Adriano Bernacchi, l`arte di dirigere la fotografia

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Adriano Bernacchi, l`arte di dirigere la fotografia
Adriano Bernacchi, l'arte di dirigere la fotografia
Scritto da Ezio Rotamartir
In questo numero la figura professionale che andiamo a conoscere è un signore serio,
preparato e molto simpatico che ci parla e ci illustra un altro aspetto dell’immagine, quello della
fotografia prestata al cinema e al mondo delle immagini in movimento. Chiacchierare con lui è
stato un piacere tale che il tempo è volato, parlando delle sue mille imprese e avventure e ci
siamo salutati con l’impressione di aver incontrato un gentiluomo di altri tempi.
Ladies and Gentlemen: Adriano Bernacchi.
osservatorio digitale: Ci racconta un po’ della sua storia professionale?
Adriano Bernacchi: Lavoro come Direttore della fotografia, membro dell’AIC, principalmente
per strutture di produzione specializzate in sitcom per le reti Mediaset. Credo di essere stato
uno tra i primi a farlo nel 1987 con “I Taliani”, sitcom interpretata dagli allora famosi TreTre, fino
ad arrivare ad oggi con la produzione della nuova serie di “
Don Luca c’è”,
con Luca Laurenti, prodotta da Endemol. Nel mezzo c’è stata una vita di televisione,
praticamente la maggior parte delle situation-comedy più note come “
Casa Dolce Casa
” con Gianfranco D’Angelo e Enzo Garinei, seguita da “
Andy & Norman
” tratta dal lavoro teatrale di Neil Simon, con una splendida scenografia su due livelli, poi ancora
“
Nonno Felice
” con Gino Bramieri a cui seguì “
Norma e Felice
” (Norma interpretata da Franca Valeri, quindi due mostri sacri) e “
Casa Vianello
", sicuramente la sitcom per la quale ho fatto il maggior numero di serie, e “
Cascina Vianello
”, della quale abbiamo girato una serie in pellicola e una in video, “
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Io e la Mamma
” con Gerry Scotti e Delia Scala che poi divenne “
Finalmente Soli
” con Maria Amelia Monti, il “
Mammo
” con Iacchetti e Natalia Estrada. Più o meno nello stesso periodo abbiamo iniziato le
registrazioni di “
Quelli dell’Intervallo
” prodotta da Grundy Italia per Disney Television, una serie davvero molto fortunata che ha
avuto un successo tale da diventare un format internazionale che, mi dicono, si sta registrando
in tutto il mondo, dall’Australia alla Cina, e naturalmente in Europa. Una serie girata con una
monocamera montata su un braccio che si muove un po' dappertutto e dove la scenografia
rappresenta l'atrio di una scuola con una grande finestra dove i ragazzi si riversano nell’ora
dell’intervallo e succede di tutto, e dove ci si immagina la stessa situazione all’età della pietra o
nel medio evo, e molto altro! In poche parole, una serie che è piaciuta davvero molto e ha avuto
un enorme successo.
od: Un lavoro con soggetti diversi ma dove si impiegano le stesse tecniche?
AB: Direi di no: ora, per esempio, questa nuova serie è anche una grande sfida. La scenografia
è molto bella, assolutamente vera, le storie si svolgono a diverse ore del giorno e della notte,
quindi l’importanza delle luci, in questo caso, è fondamentale. Con la scenografia ho concordato
i punti luce da arredo urbano, veri lampioni e punti luce sotto i portici, e all’interno i punti luce
che esistono nella realtà dove i vari tipi di illuminazione si mescolano e si confondono, come la
luce dei lampioni con quella delle vetrine dei negozi o delle finestre e degli androni delle case.
Registriamo con quattro e a volte cinque telecamere contemporaneamente, (una camera su
braccio) e il problema è che la luce deve andare bene per tutte le angolazioni, ma soprattutto
per i visi degli attori visti contemporaneamente da vari punti. L’altro problema è che si tratta
comunque di una sitcom per cui l’immagine non può essere troppo drammatica ma piuttosto da
commedia brillante.
od: Le riprese ormai sono tutte in realizzate in digitale.
AB: Sì, abbiamo la fortuna di lavorare con telecamere splendide, ad alta definizione. Le
immagini sono in formato 16:9 molto più bello, cinematografico, con maggiore profondità. Per
quanto mi riguarda è la prima volta che lo uso in una sit-com, trasgredendo alla norma del tipico
4:3.
od: Come ha cominciato questa professione?
AB: Mi sono sempre interessato e dilettato di fotografia, ne ho fatte tante e continuo a farne,
vengo dalla pellicola e dal bianco e nero, dai documentari industriali: allora, tra Milano e Torino,
se ne facevano tanti. AlfaRomeo, Fiat, Pirelli, Marelli, Edison, posso dire di aver girato in tutte le
grandi industrie di queste città. A Milano si produceva la maggior parte degli spot di Carosello,
vere brevi storie con tanto di personaggio fisso, con un finalino pubblicitario, come quelli della
Linetti con l’infallibile Ispettore Rock, quelli di Mellin e altri ancora (ne ho fatti tantissimi, tutti
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girati in pellicola naturalmente, in 35mm bianco e nero).
Come ho iniziato? Autoproducendomi (con il denaro messomi a disposizione da mio padre) un
documentario in 16mm su una scuola di Milano per bambini audiolesi, la Giulio Tarra, che era il
fiore all’occhiello della città. L’idea mi venne con un mio amico che sarebbe poi diventato
fotoreporter e giornalista. Riuscii a cederlo al Comune di Milano che me ne commissionò subito
un altro in 35mm. Quest’ultimo lo vide un regista documentarista molto noto, Francesco Maselli,
che si entusiasmò al genere di fotografia molto semplice che avevo usato e che mi fece
sottoscrivere un contratto grazie al quale realizzai subito una serie di documentari con lui in
Sicilia.
Credo che nella vita giochi molto la fortuna e la casualità. Tornando da Roma in aereo incontrai
un vecchio amico che non vedevo da anni, produttore di documentari, film istituzionali e spot
pubblicitari, che mi propose una serie di filmati per Alitalia, così sono stato con lui a realizzare
filmati in giro per il mondo, dal Giappone al Canada, dall’Alaska al Kenia, dal Brasile agli Stati
Uniti. Avevo già avuto la fortuna di inaugurare la rotta polare Parigi-Tokyo di Air France anni
prima, per un altro produttore e regista. Allora volammo con aerei ad elica Lockheed Super
Constellation, 36 ore con sosta ad Anchorage. Ho un simpatico attestato che ci rilasciò il
comandante del volo: certo allora viaggiare era davvero un’impresa... Parliamo dei primi anni
’60: fu proprio in occasione del primo viaggio in Giappone che acquistai la mia prima reflex, una
Pentax con obiettivo Takumar 50mm. In Giappone ci fermammo tre mesi (a Kyoto) e
realizzammo una serie di documentari oltre a quello istituzionale per Air France. Una troupe di
sole tre persone provenienti dall’Italia più due reclutate sul posto, la mia Arri 35mm e un po’ di
scatole di EastmanColor!
Poi la stessa rotta la rifeci per i documentari di Alitalia, ma nel frattempo la durata del volo si era
ridotta della metà circa, in compenso e per fortuna era aumentato il numero di componenti la
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troupe. Ma c’è qualcosa di molto divertente che ho fatto a quell’epoca con la fotografia… (sorrid
e
)
od: Che cosa?
AB: Per anni ho lavorato ai fotoromanzi: in quegli anni c’erano vere e proprie star che vi
apparivano, personaggi del calibro di Corrado Pani, Gastone Moschin o Mike Bongiorno.
Ricordo ancora quando Mike veniva sul set con la sua bellissima auto sportiva americana, una
Corvette StingRay. Mi chiamò un amico, che era stato incaricato da Mondadori prima per
scrivere i testi e poi per dirigerne la realizzazione, che mi presentò al direttore di Bolero (
stor
ico periodico della Mondadori, ndr
), e così iniziai.
Allora si scattavano fotografie in formato 6x6 con il cavalletto, il flash e i proiettori, mentre io
chiesi di cambiare, di passare al formato 24x36 perché più agile, più elastico per via del numero
di ottiche disponibili, utilizzando quando possibile la luce ambiente, per raccontare a volte storie
vere. Come pellicole utilizzavo le Ilford HP4, perché le storie erano realizzate in un primo tempo
solo in bianco e nero. Mi ero assemblato un bel corredo Pentax perché ero un appassionato del
marchio (poi, con il digitale, sono passato a Canon).
Insomma, avevamo un po’ rivoluzionato il modo di riprendere le scene, con la macchina in
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mano e, quando c’era bisogno, si utilizzavano sempre i flash ma dislocati sulla scena, pilotati in
remoto non direttamente, così da bloccare il movimento dell’azione. Se vogliamo, quel mondo si
è poi trasformato in quello che oggi sono le soap opera. Pur continuando a fare il direttore della
fotografia di documentari, ho fatto per anni i fotoromanzi che mi sono serviti moltissimo anche
per l’altro lavoro perché quella è stata una palestra visiva decisamente importante. Bisognava
imparare a vedere la scena in modo corretto e definitivo da subito, dato che gli scatti, allora,
non erano certo ritoccabili in Photoshop: quando eri sul set dovevi fare attenzione che
nell’inquadratura non rientrasse nulla che poi potesse rivelarsi di disturbo per l’immagine finale.
Ancora oggi può capitare di chiedere di spostare una camera perché magari c’è una pianta che
esce da un orecchio di un attore o altro che può anche ridicolizzare l’inquadratura.
Nei primi anni Ottanta mi chiamarono da Roma per una produzione della compagnia televisiva
americana PBS. Burt Lancaster avrebbe raccontato la vita di Giuseppe Verdi nei luoghi
verdiani. La prima inquadratura (con il cuore in gola) fu un totale dell’interno del teatro alla
Scala con il grande attore che entrava e le luci dei palchi a mezza potenza come ad inizio
spettacolo. Lo stesso feci a Venezia alla Fenice, ma per giorni e giorni avevamo preparato
talmente bene tutto sia a tavolino che con i sopralluoghi che filò tutto liscio, comprese le
proiezioni serali del girato presenti tutti. Per me fu un piacere e un onore lavorare con lui e con
tutto il gruppo del regista americano. La Scala, la Fenice, la Casa di riposo per musicisti, il
Museo del Risorgimento e poi Busseto, Roncole, interni ed esterni, tutto in 35mm e in presa
diretta: faticosissimo, ma alla fine abbiamo fatto un ottimo lavoro.
In seguito per la stessa PBS ho fatto altri lavori ancora alla Scala, ma ho lavorato anche varie
volte per BBC (conservo qualche lettera attestante la buona riuscita delle riprese).
E, a proposito di opere, ho diretto la fotografia di due eventi unici, all’Arena di Verona (conservo
i due poster fotografici) Il primo fu una Messa da Requiem diretta da Lorin Maazel, interpretata
da Luciano Pavarotti e con ben tremila coristi venuti dai teatri di tutto il mondo (gli uomini in
nero, le donne in camicetta bianca, non il massimo per le camere di allora). Dovetti piazzare le
luci il giorno stesso della registrazione, in pieno sole, sperando che fossero giuste per lo
spettacolo serale, e mentre fervevano le prove. Malgrado le difficoltà del pochissimo tempo a
disposizione, il risultato fu raggiunto e fummo talmente fortunati che a un certo momento dello
spettacolo sorse da dietro il coro la luna (si vede nel poster). Il Padre Eterno aveva voluto
aggiungere una sua splendida luce! L’altro fu il balletto “
Zorba il Greco
” con la direzione musicale dello stesso compositore Mikis Theodorakis e con 400 artisti in
scena.
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od: Qual era il lavoro che prevaleva?
AB: Non saprei dirlo con precisione, avevo un certo numero di lavori per Mondadori e il resto
del tempo lo dedicavo ai documentari. Questo mi portò anche a realizzare dei documentari
molto interessanti come quello che mi assegnò la Mondadori sulla realizzazione del palazzo di
Segrate, che filmai dagli scavi fino al completamento dell’opera, compresa un’intervista a Oscar
Niemeyer (architetto ideatore del progetto, ndr). Realizzai poi diversi documentari per
Mondadori, il rivoluzionario stabilimento tipografico di Cles, le attività di Topolino allora edito
dalla Mondadori, la cartiera di Ascoli e altri.
Ho fatto molti documentari d’arte (sempre come direttore della fotografia). Guttuso, Baj,
Mischef, Vangi, i pittori naif, il ciclo di Giotto nella basilica superiore di Assisi, Michetti,
Futurismo, Surrealismo, Artemisia Gentileschi sono quelli che ricordo ma l’elenco è molto più
lungo. Allora stavo anche alla macchina, occorreva fare movimenti precisi e combinati tra
panoramiche e zoom, per descrivere le opere d’arte nei particolari.
od: Quale ruolo ha oggi la fotografia per lei?
AB: È sempre la mia passione. Ho qualche progetto nel cassetto che mi piacerebbe realizzare.
Praticamente avrei pronti tre libri che, forse, sono destinati a rimanere solo sogni. Riguardano le
grandi cattedrali dove la luce gioca un ruolo importante e che, riprese con la tecnica del time
lapse, si trasformano in un grande spettacolo. Oppure sull’attenzione ai dettagli degli oggetti
che ci circondano quotidianamente e la loro relazione con la luce. Ancora, un progetto sulle
vetrine della moda con foto un po’ rubate, alla giapponese, ma che raccontano molte storie.
Molte di queste foto le ho scattate mentre camminavo per strada, come un vero turista, con la
mia
PowerShot Pro 1 della Canon, una fotocamera semi-pro (presentata nel 2004 e oggi
fuori produzione, ndr), che aveva caratteristiche formidabili come la funzione TimeLapse, un
obiettivo con elementi in fluorite 28-200mm e la possibilità di scattare in RAW. Era troppo
evoluta, l’hanno ritirata quasi subito dal mercato.
Per me la fotografia è troppo importante, io cerco di imparare e sperimentare ancora come
facevo da ragazzo: sono abbonato da sempre all’American Cinematographer (organo ufficiale
dell’ASC, l’associazione dei DF americani) e non vedo l’ora che arrivi mensilmente per leggere
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cosa c’è di nuovo, come stanno lavorando i grandi di Hollywood e con quali nuove tecniche.
od: Quanto conta la fotografia nel cinema o nella televisione, oggi?
AB: Moltissimo. Prendiamo ad esempio le serie televisive americane. La fotografia è parte
integrante del racconto, rende immediatamente identificabile la serie. Alla fine di ogni
produzione, proprio per ottenere una certa cura anche per quanto riguarda la fotografia, vado in
post-produzione per la “color correction” in modo da legare i toni e i colori delle scene montate
in sequenza, bilanciare i neri, rendere più equilibrata l’intera serie prima che vada in onda.
od: Ma come si svolge il lavoro del direttore della fotografia?
AB: Prendiamo ad esempio questo nuovo lavoro che sto affrontando. Una volta decisa la
produzione da parte del network televisivo, dove vengono scelti gli attori e definiti i budget, mi
incontro subito con chi si occuperà della scenografia e con il regista, così da capire la giusta
direzione da prendere. Con il regista decidiamo quale tipo di fotografia utilizzare, il look
insomma, dopodiché ho vari altri incontri con gli scenografi per capire come posizionarci in
studio, valutare gli spazi necessari sia per la scenografia sia per le luci, così come per la scelta
dei materiali e dei colori da utilizzare, perché ci sono colori e materiali che sono più idonei a
essere utilizzati con le telecamere rispetto ad altri.
Visto che in questo caso la scenografia è piuttosto complessa e posizionare le luci in un
secondo tempo sarebbe stato difficoltoso se non impossibile, è stato tracciato a terra il
perimetro della scenografia stessa per poter posizionare il grosso del piazzato luci prima
dell’inizio delle costruzioni. In seguito, a mano a mano che la scenografia veniva costruita, sono
state inserite le altre luci nei punti corretti, in base anche all’arredamento e secondo gli
spostamenti e posizionamenti degli attori.
Per quanto riguarda la misurazione della luce utilizzo principalmente un luxometro, perché mi
dà all’istante il valore della luce in un certo punto della scena, anche se ho sempre a portata di
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mano un esposimetro, sempre a luce incidente, analogico. Uso anche un termocolorimetro per
bilanciare il colore delle varie sorgenti luminose.
od: Da chi è composta la squadra del direttore della fotografia?
AB: Da un gruppo di elettricisti e un capo-elettricista che fanno capo al direttore della fotografia
e ne costituiscono lo staff. È di vitale importanza la collaborazione con il controllo camere con il
quale decidere e a volte variare i parametri relativi alle camere per ottenere il risultato
fotografico che ci si è prefissi.
Un tempo chi faceva il mio lavoro veniva chiamato datore luci. Adesso tante cose sono
cambiate, da tempo ormai lontano anche in televisione esiste il direttore della fotografia.
L’associazione che riunisce un buon numero di direttori della fotografia cinematografica, l’AIC,
annovera ora molti professionisti che si occupano di fotografia televisiva.
Un piccolo ricordo: quando mi hanno accolto tra i soci AIC possedevo ancora la mia vecchia
macchina da presa Arri 35 che ora riposa - dopo tanti metri di 35mm macinati - presso il Museo
dell’Associazione a CineCittà.
od: Per il suo lavoro utilizza anche dei computer?
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AB: Sì, anche perché mi appassiona molto. Uso principalmente Photoshop per posizionare le
luci sul disegno della scenografia. Per la sitcom che sto realizzando ho fotografato il modellino
della scenografia e l’ho posizionato sotto lo schema della griglia delle americane che sono
montate in studio. Al computer disegno e numero tutti i punti luce così da averli sotto controllo
soprattutto quando siamo al mixer luci e si deve intervenire rapidamente su un proiettore
piuttosto che su un altro.
Ultimamente mi sono dedicato anche allo studio delle illuminazioni architetturali. Ho fatto uno
studio per illuminare una parte del comune di Bellagio, sul lago di Como, e anche questo l’ho
realizzato tutto al computer (uso esclusivamente Mac). Per un’azienda industriale con la quale
collaboro da molto tempo, a parte una campagna fotografica, sto occupandomi
dell’illuminazione architetturale degli edifici in fase di costruzione. Ho creato dei modelli
tridimensionali per dare l’idea di come sarà appunto tutta la nuova struttura illuminante dall’atrio
agli uffici, dai parcheggi alle aree verdi circostanti.
Oggi, con il computer, si può fare di tutto, basta avere il tempo di imparare e di provare, poi ci si
può anche divertire.
od: Mi sembra di leggere tanto entusiasmo in tutto quello che fa.
AB: Un motivo di grande entusiasmo è stato un ciclo di lezioni (ma le definirei più chiacchierate)
tenute tramite Mediaset agli allievi dell’Accademia del Teatro alla Scala, sia presso l’Accademia
sia presso gli studi di Cologno dove stavo realizzando la serie “Finalmente soli” con Gerry Scotti
e Maria Amelia Monti.
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Come dicevo all’inizio, credo di essere stato particolarmente fortunato per aver potuto fare
questo lavoro. Quando fotografo o illumino un set sono sempre affascinato dalla luce, da come
si comporta quando colpisce gli oggetti, da come la si può controllare o manipolare. Ci metto
tutta la passione che posso ed è questo, probabilmente, che mi ha permesso di vivere la mia
professione come se fosse un hobby.
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