”. “Le alternative sono possibili, oltre che necessarie. Ma non possono che sortire
dal basso, dalle forze vive del lavoro, della società, dei popoli. Per contrastare quel “colpo
di Stato”, difendendo la democrazia, ricucendo la profonda ferita delle diseguaglianze,
ristabilendo equità e giustizia sociale. Globalizzando i diritti”, conclude il rapporto.
Da Redattore Sociale del 08/07/14
Il non profit regge alla crisi, ma è ancora poco
riconosciuto
Rapporto sui diritti globali. Le associazioni di terzo settore crescono in
numeri e dimensioni. Una forza produttiva che però nel 66 per cento dei
casi è informale. Bene anche il volontariato: le nuove forme di
mutualismo si alimentano nel web
ROMA – Il non profit resiste all’impatto della recessione e cresce nei numeri e nelle
dimensioni, ma resta sostanzialmente ancora informale: nel decennio 2001-2011, che
incorpora anche le prime ricadute della crisi, infatti, sui diversi settori produttivi e dei servizi
in cui il terzo settore è impegnato, le imprese non profit di tutte le tipologie crescono
complessivamente del 28 per cento, e lo fanno in tutto il Paese sebbene con ampiezza
diversa (di più al Centro e al Nord): sono 301.191 nel 2011, erano 235.232. Il non profit
rappresenta il 6,4 per cento della realtà produttiva del paese, ed è la prima nei settori della
cultura e dello sport (con 239 istituzioni non profit su 100 imprese profit) e dell’assistenza
sociale (con 361 istituzioni non profit su 100 profit). A sottolinearlo è il Rapporto sui diritti
globali 2014 presentato oggi a Roma.
Nonostante il settore rappresenti una “potenza” economica e produttiva, si legge nello
studio, resta in esso una caratteristica forte di informalità: il 66,7 per cento delle
organizzazioni – oltre 200 mila – è di tipo informale, solo il 22,7 per cento ha una forma
giuridica riconosciuta, mentre il 3,7 per cento è rappresentato dalla cooperazione sociale e
il 2,1 per cento da fondazioni (6.000). In totale, spiega il rapporto, il non profit contribuisce
alla produzione complessiva per il 6,4 per cento e al lavoro retribuito per il 3,4 per cento:
680.811 sono i lavoratori dipendenti (11,9%), 270.769 esterni (4,9%) e 5.544 lavoratori
temporanei (0,1%). Secondo dati UnionCamere, l’impresa non profit “tiene” egregiamente
l’impatto della crisi: guardando a mortalità e natalità delle imprese cooperative, tra il 2009
e il 2013 il saldo è positivo, con un valore massimo di +2,3 per cento nel 2012 e un
discreto +1,9 per cento nel 2013, con 7.784 nuove iscrizioni e 4.918 cancellazioni nel
Registro delle Imprese. Nel panorama dei settori produttivi, quelli in cui la cooperazione è
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più presente, servizi in sanità e nel sociale e istruzione (8,6%) sono anche i settori dove
non c’è stata flessione negativa, ma tenuta.
La cooperazione ha fatto più fatica, tra il 2012 e il 2013: negli ultimi quattro mesi del 2013
il 19,5% delle cooperative prevedeva tagli all’occupazione e non oltre il 15% prevedeva
degli aumenti, dati che potrebbero salire, nel 2014, al 20% compensato da solo il 10% di
cooperative in grado di assumere. I nodi sono il credito e i tempi dei pagamenti da parte
dei committenti, spesso pubblici. Una cooperativa su tre non ha avuto dal credito le
risposte che si aspettava, il 17 per cento ha avuto un netto rifiuto e il 14 per cento un
prestito inferiore a quello richiesto; un altro 15,4 per cento ha ricevuto una richiesta di
rientro e il 31 per cento ha subito un rialzo dello spread, solo un terzo, il 31 per cento, ha
una liquidità soddisfacente.
Secondo il rapporto, “il volontariato italiano è solido e sta cambiando”. Lo studio sottolinea
infatti che esso ha una base forte, sociale e culturale, e tiene alle prove delle fasi alterne
dell’economia e della politica, anche se “le sue modalità sono destinate a modificarsi
almeno in parte, per esempio con il decollo di una miriade di forme autoorganizzate di
neomutualismo a livello micro territoriale, facilitate dall’accesso al web e da una nuova,
pervasiva connettività”.
Nel decennio 2001-2011 in Italia si registra una crescita complessiva dei volontari, da
3.300.000 a 4.758.000, e delle associazioni che li includono, da 220.000 a oltre 243.000,
di cui quelle che operano solo (o in prevalenza) con volontari sono 235.739 (il 78% del
totale). L’incremento più imponente in percentuale dei volontari riguarda le fondazioni (ben
+277% in 10 anni), e poi le cooperative sociali (+61%) mentre nelle associazioni informali,
non riconosciute, crescono del 54%. Cambiano le forme, si sviluppa in anni recenti più
l’aspetto neomutualistico, anche spinto dal bisogno dei cittadini di auto-organizzarsi per
supplire a carenze del welfare e comunque per migliorare la qualità della vita e della
coesione sociale. Le reti del nuovo mutualismo si alimentano tanto della comunicazione
micro territoriale, di vicinato, quanto di quella virtuale: la strada e il web formano in molte
città italiane un circolo virtuoso.
Da il Velino del 08/07/14
ROMA (ore 11) – Presentazione del Rapporto sui diritti globali 2014 “Dopo la crisi, la crisi”
a cura di Associazione Società Informazione onlus, promosso da Cgil con la
partecipazione di ActionAid, Antigone, Arci, Cnca, Fondazione Basso-Sezione
internazionale, Forum ambientalista, Gruppo Abele, Legambiente. Partecipano: Danilo
Barbi, segretario nazionale Cgil; Paolo Beni, commissioni Affari sociali e Affari esteri della
Camera; Francesca Chiavacci, presidente nazionale Arci; Marco De Ponte, segretario
generale ActionAid Italia; Maurizio Gubbiotti, coordinatore nazionale Legambiente; Alessio
Scandurra, Antigone; Sergio Segio, curatore del Rapporto, direttore di Associazione
Società Informazione; don Armando Zappolini, presidente coordinamento nazionale
Comunità di Accoglienza. Interverrà Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti
umani del Senato. Presso la sede della Cgil nazionale, Sala Simone Weil, Corso d’Italia
25.
Da Rassegna Sindacale del 08/07/14
Un'altra Europa, un'altra globalizzazione
Presentato il nuovo Rapporto sui Diritti Globali (Ediesse). "Più che di
crisi, ormai, dobbiamo parlare di catastrofe globale: è il risultato di
9
scelte politiche precise". Camusso: purtroppo la luce della ripresa è
ancora troppo lontana perché sia visibile
di rassegna.it
(immagini di Maurizio Minnucci)
Se la parola crisi indica lo stato più grave di una malattia dalla quale si può guarire, allora
questa parola non va più bene. Dopo sei anni, tutti gli indicatori economici e sociali
rivelano un quadro drammatico e univoco di costante peggioramento. Insomma, anziché
crisi, sarebbe il caso di definirla catastrofe globale. In Europa le persone che hanno
perduto il lavoro sono cresciute di 10 milioni, portando a 27 milioni il totale dei disoccupati.
Per il quinto anno consecutivo l’occupazione è in calo nel continente. I nuovi poveri sono
cresciuti di 13 milioni. Nell’Europa a 28 paesi, nel 2012, le persone già povere e quelle a
rischio di esclusione erano ben 124 milioni, poco meno di una ogni quattro, con una
crescita di 2 milioni e mezzo rispetto all’anno precedente.
Di tutto questo e di molto altro ancora parla il Rapporto sui diritti globali (Ediesse), giunto
alla dodicesima edizione e presentato oggi a Roma nella sede nazionale della Cgil. Macrocapitoli tematici documentano la situazione e delineano possibili prospettive future in
questo imponente dossier a cura dell'Associazione Società Informazione Onlus, promosso
da Cgil con la partecipazione di ActionAid, Antigone, Arci, Cnca, Fondazione BassoSezione Internazionale, Forum Ambientalista, Gruppo Abele, Legambiente. Come da
tradizione, l’analisi e la ricerca sono corredate da cronologie dei fatti, schede tematiche,
quadri statistici, un glossario, una bibliografia e una sitografia. Uno strumento
fondamentale d’informazione e formazione per quanti operano nella scuola, nei media e
nell’informazione, nella politica, nelle amministrazioni pubbliche, nel mondo del lavoro,
nelle professioni sociali, nelle associazioni.
Nel suo piccolo, l’Italia contribuisce significativamente alla mappa della privazione. Il
numero di quanti vivono in condizioni di povertà assoluta è raddoppiato tra il 2007 e il
2012, arrivando all’8% della popolazione. Il tasso di occupazione nel 2013 è tornato ai
livelli del 2002, peggio di noi fanno solo greci, croati e spagnoli. Tra il 2012 e il 2013 sono
stati persi 424mila posti di lavoro. Dall’inizio della grande recessione oltre 980mila persone
hanno perso il loro impiego. Il tasso di disoccupazione tra i giovani dai 15 ai 24 anni è
arrivato al 42,4%. Muoiono le piccole imprese: dal 2008 ne sono scomparse 134mila. E
muoiono le persone: per quanto sia difficile stabilire nessi causali univoci e certi, alcuni
studi indicano in 149 le persone che si sarebbero tolte la vita per motivazioni economiche
nel 2013, quasi il doppio rispetto agli 89 casi dell’anno precedente. Numeri moltiplicati e
non meno tragici sul panorama mondiale. Nel 2013 i disoccupati erano 202 milioni. Lievita
anche il fenomeno dei lavoratori poveri: sono 200 milioni e sopravvivono in media con
meno di due dollari al giorno.
"Questo stato di catastrofe umanitaria, non solo economica - si legge nel dossier - non è
una realtà inevitabile, bensì il risultato di scelte politiche precise. Nessun serio
investimento è stato fatto per promuovere l’occupazione e sostenere il lavoro. La rotta non
è stata invertita e nemmeno corretta. Anzi. Le politiche della Banca Centrale, del Fondo
Monetario Internazionale e della Commissione Europea, la famigerata Troika hanno
portato allo stremo i lavoratori e i ceti medi nel paesi destinatari dei programmi di
assistenza finanziaria, Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna, Romania".
Le alternative sono da tempo sul tavolo. Certo, non bastano le piattaforme. Per
trasformazioni di tale radicalità - è una delle idee lanciate dal Rapporto - occorrono la forza
politica, il consenso e la cooperazione sociale. Ma, per determinarne le precondizioni,
prima di tutto bisogna definire una nuova cornice culturale e valoriale. Un’altra Europa e
un’altra globalizzazione, insomma, quella dei cittadini, dei diritti e della solidarietà politica e
sociale, ha bisogno di essere pensata e di nascere presto dalle macerie di quella delle
10
monete e dei mercati. Una riconversione ecologica dell’economia deve soppiantare il
castello di carte della finanza speculativa, che da tempo detta le agende ai governi e che
vorrebbe ora addirittura forzare e svuotare le Costituzioni antifasciste europee. Un deciso
investimento sul lavoro stabile e di qualità e su un nuovo welfare deve spodestare la
mortifera politica dell’austerità (solo in Grecia sarebbero 2.200 le morti direttamente
riconducibili alle politiche del rigore) che sta strangolando economie e stato sociale e a cui
l’Unione Europea e i singoli governi si sono inchinati.
Come afferma nel Rapporto Luciano Gallino, "i Parlamenti hanno sbattuto i tacchi e hanno
votato alla cieca perché ce lo chiedeva l’Europa. Non esistono alternative, ci è stato detto.
Questa espressione è un corollario del colpo di Stato in atto". Le alternative invece sono
possibili, oltre che necessarie. Ma non possono che sortire dal basso, dalle forze vive del
lavoro, della società, dei popoli. Per contrastare quel “colpo di Stato”, difendendo la
democrazia, ricucendo la profonda ferita delle diseguaglianze, ristabilendo equità e
giustizia sociale. Globalizzando i diritti.
"Il settimo anno della crisi economica che ha investito l’economia mondiale - osserva nella
prefazione il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso - ci pone di fronte a un
fallimento ormai evidente a tutti: la profonda recessione determinata dalle politiche
economiche di stampo liberista, diventate vera e propria ideologia, che si sono dimostrate
incapaci di prospettare una qualsivoglia uscita dalle loro stesse contraddizioni. La luce in
fondo al tunnel, che in tanti cercano di vedere dietro percentuali di crescita del Prodotto
interno lordo dello zero virgola, è, per il momento, un semplice abbaglio. Purtroppo la luce
della ripresa è ancora troppo lontana perché sia visibile".
http://www.rassegna.it/articoli/2014/07/07/113051/unaltra-europa-unaltra-globalizzazione
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ESTERI
del 08/07/14, ag. 8
A Gaza escalation dal cielo
Verso una nuova offensiva israeliana. Dopo 24 ore di attacchi ieri sera
l’escalation
Michele Giorgio
E’ in atto una guerra di nervi parallela a quella combattuta con le armi che ieri ha visto a
Gaza il più alto numero di vittime palestinesi di un attacco aereo israeliano dal novembre
2012 e in Israele riecheggiare le sirene di allarme nelle città meridionali per il lancio di
razzi palestinesi che ad Ashdod hanno fatto un ferito. A Gaza che la scorsa notte
attendeva una nuova offensiva aerea israeliana dopo i pesanti raid della sera, si sta
giocando anche una partita che va oltre la spirale di attacchi e rappresaglie vista in questi
ultimi giorni. Ieri mentre si svolgevano i funerali dei nove militanti armati di Hamas e del
Jihad Islami, uccisi qualche ora prima a Rafah dal violento bombardamento aereo
israeliano di domenica notte (che ha causato il ferimento anche di civili tra i quali due
bambini e due ragazzine), e i gruppi armati palestinesi indirizzavano per rappresaglia
decine di colpi di mortaio e razzi verso il territorio israeliano, la leadership del movimento
islamico formulava una richiesta ad alto rischio. Se Israele vuole ripristinare la tregua
(hudna) raggiunta dalle due parti il 21 novembre 2012, deve liberare gli 800 palestinesi
(secondo i calcoli di Hamas), arrestati a partire dal 12 giugno, in seguito al rapimento dei
tre ragazzi ebrei in Cisgiordania.
L’approccio “morbido” (si fa per dire) adottato sino a due giorni fa dal premier israeliano
Netanyahu nei confronti di Gaza – che ha fatto infuriare il ministro degli esteri Lieberman
— fa intravedere al movimento islamista un imprevisto spazio di manovra politica. Tuttavia
Hamas con la sua richiesta potrebbe fare proprio il gioco dell’ultradestra nel governo
Netanyahu e accorciare i tempi di un massiccio attacco israeliano alla Striscia. Ieri la
riunione d’emergenza del gabinetto di sicurezza si è chiusa con la decisione di aumentare
“gradualmente” i raid aerei su Gaza, finchè prosegue il lancio di razzi, e il richiamo di
1.500 riservisti anche se non una operazione di terra. Non c’è da stare allegri per i civili.
Lungo le linee di demarcazione tra Gaza e Israele la guerra può solo farsi più intesa nei
prossimi giorni. Hamas in ogni caso è costretto a giocare ogni carta a sua disposizione, ci
spiega Aziz Kahlout, un giornalista di Gaza, «per rompere l’isolamento politico e
diplomatico in cui si trova, a causa anche del fallimento del governo di consenso nazionale
palestinese nato ai primi di giugno. (Il presidente) Abu Mazen – aggiunge Khalout —
aveva fatto delle promesse, come l’apertura del valico di Rafah, ma non le ha mantenute e
nessuno sa se, quando e come saranno pagati i 40 mila impiegati dei ministeri del
disciolto governo islamico (al potere a Gaza dal 2007 al mese scorso, ndr). Senza
dimenticare che la sicurezza palestinese ha contribuito nelle scorse settimane alla
campagna israeliana di arresti contro Hamas (in Cisgiordania)».
I dirigenti del movimento islamista vogliono la mediazione dell’Egitto per fermare la nuova
guerra, aggiunge Kahlout, convinti che questo porterebbe anche alla ripresa dei rapporti
tra Hamas e il Cairo, interrotti dopo il colpo di stato dei militari contro il presidente
Mohammed Morsi. L’Egitto post-golpe non ha alcuna intenzione di dialogare con Hamas,
che considera una “organizzazione terroristica”, ma non può rimanere indifferente alle
sofferenze della popolazione di Gaza. E su questo puntano i leader del movimento
islamico. Ieri il ministero degli esteri egiziano ha condannato i raid aerei di Israele e ha
chiesto un stop degli “attacchi vendicativi” e della “punizione collettiva”.
12
La tensione avvolge anche la Cisgiordania e le aree a maggioranza palestinese all’interno
di Israele. Manifestazioni, proteste e scontri si ripetono da giorni. Esercito e la polizia di
Israele usano il pugno di ferro. Hebron, Yatta, Tulkarem, Ram e tante altre località si sono
trasformate in campi di battaglia con parecchi feriti. Lo sdegno per la brutale uccisione di
Mohammed Abu Khdeir non si è placato dopo l’arresto di sei israeliani di Beit Shemesh,
Gerusalemme e della colonia di Adam accusati di aver rapito e bruciato vivo il ragazzo
palestinese, per vendicare l’omicidio in Cisgiordania dei tre ragazzi ebrei. Tre degli
accusati hanno ammesso il delitto e ricostruito la dinamica dell’assassinio. Si è anche
saputo che il giorno prima avevano cercato di rapire un bambino palestinese di 9 anni,
salvato dalla madre.
L’assassinio di Mohammed Abu Khdeir, il pestaggio di suo cugino 15enne Tareq da parte
della polizia ripreso in un video che ha fatto il giro del mondo e, naturalmente, la guerra
non ancora dichiarata da Netanyahu a Gaza, stanno spaccando la destra israeliana. Il
leader ultranazionalista e ministro degli esteri Lieberman ieri ha annunciato la rottura della
sua alleanza tra il suo partito Yisrael Beitenu con il Likud di Netanyahu, in polemica con la
linea prudente, almeno se paragonata a quella del passato, del primo ministro verso Gaza.
E’ ben noto il mal di pancia del leader di Casa Ebraica, Naftali Bennet, ministro
dell’economia e alfiere della colonizzazione dei Territori occupati. E ampi settori
dell’opinione pubblica israeliana mal digeriscono le dichiarazioni di alcuni leader politici,
sincere o dettate da ragioni di opportunità politica. Netanyahu ieri ha espresso a Hussein
Abu Khdeir, padre del ragazzo palestinese ucciso, «lo shock di Israele per l’omicidio».
Nello Stato di Israele «non c’e’ differenza fra sangue e sangue», hanno scritto in un
intervento sulla prima pagina di Yediot Ahronot il presidente uscente Shimon Peres e il
suo successore Reuven Rivlin. A coloro che, ai vertici dello Stato, mettono sullo stesso
piano l’assassinio per vendetta del ragazzino palestinese Mohammed e gli attentati in cui
rimangono uccisi cittadini ebrei, ha risposto infuriato Meir Indor, dell’Associazione Almagor
delle Vittime del Terrorismo in una lettera inviata a parlamentari, ministri e alla procura
dello Stato per affermare che il paragone è improponibile. Per Indor il terrorismo degli
israeliani è meno grave di quello degli arabi.
Del 08/07/2014, pag. 1-15
IL CASO
Israele e l’orrore dei ragazzi assassini
GAD LERNER
A ISRAELE, per fortuna, non basta consolarsi additando la barbarie praticata dal nemico
per trovare giustificazione alla barbarie perpetrata dai suoi figli. La ricerca di alibi morali, o
magari di attenuanti, cede il posto a un profondo turbamento interiore.
OGGI Israele deve guardarli in faccia, questi suoi figli che per vendetta hanno afferrato un
coetaneo palestinese di 16 anni, Mohammad Abu Khdeir, e lo hanno bruciato vivo in un
bosco di Gerusalemme. Li guarda in faccia e li riconosce perché gli sono ben noti,
familiari. Magari finora se ne vergognava un po’, ma liquidava la loro esuberanza come
teppismo generazionale proletario. Sono i ragazzi di stadio della curva scalmanata del
Beitar, organizzati come ultràs in un raggruppamento dal nome sefardita, “La Familia”,
scelto in contrapposizione linguistica all’élite tradizionalmente ashkenazita dello Stato.
Anche il premier Netanyahu tifa per il Beitar, il che naturalmente non significa nulla, se non
che il sabato sugli spalti udiva spesso lo slogan “morte agli arabi” rivolto contro i calciatori
arabo-israeliani; così come udiva le irrisioni blasfeme della fede musulmana.
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Di fronte al baratro della perdizione e del disonore, Netanyahu agisce da politico
responsabile di uno Stato di diritto. Parla di «atto ripugnante», telefona le sue
condoglianze al padre di Mohammad, assicura che «nella società israeliana non c’è
spazio per gli assassini, ebrei o arabi». Lo avevano preceduto, con parole nobilissime, i
genitori in lutto per la morte di Eyal, Gilad e Naftali. Loro certamente si sono immedesimati
nella sofferenza di una famiglia che non possono sentire nemica. Ma per poter sperare
che l’orrore degli adolescenti ammazzati a casaccio rimanga un episodio circoscritto, sarà
inevitabile un’autocoscienza collettiva delle società che tanto odio hanno generato. E qui
viene il difficile. Estrema e degenere, ma è la filiazione di una storia importante la vendetta
che si è consumata all’alba di mercoledì 2 luglio in un bosco di Gerusalemme. Ha rilevato i
codici di un fascismo-razzismo che pensavamo rinchiuso negli stadi di calcio, proprio
come, vent’anni fa, le belve della guerra etnica dell’ex Jugoslavia si forgiarono nelle
tifoserie organizzate. Naturalmente il fascismorazzismo in Israele ha altri luoghi
d’aggregazione. La componente ultràs ne rappresenta solo un orpello simbolico, tipico del
linguaggio giovanile universale. Non a caso, però, il suo retroterra culturale porta lo stesso
nome della squadra di calcio giallo-nera di Gerusalemme. Beitar è il movimento del
cosiddetto “sionismo revisionista” fondato nel 1923 da Zeev Jabotinsky, in
contrapposizione al sionismo ufficiale accusato di sinistrismo filo-socialista e di eccessiva
moderazione. Dal Beitar nascerà il Likud, cioè l’attuale destra israeliana, oggi affiancata (e
insidiata) da nuovi movimenti messianici e etnicisti.
In forma laica o religiosa, l’ideologia postulata da costoro snatura il significato biblico di
terra promessa. Per la precisione, idolatrano la terra e ne rivendicano la proprietà. L’esatto
contrario di quanto è scritto nel Levitico 25-23: “…Mia è la terra, perché voi siete forestieri
e residenti provvisori presso di Me”. Un Dio che si è fatto annunciare da patriarchi ebrei
senza fissa dimora, eternamente stranieri anche nella terra promessa, viene
strumentalizzato come fonte del diritto in base a cui negare legittimità alla residenza dei
palestinesi. Questo naturalmente non basta a spiegare la predicazione dell’odio
trasformatasi in azione violenta già prima che il delitto di Hebron sollecitasse pulsioni di
vendetta. L’organizzazione “Price Tag” votata a seminare il terrore fra i palestinesi con
centinaia di agguati ai civili e alle loro proprietà è attiva da qualche anno, senza che le
forze di sicurezza israeliane agissero efficacemente per smantellarla. A legittimarla non è
stato solo il fanatismo religioso, ma anche l’affermarsi di una diversa forma di razzismo:
l’islamofobia. L’idea, cioè, che gli arabi, ormai quasi tutti musulmani, per loro stessa natura
siano inaffidabili e irriducibili. Solo la forza può tenerli a bada, non intendono altro
linguaggio. Poco importa chiedersi le ragioni del loro agire, tanto meno intenerirsi per la
loro sofferenza. Bisogna solo combatterli. Allontanarli a meno che accettino di
sottomettersi. Va rilevato come questi argomenti riavvicinino la componente ebraica che li
propugna alle destre europee che nel frattempo, dopo la Shoah, hanno per lo più ripudiato
il loro tradizionale antisemitismo. Anzi, di Israele ammirano proprio l’inflessibilità con cui
esercita il suo diritto alla sicurezza e disconosce l’interlocutore palestinese.
“Beitar puro per sempre”, avevano scritto su uno striscione gli ultràs di “La Familia” l’anno
scorso, quando la loro squadra voleva ingaggiare due calciatori musulmani. La ebbero
vinta, in un paese in cui la stessa nozione di purezza razziale dovrebbe far correre tuttora
brividi lungo la schiena. Si tratta di quel medesimo gusto per la violazione di un tabù che
spinge molti politici della destra israeliana a accusare di nazismo gli avversari. Ma che ha
suscitato enorme scalpore quando è stato lo scrittore Amos Oz a paragonare ai
“neonazisti europei” gli estremisti che aggrediscono gli arabi o imbrattano di scritte odiose
chiese e moschee. C’è chi sostiene amaramente che la ricomparsa di Hitler nel dibattito
pubblico, sia pure come estrema provocazione, rappresenti una sua vittoria postuma.
Anche quando (succede spesso) sono gli oltranzisti ebrei a definire nazisti Hamas o gli
14
Hezbollah. Temo invece che si tratti di qualcosa di più semplice e feroce al tempo stesso,
nascosto chissà dove nella natura umana: l’odio inebriante che può sospingere un
ragazzo a cospargere di benzina un suo coetaneo e dargli fuoco, pensando di trarre
sollievo dall’annientamento di un corpo indifeso eletto a simbolo del nemico.
Il grande storico del fascismo e del pensiero reazionario Zeev Sternhell, vincitore del
premio Israele, ha denunciato un cambiamento verificatosi addirittura nella “psicologia
della nazione”. La stessa idea di pace si è deformata fino a concepirla possibile solo
quando gli arabi accettino il proprio status di inferiorità. I ragazzi ebrei assassini dello
stadio di Gerusalemme ne sono una terribile espressione.
Del 08/07/2014, pag. 14
l reportage.
Un paese sotto shock dopo la confessione degli assassini del giovane
palestinese bruciato vivo Da Gaza una pioggia di missili: 100 lanci in
poche ore
I “ragazzi delle colline” cresciuti nell’odio ora
Israele si spacca sul nemico di dentro
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
FABIO SCUTO
GERUSALEMME
ISRAELE scopre oggi di avere un pericoloso nemico interno, i nazionalisti religiosi, gli ultrà
delle colonie e gli “Hilltop Youth”, i ragazzi delle colline scesi per portare la vendetta fino a
Gerusalemme, nel cuore della Terrasanta. Il nemico esterno, Hamas ha sparato più di
cento missili in un solo giorno da Gaza su tutto il sud di Israele, mentre si incendiano le
città “arabe” del nord e vacilla sotto i colpi della protesta il governo del premier Benjamin
Netanyahu. Israele affronta in questi giorni la crisi più complessa e lacerante degli ultimi
anni, il nemico dell’Israele laico e democratico non è solo alle frontiere, ma vive a Kiryat
Arba, Yitzhar, Sussia, Adam e Beit Yattir. Le colonie un tempo “coccolate” da tutti i politici
si stanno rivelando la fucina dell’anti-Stato. Con l’arresto dei sei giovani estremisti ebrei
coinvolti nell’omicidio del ragazzo palestinese bruciato, Israele è adesso consapevole del
crescente pericolo rappresentato da gruppi più o meno organizzati ma uniti da una
violenta ideologia anti-araba. La confessione di tre dei giovani killer è arrivata in un’altra
giornata segnata da violenze, specie sul fronte volatile della Striscia di Gaza. Se non
cesserà il lancio dei missili, Israele è pronto all’escalation militare ed è ciò che Hamas —
isolato e all’angolo senza più “padrini” stranieri — alla fine desidera.
«L’omicidio diabolico di Mohammad è l’incubo dello Shin Bet (il servizio segreto interno),
uno scenario in cui il conflitto israelo-palestinese si trasforma in contri inter-etnici tra le due
comunità, guidati dalla legge biblica del taglione», ha scritto nel suo editoriale Maariv ,
esprimendo le paure e timori che sia stata imboccata una pericolosa deriva. Ne è ben
consapevole il premier Benjamin Netanyahu che ribadisce «che il terrorismo dei
nazionalisti ebrei non è differente da quello degli islamisti» e che ieri mattina ha chiamato
al telefono il padre del ragazzo arabo assassinato per porgergli le condola
glianze e la promessa che gli assassini del figlio «saranno duramente giudicati». Il pericolo
del dilagare di queste violente ha spinto ieri i due presidenti d’Israele — l’uscente Shimon
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Peres e il nuovo eletto Reuven Rivlin — a lanciare un appello congiunto per porre fine alle
violenze e ad avere fiducia nella capacità di vivere insieme. All’appello alla pacificazione
hanno risposto anche le famiglie dei ragazzi uccisi nei due drammi che si sono consumati
in queste settimane, il rapimento e l’uccisione dei tre seminaristi ebrei e l’orrenda vendetta
consumata sul ragazzino palestinese. Le famiglie potrebbero presto incontrarsi in una
visita di rispettive condoglianze. In questo senso si sono accordati lo zio di Naftali
Fraenkel, uno dei tre ragazzi, ed Hussein, padre di Mohammad, che si sono parlati
direttamente al telefono durante una visita del sindaco di Gerusalemme, Nir Barkat, alla
famiglia Fraenkel. Diversi gruppi di estremisti ebrei sono stati individuati dallo Shin Bet,
quelli che gravitano attorno alla squadra dei Beitar Jerusalem tristemente famosi per il loro
razzismo anti-arabo noti col nome di “La Familia” (sul website ufficiale ci sono 13 mila
adesioni) e un’altra denominata “Lehava”, che invece agisce nelle spedizioni punitive
contro negozi e commercianti arabi. La sicurezza israeliana — la popolazione di Israele —
sta scoprendo quel mondo oscuro legato alla destra nazionalistareligiosa, delle yeshiva
nei Territori occupati guidate da rabbini oltranzisti, degli insediamenti dove l’impasto fra la
dottrina ultra ortodossa e il nazionalismo esasperato hanno creato un mix esplosivo che si
fa guidare solo dalla “halachà”, la legge religiosa che è sempre superiore a quella dello
Stato. E in questa visione messianica e razzista non c’è posto per gli arabi. Alcuni gruppi
sono specializzati nelle rappresaglie di solito firmate “Mehir Tag” (il prezzo, in ebraico) e
per questo chiamate “Price Tag Gangs” o gli “Hilltop Youth”, i ragazzi delle colline. Sono
giovani, giovanissimi e prendono ispirazione da ben noti rabbini come Itzhak Ginzburg,
Itzhak Shapira e Drov Lior di Hebron, le cui teorie e predicazioni sono apertamente
razziste. Con maligna apatia il mondo della politica ha finora girato il volto da un’altra
parte.
del 08/07/14, pag. 1/9
La questione israeliana
Gian Paolo Calchi Novati
Per spezzare l’«arco della guerra» in Medio Oriente potrebbe essere venuto il momento di
atti o fatti metapolitici. Se l’esperienza ha un senso, si deve pur prendere atto che il
conflitto ha ormai un secolo di vita.
Anche il «califfo» che capeggia l’offensiva jihadista fra Iraq e Siria conosce gli accordi
Sykes-Picot del 1916. Sono passati 66 anni dalla fondazione dello stato ebraico, 47 dalle
occupazioni della guerra dei sei giorni e 21 dall’accordo di Oslo, che in teoria aveva sciolto
i nodi essenziali della convivenza fra Israele e Palestina.
Non è un caso che l’ultima iniziativa di pace di un certo rilievo sia la preghiera recitata da
papa Francesco con i suoi ospiti nei giardini vaticani. Malgrado l’abominio dei due crimini,
o proprio per questo, l’assassinio dei tre ragazzi israeliani in Cisgiordania e del ragazzo
palestinese a Gerusalemme, se ha rivelato quanto siano forti l’odio e la sete di vendetta, è
servito ad aprire gli occhi di molti sull’abisso che sta di fronte a tutti.
Una volta si parlava di crisi o guerra «arabo-israeliana». Con l’emergere dell’Olp e
soprattutto con l’affermazione della leadership carismatica di Arafat, per anni tenne il
campo la «causa palestinese». La novità principale è che il conflitto tende sempre più a
configurarsi come una «questione israeliana». Israele ha dalla sua la forza militare,
esercita un’ovvia egemonia politica e tiene i territori come ostaggi. L’asimmetria è
lampante anche nel diverso ruolo che hanno da una parte gli arabi che vivono in Israele e
dall’altra i coloni ebraici dei settlements in quella che dovrebbe essere la Palestina. Con
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un altro clima, potrebbero essere due testimonials alla pari di una futura convivenza. Al
limite, non ci sarebbe bisogno di rimuovere nessuno per ragioni di sicurezza o per
rispettare i diritti. Ma fra lo status degli uni e degli altri c’è una sproporzione che nelle
condizioni attuali non è colmabile. Se non si ha in mente una realtà plurale – geopolitica,
ideologica e morale – in cui non c’è una frontiera divisoria insuperabile, non solo una
«linea verde» o un muro ma quel terribile divario astratto fra un Nord percepito come
«civiltà» e un Sud retrocesso a «barbarie», si riproduce inevitabilmente un fenomeno di
incompatibilità. È così che in Algeria avvenne l’esodo in massa dei pieds-noirs all’atto
dell’indipendenza smentendo — proprio i coloni francesi — le ragioni stesse della difesa a
oltranza dell’Algérie française.
Nell’insieme Israele-Palestina è ancora in palio l’alternativa fra unità o patrie separate che
si trascina dai tempi del mandato. A giudicare dai propositi attribuiti al nuovo presidente,
da argomento periferico lo stato bi-nazionale è arrivato al vertice del potere di Israele. La
politica di Israele si dibatte fra separazione o annessione. Il dilemma non è stato risolto,
idealmente e nella pratica, neppure con l’abbandono di Gaza: Sharon si portò dentro
quella contraddizione fino al buio dell’invalidità e poi della morte. Israele, Netanyahu dopo
Sharon, non si è mai rassegnato alla “perdita” di Gaza, parte integrante, al pari della
Giudea e della Samaria, dello spazio fra mito e storia a cui fa riferimento il “ritorno”. La
Striscia è trattata come un arto amputato che non si esclude di recuperare. Non si spiega
altrimenti il riflesso condizionato che ha determinato due guerre e che ispira la tentazione
ricorrente di “intervenire” per domare il “regno” di Hamas. I razzi lanciati dal territorio di
Gaza sui villaggi israeliani di frontiera, per quanto carichi di responsabilità da una parte e
di sofferenze dall’altra, potrebbero essere solo un falso problema.
La difficoltà estrema del negoziato asfittico che si è protratto nei vent’anni dopo la
cerimonia fra Arafat, Rabin e Peres alla Casa Bianca deriva da un’agenda che non ha mai
scelto chiaramente e definitivamente fra separazione e annessione (che sul lato dell’Olp
potrebbe essere intesa come una ricomposizione di una terra fin troppo lacerata). La
geografia, la demografia e la democrazia sono state strapazzate in modo insopportabile.
Con il tempo l’insediamento umano sul terreno è profondamente mutato (al di là della
successione naturale delle generazioni). Sono cambiati i fattori soggettivi e materiali.
Sarebbe un dramma se si confermasse la tendenza alla partenza dei “migliori” (i sionisti di
sinistra) o, se si preferisce, di coloro che per interessi personali, di ceto o di religione,
credono nella concordia prima di ogni soluzione concordata (le élites istruite, i cristiani).
Persino la logistica degli ultimi due delitti rispecchia la confusione e sovrapposizione di
habitat e identità: i tre israeliani facevano l’autostop su una strada ben dentro la West
Bank ma riservata al traffico degli israeliani; il palestinese viveva in un quartiere di
Gerusalemme, proclamata capitale eterna di Israele.
Israele è oggettivamente scoraggiato dallo strumento della diplomazia così come è stata
praticata finora. Non è stato trovato in effetti nessuna intesa sui termini della separazione.
Per questo la soluzione dei due stati suona come una causa perduta. Siccome lo status
quo è insostenibile, si va in cerca di nuove idee, dando per scontato che si dovrà
sacrificare o l’accordo o la separazione o entrambe le due opzioni. L’ipotesi di una
Palestina disarmata e neutralizzata, senza confini, senza continuità territoriale, senza la
possibilità di comunicare con i paesi arabi vicini, priva delle sorgenti dei fiumi, non è più
tanto attraente nemmeno per Israele. Come extrema ratio si propende – non solo i “falchi”
— a un’annessione di fatto o di diritto, a volte chiamata più benevolmente “applicare la
legge israeliana”. La sovranità “grigia” verso cui stava dirigendosi l’Autorità nazionale
palestinese è contraddetta dal comportamento delle forze armate israeliane e dalla
disarticolazione dei territori occupati a livello di mobilità. Probabilmente Netanyahu vuol far
pagare a Abu Mazen la mezza vittoria fatta registrare con la mezza ammissione all’Onu.
17
Una fattispecie simile a quella del Curdistan iracheno o del Somaliland, garantita
rispettivamente da Turchia ed Etiopia, non è riproducibile in Palestina almeno fino a
quando l’Egitto non avrà scelto il suo modo d’essere e d’agire.
Sono due le ragioni che hanno finora dissuaso l’annessione dei territori presi alla
Giordania nel 1967: un contraccolpo a livello internazionale e le implicazioni demografiche.
La questione demografica potrebbe essere depotenziata con enclaves e cantoni
palestinesi da intendere come “piccole patrie”. Nella società israeliana di oggi l’idea
dell’apartheid potrebbe risultare meno ostica di un tempo. L’eventuale opposizione degli
Stati Uniti e dell’Unione europea a un passo fatale (ma è più probabile un processo
strisciante e graduale) potrebbe essere ammortizzata nello stravolgimento delle alleanze
che ha già portato a una specie di asse Israele-Arabia Saudita. I due alleati principali degli
Usa nella regione reagiscono così a una politica americana che, dopo i tentennamenti nel
gestire le Primavere arabe, è sempre più attirata dalla ricerca di un modus vivendi con
l’Iran.
Il governo di Israele non è mai stato particolarmente attento alla legalità internazionale.
Oggi è al limite di dover subire una campagna di sanzioni ampliando gli interdetti che
riguardano già i prodotti provenienti dai settlements. La sua strategia è sempre stata di
uscire dall’angolo in cui teme di essere rinchiuso alzando la posta.
La vera incognita è rappresentata dallo spettro di una Terza Intifada che veda in campo
non Hamas o non solo Hamas ma Al Fatah in prima persona. Sia i servizi segreti che
l’opinione pubblica di Israele sono convinti che le rivolte nel mondo arabo hanno migliorato
la posizione d’Israele, che infatti non è mai stato coinvolto come bersaglio primario o
effetto collaterale. I palestinesi della West Bank si sentono isolati e sono pressoché senza
“padrini”. Della convergenza tattica fra Israele e le monarchie sunnite del Golfo si è detto.
La Siria è in piena guerra. Una breccia potrebbe aprirsi solo sul fronte libanese. D’altra
par</CW>te, appare remota una reale integrazione di Israele nella regione utilizzando le
enormi risorse di soft power che avrebbe a disposizione, come si era pensato accadesse
quando fu firmata la pace di Camp David.
del 08/07/14, pag. 2
In fuga dalla guerra siriana oltre 145mila
donne
Joseph Giles
Rapporto Onu. Un'inchiesta basata su 135 testimonianze raccolte nel
2014
Oltre 145mila donne siriane, sole o con figli, sono scappate dalla Siria a causa del conflitto
in corso. La maggior parte ha trovato rifugio in Giordania, Egitto, Libano e Iraq; hanno
perso o lasciato i mariti in guerra e un quarto di loro vive in rischiose condizioni di povertà.
Le loro storie sono state raccolte dall’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati
in un report reso noto stamattina, all’interno del quale vengono effettuati focus sulle attuali
vite delle donne siriane. Woman Alone — the Fight for Survival by Syrian Refugee Women
si basa sulle testimonianze personali di 135 di queste donne, raccolte in un periodo di tre
mesi durante il 2014. «Costrette ad assumersi la responsabilità esclusiva delle famiglie
dopo che i loro uomini sono stati uccisi, catturati o allontanati, sono preda di una spirale di
disagio, isolamento e ansia», scrivono i relatori del rapporto. L’ostacolo maggiore — si
evince — è la mancanza di risorse.
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La maggior parte di queste donne siriane, ovunque siano riparate, ha difficoltà a pagare
l’affitto, a garantire il cibo alla propria famiglia. Alcune di loro hanno venduto le fedi nuziali,
nel gesto disperato di ottenere quel piccolo gruzzolo in grado di garantire, per alcui giorni,
il nutrimento dei figli. Molte hanno abitato in tende o accampamenti, altre vivono della
generosità di chi non fa pagare loro l’affitto o garantisce un posto per dormire in una
moschea. Un quarto di loro riceve assistenza in denaro da associazioni, ed è l’unica forma
di sostentamento; dipendendo totalmente dagli aiuti, un terzo delle donne ammette di non
avere abbastanza cibo per vivere. A questo si aggiunge una difficoltà storica, determinata
dalle vicende politiche dei Paesi in cui le donne hanno trovato rifugio, basti pensare
all’Egitto o all’attuale Iraq. L’Egitto — «che ha assistito ad un enorme cambiamento politico
negli ultimi anni – ha introdotto delle restrizioni ai visti, creando non pochi problemi ai
siriani in fuga dal conflitto. Le condizioni socio-economiche difficili e l’ambiente politico
instabile hanno inoltre «complicato il lavoro delle agenzie umanitarie nell’aiutare queste
comunità, anche a causa di crescenti tensioni con gli ospitanti».
Lo scopo dichiarato del report dell’Uhncr, mettendo in evidenza il numero e le condizioni di
vita di queste donne, è quello di «chiedere un intervento urgente di nuovi donatori, di
governi e agenzie internazionali». Nel percorso di queste donne, la fuga «è solo il primo
passo di una vita di disagi», ha dichiarato António Guterres, dell’Alto Commissario delle
Nazioni Unite per i rifugiati. «Hanno finito i soldi, devono affrontare ogni giorno minacce
alla propria sicurezza, e vengono trattate come reiette, pur non avendo commesso alcun
crimine. È vergognoso. Vengono umiliate per aver perso tutto».
Il 60 percento delle donne ha espresso sentimenti di insicurezza, una su tre si è detta
spaventata e sopraffatta, alcune hanno il timore di lasciare la propria casa, altre fingono
un’esistenza con il marito che non c’è, per la paura di violenze e umiliazioni. E, infatti,
spesso il riparo non è migliore del luogo da cui si è fuggite: «Abbiamo lasciato la nostra
casa in Siria, racconta una delle intervistate, per scoprire ben presto la miseria che ci
aspettava qui in Egitto». Infine, la maggior parte delle donne intervistate ha raccontato che
la loro più grande preoccupazione è l’impatto della vita da profughi sui propri figli: «Devo
preoccuparmi per le finanze e per la scuola. Devo proteggere loro, e dare loro l’amore di
una madre», racconta una di loro riparata in Egitto.
Altre temono che i loro figli stiano crescendo troppo in fretta, con troppi pesi sulle spalle. «I
nostri ragazzi, dicono, sono già dei piccoli uomini, ci aiutano con il lavoro, corrono per
aiutarci nelle commissioni e sviluppano il senso protettivo di un adulto». Le ragazze – a
loro volta – si prendono cura dei fratelli e adempiono «alle faccende di casa». Anche di
fronte a queste circostanze preoccupanti, specifica il report, «molte donne siriane hanno
dimostrato una notevole intraprendenza nei paesi in cui hanno cercato e trovato rifugio».
Le storie in questo rapporto fanno emergere persone che stanno cercando di tirare fuori il
meglio, da una situazione di disperazione. «I rifugiati e le comunità di accoglienza, così
come l’Unhcr, conclude il rapporto — e i suoi partner, stanno cercando di mettere insieme
ogni risorsa disponibile, per fornire loro supporto e assistenza».
del 08/07/14, pag. 8
Da Aleppo (Siria) a Diyala (Iraq) “governa” la
Shari’a dell’Isil
Chiara Cruciati
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Iraq. A Mosul piovono bombe senza nome mentre Al-Baghdadi
introduce i primi regolamenti. In Siria l'Isil espelle 60mila persone
Lo stallo del par-la-mento ira-cheno con-tro il nuovo “ordi-na-mento” del calif-fato di Al
Bagh-dadi. Men-tre i par-la-men-tari di Bagh-dad, eletti a fine aprile, per la seconda volta
in una set-ti-mana alza-vano ban-diera bianca e riman-da-vano l’elezione del pre-si-dente
al 12 ago-sto, il nuovo califfo det-tava le regole da seguire nel cor-ri-doio da Aleppo a
Diyala, sotto il con-trollo dell’Isil da quasi un mese.
Nella capi-tale le fazioni poli-ti-che hanno rin-viato nuo-va-mente la nomina del pro-prio
pre-si-dente e, indi-ret-ta-mente, del nuovo ese-cu-tivo. Secondo quanto ripor-tato da un
depu-tato sun-nita, Salim Al-Jabour, lo stallo è dovuto «alla man-canza di con-senso
poli-tico». Lo scorso mar-tedì erano stati i par-la-men-tati sun-niti e curdi a far sal-tare la
prima ses-sione, abban-do-nando l’aula e facendo venir meno il numero legale.
A due mesi dal voto e con un terzo del paese sotto il con-trollo di mili-zie isla-mi-ste, l’Iraq
non ha ancora un governo uffi-ciale. Quello ancora in carica è ber-sa-glio di cri-ti-che da
parte della comu-nità inter-na-zio-nale e della classe poli-tica ira-chena, che in ogni caso
non sem-bra in grado di pro-durre un ese-cu-tivo alternativo.
Molto più orga-niz-zati appa-iono i mili-ziani isla-mi-sti che a Mosul comin-ciano ad
imple-men-tare la loro per-so-nale legge, i “rego-la-menti” del calif-fato. Non solo modelli di
com-por-ta-mento, ma anche docu-menti di iden-tità: secondo alcune orga-niz-za-zioni
locali, lo Stato Isla-mico intende rila-sciare pas-sa-porti ai resi-denti. E per fare cassa,
pro-verà a ven-dere il greg-gio “occu-pato”, pro-ve-niente dai gia-ci-menti di petro-lio sotto
il con-trollo isla-mi-sta. Dif-fi-cile che i jiha-di-sti tro-vino com-pra-tori uffi-ciali, ma la sola
minac-cia spa-venta Bagh-dad per-ché sim-bolo della debo-lezza del potere centrale.
E poi c’è la Shari’a: vie-tato per le donne uscire di casa a meno che non sia stret-ta-mente
neces-sa-rio e vie-tato per gli uomini gio-care a poker. Le siga-rette costano già il dop-pio
e c’è chi teme che met-te-ranno al bando anche quelle.
Ma, più pre-oc-cu-pante, è l’utilizzo che di que-sta auto-rità sta facendo Al-Baghdadi tra
Iraq e Siria: ieri dalla comu-nità di Shu-heil, nella pro-vin-cia orien-tale siriana di Deir
Ezzor, sono state espulse oltre 30mila per-sone. A but-tarle fuori l’Isil, come aveva fatto
nei giorni scorsi con i 30mila resi-denti delle città di Kosham e Tabia Jazeera. Oltre 60mila
pro-fu-ghi nel giro di pochi giorni. In un video pub-bli-cato online si vedono alcuni mili-ziani
det-tare le regole dell’espulsione: i cit-ta-dini di Shu-heil devono lasciare le pro-prie case e
le armi in loro pos-sesso fino a quanto la stessa Isil riterrà la comu-nità «sicura».
Un’avanzata che sem-bra inar-re-sta-bile, soprat-tutto agli occhi di una Bagh-dad sem-pre
più debole. Per difen-dere quanto resta dell’autorità del potere cen-trale, ieri l’esercito ha
innal-zato bar-ri-cate intorno alla città di Adeim, nella pro-vin-cia di Diyala, occu-pata
dall’Isil nelle scorse set-ti-mane. Nella pro-vin-cia di Ninawa a par-lare, invece, sono le
bombe, anche se nes-suno ne riven-dica il lan-cio. Nei giorni scorsi la città di Mosul è stata
tar-get di una serie di bom-bar-da-menti: testi-moni hanno rac-con-tato di almeno quat-tro
case distrutte e due intere fami-glie uccise. Secondo fonti medi-che i morti sareb-bero
sette, 30 i feriti. E se un ex gene-rale in pen-sione ha rife-rito alla stampa di aver
chia-ra-mente visto un C-130 sta-tu-ni-tense (in dota-zione all’esercito ira-cheno), sia il
pre-mier Nouri al-Maliki che il pre-si-dente Usa Obama hanno negato il pro-prio
coin-vol-gi-mento nei bombardamenti.
Il caos pare allar-garsi tanto da pre-oc-cu-pare anche l’Egitto e il nuovo pre-si-dente al-Sisi
che non ha nasco-sto il timore di un con-ta-gio del Cairo. L’ex gene-rale, fau-tore del golpe
che ha depo-sto il pre-si-dente Morsi un anno fa, ha impie-gato gli ultimi mesi nella
repres-sione duris-sima e la can-cel-la-zione poli-tica e sociale della Fra-tel-lanza
Musul-mana in Egitto e non intende assi-stere all’avanzata di un altro gruppo isla-mi-sta. Il
timore – ha detto Al-Sisi ieri – è quello di una spac-ca-tura interna dell’Iraq che potrebbe
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dan-neg-giare gli equi-li-bri dell’intera regione. Il dito è pun-tato anche sul Kur-di-stan
ira-cheno e sul suo pre-si-dente Bar-zani, la cui pro-po-sta di un refe-ren-dum per
l’indipendenza da Bagh-dad è stato defi-nito dal pre-si-dente egi-ziano «una poten-ziale
catastrofe».
del 08/07/14, pag. 9
Afghanistan, vince Ghani con il 56,44%
Emanuele Giordana
Presidenziali. Tensione per i risultati definitivi del secondo turno. Al
tagico Abdullah il 43,56%
A volte la politica riserva sorprese, altre volte scopre un segreto di Pulcinella. Sembra
questo il caso delle presidenziali afghane di cui ieri sono stati forniti, con cinque giorni di
ritardo, i risultati preliminari che danno la vittoria ad Ashraf Ghani, il tecnocrate in odore di
laicità che piace ai modernisti, alla gioventù colta e anche ai tradizionalisti che vedono in
lui la continuità della reggenza pashtun. La contestata Commissione elettorale (contestata
dal perdente appena dopo il voto del secondo turno) gli attribuisce il 56,44% dei voti contro
il 43,56 del rivale, il campione tagico Abdullah Abdullah, che ha giocato la carta etnica
assai più di Ghani, vecchio uomo di potere nel Nord e a Kabul, alleato con una pletora di
islamisti locali distinti dai taleban – ideologicamente — forse solo per il colore del turbante.
In queste settimane c’è stato un gran lavorio, con la presenza, stavolta poco ingombrante,
di un Karzai che ha fatto più da capo di Stato che non da padre padrone del Paese. I
rumor dicono che la trattativa tra rivali è stata condotta sia sul fronte monetario sia su
quello dei futuri incarichi e persino giocata su un possibile stravolgimento costituzionale
che attribuisse a uno la presidenza e all’altro il premierato. Ma i giochi per ora non sono
conclusi. Intanto c’è un accordo bilaterale per rivagliare i risultati di oltre 7mila seggi e poi
chissà che altro ancora prima che si sappiano con certezza gli esiti definitivi. La
Commissione ha dato anche i dati dell’affluenza del secondo turno: 60% con un 38% di
voto femminile su 8.109493 di voti validi.
Anche se sembra profilarsi un accordo che alla fine metterà a tacere Abdullah e anche se,
finora, le contestazioni del candidato nordista si sono limitate a manifestazioni di piazza e
proclami senza che si sia passati dalla dialettica politica all’antico gioco delle armi, le
presidenziali 2014 non ne escono gran bene. E gli afghani lo sanno, come lo sa la
comunità internazionale, americani in testa, per i quali una sconfessione del processo
elettorale equivarrebbe a una dichiarazione di fallimento generale il che ha fatto correre ai
ripari le cancellerie con pressioni di ogni tipo per evitare uno scandalo sullo stile di quello
che accompagnò la vittoria di Karzai nel 2009 quando anche quella volta – con brogli
certificati dal numero due dell’Onu a Kabul — Abdullah gettò il sasso nello stagno della
polemica per poi ritirare la mano – dicono i maligni – dopo un’offerta che non poteva
rifiutare. Tant’è, anche giocando sulla stanchezza degli afghani, tutto sembra destinato a
concludersi a tarallucci e tè e un tutti a casa che non lasci morti o feriti. «Un dramma
afghano», come ci diceva giorni fa a Kabul un diplomatico. Un modo elegante per non dire
melodramma, un’arte politico teatrale in cui anche noi italiani siamo maestri.
21
del 08/07/14, pag. 10
Assedio ai filorussi
Giù i ponti a Donetsk
U. D. G.
Sul fronte ucraino a prevalere è la «diplomazia del cannone». Si stringe la morsa delle
truppe di Kiev intorno alle roccaforti filorusse. Mentre secondo alcuni osservatori, Mosca è
sempre più riluttante a offrire sostegno ai separatisti. Nel frattempo i soldati ucraini
continuano la loro azione sui secessionisti e l’esercito nazionale ha ripreso il controllo di
diverse località precedentemente nelle mani dei ribelli pro Mosca. La bandiera ucraina è
stata nuovamente issata sulla maggioranza delle roccaforti nelle regioni di Donetsk e
Lugansk: 20 aree su 36, secondo quanto scrive su Facebook, l’informatissimo blogger
Dmitry Tymchuk. I militari hanno ristabilito il controllo sulle città come Kramatorsk e
Slavyansk, dove in base ad alcune fonti i separatisti sono stati lasciati senza munizioni,
denaro e cibo. Secondo le ultime informazioni, la bandiera bicolore è comparsa sopra il
Consiglio comunale della città di Konstantinovka, da dove precedentemente era stata
ammainata.
ASSALTO FINALE
Intanto il WallStreetJournal ha rilevato come la battaglia per Donetsk sia irta di rischi per
Mosca, come per Kiev. E a fronte della difficoltà in cui versano i separatisti, «Mosca non
ha mostrato segni di voler intervenire per aiutarli». Ma nel frattempo aumenterebbero le
pressioni per un intervento russo intorno al presidente Vladimir Putin. Nelle città liberate,
unità militari stanno lavorando per sminare le strade, gli edifici, i ponti, e nel prossimo
futuro, il governo potrebbe adottare un programma di riabilitazione per tali insediamenti, ha
detto secondo radio Liberty il ministro degli interni ucraino Arseny Avakov. La situazione
rimane tesa in diverse città della regione di Lugansk: Donetsk, Gorlovka, Lugansk,
Krasnodon, Antratsyt e Severodonetsk, secondo il ministero della Difesa. La situazione
resta molto difficile soprattutto a Lugansk, con bombardamenti e incendi. Attualmente, il
piano strategico principale dell'esercito ucraino è l’assedio di Lugansk e Donetsk, che
dovrebbe costringere i separatisti a deporre le armi. Ma quest’ultimi non hanno alcuna
intenzioni di alzare bandiera bianca. Tre ponti su strade che portano a Donetsk sono stati
fatti saltare. Le principali via d’accesso alla città sono quindi bloccate. Un giornalista di
Associated Press sul posto ha visto un ponte collassato nel villaggio di Novobakhmutivka,
dove corre una linea ferroviaria verso Donetsk.
Un cessate-il-fuoco e misure di «confidence- building» per aprire una «fase nuova» in
Ucraina. Sono gli obiettivi al centro della missione di Federica Mogherini a Kiev e a Mosca,
missione iniziata ieri e che si protrarrà fino al 10 luglio. «Un cessate il fuoco bilaterale e
reciproco in Ucraina è cruciale e può essere l’unico modo per fermare gli scontri», aveva
affermato la titolare della Farnesina giovedì scorso illustrando in Parlamento gli ultimi
sviluppi di politica estera in relazione al semestre di presidenza italiana dell’Ue. Ieri
Mogherini ha incontrato Yulia Timoshenko a Kiev.
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del 08/07/14, pag. 7
Mogherini di pace in Ucraina, con una nave
spia nel Mar Nero
Simone Pieranni
Ucraina. La ministra prova «la soluzione diplomatica al conflitto»,
mentre l’Italia prende parte a una missione di guerra
Mentre una nave spia italiana, l’Elettra, entra nel mar Nero, non per un’esercitazione, ma
per una operazione reale, l’Italia sbandiera la missione di pace del proprio ministro degli
Esteri, in Ucraina prima e a Mosca poi. L’esordio internazionale del semestre italiano di
presidenza Ue della ministra degli esteri italiani Federica Mogherini infatti, è in Ucraina. La
ministra è arrivata ieri a Kiev — dove è stato annullato il Gay Pride previsto nel week end,
a causa delle minacce contro gli organizzatori dei neonazi di Settore Destro — poi sarà la
volta di Mosca. Nella capitale ucraina Mogherini ha specificato l’obiettivo principale del suo
viaggio, ossia tentare in extremis una risoluzione pacifica alla crisi ucraina, proprio mentre
pare essere in atto l’attacco finale da parte dell’esercito del neo presidente Poroshenko.
Mogherini ha specificato di avere intenzione di «intensificare il lavoro diplomatico» affinché
si realizzi il «cessate il fuoco», dopo aver annunciato l’avvio delle indagini di Kiev sulla
morte del giornalista italiano Andrea Rocchelli, ucciso dai mortai dell’esercito nazionale.
Ma, prima della missione affidata a Mogherini, ne è partita un’altra, affidata alle navi da
guerra italiane. È infatti appena entrato nel Mar Nero uno dei quattro gruppi navali
permanenti della Nato, agli ordini del capitano Giovanni Piegaja a bordo della fregata Its
Aviere, la nave ammiraglia, affiancata da un’altra nave da guerra italiana, una turca e una
britannica. Il gruppo che si avvale dell’integrazione di unità statunitensi e greche, sta
compiendo esercitazioni congiunte con le marine bulgara e rumena in evidente funzione
anti-Russia. Insieme al gruppo navale Nato sotto comando italiano, è entrata nel Mar
Nero, non per una esercitazione ma per una operazione reale, la nave spia italiana Elettra,
con a bordo un centinaio di marinai e tecnici dell’intelligence e una trentina di sistemi
elettronici e acustici, installati anche su un sommergibile che dalla nave può scendere a
1000 metri di profondità.
La nave spia, grazie alla sua capacità di navigare ai limiti delle acque territoriali russe, è in
grado di intercettare le comunicazioni delle installazioni costiere e interne in Russia e in
Crimea. Il governo Renzi, che ora sbandiera la «missione di pace» della Mogherini, ha
cercato di tenere segreta la missione di guerra dell’Elettra, che però è venuta alla luce ed
è stata denunciata da Mosca. Un bell’inizio di politica estera del semestre italiano di
presidenza Ue.
Mentre in Ucraina la situazione diventa di ora in ora più drammatica. Le truppe di Kiev —
stando a quanto trapela dal governo ucraino, si preparano a stringere d’assedio le città di
Donetsk e Lugansk, capoluoghi delle omonime regioni «separatiste» dell’Ucraina sudorientale, dopo che nei giorni scorsi hanno riportato la bandiera ucraina in alcune città
occupate dai miliziani filorussi, tra cui l’importante centro di Sloviansk.
L’arrivo al potere di Poroshenko e il cambio del ministro della Difesa sembrano aver
sbloccato la situazione dell’esercito ucraino, precedentemente affossato da disguidi,
defezioni e clamorose sconfitte. Emerge inoltre la mancanza di supporto della Russia ai
filorussi, che nei giorni scorsi hanno lamentato la mancata assistenza di Mosca.
E dal Cremlino arrivano altre notizie sui profughi, minimizzati da Kiev, ma sottolineati
anche da recenti rapporti delle Nazioni unite. Oltre 20mila cittadini ucraini hanno chiesto
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asilo in Russia da quando è iniziato il conflitto, secondo quanto riferito dal vice direttore del
Servizio federale russo di migrazione Anatoli Kuznetsov.
Del 08/07/2014, pag. 11
Si alza il muro tra Europa e Usa
Divisi da banche, Ogm e politica
La relazione transatlantica è in uno stato di apatia. O forse di atrofia, come scriveva ieri il
Financial Times. Certamente, la confusione e l’incomprensione stanno prendendo il
sopravvento nei rapporti tra Stati Uniti ed Europa. L’alleanza delle democrazie che per
decenni ha dato stabilità a buona parte del pianeta è al livello di intensità più basso dal
dopoguerra. E al momento non si sa come l’amicizia fattiva possa essere riparata e
soprattutto chi sia in grado di farlo. Ieri, il ministro delle Finanze francese Michel Sapin ha
evocato — appoggiato da voci influenti dell’industria — la necessità di limitare l’uso del
dollaro come valuta principe del commercio mondiale. Si tratta, in buona misura, di una
reazione alla vicenda Bnp-Paribas, la banca francese multata per quasi nove miliardi di
dollari da Washington per il ruolo che svolse a favore del governo del Sudan proprio nel
momento in cui le milizie sudanesi effettuavano massacri nel Darfur. Ora: gli europei
hanno la responsabilità di non aver fermato la condotta vergognosa di alcune banche
(non solo Bnp) nella vicenda africana. Ma l’azione di «polizia bancaria » americana è
stata altamente discutibile: sotto la minaccia di un processo che avrebbe potuto
concludersi con il ritiro dell’autorizzazione a operare negli Stati Uniti (una sentenza di
morte per una banca internazionale) Washington ha costretto Bnp a dichiararsi colpevole
e ad accettare la sanzione. Nessun tribunale coinvolto, qualcosa che secondo alcuni si
avvicina al ricatto e che mette in evidenza il lato certe volte arrogante e unilaterale
dell’America. Il risultato è la crescita del nervosismo tra le due sponde dell’Atlantico. Per
parte sua, da Pechino dove è in visita d’affari, Angela Merkel ha protestato risolutamente
contro le attività di spionaggio americane in Germania, che continuano anche dopo che
Barack Obama aveva assicurato del contrario in seguito allo scandalo delle intercettazioni
della Nsa. E, nelle settimane scorse, di fronte alla crisi in Ucraina, America ed Unione
Europea si sono divise sulla risposta da dare alla Russia di Vladimir Putin: Vecchio
Continente incerto sulle sanzioni, Washington accusatoria per le scarse e calanti spese
militari del lato europeo della Nato. Sullo sfondo, l’impressione, che gli Stati Uniti di
Obama siano sempre meno interessati a garantire gli alleati e a rimanere il punto di
stabilità in regioni importanti del pianeta (oltre all’Ucraina, la Siria, l’Iraq, l’Afghanistan,
l’Iran, la Libia e, c’è chi teme, in prospettiva anche l’Est asiatico). È «il pericolo —
secondo l’ex segretario al Tesoro americano Larry Summers — che gli Usa abdichino
alla responsabilità che hanno intrapreso per 70 anni, sin dalla Seconda guerra mondiale,
di sostenere un’economia globale più integrata, fondata sempre più sulle regole e ad alta
crescita». In discussione è il ruolo dell’Occidente in un mondo in cui emergono nuove
potenze che non necessariamente condividono le sue idee di libertà, di commercio aperto
e multilaterale, di responsabilità negli affari internazionali. Un’iniziativa che avrebbe
dovuto essere il grande rilancio dell’alleanza tra Usa ed Europa, cioè le trattative per la
Partnership economica transatlantica (Ttip), rischia così di rivelare la realtà di confusione
e mancanza di leadership dell’Occidente. I negoziati sono ogni giorno più difficili – dice chi
li segue da vicino. Questioni come gli standard alimentari, le regole finanziarie, la privacy
e la proprietà intellettuale sono gli ostacoli che impediscono di arrivare a una partnership
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che nelle intenzioni dovrebbe creare un mercato unico transatlantico. E la volontà politica
di raggiungere un accordo sembra sempre più flebile: a Washington, dove l’interesse del
Congresso è scarso, e a Bruxelles, dove l’opposizione ad aperture commerciali da parte
di alcuni Paesi si accoppia all’irritazione verso l’America. La speranza di raggiungere un
accordo in tempi brevi per ora rimane. Il ministro del Commercio britannico, Lord
Livingston, potrebbe proporre — anche su spinta dell’Italia che detiene la presidenza
semestrale della Ue — di firmare un patto transatlantico sulle questioni su cui già c’è
consenso e di rinviare le altre a trattative successive. Sarebbe un early harvest, un
raccolto anticipato, su temi come tariffe, energia, appalti pubblici e liberalizzazioni in sei
settori industriali già individuati: un esito ridimensionato e anche rischioso, perché
renderebbe difficile raggiungere gli obiettivi più ambiziosi con cui erano iniziate le
trattative; ma forse darebbe il segno della volontà politica di fare sentire la voce
dell’Occidente in un momento di confusione. Nemmeno questo risultato minimo, però, è
garantito: l’Atlantico, oggi, è un oceano che divide.
Danilo Taino
@danilotaino
Del 08/07/2014, pag. 17
«Fuori i fucili dai negozi»
La lobby delle madri anti-armi
Sotto la loro pressione un’altra catena li proibisce
NEW YORK — «Leave the gun and take the cannoli», lascia la pistola e prendi i cannoli.
Torna in mente l’immortale battuta di Clemenza nel Padrino, di fronte alla coraggiosa
decisione di Target, gigante americano della distribuzione discount, che ha deciso di
chiedere «con rispetto» ai suoi clienti di non avere addosso armi quando vanno a fare
acquisti in uno dei suoi 1.789 punti vendita, sparsi in 47 Stati americani. Messo sotto
pressione dai cosiddetti «mom groups», i collettivi di mamme che da mesi sono in rivolta
contro l’incapacità della classe politica di regolare il porto di ordigni da fuoco di fronte al
continuo ripetersi di tragiche sparatorie, Target segue l’esempio già dato da Starbucks,
Chipotle, CostCo e altre catene commerciali che hanno invitato la clientela a lasciare a
casa l’artiglieria quando entrano nei loro negozi. Ma la decisione ha un valore simbolico
enorme, trattandosi di un leader della distribuzione a prezzi convenienti negli Stati Uniti.
«Portare armi da fuoco da Target crea un ambiente che è in contrasto con lo shopping
familiare e l’esperienza di lavoro che noi ci sforziamo di creare », ha detto
l’amministratore delegato ad interim di Target, John Mulligan, spiegando che la richiesta
vale anche per le comunità dove entrare in un negozio armati è legale. Per quanto la
richiesta sia volontaria e non vincolante, l’importanza dell’annuncio non va sottovalutata:
per la prima volta negli Usa un movimento di opinione dal basso impone un cambio di
politica commerciale a una grande azienda, su un terreno incandescente e finora
dominato dalla potente lobby delle armi. A far da miccia alla ribellione delle madri sono
state le azioni dimostrative di gruppi texani come Open Carry, che avevano incoraggiato i
loro membri a farsi vedere più spesso in giro armati — facendo acquisti, andando nei
ristoranti e quant’altro — per farlo sembrare normale. Guida la rivolta Moms Demand
Action for Gun Sense, un gruppo fondato e finanziato dall’ex sindaco di New York
Michael Bloomberg, campione della campagna anti-armi nella quale è pronto a investire
50 milioni di dollari del suo patrimonio personale. «Abbiamo aperto gli occhi di una icona
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del business, convincendola che è più importante ascoltare la maggioranza della
clientela che non quella di una minoranza prepotente — ha detto Shannon Watts, leader
di Moms Demand Action —. Se il cambiamento non viene dalla legge, verrà dalla nostra
voce e dai nostri portafogli». Detto altrimenti, è soprattutto la paura di perdere clienti che
muove le aziende a voltare le spalle alla lobby delle armi e ascoltare le ragioni del buon
senso. E’ un cambio epocale di prospettiva in un dibattito che va alle radici della cultura
americana, quella incarnata dal Secondo emendamento alla Costituzione, che nella
lettura prevalente proibisce ogni limitazione del diritto a possedere armi. A spingerlo
sono stati i colpi di frusta inferti alla psiche nazionale da stragi come quella di Newtown,
in Connecticut, dove nel 2012 venti bambini e 6 adulti vennero massacrati da un giovane
armato di carabina semi-automatica, che aveva prima ucciso sua madre e poi si suicidò.
La conflittualità rimane alta. I fautori del libero commercio e della libera circolazione delle
armi minacciano rappresaglie e invitano al boicottaggio delle aziende come Target che li
hanno dichiarati persona non grata. La National Rifle Association rimane una lobby
potente, forte di 5 milioni di iscritti e in grado di gettare il suo peso dietro i candidati al
Congresso o negli Stati, che promettono di opporsi a ogni misura restrittiva. La
differenza è che ora, anche grazie a Bloomberg, una lobby anti-armi è in embrione. Oltre
a Moms Demand Action, l’ex sindaco ha creato infatti un altro gruppo, Everytown for Gun
Safety, che ha annunciato di voler inviare a ogni candidato alle prossime elezioni di
Midterm, in programma a novembre, un formulario in dieci parti, per spiegare
esattamente la sua posizione in materia di armi da fuoco. «Gli elettori hanno il diritto di
sapere cosa i candidati pensino di proposte ragionevoli per regolare il possesso, il
commercio e la circolazione delle armi».
Paolo Valentino
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INTERNI
del 08/07/14, pag. 4
Riforme, Big George ha detto stop
Andrea Fabozzi
ROMA
Riforme. Del bicameralismo si è discusso abbastanza. Con una mossa
mai vista, Napolitano interviene sui lavori del senato. In aiuto al premier
e sostituendosi al presidente del senato che era stato chiamato in causa
Otto sedute per votare otto emendamenti, tutti dei relatori e solo sugli aspetti secondari
della riforma costituzionale. È il lavoro svolto dalla prima commissione del senato nelle
ultime due settimane. Restano da definire la funzione e la composizione delle camere e
manca ancora l’intero capitolo del regionalismo, il famoso Titolo V. Bisogna votare altri
dodici emendamenti dei relatori su tutti gli aspetti centrali della riforma (come si scelgono i
senatori? di cosa si devono occupare?) e ci sono un numero enorme di proposte
alternative della maggioranza «allargata» e della minoranza. Ebbene, per rispettare la
tabella di marcia, tutto questo lavoro bisognerà farlo in due o tre giorni. E se fino a ieri a
dettare i tempi del senato era il capo del governo, adesso è direttamente il capo dello
stato.
Una mossa mai vista da parte del presidente Napolitano, che ieri ha deciso di intervenire
in prima persona nel dibattito, accesissimo in queste ore, tra sostenitori e critici della
riforma costituzionale governativa. Basta, ha detto, si è discusso abbastanza.
Che si debba correre lo sostiene Renzi, eppure il presidente della Repubblica assicura di
parlare «senza pronunciarsi sui termini delle scelte in discussione». Ma i termini, adesso,
sono proprio questi: bisogna necessariamente chiudere al senato entro la pausa estiva, o
c’è il tempo di correggere l’esecutivo? Non c’è tempo, dice il Quirinale. Secondo il Colle
bisogna evitare «ulteriori spostamenti in avanti dei tempi di un confronto che non può
scivolare, come troppe volte è già accaduto, nell’inconcludenza».
A Napolitano si erano rivolti in molti in questi giorni. Ma per la ragione opposta: invitavano
il presidente, garante di tutti, a tutelare la separazione di ruoli tra il parlamento e
l’esecutivo, specie in materia di leggi di revisione costituzionale. La legge in discussione,
in particolare, è stata scritta direttamente dal presidente del Consiglio. Gli emendamenti
accolti sono stati tutti discussi a palazzo Chigi. E i tempi della discussione sono quelli che
vuole il capo del governo, che da marzo sta andando avanti di ultimatum in ultimatum.
Tant’è che un gruppo di senatori, i cosiddetti «dissidenti» di tutti i partiti, era pronto a
chiedere al presidente del senato di esprimersi, e di assegnare alla commissione e all’aula
un congruo tempo di approfondimento. Chiedevano alla seconda carica dello stato,
Grasso, di frenare la corsa di Renzi. È stato proprio in questo momento che ha deciso di
intervenire la prima carica, Napolitano. Per accelerare.
La nota del Colle sposa in tutto l’impostazione renziana, e abbonda di riferimenti per
dimostrare che ormai del bicameralismo paritario e «delle sue ricadute negative sul
processo di formazione delle leggi» si è discusso abbastanza. Il presidente dice che c’è
stata «un’ampia apertura di dibattito» e che si è «prolungata notevolmente rispetto agli
annunci iniziali», cioè la promessa di Renzi di chiudere al senato in un mese, entro lo
scorso 25 maggio. Non solo: il capo dello stato si spinge a valutare la quantità di audizioni
che sono state svolte in commissione affari costituzionali al senato — «larghe audizioni»
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— e non trascura un giudizio sul numero di correzioni suggerite dai relatori al testo del
governo (con l’ok del governo) — «ricca messe di emendamenti».
La cronaca parlamentare del Colle spalanca al disegno di legge Renzi-Boschi le porte
dell’aula del senato. Che ha bisogno di accogliere la «grande riforma» renziana tra la fine
di questa settimana e l’inizio della prossima, al massimo. È questa la condizione
indispensabile per provare a mandare gli italiani, e i parlamentari, in vacanza con un primo
passaggio compiuto sulle riforme costituzionali. È la prima emergenza nazionale? Non
pare, ma a Renzi importa così e il parlamento, sezione distaccata di palazzo Chigi, deve
adeguarsi. Ieri sera c’è stata l’ennesima riunione dei senatori del Pd, anche questa
dedicata non a discutere l’impostazione governativa ma a richiamare all’ordine i dissidenti.
Tant’è che Renzi non si è neanche presentato: non c’era nulla da spiegare. Nessuna
risposta neanche sulle questioni rimaste senza soluzione, quelle che anche i renziani
ammettono che andranno registrate.
Così è ancora previsto che il presidente della Repubblica sia eleggibile da un solo partito,
che i deputati non diminuiscano di un’unità (vanificando il decantato «risparmio» sul
senato), che un sindaco o un consigliere regionale nei guai con la giustizia possano
trovare riparo nell’immunità senatoriale… Si correggerà? E come? Solo a chiederlo si
finisce tra i frenator. La fretta è persino maggiore di quella che guidò alla camera
l’approvazione della legge elettorale, quella che adesso tutti vogliono cambiare. O in altre
legislature ispirò le riforme costituzionali dell’articolo 81 e di tutto il Titolo V, due fallimenti
riconosciuti.
Da ieri sera il «patto del Nazareno» tra Renzi e Berlusconi è più forte. La guardia di
Napolitano indebolisce i senatori critici e lascia poco spazio ai tentativi di correzione della
riforma. Sono oltre quaranta gli articoli della Costituzione da modificare e l’importante, dice
Napolitano, è farlo. Se c’è un argomento che il presidente della Repubblica dimentica,
ecco a ricordarlo il capogruppo Pd Zanda: è urgente trasformare sindaci e consiglieri
regionali in senatori perché «ce lo chiede l’Europa».
Del 08/07/2014, pag. 3
E Renzi si sente più forte “Ora i grillini sono
in partita l’Italicum resta la bussola”
“Sul Senato il sì arriverà entro il 20 luglio o passano le riforme o si
torna a votare”
GOFFREDO DE MARCHIS
«ACCETTANDO il premio di maggioranza al primo partito e non alla coalizione, loro
introducono un elemento decisivo soprattutto per noi, per il Pd». Il premier è piuttosto
euforico alla fine di una giornata cominciata con uno scontro a tutto campo con Beppe
Grillo e finita con l’umore a mille per il cedimento dei 5stelle. «Alla fine hanno mollato.
Grillo non voleva dare alcuna risposta ma è stato costretto». Costretto dai suoi, intende il
premier, da una frattura che nei 5stelle diventa ogni giorno più marcata. Il 40,8 per cento
delle Europee inizia a dare i suoi frutti.
Renzi registra le novità sul doppio fronte delle riforme. «Al di là del merito, questa giornata
segna il fatto che i grillini sono scesi dal tetto. Stanno nella partita e questo è un bene
perché io, nonostante tutto, ho sempre fatto sul serio con loro», racconta il premier. Ha
letto le 10 risposte dei grillini ai 10 punti del Pd. Ci sono i “ma”, le correzioni, le
provocazioni. Ma c’è il dato nuovo di un dialogo che, dentro il Movimento, viene tenuto in
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vita. «La storia delle soglie e del 52 per cento come premio sono, secondo me, ridicole.
Ma vedo che viene accettato il ballottaggio ossia il secondo turno ed è una svolta. Penso
che sull’impianto generale si può ragionare ». Peraltro, l’intera campagna sull’autoritarismo
di Renzi, sulle pulsioni dittatoriali dell’ex sindaco risulta alla fine demolita dalle stesse tesi
grilline. «Mi chiedo: ma se accetto l’idea che il premio vada al primo partito e non alla
coalizione come faccio poi a parlare di dittatura? Significa ammettere il principio cardine
del maggioritario abbandonando qualsiasi base proporzionalista», ragiona il premier.
Questo spiraglio grillino inoltre servirà a Renzi per contrastare le resistenze dentro al Pd
che piano piano si stanno spostando dal Senato alla legge elettorale, collegando i due
livelli. «L’ipotesi maggioritaria per il partito e non per le ammucchiate del passato è quella
che al Pd dovrebbe interessare di più. Per un partito come il nostro è evidente che si apre
un terreno di discussione ancora più ampio». E più vantaggioso, è il sottinteso.
Adesso la trappola potrebbe arrivare da Forza Italia. La politica dei due forni rischia di
allarmare Berlusconi e, ancora più dell’ex Cavaliere, gli azzurri frondisti che si sentono
prigionieri del patto del Nazareno e del potenziale conflitto d’interessi del loro capo. «Ma io
non abbandono l’Italicum – spiega Renzi -. Resta la mia bussola. Non cambio la
maggioranza delle riforme, non ci penso proprio. Osservo che ci sono disponibilità e
aperture utili. E che siamo vicini anche ad altre posizioni, che le divergenze si riducono ».
Renzi sottolinea un avvicinamento dei 5stellenon solo sulla legge elettorale. «Per la prima
volta Grillo apre sulla fine del bicameralismo perfetto », dice il premier. Del resto, è il
traguardo a portata di mano della riforma del Senato ad aver convinto e terremotato i
5stelle. «Hanno capito che erano destinati all’irrilevanza, sono stati costretti a entrare nel
merito ». L’incontro saltato ieri, ora viene considerato fattibile a breve.
Renzi considera il match di Palazzo Madama vicino alla conclusione. Con una vittoria «di
portata storica. Sarà una riforma enorme, il raggiungimento concreto di un obiettivo ». Le
scadenze sono fissate nella mente del premier, che ha il pallino del cronoprogramma.
«Entro il 20 luglio approvazione del disegno di legge sul Senato e titolo V. A quel punto si
comincia a lavorare sull’Italicum e si deve approvare in commissione prima della pausa
estiva. In aula arriverà dopo l’estate». C’è da ringraziare Giorgio Napolitano che con
l’intervento di ieri sui tempi e l’urgenza delle riforme «è stato bravissimo, perfetto». C’è
anche da sorvolare sugli attacchi dei dissidenti Pd. «Il paragone con Putin è
inaccettabile», si sfoga Renzi. «Ma io non caccio nessuno, questo sia chiaro». I numeri
delle riforme non si discutono. «Davvero contro la riforma sono solo quei tre...». I
«giornalisti», li chiama Renzi, ovvero Massimo Mucchetti, Augusto Minzolini e Corradino
Mineo. In verità i conti a Largo del Nazareno sono meno trionfali. Non è un caso che nella
sede del partito abbiano messo in preventivo una miniscissione: il Pd potrebbe perdere
per strada almeno 6 o 7 senatori. Il loro no alla modifica di Palazzo Madama è molto
probabile. Un dato che non mette in pericolo l’approvazione del disegno di legge Boschi
ma può avere riflessi sulla tenuta della maggioranza di governo. L’ultima fiducia votata al
Senato ha fatto registrare 169 voti favorevoli. Se si tolgono 7 voti democratici e 2 o 3 voti
di Popolari vicini a Mario Mauro, i numeri per l’esecutivo diventano a rischio.
Per questo motivo da alcuni giorni il vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini sta telefonando
e coccolando i 14 dissidenti del suo partito. Alcuni gli hanno chiaramente detto che
combatteranno la “buona battaglia” fino in fondo. Sanno di essere all’ultima legislatura e
«vogliono fare la cosa giusta», dicono. Tra loro, ci sono sicuramente Vannino Chiti, Paolo
Corsini, Walter Tocci e lo stesso Mineo. Guerini continua a telefonare. L’assemblea dei
senatori, ieri notte, non ha portato novità. Alcuni, come Miguel Gotor e Francesco Russo,
hanno messo in guardia dal combinato disposto Senato-Italicum. Ma il voto del gruppo è
rinviato. Comunque Renzi è il meno preoccupato: «La riforma sarà approvata con 190-200
voti a favore. Tutti devono sapere che o passano le riforme o si torna a votare. Se invece il
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percorso va a buon fine, la legislatura arriva in fondo». E la tenuta della maggioranza?
«Dalla maggioranza non uscirà nessuno. E se potessi raccontare quanta gente ci vuole
entrare...».
Del 08/07/2014, pag. 4
Quei sessanta voti in bilico che fanno tremare
Palazzo Madama
GIOVANNA CASADIO
ROMA Il pallottoliere segna una sessantina di dissidenti, tra i 50 e i 60, per l’esattezza. Ma
a Palazzo Chigi i conti sono al ribasso. Renzi è convinto che la dinastia “Minzmin”, la
fronda cioè capitanata dal forzista Augusto Minzolini e dal democratico Corradino Mineo,
non rovinerà il cammino rapido delle riforme e che il requiem del bicameralismo con il
nuovo Senato di non eletti, arriverà all’approdo con una maggioranza ampia di 236
senatori. Forse troppo ottimista. Le incognite infatti sono molte. Al netto di dissensi e
incertezze comunque, il governo dovrebbe contare su 175 o 183 fedelissimi.
Seppure i “ribelli” del Pd e di Forza Italia sulla riforma del Senato si squagliassero cammin
facendo come neve al sole, si può stare certi che cercheranno una rivincita sull’Italicum. E
a quel punto il dissenso può diventare maggioranza. Un documento di Francesco Russo a
favore del Senato come lo vuole Renzi ma che pone l’alt all’Italicum, è stato sottoscritto da
una ventina di senatori dem. Ma sono soprattutto i 29 di “Area riformista”, la corrente
guidata da Roberto Speranza e che a Palazzo Madama può contare tra gli altri su Miguel
Gotor, Maurizio Migliavacca, Valeria Fedeli, Federico Fornaro, Carlo Pegorer, a chiedere
la modifica della nuova legge elettorale. L’allarme lo ha lanciato Pier Luigi Bersani, l’ex
segretario per il quale non si può scherzare con il fuoco e l’Italicum «va corretto», punto e
basta. Lo ripetono in tanti nel Pd e trovano sponda negli alfaniani. Nel governo è il ministro
Maurizio Martina ad avanzare dubbi e ad incalzare: «L’Italicum francamente è da
migliorare». Gotor nella riunione di corrente elenca minuziosamente i cambiamenti che la
riforma del Senato non può ignorare, a cominciare dai Grandi elettori a cui è affidato il
compito di scegliere il capo dello Stato. «A meno che non si voglia un presidenzialismo
strisciante, una svolta autoritaria pericolosa... «, si scalda.
Nell’assemblea dei senatori ieri sera viene appunto presentato il documento firmato dal
drappello che si autodefinisce dei “facilitatori”. Russo illustra le ragioni del Senato di non
eletti, che sarebbe «un errore incomprensibile frenare». Insomma sul Senato elettivo
anche il capogruppo Luigi Zanda si sente più tranquillo. I “dissidenti” dem che porteranno il
loro emendamento fino al voto dell’aula sono 19: Vannino Chiti, Felice Casson, Walter
Tocci, Paolo Corsini i trainer. Tuttavia fanno asse con i forzisti che appoggiano Minzolini e
i malpancisti al seguito di Fitto. Lucio Malan che sponsorizza la via mediana di
«aggiustamenti per consentire un voto compatto in Forza Italia », confida nell’incontro
promesso da Berlusconi con i senatori. Riuscirà a metterli in riga, l’ex Cavaliere? I senatori
berlusconiani attendono il leader a Palazzo Madama e immaginano un “serriamo le file”
tramite mozione degli affetti: «Io mi sono impegnato con Renzi, non lasciatemi ora solo»,
dovrebbe essere l’appello di Berlusconi. La tela della maggioranza si sgrana anche nel
Nuovo centrodestra. A dire “no” al Ddl Boschi sono in due: Roberto Fomigoni e Antonio
Azzollini si sono uniti alla fronda pro-Senato elettivo. Formigoni l’ha anche twittato,
spingendosi ad appoggiare il capogruppo forzista alla Camera, Renato Brunetta con cui
non c’è mai stato buon sangue. Ora invece apprezza: «Il lodo Brunetta per elezione dei
30
senatori è una buona idea, come la proposta originaria #ncd di una lista separata
contestuale alle regionali ». E ci sono le incertezze leghiste. Roberto Calderoli, uno dei
due relatori delle riforme, aveva già fatto sapere che se lo smottamento contro la Camera
delle autonomie composta da senatori non eletti fosse diventato una frana, allora i
malumori della Lega sarebbe stato difficile tenerli a bada. In realtà la partita del Carroccio
si gioca tutta sul Titolo V e le competenze alle Regioni. Ma una cosa più di tutte i renziani
hanno in odio in queste ore. È il collegamento che dissidenti e malpancisti in casa
democratica creano tra riforme istituzionali e nuova legge elettorale. L’ha detto il vice
segretario Lorenzo Guerini, l’uomo a cui Renzi ha affidato il partito: «È sbagliato collegare
riforme istituzionali e Italicum». Potrebbe saltare tutto se Berlusconi ad esempio si
irrigidisse pretendendo una blindatura subito dell’Italicum per votare il nuovo Senato. Il
“patto del Nazareno” è sottoposto a continue scosse. Renzi e i suoi conoscono quanto
accidentato sia il terreno. Per questo anche il documento dei “facilitatori” si rivela una
mina. Afferma Russo: «Il dibattito sul nuovo Senato ha chiarito a tutti la necessità di
mettere mano e cambiare profondamente la legge elettorale così come approvata dalla
Camera...». Quindi l’elenco dei tre punti da modificare: le soglie, la parità di genere e,
prima di tutto, lo stop alle liste bloccate e a un Parlamento di nominati attraverso le
preferenze o i collegi uninominali.
Del 08/07/2014, pag. 3
Ma ora i frondisti si concentrano sull’Italicum
Bersani avverte: servono correzioni
Critiche anche dal ministro Martina
Legge elettorale, spunta un documento
«Signori, facciamo i seri. Le differenze tra il Senato che vogliono gli amici come Chiti e il
Senato che prevede il testo del governo sono differenze quasi tecniche. Se uno lo
riconosce, bene. Ma se vengono a dire che la differenza tra i due disegni è la stessa che
passa tra una democrazia compiuta da un lato e dall’altro la dittatura, il Pcus, Stalin, Mao,
Lin Biao... Ecco, questo non è vero, non ci siamo». Alle 19.50, poco prima di infilarsi
nell’assemblea dei senatori del Pd, il senatore Giorgio Tonini si prepara per il dibattito con
la fronda che si oppone al governo. «Sia chiaro, a persone come Chiti e Mineo io parlo in
amicizia. Se dici che il tuo partito propone una riforma che sa di dittatura, è ovvio che da
quel partito finisci fuori. E non certo perché ti cacciano. Ricordo per esempio che Cesare
Salvi non aderì al Pd perché diceva che il Pd non sarebbe stato nel socialismo europeo.
Oggi il Pd è il primo partito del socialismo europeo. Salvi, invece, non c’è...». Corradino
Mineo, prima di entrare nella riunione, lancia un telegramma. «Non facciamo una bella
figura se trasformiamo questo scontro in una battaglia personalistica. Non mi si può dire
“ah, Mineo, tu sei stato nominato e non eletto”. Anche perché lo sto dicendo io che basta
col Parlamento dei nominati. E per sempre». L’assemblea comincia dopo le 20. Anna
Finocchiaro annuncia un mezzo colpo di scena. «Giovedì la relazione va in Aula. E i primi
voti saranno da martedì prossimo». Tutto slitta , insomma. «Oggi eviterei di contarci»,
scandisce il capogruppo Luigi Zanda. L’atmosfera sembra serena. Ma basta che nel menù
della riunione entri il tema dell’Italicum ed ecco che, da Palazzo Madama, si sente una
puzza di bruciato che arriva anche a Palazzo Chigi. Il super-lettiano Francesco Russo la
mette così: «Se la riforma del Senato fosse stata quella prevista dal primo testo Boschi,
allora avrei votato no. Ma ora il testo è profondamente cambiato. Ora — qui la parte più
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“calda” del suo intervento — siamo più forti per cambiare l’Italicum su parità di genere,
soglie di preferenza e scelta ai cittadini». Quest’ultima, probabilmente, è una formula
eufemistica dietro la quale si nasconde la parola «preferenze». «È una forzatura mettere
insieme legge elettorale e riforma costituzionale», prova a parare il colpo il renziano
Andrea Marcucci. Ma poi ecco che, in soccorso di Russo, arriva lo storico Miguel Gotor.
«La riforma è migliorata ma resta il tema dell’elezione del capo dello Stato. Non è possibile
che, se un partito vince il premio di maggioranza alla Camera, possano bastargli solo 26
senatori per eleggersi l’inquilino del Colle da solo». E poi, ecco l’affondo del senatore
bersaniano, «l’Italicum dovrà cambiare. Non possiamo andare avanti con un Parlamento di
nominati. Dobbiamo evitare a tutti i costi una deriva oligarchica ».. Non sono soltanto
parole. Nella riunione, infatti, piomba un documento bersanian-lettiano in cui si chiede,
esplicitamente, di rimettere mano alla riforma elettorale. Magari reintroducendo le
preferenze, magari anche solo per una quota di eletti. La trappola dell’Italicum,
evidentemente, è scattata. In un solo giorno, oltre agli interventi nell’assemblea del Pd,
dalla legge dell’accordo Renzi-Berlusconi si smarca un ministro del governo (Maurizio
Martina, che boccia la legge durante un’intervista con l’Huffington Post). E torna a parlare
anche Pier Luigi Bersani: «Facciamo pure in fretta, ma sulle riforme non si può scherzare,
vanno corrette». E ancora, sempre dalla voce dell’ex segretario del Pd, che non si pente
«affatto» di avere accettato a suo tempo il dialogo con Grillo: «Se la riforma del Senato
rimane così insieme all’Italicum si creerebbe una situazione insostenibile.». Poco prima, la
renzianissima senatrice Rosa Maria De Giorgi s’era lasciata scappare quanto segue:
«Dentro Forza Italia si vedono cose strane. Ma sarà vero che Berlusconi vuole il rinvio del
voto? Se è così, quelli della fronda del Pd daranno una mano alle strane mosse dei
berlusconiani...». Ce ne sarà un’altra, di assemblea, prima che la riforma arrivi in Aula. Si
discuterà dei problemi relativi all’elezione del capo dello Stato. E dell’Italicum, ovviamente.
E si voterà, la prossima volta.
del 08/07/14, pag. 12
La spinta delle lobby Usa
Così decollano gli F35
MICHELE DI SALVO
L’aumento delle pressioni dei gruppi militari industriali in America
coincide con la decisione di archiviare il progetto Eurofighter in Europa
Davvero è stata Una scelta fondata su ragioni tecniche?
Abbiamo un aereo che funziona, prodotto da un consorzio europeo, con ampie ricadute
occupazionali e industriali e di fatturato sull'Italia, e «chiudiamo il programma» per affidare
il monopolio della nostra difesa aerea ad un progetto americano, di un’azienda americana,
che costa di più, non garantisce le stesse ricadute economiche, industriali ed
occupazionali, ed in più senza che i nostri militari abbiano in mano le chiavi di accesso del
nostro armamento strategico. Come è stato possibile? Uno squarcio su questa lunga e
ricchissima vicenda ci viene oggi dagli Stati Uniti, perchè qualcosa in questo complesso
meccanismo si è incrinato. L’esercito americano ha deciso di lasciare a terra tutta la flotta
dei suoi Joint Strike Fighter-F35 per ispezionare i motori dopo l’incendio scoppiato a bordo
di un velivolo in Florida. L’Aeronautica e la Marina hanno ordinato di fermare tutti i voli
dopo l’incendio (l’ennesimo) del 23 giugno alla base aerea Eglin. «Sono stati richiesti
32
ulteriori controlli ai motori degli F-35 e la ripresa dei voli sarà decisa sulla base dell’esito
dei controlli e dell’analisi delle informazioni raccolte», ha detto il portavoce del Pentagono,
ammiraglio John Kirby. I fatti non stanno però esattamente in questo modo. Di fronte a
numerosi rapporti di volo particolarmente allarmati, e dopo l’ennesimo aumento dei costi
da parte del costruttore, il Pentagono - che aveva già sospeso ulteriori acquisti e bloccato
in attesa di chiarimenti gli ordini correnti già da un anno - ha richiesto a Pierre Sprey,
progettista dell’F16 (il più diffuso e maneggevole caccia Usa) - di esaminare i rapporti dei
piloti e confrontarli con le specifiche tecniche richieste e con la realtà degli aerei acquistati.
Il rapporto finale è atteso per fine settembre, ma a quanto risulta anche dalle dichiarazioni
precedenti, questo aereo «non dovrebbe affatto essere messo in condizione di volare »
perché «insicuro per i piloti e inutile per gli scopi richiesti» oltre che «decisamente inferiore
ai suoi omologhi di altri costruttori». Tutto questo senza entrare nel merito dei costi e di
contratti di appalto. L’indicazione che l’F35 sia l’unica scelta su cui puntare è di un paio di
anni fa. Un’affermazione che nessuno pare mettere in discussione, considerandola come
vera, ed accreditata anche dai militari nelle audizioni parlamentari. Tutto nasce da alcune
«improvvise e inspiegate» variazioni nei costi dei bilanci delle aeronautiche europee. In
Germania ad esempio alla fine di aprile, il Bundesrechnungshof (la Corte dei conti
tedesca) afferma che i costi del programma Eurofighter sono in qualche modo fuori
controllo e che alla fine la Germania spenderà 60 miliardi di euro per l’aereo, contro i 30
inizialmente previsti.
COSTI LIEVITATI
Conclusioni simili a quelle dei controllori tedeschi sono contenute Management of the
Typhoon Project del National Audit Office britannico del marzo 2011 che aveva denunciato
l’impennata dei costi del programma, soprattutto per quanto riguarda le spese di gestione
e mantenimento. Con i soldi inizialmente stanziati si sono potuti comprare molti meno
aerei del previsto. I britannici circa 160 Typhoon contro i 232 iniziali, i tedeschi 140 invece
che 180 a dei prezzi unitari sostanzialmente comparabili: 87milioni di euro gli inglesi, 84 i
tedeschi. La metà del costo di un singolo F35. Numeri che fanno impressione soprattutto
perché si sono formati in modo opaco. A un certo punto dalle previsioni di costo del
programma italiano, ancora in fase di sviluppo, sparì il Defensive Aids Sub System (Dass),
il sottosistema elettronico di difesa, una componente essenziale dell’aereo (per chiarire,
sarebbe come acquistare un’auto senza impianto elettrico e considerarlo da parte del
costruttore un optional). Sulla base dei numeri ufficiali, da mesi soprattutto i militari
continuano a sostenere l’altrimenti insostenibile bugia che il Typhoon fa meno e costa di
più dell’F-35. Stando ai dati del nostro Ministero della Difesa un caccia italiano verrebbe
infatti a costare quasi 218 milioni di euro, quasi un quarto di miliardo. Che il Typhoon sia in
grado già oggi, ma ancor più nei prossimi anni, di svolgere l’intera gamma delle operazioni
aria-suolo lo dimostra l’impiego massiccio che ne ha fatto la Raf, l’aeronautica britannica,
in Libia, e l’intenzione della stessa Raf di non ordinare per ora F-35 (è stata annunciato un
possibile acquisto di 48 velivoli della versione F-35B a decollo corto e atterraggio
verticale), tanto che sta già convertendo alcuni reparti dotati del cacciabombardiere
Tornado sul nuovo Typhoon. Non risulterebbe fondato inoltre che per dare ai Typhoon la
capacità di attacco al suolo sarebbero serviti ulteriori finanziamenti. Tutti i contratti di
sviluppo sono già stati finanziati, compresi quelli per il completamento della tranche 3 del
velivolo. Finanziati anche dall’Italia, tanto che il primo Typhoon tranche 3 di produzione
Alenia è uscito il 4 marzo dalla linea di montaggio di Caselle e sarà consegnato la
prossima estate all’Aeronautica Militare. E anche le prove di volo che si stanno svolgendo
per certificare l’impiego del missile Storm Shadow (un missile capace di 400 chili di
esplosivo trasportato a 500 chilometri di distanza) a bordo del Typhoon si sono svolte a
Decimomannu, in Sardegna, con aerei italiani del reparto Sperimentale di Volo di Pratica
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di Mare. Appare quindi quantomeno singolare che gli stessi vertici della Marina e
dell’Aeronautica italiani smentiscano gli esiti di test condotti in proprio. Secondo il
Washington Post, Lockheed Martin, General Dynamics e Raytheon hanno speso nel 2011
oltre 34 milioni di dollari in attività di lobbying nei soli Stati Uniti e solo nella politica
federale, con un incremento del 10% rispetto al 2010. La sola Lockheed Martin ha
incrementato la propria spesa in un solo anno del 19%. General Dynamics (produttore di
carri armati Abrams e dei jet Gulfstream) ha speso 11,3 milioni dollari in lobbying con un
incremento del 4,6 per cento. Raytheon (il più grande produttore di missili al mondo) ha
speso 7,1 milioni dollari, con un aumento del 2,9 per cento. Northrop Grumman (che
produce il drone Global Hawk) ha speso 12,8milioni dollari nel 2011.
LE FORBICI DI OBAMA
Secondo Michael Herson, presidente di American Defense International, una società di
lobbying del settore, le aziende della difesa hanno concentrato la loro attività di lobbying
sulla protezione dei contratti e programmi esistenti dai tagli immediati. Un aiuto a
comprendere cosa sia successo ce lo offre un'analisi compiuta da Sheila Krumholz, a
capo di OpenSecrets.org, un’organizzazione che pubblica e rende noti i contributi delle
aziende private alle lobby, e quelli di queste ultime ai singoli partiti e politici. In più
OpenSecrets «fa i nomi», ed indica anche con due categorie, non solo chi sono i lobbisti,
ma anche chi sono i politici pagati dalle lobby, con quali cifre, e i «Revolving Door profile»
- ovvero politici, congressisti, senatori,maanche dipendenti degli enti pubblici, che passano
indistintamente e ciclicamente come in una porta girevole dal settore pubblico (spesso
acquirente) al privato (normalmente fornitore). Secondo i report il Carlyle Group (che ha
nel suo board Bush padre e figlio, e tra gli azionisti la famiglia Bin Laden) conta ben 85
lobbisti e 44 «revolvers» (il 52%). La Lockheed Martin opera di concerto con altre tre
strutture: Bae Systems North America, Carlyle Group e United Defense. Ha sempre avuto
dal 1990 una media di spesa di 5 milioni di dollari per spese di lobbying a Washington,
tranne tra il 1999 e il 2000 in cui si è avuta un’impennata a 16 milioni l’anno. Livelli tornati
«normali» sino al 2008, quando l’amministrazione Obamaha deciso un taglio complessivo
della spesa militare di circa 1000 miliardi di dollari in 10 anni. I volumi delle spese di
lobbying sono quindi risaliti a 19 milioni l’anno. L’unico programma sino ad oggi sostenuto
destinato all’esportazione e al mantenimento dei contratti in essere è proprio l’F35, che
assicura lauti fatturati di produzione e manutenzione proprio a Lockheed Martin, General
Dynamics e Raytheon, nonchè a Bae Systems North America, Carlyle Group e United
Defense. Dal 2008 in tutta Europa la Nato mette in discussione il programma Eurofighter.
Lo fanno per primi i generali americani a capo delle strutture, prima di andare in pensione
e rientrare nel settore privato come consulenti con stipendi a sette cifre. Lo fanno i governi
delle regioni in cui sono presenti le basi di assemblaggio dell’aereo europeo, cui vengono
assicurati sulla carta contratti che bilancino le perdite occupazionali dovute all’abbandono
del progetto europeo, anche se i nuovi contratti hanno numeri equivalenti «solo sulla
carta».
Lo fanno alcuni smembri dello Stato Maggiore che cominciano a parlare improvvisamente
di «un solo aereo militare possibile», senza alcuna altra alternativa, mentre nei bilanci di
previsione della manutenzione delle varie aeronautiche i costi per l’aereo europeo
cominciano ad apparire esponenziali, senza alcun riscontro contabile e senza alcuna
motivazione. Ciò che sino a ieri costava 80 milioni, risulta in previsione per l’anno
successivo a 212 milioni, tanto da far apparire un affare l’F35, anche se costa 160milioni di
dollari. In ballo tuttavia non c’è solo un appalto - anche se parliamo del più grande appalto
militare della storia, stimato in circa 1.600 miliardi di dollari in 40 anni -ma c’è l’intero
impianto della sicurezza Nato. Un sistema nel quale gli Stati Uniti, indipendentemente dal
numero di aerei acquistati o effettivamente in volo, avranno in mano l’intera infrastruttura
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di attacco e difesa aerea dell’Occidente, senza alternative. Per l’industria bellica
americana c’è in ballo la possibile distruzione di qualsiasi alternativa a se stessa in un
settore così strategico per l’innovazione tecnologica nel suo complesso che, una volta
smantellato, sarà inimmaginabile ricostruire. Chiunque fosse tra i fornitori del programma
Eurofighter è stato «importato» con promesse di lavoro e fatturato nel nuovo progetto, o è
stato acquisito essendo in ballo anche le forniture tecniche nel settore dell’aviazione civile.
La partita degli F35 è dunque la madre di tutte le partite di geopolitica e controllo
strategico in Occidente, teoricamente tra alleati, dalla seconda guerra mondiale, destinata
a tracciare i rapporti di forza militari ed industriali del prossimo secolo. 2-fine. La prima
puntata è uscita il 7 luglio
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LEGALITA’DEMOCRATICA
dell’8/07/14, pag. 6
OPPIDO L’ORGOGLIO MAFIOSO DEL PAESE
CHE S’INCHINA AI BOSS
TEATRO DAGLI ANNI OTTANTA DI UNA SANGUINOSA FAIDA
OGGI IL PARROCO DON BENEDETTO RUSTICO SI GIUSTIFICA:
“DEFERENZA? MA LE NOSTRE CASE SONO PIENE DI ARRESTATI”
di Enrico Fierro
e Lucio Musolino
Oppido Mamertina (Rc)
Se volete capire certi paesi di quel cuore nero del Sud che è la Calabria, non dovete
parlare con i vivi, ma con i morti. Perché qui i vivi raccontano bugie, parlano per
nascondere verità che sono sotto gli occhi di tutti da sempre, da secoli. La ’n d r a ngheta
non esiste, sono tutte falsità, la Madonna non si è inchinata, la mia famiglia tutti
galantuomini: mentono i figli rozzi e ignoranti della mafia e mentono quelli che hanno
studiato, i sindaci, gli avvocati, i “luigini” di paese: attaccati ad uno stantio latinorum per
loro il problema è sempre un altro.
MENTONO pure i sacerdoti di un Cristo che qui viene messo in croce ogni giorno. E allora
è con i morti che bisogna parlare, solo loro sono in grado di dirti la verità su Oppido
Mamertina e la sua mafia fatta di vecchi boss malati e di moderni criminali capaci di tutto:
accumulare milioni di euro nell’Italia di sopra, giocare con i colletti bianchi per accaparrarsi
i beni delle aste giudiziarie nella Capitale e uccidere un loro rivale gettandolo in pasto ai
porci. “Orate pro defunctus”, c’è scritto all’ingresso del cimitero di Oppido. Preghiamo per i
morti della lunga guerra di mafia che dal 1986 lascia cadaveri a terra a decine in questo
paese. Faida la chiamano, e sbagliano, perché quei 30 morti e la ventina di feriti gravi non
sono il frutto di arcaiche vendette tra famiglie, qui non si recita una improbabile Cavalleria
rusticana, no, sono le vittime di una guerra di potere. L’onore non c’entra, le arcaiche
tradizioni neppure, questo è materiale buono per i gonzi, la guerra è per i soldi, i beni da
accumulare, la roba da conquistare. Per questo si sono combattute le famiglie dei FerraroRaccosta da una parte e dei Mazzagatti, Polimeni, Bonarrigo, dall’altra. Per i danari hanno
ucciso.
PER I DANARI una sera di maggio del 1998, freddarono Giovanni Polimeni. Spararono
come ossessi i killer quella sera, e ammazzarono malacarne e innocenti. Uomini senza
onore e senza pietà, uccisero Mariangela Anzalone, nove anni appena. Per la conquista
della “locale” di Oppido – la cellula dell’organizzazione mafiosa nel paese che era
importante tanto da avere potere di parola e decisione anche nella lontana Lombardia –
don Peppe Mazzagatti un giorno di aprile del ’93 perse il figlio Pasquale che aveva 33
anni. Pasquale, due figli maschi e tre femmine, aveva fatto un buon matrimonio che
allargò e rafforzò le alleanze della sua famiglia. Sposò una nipote di don Saro Mammoliti,
un grande boss di una famiglia che contava, lo chiamavano il playboy di Castellace, era
bello ed elegante, ma ancora di più intelligente e aveva capito che il pizzo, i sequestri e le
rapine erano roba da pezzenti, che ora c’era la droga e i soldi da investire in attività pulite.
Come tutti gli uomini che contano nella ’ndrangheta sapeva che la vendetta è un piatto che
si mette a tavola gelato. E la morte di Pasquale Mazzagatti fu vendicata quarantotto mesi
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dopo, una sera d’agosto. Tre morti a terra. “Noi dopo Pasquale siamo stati fermi quattro
anni. Sono passati quattro anni e nun ficimu nenti”. È il 5 giugno del 1998 e la voce di
Giuseppina Polimeni, la moglie del vecchio boss Peppe Mazzagatti, non tradisce un filo di
emozione mentre parla con la figlia di quella vendetta.
I MORTI PARLANO e ti raccontano la lunga guerra di Oppido, il terrore della gente onesta,
un paese intero piegato agli interessi criminali di poche famiglie. Il rispetto, le parentele. In
paese giustificano il prete che ha consentito l’inchino della Madonna nei pressi della casa
del boss con i legami familiari. Dicono che un suo primo cugino, Carmelo, abbia sposato
una delle figlie di don Peppe Mazzagatti. E quindi la Madonna, la madre di Cristo,
l’immagine della pietà umiliata per onorare uomini sanguinari. Appena due anni fa
Francesco Raccosta, colpevole di aver ammazzato il boss Mimmo Bonarrigo, alleato della
famiglia Mazzagatti, fu ucciso in modo orrendo. Ferito a morte con una spranga, fu gettato
in pasto ai porci. “È stata una sensazione non bella, di più. Ho aperto la gabbia della
femmina, un maiale da due quintali, e temevo che quella puttana non se lo mangiava
perché lui era sporco di sangue. Mamma mia come strillava, ho visto scrocchiare la
tibia…caz zo come mangiava quel maiale”. Il giovane carabiniere addetto
all’intercettazione dovette strapparsi le cuffie e andare in bagno a vomitare dopo aver
ascoltato le parole del killer. Mentono i vivi. Si appella alla Madonna Mimma Mazzagatti, la
figlia del boss. “O signuri, o signuri tu che vedi tutto, mio padre è innocente, mio fratello è
innocente. Sono orgogliosa di mio padre, sono orgogliosa della mia famiglia. Li misero in
croce come Giuda mise in croce a Cristo. Ma quale ’ndrangheta, qui non esiste nulla sono
solo menzognità . Il Signore grida vendetta…”. Non vede, non sente e non sapeva il prete
don Benedetto Rustico. Intervistato dal sito calabrese Strill.it parla di processione antica, di
percorsi che si fanno da sempre. “Nessun inchino a nessuno, forse ci può essere una
interpretazione visto che in quella casa abita questa famiglia che loro dicono… ma
applicando questo criterio le nostre case sono piene di queste persone arrestate…
tornassi indietro annullerei la processione”. Eppure il Papa aveva chiesto coraggio ai preti
di Calabria, sapendo quanta generosità c’è nella chiesa di quella terra, ma anche quanta
vigliaccheria alligna nelle oscure sacrestie. Non sono state ascoltate le parole di
Francesco.
DI FRONTE a tanti don Abbondio, la mente va al “Pre - vitocciolo”, il racconto scandalo di
uno scrittore di Oppido, don Luca Asprea, Carmine Ragno, sulle perversioni e le complicità
di certa società calabrese e di certo clero. Il ricordo oscuro del seminario, dove i
seminaristi scrivevano W il Papa sui muri dei bagni con i loro escrementi.
Del 08/07/2014, pag. 10
LA GIORNATA
Il capo dei vescovi calabresi “Fermate le
processioni” indaga la procura antimafia
Bufera su Oppido Mamertina dopo l’inchino al capo del clan Monsignor
Nunnari: più coraggio, i preti dovevano scappare
GIUSEPPE BALDESSARRO
OPPIDO MAMERTINA
Associazione a delinquere di stampo mafioso. La Dda di Reggio Calabria ha ufficialmente
aperto ieri un fascicolo sui fatti di Oppido Mamertina. E lo ha fatto ipotizzando il reato
principe della criminalità organizzata, il 416 bis. I pm sostengono insomma che chi ha
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ordinato e fatto eseguire “l’inchino” della statua della Madonna delle Grazie verso la casa
del boss Giuseppe Mazzagatti abbia agito in quanto appartenente alla ‘ndrangheta. E se il
procuratore Federico Cafiero de Raho parla di «un episodio di assoluta gravità», la
Chiesa, dal canto suo, anche ieri è stata durissima. Attraverso l’Osservatore Romano, la
Santa Sede spiega che vicende come quella di Oppido ricorrono «in zone dove il
pervertimento del sentimento religioso si accompagna spesso all’azione della criminalità e
a un’acquiescenza, dettata da paura o interesse, purtroppo ancora diffusi tra le
popolazioni». In paese la tensione resta alta. La magistratura ha iniziato ad acquisire
immagini ed informative dettagliate su quanto accaduto durante la processione e nelle ore
sia precedenti che immediatamente successive. Sono in corso anche le identificazioni di
quanti, con ruoli sia pure diversi, sono stati protagonisti della processione, e, anche se al
momento si procede formalmente contro ignoti, tutto lascia presupporre che la storia
avrà seguiti importanti sul piano giudiziario. Sul fronte religioso tiene banco soprattutto il
comportamento dei parroci presenti alla cerimonia che, secondo monsignor Salvatore
Nunnari, presidente della Conferenza episcopale calabrese, avrebbero dovuto lasciare la
processione. A Nunnari «dispiace che i preti non abbiamo avuto il coraggio di andare via,
di scappare dalla processione». Per l’arcivescovo di Cosenza, «quando i carabinieri hanno
lasciato, i preti dovevano scappare dalla processione. Avrebbero dato un segnale, e di
questi segnali abbiamo bisogno». Nunnari chiede ai preti non restare più a guardare:
«Bisogna avere il coraggio di fermare le processioni» dal momento che può capitare che
«sotto la vara ci sia il mafioso di turno che poi fa il capo». E conclude che se fosse lui
vescovo di quella città «per un po’ di anni non farei processioni e credo che sarebbe cosa
gradita alla Madonna». Intanto l’amministrazione comunale, che era presente alla
processione e che non ha lasciato il corteo nonostante la dissociazione dei carabinieri, ieri
ha annunciato che, qualora fossero accertati dei reati, si costituirà parte civile in difesa del
buon nome di Oppido. Il sindaco Domenico Giannetta ha ripetuto che la processione si è
svolta come si fa da anni, ma ha anche sottolineato che qualora risultassero episodi
accertati dall’inchiesta della magistratura, il Comune sarà presente tra le
parti lese.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 08/07/14, pag. 2
Non sono questioni minori
Carlo Lania
INVIATO AD AUGUSTA (SIRACUSA)
Augusta, il comune sciolto per mafia nel 2013, si prende cura di 450
migranti tra i 15 e i 17 anni. La macchina dell’accoglienza procede
soprattutto grazie al lavoro dei volontari. Ma non è sufficiente
Seduti all’ingresso tre ragazzini del Mali e due tunisini ascoltano le notizie trasmesse dalla
televisione francese. «Si interessano a tutto, ma vanno pazzi per il calcio», spiega
Vincenzo Amato, il dipendente della Protezione civile responsabile di questa ex scuola
diventata un punto di accoglienza per i piccoli immigrati che arrivano da soli in Italia.
«Abbiamo chiesto alle squadre di calcio locali di regalarci le loro magliette da dare ai
ragazzi e le vogliono tutti. Tra l’altro giocano anche bene. C’è un ragazzo nigeriano che
assomiglia molto a Balotelli e per scherzo gli diciamo: ’bravo ci hai fatto perdere il
mondiali’».
I mondiali forse no, ma una piccola Coppa d’Africa alla scuola verde di Augusta, in
provincia di Siracusa, si potrebbe giocare di sicuro. «Sono bravi soprattutto a palleggiare»,
spiega ancora Vincenzo mentre un ragazzino egiziano con una maglietta grigia e verde e
in testa un cappellino da baseball gli chiede per l’ennesima volta l’accendino. «Eccolo, ma
a fumare vai fuori, no smoking qui» risponde Enzo facendo per finta la voce grossa.
Fino a settembre dell’anno scorso la scuola verde, come la chiamano tutti per via dei muri
esterni di questo colore, era solo un vecchio edificio scolastico abbandonato e in attesa di
essere ristrutturato. Allora non c’era da affrontare nessuna particolare emergenza legata
all’immigrazione, tanto che bisogna risalire almeno a dieci anni fa per trovare traccia del
primo e unico sbarco avvenuto ad Augusta. Forse più un errore di rotta che altro.
L’operazione Mare nostrum ha invece trovato nella cittadina siciliana un porto sicuro dove
far arrivare le migliaia di disperati in fuga dalle sponde opposte del Mediterraneo. E la
situazione è improvvisamente cambiata. «Da ottobre dell’anno scorso a oggi ci sono stati
67 sbarchi», spiega il prefetto Maria Carmela Librizzi, uno dei tre commissari che dal
marzo dei 2013 governano il comune dopo il suo scioglimento per mafia. «In questi mesi
sono arrivati 30mila migranti, e di questi 3.174 sono minori non accompagnati». Se si
considera che, secondo Save the Children, dal 1 gennaio al 17 giugno scorso sono arrivati
in tutto circa 6.000 bambini senza un adulto che badasse a loro, si capisce come Augusta
abbia dovuto affrontare il peso maggiore di questa situazione. E ha reagito come meglio
non avrebbe potuto, cercando di fare il possibile per dare a questi piccoli migranti in fuga
da guerra e miseria un futuro.
Oggi il comune di Augusta si prende cura di 450 migranti tra i 15 e i 17 anni, quasi tutti
maschi e distribuiti in quattro strutture: 180 alla scuola verde, 100 nel centro papa
Francesco di Priolo, 70 all’hotel Haloa di Porto Palo e 100 alla villa Montevago di
Caltagirone. Arrivano da Egitto, Mali, Nigeria, Eritrea e Senegal. «Parliamoci chiaro: sono
strutture di emergenza, inadatte a dei minori, ma nelle quali siamo comunque in grado di
offrire loro la migliore assistenza possibile», spiega il prefetto Librizzi.
Quella dei bambini migranti che viaggiano da soli è una novità degli sbarchi di quest’anno,
almeno per il gran numeri di arrivi. Partono da soli sperando di poter raggiungere i parenti
che già si trovano in Europa, o vengono caricati sui barconi dalle famiglie che così
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sperano di salvarli dalle guerre che devastano i loro Paesi e di garantire loro, forse, un
futuro altrimenti impossibile. Sfruttando a volte anche il fatto che far viaggiare un minore
costa meno di un adulto. Quando arrivano in Italia hanno alle spalle viaggi durati molti
mesi, e non privi di rischi e violenze. «Fisicamente non presentano grosse patologie, e di
sicuro nessun problema dal punto di vista epidemiologico, come purtroppo a volte si tende
a esagerare», spiega Michele Iacovelli, coordinatore di Emergency a Siracusa. I problemi
più gravi spesso sono psicologi. Ad Augusta, nella scuola verde, il comune riesce
comunque a garantire un’assistenza, sia medica che psicologica. Dodici medici, tra Asl,
guardia medica e volontari, si alternano ogni giorno insieme a cinque assistenti sociali,
mediatori culturali e psicologi. E nessuno bada agli straordinari. «Molti sono volontari»,
prosegue il prefetto. «Bisogna tenere conto che mentre i minori che richiedono asilo
politico sono di competenza del ministero degli Interni, che li invia negli Sprar (sistema di
protezione per richiedenti asilo e rifugiati), quelli che non fanno richiesta di asilo dipendono
dal ministero del Lavoro e delle politiche sociali che, al contrario di quanto fa il Viminale,
non si preoccupa di reperire le strutture dove alloggiarli né delle spese, fatta eccezione per
un contributo di 20 euro pro capite al giorno mentre ne servirebbero almeno 70».
Se non tutto, molto è allora affidato ai volontari. I boyscout organizzano corsi di italiano e
la domenica invitano i piccoli immigrati a mangiare con loro, la parrocchia fornisce vestiti e
pasti, ma c’è anche chi ha preso in affido un ragazzo. Il Comune è poi riuscito a stipulare
una convenzione con una mensa che garantisce pasti adeguati a 5 euro.
Questi sono giorni di Ramadan e la stragrande maggioranza dei ragazzi a mezzogiorno
ancora dorme. «Interrompono il digiuno alle otto di sera e poi restano svegli fino alle sei
del mattino, per questo sono stanchi. E per questo le stanze sono in disordine, altrimenti
fanno a gara a chi ha la stanza più pulita», spiega Vincenzo. Ogni camerata una
nazionalità e almeno una decina di brandine allineate. Chi non dorme, si avvia verso la
doccia, guarda la televisione o gioca a calcio nel campetto di cemento che si trova nel
cortile interno della scuola. Oppure esce e va in giro per la città, dove non è raro che
qualcuno gli offra da magiare. «Poi vengono qui e dicono che il cibo non è buono, anche
se poi fanno sempre sparire tutto», si lamentano gli operatori. Il menù prevede datteri,
latte, pollo e pasta, inoltre ogni nuovo arrivato riceve un kit composto da un paio di
pantaloni in cotone blu, una maglietta bianca, mutande usa e getta, spazzolino e
dentifricio. Più sapone e shampoo per l’igiene personale. E poi ci sono i vestiti donati dagli
abitanti di Augusta. «Wait in line» ammonisce un cartello sulla porta del magazzino vestiti.
«Il Comune fa quello che può, ma è chiaro che la gestione dei minori non può essere
affidata solo alla buona volontà dei servizi sociali dei comuni. Manca ancora una visione
nazionale del problema dei minori non accompagnati», osserva Alessio Fasulo,
coordinatore interventi Frontiera Sud di Save the Children. Un problema che conosce
bene anche il prefetto Librizzi. «Abbiamo chiesto alla regione di istituire una cabina di
regia per coordinare gli interventi — dice — E poi c’è il rammarico di non poter offrire a
questi ragazzi un futuro, l’impossibilità almeno per ora di avviare dei corsi professionali».
Con una preoccupazione in più, che il prefetto conosce bene: «Bisogna stare sempre
molto attenti, perché in questo momento i ragazzi immigrati rappresentano anche una
fonte di guadagno e qualcuno potrebbe approfittarne aprendo comunità di accoglienza
dove chissà poi come verrebbero trattati».
del 08/07/14, pag. 3
Rimpallo Ue, oggi i ministri decidono
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Migranti
Malstrom assicura i fondi ma rimprovera il Viminale: “Dovete prendere
le impronte digitali a tutti”
Giorgio Salvetti
Almeno su una cosa l’Europa è unità. Nessuno vuole farsi carico delle migliaia di disperati
che ogni giorno attraversano il Canale di Sicilia. Neppure quando muoiono a centinaia. Ci
si chiede come è stato possibile lo schiavismo, tra qualche decennio ci si chiederà come è
stato possibile questa strage infinita ancora una volta ad opera dell’Occidente.
Oggi a Milano si terrà il vertice europeo dei ministri dell’interno di tutti i paesi Ue, il primo
evento che l’Italia ospiterà nel corso del tanto sbandierato semestre di presidenza. La città
lanciata nell’affanosa rincorsa a Expo si rifa di nuovo il trucco: sventolano bandiere dei vari
stati, si appendono manifesti e si estendono i controlli di sicurezza. Ma basta fare un giro
in Stazione Centrale per capire che la realtà è molto lontana dagli sfarzi degli eventi legati
a questi summit. Milano da giorni non sa come gestire l’arrivo massiccio di stranieri. Sono
uomini, donne e bambini sbarcati nel sud dopo essere stati soccorsi nell’ambito
dell’operazione Mare Nostrum. Sono stati lasciati a loro destino e sono venuti a Milano nel
tentativo di andarsene dall’Italia.
Nell’ultimo fine settimana hanno attraversato il mare altri 2.600 migranti. Non passa ora
senza che venga avvistato un nuovo barcone. A centiania ieri sono sbarcati anche nel
porto di Lampedusa dove il centro di accoglienza non è più agibile ma è stato riaperto
nell’attesa che i nuovi arrivati venissero trasbordati in Sicilia.
Ieri il ministro degli interni Alfano era ad Agrigento per incontrare la sindaca di Siculiana
dove la popolazione è spaventata dal massiccio arrivo di stranieri. “L’Europa ha finalmente
capito che noi non abbiamo più tempo per aspettare – ha detto il ministro – Nel semestre
ci giochiamo davvero tutto. Oggi Alfano incontrerà a Milano il commissario degli affari
interni della Ue Cecilia Malstrom che però non sembra aver colto il messaggio. “Non è
giusto dire che l’Europa ha abbandonato l’Italia – ha dichiarato – l’Italia ha ricevuto dall’Ue
500 milioni di euro e sarà il più grande ricevente di fondi dal 2014 al 2020. Stiamo facendo
appello agli altri paesi membri per la spartizione dei rifugiati”. Poi però non ha rinunciato a
bacchettarci: “Abbiamo avuto indicazioni da alcuni stati membri che l’Italia e altri paesi non
adempiono agli obblighi sulle impronte digitali degli immigrati che chiedono asilo. Stiamo
cercando di capire se il problema è dovuto alla forte pressione o è sistemico”. E’ la verità.
Le autorità italiane non prendono le impronte perchè altrimenti dovrebbero farsi carico dei
rifugiati. Li soccorriamo in mare ma poi chiudiamo gli occhi nella speranza che riescano da
soli ad andarsene nei paesi più a nord.
Si tratta di un’ipocrita braccio di ferro sulla pelle di queste persone nell’inutile tentativo di
rimpallarsi esseri umani facendo a gara e chi riesce a fare il meno possibile per dare un
vero aiuto. Un rapporto dell’Ocse commissionato dal Cnel rende noto che l’Italia e la
Spagna sono i due paesi dove l’immigrazione è cresciuta di più: la popolazione straniera è
quadruplicata dal 1996 al 2011 fino a raggiungere 4,5 milioni, pari al 9% del totale. Una
percentuale più alta di Grecia e Portogallo ma più bassa degli altri paesi con un Pil
paragonabile al nostro. Le ultime ricerche testimoniano che sono sempre di più quelli che
lasciano il nostro paese, mentre un altro studio pubblicato ieri dall’Ue dimostra che l’Italia
nel 2013 era al quinto posto per il numero di richiedenti asilo: oltre 27 mila (+61% rispetto
al 2013). In Germania però sono quasi 127 mila (+64%) e in tutta l’Ue sono aumentati del
30%. L’Italia dunque è il paese più esposto per la sua posizione geografica ma non è certo
quello che accoglie più rifugiati. E quando lo fa, lo fa malissimo. Altro che sbattere i pugni
sui tavoli di Bruxelles.
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Del 08/07/2014, pag. 10
Immigrati, le rimesse a 5,5 miliardi
Come gli italiani all’estero nel '68
Ammontano a 5,5 miliardi di euro nel 2013 le somme che gli immigrati stranieri in Italia
hanno inviato alle loro famiglie d’origine, secondo i dati diffusi da Banca d’Italia. Si tratta
del dato più basso degli ultimi sette anni e corrisponde a poco più della stessa cifra,
attualizzata, che gli emigranti italiani inviavano nel nostro Paese nel 1968 (5,1 miliardi),
quando ormai gli espatri annui, grazie al boom economico, erano crollati, posizionandosi
sotto le 200 mila unità. La crisi nel 2013 ha ridotto le rimesse straniere di 1,3 miliardi (20%) in un anno. A testa ogni immigrato ha mandato mediamente a casa in dodici mesi
1.250 euro, il 25% in meno rispetto al 2012 e ben 800 euro in meno rispetto al 2007,
quando la cifra superava i duemila euro. Anche nel 2012 si era registrato un calo, limitato
però a un -7,6%. Secondo uno studio della Fondazione Leone Moressa, molto è dipeso
dalla Cina che da sempre è il Paese verso il quale maggiormente si indirizzano le
rimesse dall’Italia: nel 2012 il peso della Cina era pari al 40% dell’importo complessivo
mandato all’estero, mentre nel 2013 la quota si è dimezzata passando a 1,1 miliardi di
euro da 2,7. Più ridotto il calo delle altre nazionalità: filippini -7,3% , marocchini e
peruviani meno dell’1%, mentre si registrano gli incrementi degli immigrati del
Bangladesh (+ 52%), dell’India (+ 22%) e dello Sri Lanka (+ 62%). Il maggior calo si è
verificato nel Lazio (-48%), dove le rimesse si sono attestate a un miliardo contro l’1,2
della Lombardia. Ma cosa succede nel frattempo agli italiani che hanno cercato fortuna
all’estero? Anche se ormai i risparmi rimpatriati pesano in misura inferiore al passato
sulla bilancia dei pagamenti e sui conti economici nazionali, in passato hanno
rappresentato una fonte di ricchezza non indifferente. Il flusso migratorio iniziato nel
secondo dopoguerra, che produceva rimesse nel 1947 pari a 183 milioni di euro (dati
attualizzati), esplode tra il 1958 e il 1963, quando il dato annuale delle rimesse
raddoppia: da 336,1 milioni di dollari nel 1958 a 638,2 milioni di dollari nel 1963. In dati
attualizzati se nel 1950 le rimesse ammontavano a circa 791 milioni di euro, dopo dieci
anni erano passate a 3 miliardi e nel 1968 toccavano i cinque miliardi. Nel corso del
tempo il flusso migratorio si è ridotto di pari passo con l’espansione della nostra
economia e di conseguenza anche le rimesse hanno rappresentato una percentuale del
Pil (Prodotto interno lordo) assai più ridotta. Fino al 2001 quando, in coincidenza con la
crisi americana ed europea, il fenomeno migratorio è ripartito. In questo modo dal 2001
al 2011 le rimesse sono aumentate del 33% passando da 359 milioni di euro a 478.
Soltanto tra il 2010 e il 2011 sono cresciute del 9,9%, passando da 435 milioni di euro a
478 milioni di euro, per poi attestarsi a 486 l’anno successivo, dato confermato nel 2013.
Ma da dove vengono questi soldi? I dati suggeriscono di guardare con grande attenzione
alla realtà europea, perché tre su quattro tra i Paesi in testa alle statistiche sulla presenza
italiana nel mondo (Germania, Svizzera e Francia) sono europei, mentre l’unico
extraeuropeo è l’Argentina. Per inquadrare correttamente l’importanza di questo nuovo
fenomeno, che è caratterizzato da una emigrazione di livello culturale e professionale
più elevato, l’Ispi mette a confronto i dati con altri indicatori economici relativi agli ultimi
anni. Confrontando, ad esempio, l’andamento delle rimesse con quello del Pil, emerge
che nel periodo 2009-2011 il volume di rimesse dall’estero è aumentato tendenzialmente
di anno in anno in modo più cospicuo rispetto al Pil, e quando è diminuito, è calato meno
di quanto sia calato il Pil. Ecco come: tra il 2008 e il 2009 il Pil italiano è calato del 5,1%,
le rimesse del 4,6%; tra il 2009 e il 2010 il Pil è aumentato dell’1,3%, le rimesse del
42
5,3%; tra il 2010 e il 2011 l’incremento del Pil è stato dello 0,4%, quello delle rimesse del
9,9% (dati Banca d’Italia). Se ne deduce che in un momento di crisi economica, come
quello che caratterizza il triennio in questione, l’emigrazione può garantire alla bilancia
dei pagamenti una risorsa ulteriore per la stabilità. La crescita delle rimesse dall’estero è
da mettere in relazione con la parallela crescita delle partenze degli italiani. Come rileva
l’Aire (anagrafe dei residenti italiani all’estero), l’emigrazione ha conosciuto negli ultimi
anni un significativo incremento: nel 2009 gli iscritti all’Aire erano 4.028.370, nel 2011
erano passati a 4.208.977 (dati Fondazione Migrantes). Risultato: nel 2011 le rimesse,
pari a 1.580.220 milioni di euro, hanno influito sul Pil italiano per lo 0,03%.
Antonella Baccaro
del 08/07/14, pag. 3
L’Alta corte blocca i respingimenti del
governo Abbott
E. Ma
Australia. Per la prima volta l’ammissione di aver riconsegnato 41
profughi tamil allo Sri Lanka. I giudici di Canberra impongono uno stop
alla pratica delle intercettazioni in mare dei boat people
La politica dei respingimenti in mare dei profughi che ha caratterizzato fin da subito il
governo conservatore di Canberra ha ora un oppositore interno istituzionale. L’Alta corte di
giustizia ha bloccato ieri il tentativo del ministro dell’Immigrazione e della Protezione delle
frontiere (questa la nuova denominazione del dicastero), Scott Morrison, di riconsegnare
alle autorità dello Sri Lanka i 153 profughi tamil fuggiti dal Paese e intercettati dalla marina
australiana su un barcone al largo delle coste del continente. Secondo quanto riportato
dall’Abs News, i giudici di Canberra hanno imposto all’esecutivo centrale della federazione
australiana di congelare il respingimento fino a martedì prossimo, quando il caso sarà
discusso davanti all’Alto tribunale. L’imposizione è arrivata ieri dopo che il governo del
conservatore Tony Abbott si è visto costretto — per la prima volta in assoluto — ad
ammettere di aver respinto in mare aperto e consegnato, domenica mattina, alla marina
srilankese che ne aveva dato notizia altri due natanti con 41 richiedenti asilo. Secondo la
denuncia di alcuni esponenti politici australiani e di molte organizzazioni per i diritti umani
del Paese, anche in questo caso quasi tutti i profughi respinti sarebbero di origine tamil, e
dunque a rischio di persecuzioni, arresti e torture nello Sri Lanka.
Anche l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) ha espresso «profonda
preoccupazione» per la violazione dei diritti umani e delle leggi internazionali, e ha chiesto
all’esecutivo australiano di fare chiarezza sulla vicenda. La marina srilankese, infatti, ha
confermato di aver ricevuto i 41 profughi e di averli consegnati alla Divisione investigazioni
penali, nel porto di Galle. E il governo dello Sri Lanka ha fatto sapere che i fuggiaschi
saranno accusati di aver lasciato il Paese illegalmente e, se ritenuti colpevoli, saranno
condannati al «carcere duro».
Solo a questo punto il ministro Morrison — che fin dall’insediamento, a settembre 2013, ha
promesso mano dura verso i boat people – dopo una settimana di silenzio si è visto
costretto a fornire i dettagli sul respingimento dei due barconi intercettati alla fine di giugno
a ovest delle isole Cocos. Morrison ha raccontato, secondo quanto riferisce la Bbc news,
che i profughi sono stati riportati domenica in acque srilankesi, al largo di Batticaloa, per
essere riconsegnati alle autorità del Paese, dove sarebbero stati subito «sottoposti ad un
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accusato screening», ma che tra loro — ha aggiunto il ministro dell’Immigrazione
australiano — ci sarebbero stati «solo quattro tamil» le cui richieste di asilo sono state
valutate «in teleconferenza».
Secondo Morrison, solo uno dei richiedenti asilo tamil avrebbe potuto ottenere lo status di
rifugiato in Australia, ma avrebbe scelto di rinunciare alla richiesta e di tornare nello Sri
Lanka dopo aver appreso che sarebbe stato rinchiuso a tempo indefinito in attesa di una
decisione — come avviene regolarmente con gli asylum seeekers, per lo più iraniani,
iracheni o curdi, provenienti dall’Indonesia — in un campo di detenzione allestito dalle
autorità australiane nelle isole Manus o Nauru, nel Pacifico, o in Papua Nuova Guinea.
Contemporaneamente, però, il ministro si è rifiutato di rispondere alle domande riguardo la
sorte dei 152 profughi tamil che, secondo i media australiani, provenivano da un campo
profughi in India e che starebbero per essere riconsegnati dalle autorità australiane nelle
mani della polizia di frontiera dello Sri Lanka. L’isola dell’Oceano Indiano è sotto
osservazione speciale dell’Unhcr per la violazione dei diritti umani fin dalla guerra contro i
separatisti tamil che si concluse nel 2009. Eppure il governo australiano, che finora non
aveva mai ammesso questa pratica di respingimento contro i barconi di profughi
provenienti dai Paesi limitrofi, si difende, come fa notare la Bbc, spiegando che «la sua
politica in materia di asilo mira a salvare vite umane».
del 08/07/14, pag. 3
Il Cnel: bisogna cambiare la Bossi-Fini
Giorgio Salvetti
È questo in sostanza il parere del Cnel. Il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro
ha commissionato all’Ocse una ricerca dal titolo «L’integrazione degli immigrati e dei loro
figli». Secondo il Cnel bisognerebbe subito concedere lo «ius soli» ai nati in Italia da
genitori stranieri e il voto amministrativo a tutti gli immigrati. Dal rapporto dell’Ocse emerge
che in Italia gli stranieri sono per lo più impiegati nell’edilizia e come badanti, il loro tasso
di occupazione è più alto in percentuale rispetto a quello degli italiani ma sono spesso
sottopagati, sfruttati o lavorano in nero.
I giovani fanno fatica ad ottenere un titolo di studio superiore alla terza media. Solo il 50%
prosegue gli studi.
Gli uomini sono stati colpiti duramente dalla crisi nel settore manifatturiero ed edilizio: i
disoccupati sono aumentati del 10%, il doppio degli italiani.
Le donne invece che lavorano come badanti sono molto legate all’erosione crescente dei
risparmi delle famiglie. Rispettivamente uomini e donne stranieri rappresentano il 31 e il
40% dei lavoratori poco qualificati in Italia. Mentre un terzo degli immigrati in età compresa
tra i 15 e i 24 anni non riesce né a studiare né a lavorare.
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SOCIETA’
Del 08/07/2014, pag. 1-28
LA COPERTINA
Ecco come i social network manipolano le
emozioni
FABIO CHIUSI
L’ONDATA di indignazione levatasi contro Facebook per l’esperimento con cui avrebbe
“manipolato le emozioni” di 700mila iscritti rivela, più di ogni altra cosa, la scarsa
dimestichezza del pubblico con i meccanismi utilizzati nel marketing e sì, anche dai colossi
web. Perché quello recentemente pubblicato sulla rivista Pnas , la pietra dello scandalo,
non è l’unico condotto da Facebook. E quella di Mark Zuckerberg non è certo l’unica
azienda ad avvalersi della manipolazione emotiva, se ciò serve a migliorare l’esperienza
d’uso degli iscritti. «A Facebook conduciamo oltre mille esperimenti ogni giorno», scriveva
il 3 aprile 2014 il data scientist Eytan Bakshy, con l’obiettivo di «ottimizzare risultati
specifici», o per «informare decisioni sul design della piattaforma nel lungo periodo». Test
che potevano, fino a pochi mesi fa, essere condotti in assenza di limiti o quasi, dice
Andrew Ledvina, un ex collega, al Wall Street Journal: «Non c’è un processo di revisione.
Chiunque in quel team può fare un test. Stanno continuamente cercando di modificare il
comportamento delle persone». Google, nel 2012 e per bocca del responsabile del settore
antispam Matt Cutts, ha ammesso di farne fino a 20 mila all’anno sui risultati di ricerca.
Famoso l’esempio di Merissa Mayer che, prima di passare a Yahoo, nel 2009, fece testare
41 sfumature di blu per le pagine web di Google: cercava di capire a quale tonalità fosse
associato un maggiore numero di click da parte degli utenti.
Sempre Google, scrive Business Insider , «testa milioni di inserzioni pubblicitarie ogni
giorno », mutandone la composizione del messaggio, il posizionamento sulla pagina e le
immagini associate. «Lo stesso fanno Amazon e dozzine di altre compagnie», tutto a
nostra insaputa con l’obiettivo di migliorare i propri prodotti.
Studi sui propri utenti e i loro dati sono condotti da Yahoo, Microsoft e Twitter. E, nota lo
psicologo Tal Yarkoni, «tipicamente queste manipolazioni non vengono effettuate per
studiare il “contagio emotivo”», come nel discusso caso di Facebook, «ma con il fine
esplicito di aumentare il fatturato ». Per esempio, Taco Bell paga BuzzFeed per scrivere
pubblicità in formato virale sulle proprie visitatissime pagine. Parte di quel denaro finisce
anche nelle tasche di Facebook, ricorda Vox, per assicurarsi che quei contenuti finiscano
sotto ai nostri occhi. In altre parole, «visto che il punto stesso della pubblicità è creare una
relazione emotiva tra noi e il prodotto, non è per nulla scorretto dire che Taco Bell paga
Facebook per manipolare le nostre emozioni alterando il News Feed». Che poi è lo stesso
che cerca di fare McDonald’s quando adotta come slogan «I’m lovin’it », o quando la Coca
Cola lancia una vera e propria «campagna per la felicità». Il punto è che funziona: da
un’analisi del britannico Institute of Practicioners in Advertising su 1400 campagne
pubblicitarie di successo è emerso che quelle con contenuti puramente emotivi
restituiscono tassi di soddisfazione doppi rispetto a quelli puramente “razionali”.
Cosa cambia dunque nel mercato delle emozioni digitali? I metodi, prima di tutto. Che
possono avvalersi di campioni osservabili in tempo reale e con possibilità di intervento
inedite finora. Non a caso Adam Kramer, tra gli autori dell’esperimento che ha fatto
discutere il mondo, ha sostenuto di essere entrato a Facebook perché «costituisce il più
ampio studio sul campo della storia». Per comprendere le emozioni online, spiega a
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Repubblica Luigi Curini, docente di scienza politica e autore del libro Social Media e
Sentiment Analysis. L’evoluzione dei fenomeni sociali attraverso la Rete , si può fare
ricorso a «dizionari ontologici che hanno già predefinito tutta una serie di parole
connotate “positivamente” o “negativamente”». «Questa — prosegue — è una pratica
assai comune, che ha l’indubbio vantaggio di essere completamente automatizzata. Il
problema è che non si colgono i doppi sensi, l’humour, i giochi di parole».
Un’alternativa è codificare manualmente un sottoinsieme di post che parlano del tema che
interessa ai ricercatori in senso positivo o negativo, e lasciare sia l’algoritmo a connotare i
rimanenti nell’universo di riferimento, per estensione. Di “rivoluzionario”, suggerisce Curini,
«c’è che sei in grado di controllare l’impatto del tuo esperimento in tempi ben più rapidi»
rispetto per esempio alla proiezione ripetuta di una pubblicità durante la finale dei
mondiali. «Insomma, il Sacro Graal dei pubblicitari». Con il risultato che spesso «siccome
devi “inseguire” la Rete per essere davvero efficace, allora alla fine è la Rete che ti detterà
il contenuto, e non viceversa». Di norma si utilizzano i cosiddetti «test A/B», in cui c’è un
gruppo di controllo con le condizioni di partenza e uno sperimentale in cui viene introdotta
la variabile che si vuole studiare. «Per esempio», spiega il social media strategist di
BlogMeter, Vincenzo Cosenza, «se uso il colore giallo o quello rosso per il pulsante
“compra” otterrò un numero maggiore di click? Si erogano entrambe le soluzioni a gruppi
diversi di persone e si misurano i risultati. Quella più efficace verrà poi implementata
stabilmente». Il punto è che non tutte le applicazioni sono così innocue. Lo studio di
Facebook sulle emozioni ha fatto discutere per le implicazioni etiche, sollevando
giustamente la questione del rapporto tra il «consenso informato» richiesto dalla scienza
— ma non dal marketing — per sperimentazioni su esseri umani e termini di utilizzo del
social network, lunghi, tortuosi e poco trasparenti. Ma c’è molto altro. Grazie a Edward
Snowden, infatti, sappiamo per certo che quei dati sono di estremo interesse per
l’intelligence, che nel caso delle agenzie di sicurezza britanniche significa creare contenuti
ad arte per distruggere la reputazione dei bersagli. Ed è la Difesa Usa a usare lo studio
delle emozioni sui social per cercare di prevedere rivolte sociali, come avvenuto in Egitto
nel 2011 o in Turchia nel 2013. Poi c’è la politica.
Già nel 2010 un semplice badge per dire agli amici su Facebook “ho votato” ha scosso
dall’indolenza 340 mila individui che altrimenti non si sarebbero recati alle urne. Oggi è
una prassi adottata per tutte le tornate elettorali, la più recente quella in India, dove è stato
cliccato da 4,1 milioni di persone. Ma lo scenario più inquietante è quello descritto da The
New Republic : se Zuckerberg preferisse un candidato, potrebbe far comparire sul News
Feed l’invito a votare solo per gli iscritti che sa — proprio per l’analisi emotiva — essere
favorevoli al suo stesso candidato, e non per chi invece supporta l’avversario. Ipotizziamo
che il risultato sia sufficiente da capovolgere l’esito elettorale: «la legge dovrebbe impedire
un comportamento simile? ». Bella domanda. Al momento, ricorda Cosenza, «solo
pochissimi studiano le emozioni in rete ». Per il futuro, tuttavia, meglio attrezzarsi.
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INFORMAZIONE
del 08/07/14, pag. 1/15
Al lettori
Oggi abbiamo invitato i colleghi della Stampa e gli amici del giornale in redazione (ore 12)
per raccontare tutte le volte che non siamo stati ascoltati. Tutte le volte che i giornalisti de
l’Unità hanno denunciato la malagestione del giornale, l’assenza di un progetto serio, la
mancanza di trasparenza e di solidità aziendale, hanno avuto come risposta solo un’alzata
di spalle. Fino all’ultimo, scandaloso episodio di un’azionista di FI nella nostra società:
ultimo atto di una progressiva parabola discendente, che ha portato il giornale sull’orlo del
baratro. Oggi se ne sono accorti tutti, perché i fatti sono testardi e alla fine si prendono le
loro ragioni. Proprio noi, che avevamo ragione dall’inizio, rischiamo di pagare caro questo
sistematico disegno di dismissione. Noi, con voi lettori che ci seguite dimostrando affetto e
solidarietà verso una testata che non ha eguali in Italia quanto a storia radicata nel mondo
della sinistra, nella militanza politica. Il rischio è che il giornale fallisca se entro luglio non
arriva un’offerta credibile per rilevare l’attività. I due liquidatori hanno dato al Cdr un
quadro allarmante della situazione. Da mesi si rincorrono dichiarazioni pubbliche di
impegno e attenzione alle vicende che coinvolgono il giornale fondato da Antonio Gramsci.
È arrivato il momento di passare dalle parole ai fatti. Chi volesse aspettare il fallimento,
per agire magari un minuto dopo, sappia fin da ora che a quel punto non si salverebbe
l’Unità ma solo una scatola vuota. Sarebbe una sconfitta per tutti.
IL CDR
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CULTURA E SCUOLA
del 08/07/14, pag. 17
SUL WEB
Le cicatrici del cinema
Forbici, roghi, tagli
100 anni di censura in Italia
Gabriella Gallozzi
BERNARDO BERTOLUCCI E PASOLINI, OVVIAMENTE. MA ANCHE TOTÒ,
ROSSELLINI E LUCIANO EMMER che, dopo il «massacro» del suo La ragazza in vetrina,
colpevole di raccontare l’amore di un emigrato per una prostituta, smette col cinema per
dedicarsi solo ai Caroselli. Stiamo parlando della censura. Patria istituzione che fin dal
1914, con Regio decreto, ha imposto «il comune senso del pudore » al cinema italiano e
non solo, colpendo a 360 gradi autori impegnati, ma anche pellicole di cassetta,
cinegiornali, pubblicità e manifesti. A cent’anni dalla sua nascita la Direzione Cinema del
Ministero dei beni culturali e del turismo insieme al Centro sperimentale di cinematografia
ha creato una grande mostra virtuale dal titolo esplicativo: Cinecensura. Cent’anni di
revisione cinematografica in Italia (www.cinemacensura.com). Suddiviso per voci, politica,
violenza, sesso e religione, il sito propone un appassionante e ricchissimo viaggio tra tagli,
documenti, foto, video, locandine a dimostrazione della solerte attività degli «sforbiciatori»
di Stato a cui Chiesa e politica hanno imposto da sempre le loro direttive. Se Andreotti
diede filo da torcere al Neorealismo( «i panni sporchi si lavano in casa») non mancarono
certo tanti altri politici di minor spessore, «saliti dalla provincia a Montecitorio», come
spiega Tatti Sanguineti, tra i massimi esperti in fatto di censura e curatore della mostra,
preoccupati della «denigrazione» del loro Paese all’estero e capaci quindi di imporre il
divieto di esportazione del film. Per non parlare dei temi sociali politicamente troppo
caratterizzati e ancor peggio l’evocazione dello spettro del fascismo come in Anni difficili di
Luigi Zampa da una novella di Brancati o il documentario Tragica alba a Dongo che,
rievocando l’esecuzione di Mussolini con la Petacci, si beccò nei Cinquanta il divieto di
uscita in sala ed è tutt’ora inedito. La preoccupazione per il buon nome delle forze
dell'ordine, della politica e dei funzionari statali poi, spingono a «sforbiciature » pesanti
anche nelle commedie. Totò e Carolina di Monicelli è uno dei film più censurati della
storia: i democristiani lo contestano perché non è rispettoso nei confronti delle forze
dell’ordine, appunto, e la Chiesa più direttamente lo contesta per il tentato suicidio di
Carolina, la giovane protagonista sbandata. Così quando il film riesce finalmente ad uscire
in sala, dopo un taglio record di 200 metri di pellicola, la frase «il suicidio è un lusso, i
poveri non hanno neanche la libertà di uccidersi», viene cancellata dalla colonna sonora.
Le istituzioni non vanno denigrate, figuratevi dunque quanto dovette patire Rossellini per il
suo Dov’è la libertà in cui Totò nei panni di un ex galeotto è talmente deluso dall’Italia che
trova fuori da desiderare di tornare dietro alle sbarre.
La religione, Dio ce ne guardi, scatena poi le ire dei censori sopra ad ogni cosa.
Imponendo particolare attenzione alle rappresentazioni della Chiesa cattolica e dei suoi
esponenti. Nelle forbici della Chiesa incapperanno, tra i più celebri, Umberto D. e Alvaro
piuttosto corsaro, La dolce vita (la squenza scandalo del finto miracolo) e Laricottadi
Pasolini arrivata nelle aule del tribunale. «In seguito gli interventi saranno sporadici ma
non infrequenti - si legge nel sito - , fino alla proibizione assoluta (poi rientrata) di Totò che
visse due volte di Ciprì e Maresco, che affronterà anch'esso un processo per vilipendio
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della religione». I casi più noti sono tutti in mostra. Ma tante sono anche le sorprese e le
«chicche» per cinefili. A dire dell’ossessione del sesso dei nostri censori, quelli per
intenderci che hanno letteralmente mandato al rogo Ultimo tango a Parigi, esemplare resta
Odissea nuda di Franco Rossi, del ‘61, parabola sull’abbandono della civiltà da parte di un
intellettuale, di cui colgono - e quindi censurano - soltanto l’eccesso di sensualità ed
erotismo. «Negli anni del miracolo economico - si legge ancora nel sito -, l'avanzata dei
costumi si scontrerà in maniera più diretta con interventi del potere politico e giudiziario, e
a fare da apripista saranno vari film d'autore, da L'avventura a La dolce vita a Dolci
inganni. E negli anni '70, prima dell'arrivo del cinema a luci rosse, la battaglia contro le
immagini di sesso man mano dilaganti apparirà perduta in partenza».Mostrando cosi - lo
sottolinea Sanguineti - che «nulla come la censura sopporta le macchine del tempo».
del 08/07/14, pag. 20
COPIA PRIVATA
Dori Ghezzi difende il decreto
“I cd non si vendono, artisti da tutelare”
di Andrea Scanzi
Dori Ghezzi, Presidente Onoraria della PMI (Produttori Musicali Indipendenti), ha fatto le 4
di notte dalla rabbia: “Troppi attacchi al decreto Franceschini”. Quello che garantisce il
diritto d’autore anche sui contenuti digitali copiati o registrati su apparecchi elettronici.
“Sono attacchi politici, ma qui la politica non c’entra. L’Italia era l’unico paese civile che
non aveva regolamentato questo aspetto”. Quattro euro su tivù, 5.20 per un computer, 9
per una pendrive: nuove “tasse”? “Sono le aliquote più basse d’Europa, ovunque all’8% e
in Germania al 30%. In Italia si fermano al 4%”. Sembra un decreto scritto dalla Siae. “Il
presidente Gino Paoli lo condivide interamente e stimo molto Franceschini: è il primo
ministro che ha avuto il coraggio di metterci la firma. E ora si occuperà di Google e
YouTube”.
ALLA SIAE arriveranno più di 150 milioni di euro l’anno. “I dischi non si vendono più.
Finora un artista lavorava e non aveva stipendio. Non solo: altri guadagnavano al suo
posto, per esempio le multinazionali che producono smartphone e tablet. Prima era facile:
c’erano i dischi, il giradischi e basta. Oggi l’artista deve avere qualcosa anche da chi
sfrutta la sua arte. L’iPod lo compri per ascoltare musica, il cd vergine lo compri per
metterci musica. Non c’è nulla di ingiusto nel prendere una parte del loro venduto, è una
cosa naturale”. Così però aumenteranno costi di iPod e tablet. “Non è colpa della Siae ma
delle multinazionali, che fornivano gratis opere che costano tantissimo agli artisti. Non
c’erano altre strade”.
Del 08/07/2014, pag. 49
La rassegna diretta da Marco Müller in crisi di fondi I premi saranno
assegnati direttamente dagli spettatori
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Il Festival di Roma abolisce la giuria “Non ci
sono i soldi”
FRANCO MONTINI
ROMA
IL Festival cinematografico di Roma abolisce le giurie: ad assegnare i premi nella
prossima edizione, in programma dal 16 al 25 ottobre, sarà unicamente il pubblico. Al
termine di ogni proiezione tutti gli spettatori potranno esprimere il proprio gradimento sul
film e i riconoscimenti previsti per le diverse sezioni, da quest’anno tutte competitive,
andranno alle opere maggiormente apprezzate dal pubblico. La novità non è cosa da poco
e ha una doppia motivazione. Una, diciamo più nobile e di carattere filosofico. La volontà
di coinvolgere maggiormente gli spettatori, poiché, spiega Paolo Ferrari, presidente della
Fondazione Cinema per Roma: «Ci è stato chiesto di organizzare una manifestazione che
tornasse allo spirito originario, più festa che festival ». L’altra ragione è puramente
questione di soldi. Lo ammette lo stesso Ferrari: «L’abolizione delle giurie ci consentirà un
risparmio di spesa, al momento non sappiamo ancora quantificarlo. I costi infatti variano,
di anno in anno, a seconda dalla provenienza e delle richieste dei diversi giurati, ma si
tratta in ogni caso di cifre consistenti». Con quest’ultima decisione comunque anche il
Festival di Roma si adegua al clima generale di spending review e, definitivamente
tramontata l’idea di far concorrenza alla Mostra di Venezia che aveva guidato la
fondazione della rassegna, guarda ora al modello portato avanti dal festival
di Toronto, che contrariamente a tutte le altre grandi kermesse cinematografiche, da
Cannes a Berlino, non prevede giurie di esperti, più o meno glamour, per l’assegnazione
dei premi. Secondo le intenzioni del direttore Marco Müller il prossimo sarà un festival più
snello anche nelle dimensioni: il responsabile ha promesso che l’edizione 2014 proporrà
complessivamente, suddivise nelle diverse sezioni, tutte ribattezzate, non più di 40 film.
Inoltre al momento non è prevista la realizzazione di alcuna tecnostruttura esterna e tutto il
festival si svolgerà all’interno dell’Auditorium Parco della Musica.
Del resto per il Festival di Roma la necessità di contenere i costi e risparmiare è a questo
punto vitale. Il preventivo di spesa per il 2014 è di 9 milioni di euro. Di cui 5 proverranno
dai soci pubblici. Ma poiché Regione, Comune, Camera di Commercio hanno convenuto di
non aumentare il proprio intervento e sosteranno il Festival 2014 con 1,130 milioni di euro
ciascuno, mentre il contributo della Provincia scenderà a 300 mila euro, si cercano nuove
partecipazioni. Attraverso il sindaco Ignazio Marino si sarebbe ottenuto l’intervento del
ministero dei Beni e delle Attività Culturali, con l’ingresso nella Fondazione Cinema per
Roma dell’Istituto Luce. Questo nuovo intervento pubblico dovrebbe garantire ulteriori
risorse per circa un milione di euro. Il condizionale, tuttavia, è d’obbligo perché le
promesse al momento non sono ancora state formalizzate da un accordo scritto. La
situazione economica del paese non agevola la ricerca di sponsor privati e rispetto alle
prime edizioni il loro contributo, che era maggioritario, si è più che dimezzato.
Intanto si segnala una novità per il Roma Fiction Festival, in programma dal 13 al 18
settembre: la Regione Lazio ha infatti nominato Carlo Freccero nuovo direttore artistico.
Quanto all’ipotesi di accorpamento per le due manifestazioni, altro elemento di possibile
risparmio, se ne riparlerà l’anno prossimo.
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Del 08/07/2014, pag. I RM
Cultura, 44 giorni senza assessore
DOPO LE DIMISSIONI DELLA BARCA / APPELLO DI ATTORI E REGISTI
A SINDACO E MINISTRO
UNA breve lettera, molte firme e un ultimatum: «il sindaco nomini l’assessore alla Cultura
entro il 14 luglio o sarà protesta». A sottoscriverla un gruppo di attori, autori, registi di
teatro che chiedono al sindaco Marino di prendere una decisione sulla carica vacante della
sua Giunta. Da Maccarinelli a Lavia, da Placido a Comencini, la richiesta inoltrata al
ministro Franceschini è di rendere note le “linee strategiche” di una «situazione alla
paralisi non per carenze creative».
INDICANO, COME ULTIMATUM, la data simbolica del 14 luglio per conoscere il nome del
nuovo assessore alla Cultura: un gruppo di registi e attori, protagonisti della scena
artistico-teatrale — da Piero Maccarinelli a Michele Placido, da Gabriele Lavia a Sergio
Rubini, da Manuela Mandracchia a Annamaria Guarnieri — scrive un appello al sindaco
Marino, indirizzato “per conoscenza” anche al ministro Dario Franceschini, rimarcando «la
grave urgenza in cui versa il sistema culturale della città», in particolare collegandolo alla
mancata nomina di un nuovo assessore alla Cultura. Una breve lettera, molti firmatari e
una forte richiesta di intervento da parte del Campidoglio, che costituisca una svolta alla
situazione della «vita culturale romana che sta collassando per paralisi istituzionale, non
certo creativa ». Scrivono gli autori: «Riteniamo che sia inconcepibile che Roma Capitale
non abbia un assessore alla Cultura » come è dal 26 maggio, giorno in cui Flavia Barca ha
dato le dimissioni. Un’uscita di scena che ha aggravato il quadro, generando una vacatio
senza precedenti nella vita culturale della città: «Riteniamo fondamentale che, avendo
voluto lei assumere ad interim la carica di assessore debba
provvedere quanto prima a comunicarci il suo progetto per la città. — si legge ancora nella
missiva — Musei, biblioteche, teatri, istituzioni culturali aspettano in un clima preagonico
da troppo tempo sue indicazioni». Il 14 luglio «data simbolica nella storia europea che
confidiamo possa essere altrettanto simbolica per nominare un assessore alla cultura
facente funzione e comunicarci qualche linea strategica». Con una chiusa che denota una
stanchezza e l’intenzione di spingere oltre l’impegno verso l’obiettivo: «in assenza di un
suo riscontro nel concreto ci impegniamo ad adottare qualsiasi forma di protesta dandone
ampia comunicazione». Tra gli altri firmatari anche Giuseppe Manfridi, Francesca
Comencini, Carmen Pignataro, Luciano Virgilio, Sandra Toffolatti, Marco Balsamo.
Nei giorni scorsi, anche nel corso del Forum nella redazione di Repubblica ad un anno dal
suo insediamento, il sindaco Marino ha dichiarato di voler procedere alla nomina del
nuovo assessore prima della chiusura del bilancio. Orientamento che ha ripetuto, di fronte
alla stampa, anche ieri: «Il nuovo assessore sarà una donna. Si tratta di un incarico per il
quale puntiamo a una personalità di alto profilo. Ma purtroppo, molte persone, quando
verificano il compenso previsto per questo incarico, declinano»
del 08/07/14, pag. 15
Il problema non è il Teatro Valle ma il sindaco
Marino
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Sandro Medici
Roma . Un’esperienza che altre capitali ci invidiano ma la nostra
amministrazione cittadina mal sopporta. Siamo il paese della Storia
contro il "contemporaneo"
Non succede solo oggi che le esperienze artistiche più avanzate e politicamente
trasgressive suscitino biasimo e incomprensioni, e siano censurate, ostacolate, se non
represse. Da sempre, la libera espressività comporta reazioni sprezzanti. Il caso del
Teatro Valle di Roma ne è la plastica riprova. Un’occupazione che va avanti da tre anni ha
strappato quell’opaco sipario dietro il quale si era stratificata una politica culturale pigra e
attardata, compiacente con il potere politico, subalterna al mercato.
In una città che ripropone all’infinito materiale repertoriale e antologico, dove il
contemporaneo (quando c’è) viene relegato in qualche angoletto residuale, l’avvento di
quest’esperienza avventata e sgrammaticata ha improvvisamente (e impietosamente)
rivelato l’angustia della programmazione teatrale pubblica. Di fronte allo slancio creativo,
alla ricerca artistica, all’azzardo politico del Valle, tutto il resto si è palesato per quel che è:
sfiorito, appesantito, ripetitivo.
Un esempio? Solo l’ultimo della serie. La Carmen dell’Orchestra di Piazza Vittorio ha
ottenuto una sola data nelle stagione estiva del Teatro dell’Opera. Era l’unica
interpretazione originale dell’intero Cartellone: ovviamente, bisognava comprimerla.
Pazienza se poi i biglietti si sono esauriti in mezza giornata e si è stati felicemente costretti
ad allestire una prova generale aperta al pubblico. E stiamo parlando dell’Orchestra di
Piazza Vittorio, la più vivace e significativa realtà artistica nel panorama romano degli
ultimi anni. Apprezzata e corteggiata in mezzo mondo, ma qui da noi appena tollerata.
Anche il Valle vive la stessa condizione d’isolamento, al cospetto delle consorterie culturali
dominanti, dei sonnolenti consigli d’amministrazione, delle boriose direzioni artistiche, di
manager scattanti e occhiuti consulenti. E infatti riceve premi e riconoscimenti solo
all’estero, oltreché inchieste e paginoni sulle più prestigiose riviste internazionali. Del
resto, a Roma c’è San Pietro e il Colosseo, Caravaggio e Michelangelo, forse Fellini e la
dolce vita, forse Pasolini e i ragazzi di vita. E poi? E poi c’è il vuoto della contemporaneità.
Un’esperienza come il Valle uno se la dovrebbe inventare, per dare un po’ di smalto a una
città in declino. A Berlino, a Barcellona, a Parigi, questo genere di realtà vengono non solo
accolte e favorite, ma perfino finanziate. Il valore immateriale che ne deriva è
straordinariamente magnetico, crea un’affascinante suggestione, stimola l’immaginario, dà
prestigio e autorevolezza. Il sindaco Marino dovrebbe ringraziarli, i ragazzi e le ragazze
del Valle, per quello che fanno e per quello che semplicemente suscitano. Con loro Roma
è migliore e, suo malgrado, può contare su un’eccellenza culturale che diversamente non
avrebbe.
E invece?
Il sindaco Marino alza il sopracciglio, abbozza un sorriso e invita a «rendere disponibili i
locali illegalmente occupati». Della serie: o ve ne andate con le buone o sarò costretto a
sgomberarvi. Fantastico, ha capito tutto. Ha intenzione di chiudere l’unico teatro cittadino
conosciuto nel mondo, che programma quel che di meglio si produce, che detiene il record
di spettatori (e di spettacoli), l’unico aperto anche d’estate, che in secoli di storia non ha
mai visto tanta gente e tanto interesse. A volte, si ha l’impressione che davvero non
capisca bene dove si trovi e cosa succeda intorno a lui. O che non capisca che la realtà è
qualcosa di più ampio e complesso di aridi principi e regole polverose.
C’è un’insorgenza generalizzata di nuove forme dell’agire sociale che nascono dai bisogni,
materiali e immateriali. Forme che difficilmente si allineano all’attuale intelaiatura politica e
giuridica. Hanno a che fare con il bene comune, che è qualcosa di più e di meglio del bene
pubblico, e che infatti non è né pubblico né privato. E’ la tensione a riappropriarsi di ciò
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che è proprio, di quel patrimonio collettivo che la politica non garantisce più e che per
questo va sottratto al mercato e restituito alla società perché legittimamente ne goda.
Qui non si tratta di stabilire se e quanto sia legale occupare uno stabile abbandonato per
riconvertirlo a un uso sociale o culturale. Qui si tratta di schierarsi. O si sta con i bisogni o
si sta con gli interessi.
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ECONOMIA E LAVORO
del 08/07/14, pag. 6
Ripresa, Sud al palo
4 su 10 senza lavoro
ANDREA BONZI
Una ripresa a due velocità: va avanti (piano) al Centro-Nord, è completamente ferma al
palo nel Mezzogiorno. È la fotografica scattata dalla Banca d’Italia, che ieri ha presentato
la pubblicazione «L’economia delle regioni italiane nel 2013». L’anno scorso, infatti, nelle
regioni del Sud si è registrato un calo del -4% del Prodotto interno lordo (Pil), in
peggioramento dal -2,9% dell’anno precedente. In dettaglio, mentre il 2012 c’è stata un
deciso miglioramento delle stime sia al Centro (-1,8% dal -2,5% dell’anno prima), sia al
Nord Est (-1,5% dal -2,5% del 2012) sia soprattutto al Nord Ovest (-0,6% dal -2,3%
dell’anno precedente), la flessione dei consumi e degli investimenti nei territori del Sud si è
accentuata maggiormente.
UN EXPORT SCARSO
Uno dei macigni che pesa sul Mezzogiorno è la ridotta portata degli scambi di importexport con l’estero. E per il 2014, segnala Bankitalia, la situazione non migliorerà
dappertutto allo stesso modo, anzi. «Emergono segnali di ripresa, sebbene ancora
moderati e differenziati tra le diverse aree - si legge nel report diffuso dall’istituzione -. Il
riavvio dell’attività delle regioni centro- settentrionali non si è ancora esteso a quelle
meridionali, meno aperte agli scambi internazionali».
IN CERCA DI OCCUPAZIONE
A complicare il quadro delle aree più depresse del Paese, il dato dell’occupazione:
secondo quanto rileva Bankitalia il tasso di disoccupazione ha raggiunto nel 2013 il 19,7%
nel Meridione (+2,5% rispetto all’anno scorso), il 9,1% al Centro Nord (+1,1%); per i
giovani fino a 29 anni, è rispettivamente pari al 42,9% e al 23%. Ciò significa che, nel
Mezzogiorno, quattro ragazzi su 10 non hanno un’occupazione. E crescono anche gli
scoraggiati, ovvero quelli che hanno smesso di cercare una ricollocazione: nel 2013 la
quota di cittadini (tra i 15 e i 64 anni) in queste condizioni nel Mezzogiorno era pari al
7,2%, ovvero oltre tre volte quella registrata al Centro Nord, dove si ferma all’1,7%.
Un altro elemento analizzato dalla ricerca è quello del credito. Nella seconda metà del
2013, le condizioni di offerta del credito, soprattutto nel Nord Est e nel Mezzogiorno,
hanno pesato meno sull’andamento dei prestiti alle imprese. La domanda di finanziamenti
è rimasta debole in tutte le aree ed in tutti i settori, in particolare nel comparto delle
costruzioni, specie nelle regioni del Nord Ovest e del Mezzogiorno. Nello stesso periodo,
«la domanda di mutui per l’acquisto di abitazioni si è stabilizzata nel Centro Nord,
mostrando segnali di ripresa nel Nord Est - si legge nel report apposito della Banca d’Italia
-. Nel Mezzogiorno si è registrato un ulteriore indebolimento ». Le condizioni di offerta alle
famiglie, «ancora prudenti, mostrano primi segnali di miglioramento nel Mezzogiorno e nel
Nord Est».
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Del 08/07/2014, pag. 7
Ecofin, è già scontro sulle richieste di
flessibilità Padoan: “Il nostro debito è tra i più
sostenibili”
ANDREA BONANNI
BRUXELLES Il debito pubblico italiano è uno dei più sostenibili dell’Unione europea. Lo
assicura il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan, che è arrivato ieri a Bruxelles per
partecipare ai lavori dell’eurogruppo e, oggi, dell’Ecofin sotto presidenza italiana. Una
discussione che si preannuncia dura e di importanza cruciale. Per la prima volta dopo
anni, infatti, su impulso dell’Italia, i governi europei vogliono definire nel dettaglio quali
siano i margini di flessibilità che si potranno sfruttare per mettere a punto i bilanci dell’anno
prossimo, che vanno presentati entro ottobre. Proprio in vista di questa discussione, il
ministro Padoan ha chiarito: «La sostenibilità del debito dipende da tre variabili: il tasso di
crescita, i tassi d’interesse e lo sforzo di bilancio.
Quanto allo sforzo di bilancio italiano abbiamo il surplus primario più alto dell’Ue, con la
Germania. I tassi sono scesi, mentre il tasso di crescita nominale è ancora
insoddisfacente. In ogni caso, anche con una crescita insoddisfacente, la sostenibilità del
nostro debito è assolutamente fuori discussione. Lo dice la Commissione europea nei suoi
rapporti». Ieri all’eurogruppo la discussione è stata centrata sulla necessità di ridurre le
tasse sul lavoro senza compromettere l’equilibrio dei conti pubblici. Il comunicato finale
consiglia di trasferire parte del carico fiscale verso «imposte meno penalizzanti per la
crescita, come le tasse sui consumi, sulla proprietà e sull’inquinamento ». L’Italia è tra gli
undici Paesi che, secondo la Commissione, hanno un cuneo fiscale troppo elevato e
Padoan è stato chiamato a presentare lo sgravio di ottanta euro in busta paga voluto dal
governo e le relative coperture di spesa. L’ultimo vertice europeo ha deciso di utilizzare «i
margini di flessibilità esistenti» nelle norme per favorire le riforme e la crescita, ma quali
sono concretamente questi margini? Padoan ha spiegato: «Le priorità indicate dall’Italia
sono: più integrazione del mercato, riforme e investimenti strutturali. Su queste c’è stato
un ampio scambio di vedute e un generale accordo, ma c’è divergenza di vedute su quale
tipo di specifiche misure siano necessarie. Lo considero un inizio molto incoraggiante sulla
discussione che ci sarà all’Ecofin». Le posizioni di partenza sono però lontane. Se il
presidente Hollande ieri ha insistito che «tutti i margini di flessibilità devono essere
utilizzati per tenere conto delle riforme avviate», il ministro delle Finanze tedesco,
Schauble, è stato più prudente: «L’obiettivo della crescita e degli investimenti non deve
essere un pretesto o una scappatoia per non fare quello che si deve fare ». Ieri Padoan ha
proposto una posizione di mediazione: «Le riforme strutturali vanno votate, tradotte in
legge e attuate: alla luce degli sforzi di attuazione discuteremo tutti insieme come
possiamo tenere conto dell’impatto che hanno sulla sostenibilità dei bilanci». La
discussione si dovrebbe chiudere entro l’autunno per consentire la preparazione dei
bilanci 2015. Sul fronte pro crescita il Tesoro ha ieri pubblicato il decreto sulla garanzia
statale che permetterà alle imprese di cedere alle banche i crediti vantati e certificati verso
la Pa, ultimo tassello per pagare 60 miliardi di arretrati entro l’anno.
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del 08/07/14, pag. 14
«Sfruttamento e molestie»
Rivolta nella coop Mr.Job
La denuncia di un gruppo di addette immigrate vessate e umiliate dal
caporeparto in una società che lavora in appalto per Yoox ● I carabinieri
indagano sui fatti; le aziende annunciano verifiche
Massimo Franchi
Un magazzino dell’Interporto di Bologna, una delle piattaforme logistiche e intermodali più
grandi in Europa. Un centinaio di lavoratrici socie della cooperativa di facchini - con sede a
Modena - della Mr.Job che lavora per uno dei marchi di moda on-line più importanti in
Italia, la Yoox, dal 2009 quotata in Borsa. Se fino al mese scorso gli scioperi delle
lavoratrici erano per denunciare salari da fame e condizioni indegne di un paese civile
(«Facciamo imbustaggio, sigillo e controllo integrità dei vestiti in un magazzino dove
d’inverno si muore di freddo e d’estate di caldo: dovremmo essere part time ma invece ci
chiedono sempre straordinario che poi non ci pagano e non ci concedono pause, io un
mese mi sono ritrovata una busta paga negativa: dovevo ridare 15 euro, naturalmente
senza rispettare il contratto nazionale e il calcolo delle ferie e della tredicesima», racconta
una di loro), da qualche giorno la faccenda è molto più seria e grave.
SFRUTTAMENTO LAVORATIVO
Dodici lavoratrici - in gran parte marocchine - hanno denunciato uno dei loro capi «per una
serie di condotte di sfruttamento lavorativo che vanno dalle offese al credo religioso ad un
caso di molestie sessuali», come spiega l’avvocato Marina Prosperi che le assiste e che è
entrata in contatto con loro tramite il sindacato Si Cobas, molto forte nella rappresentanza
e nella lotta (come nel caso della Granarolo) dei facchini e nella logistica. «Il quadro che
mi è stato prospettato dalle lavoratrici è grave e unico per quanto il sistema era massiccio
e continuativo, visto che va avanti dal 2011», precisa la legale. Uno dei capi della Mr.Job
«ci seguiva in macchina fin sotto casa», ha denunciato una delle dipendenti. E parte le
offese a livello personale («Voi marocchine siete tutte porche») e avances continue («La
prossima sei tu») con i caso di rifiuto altre minacce («Lo racconto alla tua famiglia cosa fai
a letto») e spostamenti forzati («Mi ha messo da sola a cucire in una stanza buia senza
finestre») e umiliazioni («Mi hanno obbligata a pulire gli orinatoi degli uomini mentre loro
erano dentro il bagno »).
Dal punto di vista giudiziario, «dopo la denuncia gli unici a essersi mossi sono i Carabinieri
di Bentivoglio, Comune a Nord Est di Bologna». Per ora «hanno interrogato un testimone,
ma non hanno ancora ascoltato nessuno delle vittime - spiega Prosperi - e la nostra paura
è che i tempi si allunghino, mentre molte delle lavoratrici sono state licenziate o messi in
ferie forzate. Ma quello che ci aspettavamo al più presto era una reazione da parte della
azienda che ha dato l’appalto». La Yoox, la ditta fondata 15 anni fa da Federico Marchetti,
in una nota, ribadisce estraneità ai fatti imputati alla società Mr.Job con il quale «c’è un
contratto d’appalto in un magazzino satellite di Mr.Job, con lavoratori dipendenti di
quest’ultima gestiti in autonomia e sotto la responsabilità di Mr.Job». Yoox, appreso «di
una situazione asseritamente gravissima, ha immediatamente avviato le proprie verifiche
per adottare i provvedimenti del caso». La società ha poi «già richiesto, in via cautelativa,
di non adibire alle attività inerenti a Yoox il personale di Mr.Job che risulta essere implicato
nei fatti, sino al loro al chiarimento». Yoox sottolinea che, al momento della stipula dei
contratti, ha richiesto a Mr.Job, cosi come a tutti i suoi fornitori anche di servizi, l’impegno
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a rispettare gli obblighi in materia di tutela dei lavoratori. Yoox occupa per oltre il 50%
donne e sottolinea di dare «grande importanza al rispetto dei diritti dei lavoratori», recita la
nota.
CAMBIARE LE COSE
Il giudizio di sindacati e avvocati sul comportamento della Yoox non è però totalmente
positivo. «Sappiamo che dopo le nostre denunce stanno cambiando per esempio il bagno
che era unico e in condizioni gravi, ma per quanto riguarda la denuncia per molestie, a noi
risulta che il capo che abbiamo denunciato sia stato messo in ferie, non sospeso. Quando
tornerà dalle ferie c’è il forte rischio che le cose tornino come prima», spiega l’avvocato
Prosperi. Anche perché le lavoratrici parlano di un contratto capestro fra la Yoox e la
Mr.Job: «Prevede 8mila pezzi al giorno mentre noi pur lavorando come schiavi non
arriviamo a 6mila pezzi al giorno e quindi la Mr.Job deve pagare delle penali», spiega una
ragazza della cooperativa.
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