Introduzione di Isoke Aikpitanyi

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Introduzione di Isoke Aikpitanyi
Introduzione
di Isoke Aikpitanyi
Io proprio non volevo scrivere libri e andare in giro di città in città a presentarli.
Quando lasciai Benin City avevo perfino perso l’abitudine di scrivere le cose più normali e quotidiane e non avevo terminato gli studi di base.
Vendevo frutta e verdura con mia mamma e desideravo vendere
frutta e verdura in Europa, dove, con una certa dose di ingenuità, lo
riconosco, credevo che avrei potuto guadagnare davvero bene, abbastanza per migliorare la qualità della mia vita e quella della mia famiglia, di mia madre in particolare, la quale, dopo che mio padre aveva
lasciato casa, provvedeva da sola alla sopravvivenza dei molti figli.
A Benin City, come tante ragazzine e ragazzini, andavo a casa dei
pochi che possedevano una tv e lì è cominciato il nostro inferno.
Che in Nigeria ci fossero i ricchi e i poveri ci sembrava una cosa
inevitabile, anche perché sapevamo dalle storie degli adulti che a
comandare sono sempre i violenti e che ad andare contro le loro
ragioni si rischia perfino la vita. Così dentro a quella scatola magica
vedevamo tutti i nostri sogni.
Avevamo tutte e tutti già avuto contatti con «gli occidentali», i
«bianchi», «ohìbo», li chiamiamo così, e la tv ci dimostrava che loro
venivano dal mondo ricco dove tutti, ma propri tutti, hanno le cose
essenziali e nella lista delle cose essenziali ci sono i simboli del benessere: la casa ben arredata, l’automobile, il cellulare, la scuola, l’ospedale, ecc.
Alcuni di quei «bianchi» avevano cominciato da tempo a proporre
e ad offrire alle ragazze più giovani e belle la possibilità di raggiungere l’Europa e un numero sempre maggiore di ragazze effettiva33
mente giunte in Europa mandava soldi a casa e la qualità della vita
delle loro famiglie migliorava.
Non ci chiedevamo come vivevano quelle ragazze: alcune, in verità poche, tornavano di tanto in tanto a Benin City, piene di oro e di
soldi, piccole regine che tutti rispettavano perché insegnavano ad
altre ragazze come fare per concretizzare i sogni.
Se l’oleodotto che porta il petrolio nigeriano in tutto il mondo
non serviva a rendere più ricco il paese e la sua gente, ma solo i capi
corrotti, un altro «oleodotto», quello che porta persone, forse avrebbe
prodotto effetti diversi come quelli delle «regine» che avevano fatto
i soldi in Europa.
Quando toccò a me allungare le mani per tentare di acchiappare
la mia parte di fortuna in Europa, ero pronta a non farmi troppe
domande e ad affrontare l’avventura.
Io proprio non volevo scrivere libri, ma quel che mi è capitato in
Europa è finito sui libri perché qualcuno la verità la deve pur raccontare ed è toccato a me farlo perché ho visto come un sogno si
può trasformare in un incubo.
Sono stata una vittima della tratta, una schiava.
I miei NO sono stati deboli e alla fine ho accettato tutto, dovrei
dire che ho subito tutto. Ho visto le mie sorelle morire assassinate
per aver detto no a chi le voleva buttare in strada a prostituirsi, ho
visto gli stupri, gli aborti clandestini, le malattie in corpi così giovani e sani da non aver mai conosciuto malattie in Africa.
E se in Africa una malattia arrivava, c’erano persone come mio
nonno che le curavano con i metodi antichi, erbe e riti di una magia
buona che scacciavano il male, il dolore e la morte.
Ad un certo punto mi sono ribellata ai miei sfruttatori, ho detto
«basta» e sono stata quasi uccisa. Uccidermi non era una punizione
per me, in fondo con migliaia di ragazze sfruttate, se una scappa,
sparisce, finisce in galera o muore, il mercato non soffre, ma con me
valevano considerazioni diverse: io ci avevo già provato ad aiutare
altre ragazze a non finire nell’inferno della prostituzione. I trafficanti non avevano prove, ma insieme ad altre ragazze avevo fatto in
modo che una bambina non patisse ciò che era toccato a noi ed avevo coperto la sua fuga. Quando dissi «basta», altre ragazze stavano a
guardare, spaventate, che cosa mi sarebbe successo. Punirmi e uccidermi sarebbe servito ai trafficanti per dare una lezione a tutte: non
si «tradiscono» la maman e i suoi amici, non si sfugge al mercato.
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Dopo anni dalla mia ribellione, il voodoo non mi ha ancora uccisa
e tante ragazze cominciano a credere che la storia del voodoo che le
punisce se non obbediscono alle maman e ai loro collaboratori, sia
solo una colossale bugia e serva davvero solo a tenerle sottomesse.
La famiglia in Africa potrebbe pagare a caro prezzo la ribellione
delle ragazze in Europa, e anche questa è una paura che le costringe a non ribellarsi e a prostituirsi per poter pagare un debito assurdo, che oggi tocca ormai anche i 100 mila euro «negoziabili». La
mia famiglia non ha pagato perché mia madre è morta di un brutto
male, i miei fratelli sono pezzi d’uomini che sono in grado di difendersi adeguatamente, e io sono diventata «importante», in Europa e
in Nigeria, per un mio libro che racconta la verità della tratta delle
nigeriane. I trafficanti fanno soldi e di quelli si preoccupano, non
hanno più nessun interesse a mettersi nei guai colpendo una persona ormai un po’ in vista come me.
Ma «prima o poi…», lo dicono le maman alle ragazze, ancora oggi. Ogni volta che in tv o in giro si parla di me e le ragazze chiedono, ingenuamente anche loro, «ma chi è quella Isoke», «cosa dice»,
«ma è vero che», «no, non è vero niente – dicono le maman – quella
fa solo il suo interesse – ed è morta, è come se fosse morta».
Oggi i miei parenti in Nigeria mi dicono che quando tornerò a
Benin City dovrò stare attenta a chi mi vuol male, perché non ci vogliono tanti soldi per pagare un mafiosetto (la tratta è un commercio della mafia) perché mi faccia del male: bastano 50 euro, anche
meno, lo stipendio di un diseredato del mio stesso villaggio che non
ce l’ha personalmente con me, ma vuole solo intascarsi quei soldi.
Tutto questo per aver detto «basta», aver scritto un libro e girare
di città in città a parlarne.
Io non volevo scrivere libri, ma se i trafficanti hanno paura del
semplice coraggio di piccole persone come me, allora vuol dire che
possono essere sconfitti se non sono solo io a parlare e se tanti
ascoltano.
Ho ascoltato un tam tam sbagliato, la voce di tante che seminavano illusioni e speranze, ho pagato caro il mio errore e adesso ho
preso il mio tamburo per lanciare il mio messaggio. Lo faccio con i
libri e con le testimonianze dirette.
Ma sono ancora e sempre la stessa Isoke che sognava ad occhi
aperti davanti alla tv di un vicino di casa e pensava che l’Europa era
il paradiso; sono la stessa ragazza lontana dagli intellettualismi e
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perfino dalla cultura, perché sognavo una vita semplice ed essenziale. E purtroppo sono anche la stessa che è stata vittima della tratta, clandestina e costretta a prostituirsi.
In questo libro raccolgo la voce di tante altre Isoke che cercano
una via di uscita, quasi sempre senza trovarla. Ma la via di uscita c’è
e, per quel che posso, la indico ad altre.
Se per far questo devo anche scrivere libri, li scrivo, con l’aiuto di
tante persone che credono che dietro ai miei racconti e alle mie
opinioni, c’è quanto basta per far aprire gli occhi a tante ragazze,
affinché non entrino nella tratta, a tante perché ne escano, e agli europei perché capiscano di esser stati tutti complici di una logica di
mercato che vende e compera tutto, anche le persone, anche le
nuove schiave.
Dopo aver partecipato al G8 contro la violenza sulle donne (Roma, 2009), alla ministra Carfagna che mi offriva il suo appoggio, ho
chiesto di sostenermi nella realizzazione di un progetto per me molto ambizioso: fare un’indagine nazionale sulla realtà sommersa delle
ragazze nigeriane vittime della tratta.
La ministra ha deciso di darmi una mano. Il suo è stato un significativo gesto di fiducia. Credo che la sua decisione di sostenermi consenta di fare un nuovo positivo passo in avanti rispetto a tutto ciò
che, in passato, ha portato ad analizzare le problematiche della tratta
considerando le vittime come oggetto di studio da parte di esperti e
specialisti e non come soggetto attivo e come protagoniste principali
anche nella individuazione di soluzioni per i loro problemi.
Quel che chiedo, da sempre, e quel che chiede l’Associazione vittime ed ex vittime della tratta, che ho costituito insieme a tante amiche, all’interno del Progetto «La ragazza di Benin City», è proprio
essere ascoltate, aver voce, veder riconosciuto il fatto che siamo propositive e trovare riscontro istituzionale e sociale alle nostre richieste.
Il punto di avvio e i sostenitori dell’indagine
Non sono una studiosa, una ricercatrice, una sociologa, una giornalista, quindi per fare l’indagine non avevo a disposizione altri
strumenti che la collaborazione di altre ex vittime come me: Vivian
di Padova e Sharon di Firenze hanno lavorato al mio fianco.
Abbiamo fatto un bel gruppo di lavoro e la nostra unica difficoltà
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è stata mettere per scritto la nostra indagine, una difficoltà pratica,
linguistica, culturale.
Pratica perché abbiamo avvicinato tantissime ragazze e abbiamo
dovuto mettere insieme e poi analizzare le risposte al questionario
che abbiamo proposto loro. Non è stato facile.
Linguistica perché nessuna di noi ha fatto studi regolari e, pur vivendo in Italia da tempo, non siamo delle ricercatrici «professioniste» e anche con la lingua italiana abbiamo delle difficoltà. I tempi
di redazione sono stati lunghi e faticosi.
Culturale perché ci siamo rese conto che per completare un’indagine come la nostra non basta avvicinare le ragazze, intervistarle e
mettere per iscritto le loro risposte, ma bisogna tener conto di una
serie di problemi: abbiamo incontrato ragazze che ci raccontavano i
loro problemi e noi non potevamo ascoltarle con superficialità, raccogliere le loro risposte al questionario e andarcene via.
Così è cresciuto il numero delle ragazze che, in qualche modo, ci
hanno chiesto quel sostegno che non trovano altrove, e sono tantissime.
Abbiamo avuto incoraggiamento e consigli da alcune donne italiane e, in particolare da una sociologa, la dottoressa Lorenza Maluccelli di Bologna, docente all’Università di Ferrara, autrice di saggi e ricerche; e da una giornalista, Laura Maragnani, che mi ha a
lungo accompagnata nella mia maturazione personale.
Che cosa è il Progetto «La ragazza di Benin City» di cui è espressione la mia Associazione vittime ed ex vittime della tratta?
È sorto come un progetto, solo come un progetto.
Ed è un progetto nato nella testa del mio compagno di vita,
Claudio Magnabosco, quando, dopo che ci incontrammo per caso a
Torino, iniziammo insieme un percorso che avrebbe portato me
fuori dalla tratta di cui ero vittima, e lui fuori da un senso di impotenza contro i trafficanti di esseri umani e di colpa per esserne stato,
in qualche modo, complice, avendo cercato una scorciatoia per risolvere i suoi problemi affettivi irrisolti.
È stato lui a pensare che dovevamo avere «un progetto» per non
essere in balia del caso. E siccome, però, non sapeva proprio da dove cominciare, fece la sola cosa che – dice lui – sa fare: scrisse un libro, un romanzo-verità nel quale raccontava di me e di lui, una giovane nigeriana e un maturo uomo bianco, e dei problemi che ci trovavamo ad affrontare per uscire dal dramma della tratta.
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«Quel» libro, Akara-Ogun e la ragazza di Benin City, edito da Jaca
Book nel 2002, diventò il manifesto del nostro progetto: ebbe un
grande successo; i suoi lettori, però, non erano attratti dalla forma
letteraria o dal romanticismo della storia, ma dal fatto che moltissimi di loro potevano ben dire ciò che cominciarono a scrivergli: «anche io ho conosciuto una ragazza nigeriana, e non so come rendermi utile e lei…».
Il nostro progetto personale divenne, così, il progetto di tanti e
divenne il Progetto «La ragazza di Benin City», articolato in diversi
tipi di attività e sostanzialmente volto a sollecitare istituzioni, associazioni antitratta, opinione pubblica a interessarsi in modo più efficace al problema della tratta delle nigeriane.
All’epoca Claudio ed io non vivevamo ancora insieme e quando,
finalmente, mi liberai e andai a vivere con lui, ebbi una prima sorpresa: ogni fine settimana a casa arrivano maschi italiani che volevano parlare con lui. E ogni uomo era accompagnato da una ragazza africana.
Non ci volle molto perché, in modo automatico, io cominciassi ad
occuparmi di queste ragazze che vedevano in me la prova che era
davvero possibile uscire dalla tratta, mentre io che ne ero appena
uscita in realtà ero ancora piena di dubbi e di timori.
Claudio ed io decidemmo che il Progetto doveva restare informale e non gli demmo mai una organizzazione vera e propria: il
nostro era un progetto di vita e se anche altri, oltre a noi, volevano
darsene uno simile, tanto meglio, nessuno avrebbe dovuto affrontare da solo le difficoltà che una scelta di quel genere porta con sé.
Ai media inizialmente interessò parecchio la storia di questo maschio che da cliente di una ragazza costretta a prostituirsi, diventa
operatore sociale che lotta contro la tratta: ed interessarono le storie
di altri, tanti uomini come lui che aprivano sulla realtà e sul problema dei clienti uno squarcio del tutto nuovo.
Una giornalista, in particolare, venne ad Aosta per incontrare
Claudio e la sua idea era far uscire un libro sui clienti: Laura Maragnani, giornalista di Panorama, arrivò ad Aosta, si trattenne alcuni
giorni, chiacchierò a lungo con lui e con me e quando ripartì ci comunicò che il libro sui clienti non lo avrebbe scritto, ma che avrebbe
voluto scrivere un libro con me.
Era il 2006, io mi occupavo già di molte ragazze nigeriane, le accoglievo a casa mia, davo loro conforto, sostegno, le accompagnavo
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nella ricerca di una via di uscita, ben sapendo che non c’è quasi mai.
A me le associazioni avevano negato il sostegno di cui avevo bisogno
e io mi liberai dei trafficanti da sola: fui quasi uccisa, sopravvissi ad
una aggressione punitiva e dopo alcuni giorni di coma e dopo aver
salvato grazie ad un delicato intervento un occhio che avrei potuto
perdere, decisi da sola di dire basta.
Laura mi ascoltò, trascrisse i miei racconti e nel 2007 uscì il
mio/suo libro Le ragazze di Benin City, edito da Melampo, che mi ha
dato notorietà ed ha impresso una svolta al progetto: dalle prime 47
ragazze nigeriane delle quali parlai nel libro, sono passata alle oltre
300 con le quali ho deciso di costituire un’associazione, l’Associazione vittime ed ex vittime della tratta e poi alle centinaia che ho potuto avvicinare realizzando questa indagine sulla realtà sommersa
delle nigeriane vittime della tratta, con il sostegno del Dipartimento
Pari Opportunità.
Avevo venti anni quando questa avventura è iniziata e oggi ho
passato i trenta; non ero una intellettuale, una giornalista, una scrittrice non lo sono neppure ora. Se in Africa la mia famiglia aveva
gravi problemi economici e non mi fu possibile studiare, in Italia la
quotidianità mi assorbe talmente che non ho tempo per me, né per
studiare, né per metter su famiglia, trasformando la vita che condivido con Claudio da ormai dieci anni in «quel» progetto che decidemmo di iniziare anni fa: combattere la tratta delle nigeriane.
Questo libro è tratto direttamente dalla indagine e dal mio lavoro
quotidiano.
Credo sia un libro importante, lo è per me, perché se nel precedente raccontavo di me e di tante altre, in questo metto insieme
domande e risposte non per me che ho le risposte perché sono e sarò sempre una vittima della tratta, ma per tutti coloro che nella
realtà della tratta operano, intervengono, studiano, ecc. e per una
opinione pubblica che pur avendomi spesso ascoltata, attribuendomi anche dei premi, non ha capito che Isoke non è un caso, ma è
una voce, la voce di tantissime vittime della tratta.
L’indagine è stata realizzata da me con l’aiuto di altre due ragazze nigeriane, Vivian e Sharon, come me vittime della tratta e con
me convinte che un nuovo progetto sia necessario: dare alle ex vittime della tratta un ruolo centrale nel sostegno di ragazze ancora
vittime della tratta.
Questo è il progetto, il Progetto «La ragazza di Benin City», che
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non ha avuto per lungo tempo neppure uno Statuto, un organigramma, una struttura, ma ha il cuore e le mani di tante e di tanti.
Dipende ora dai lettori decidere se Vivian e Sharon devono e
possono, come me, darsi una visibilità maggiore; dipende da come
questo libro sarà accolto in tutti gli ambienti.
Io posso solo dire che un minimo di organizzazione, dopo dieci
anni di lavoro, il Progetto «La ragazza di Benin City» se lo è pur dovuto dare, ma lo spirito no, quello è sempre lo stesso e chi si avvicina a noi sappia che a tutti chiediamo un cambiamento nei progetti
di vita. Chi conosce il dramma delle ragazze e delle donne nigeriane non può fare diversamente, se davvero vuol fare qualcosa.
Oggi quel «progetto» è un’associazione, formalmente costituita,
che conserva nella sua attività quotidiana lo slancio spontaneistico
del suo avvio.
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