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Autobiografia semiseria Sono nato sotto il segno dei gemelli, nel caldo afoso del giugno 1954; anno che, oltre al sottoscritto, vede la nascita parimenti significativa della Televisione Italiana, con un primo canale sperimentale e con un palinsesto ancora abbastanza limitato. Pochi anni dopo, complice una fortunata trasmissione del maestro Manzi e la diffusione sempre più massiccia di apparecchi televisivi nelle abitazioni della penisola, l’elettrodomestico catodico avrà già contribuito in maniera efficace al processo di unificazione linguistica della nazione. Con l’acquisto del primo televisore Brionvega, reso possibile dai fasti del miracolo italiano, intanto la mia famiglia aveva garantito l’unificazione di tutto il condominio nelle ore serali di programmazione e di almeno quattro isolati confinanti con il nostro. Col motto “non è mai troppo tardi” di manziana memoria, gli Anni ‘60 arrivano dalle mie parti come un treno in forte ritardo, ma hanno comunque il loro bravo peso nella formazione culturale e politica di un ragazzo sensibile, ancora traumatizzato dai film di Ubaldo Lay e dai misteri gotici di Belfagor, fantomatico fantasma del Louvre. Ascolto musica progressive, con un occhio di riguardo per la Pfm ed il Banco del Mutuo Soccorso, leggo le poesie musicali di De Andrè e della premiata ditta Mogol-Battisti, imparo l’inglese con i successi dei Pink Floyd. A scappatempo, cerco di investire le residue riserve economiche di famiglia (il boom economico era ormai un lontano ricordo) in una laurea in Lettere moderne da conseguirsi presso l’Università di Siena, che potrebbe diventare utile negli anni a venire. Dall’81, a laurea ottenuta e dopo poche settimane di meritato riposo, inizio a svolgere una professione a contatto continuo col pubblico; ciò che gli esperti chiamano oggi, con un terribile neologismo: lavoro di front-office. A tutti coloro che entrano in ufficio e mi chiedono come sto, rispondo subito di sentirmi benissimo, di godere di splendida salute, di avere le analisi da guinness dei primati, salvo una minima doverosa attenzione ai valori del colesterolo cattivo, brillantemente compensati da quelli incoraggianti del colesterolo buono. Per di più, dimostro di non soffrire nemmeno di quella carenza ormonale, tipica di moltissimi maschi adulti, che produce un’inarrestabile e 7 Autobiografia semiseria irreversibile lacuna: la perdita dei capelli. Non mi comporto così per dispetto alla scaramanzia o per darmi delle arie; le mie ragioni, ne sono sicuro, hanno radice e trovano giustificazione analitica in quel periodo della mia vita che, partendo da un anno di nascita così mediatico e passando per i giorni gloriosi di Carosello, arrivano a quel momento delicato della vita, comunemente definito come età dello sviluppo. Spieghiamoci meglio. Mia madre era una donna dolce e amorosa, ma soffriva di ipocondria; questo problema, in qualche modo, aveva finito per condizionare anche la mia esistenza. Quando stava male lei, quasi automaticamente trovava qualche sintomo comune da passare a suo figlio. In questo modo costringeva mio padre, per periodi ciclicamente regolari, a farmi visitare da medici e specialisti per l’infanzia consigliati da conoscenti o parenti considerati senz’altro affidabili. Così, sono cresciuto convinto di essere portatore per tutta la vita di una forma grave di eczema o, almeno, di esuberi cutanei mal guaribili di crosta lattea. Ancora: di non poter sudare come tutti i miei coetanei, di dovermi sottoporre, ogni estate, a drammatici cicli di iniezioni dolorose ma ricostituenti, per affrontare al meglio il successivo anno scolastico o l’autunno in generale; periodo che, sosteneva la mamma, coincideva con un oggettivo esaurimento del fisico che non andava senz’altro trascurato. Avevo cominciato a essere definito “malaticcio” nell’età più tenera, quando un bambino o è normale o ha problemi per davvero; io risultavo titolare di una via di mezzo: non avevo disfunzioni gravi, ma dovevo essere tenuto sotto controllo: perché mangiavo poco, ero troppo magro, sudavo più del normale (specialmente quando correvo infagottato come un eschimese in tiepide giornate primaverili), non gradivo certi cibi e mi si screpolavano le mani e altre parti del corpo che è meglio lasciare sotto silenzio. La mamma, pur essendo costantemente preoccupata di questo figlio un po’ “diverso”, andava però fiera della mia intelligenza e di una memoria imitativa che riteneva fuori dal comune; una sorta di registratore domestico di tutto il buono che la televisione italiana del periodo riversava nelle case, subito dopo il rito collettivo del telegiornale serale. Qualità che compensava in parte, nei suoi pensieri, quella indefinibile carenza di salute. Davanti a pediatri e medici specialisti, dopo avermi quasi costretto a offrire gratuitamente l’imitazione di Calimero e degli abitanti del pianeta Papalla, mi invitava a recitare la solita poesiola imparata sulla mia pelle, a dimostrazione di questa invidiabile virtù. E io, come una scimmietta da circo equestre, ripetevo stancamente la solita pantomima: «Mi curo l’eczema con sapone neutro Mantovani e pomata al Meticortelone, signor professore!... e quando l’intestino diventa pigro, Falqui, basta la parola!». Alle elementari l’eczema mi aveva abbandonato (il pediatra ci informò che queste forme cutanee, a quell’età, ce le hanno più o meno tutti i bambini; quel 8 Ormoni e altre tempeste medico non mi ha curato più, perché la mamma, ovviamente, non si fidava di uno che sottovalutava così sportivamente le mie malattie). Un suo collega mi aveva però diagnosticato - durante le medie e giusto per non perdere il vizio - una specie di “diatesi sudativa” di cui nessuno capiva esattamente il significato; ciò che mi costringeva comunque, complici gli insegnanti di ginnastica indottrinati da mia madre, a non giocare a pallone, a non partecipare a gare o ad altre manifestazioni sportive che tutti gli altri scolari facevano volentieri nelle ore migliori dell’anno scolastico: quelle della ginnastica. Nel frattempo, e di nascosto ai miei, avevo scoperto di essere molto veloce nella corsa, oltre a conoscere a memoria tutti gli sceneggiati del commissario Maigret e i primi cinque classificati, titolo della canzone e autore di testi e musica di tutti i festival di Sanremo, del Disco per l’Estate e del Cantagiro di Ezio Radaelli, (per quest’ultimo, a far data dal 1962). Sfidavo i miei coetanei sui cento metri che andavano dal campanile all’osteria e vincevo quasi sempre, guadagnando figurine Panini per completare gli album della raccolta o scudetti adesivi delle squadre di calcio da incollare sul diario di scuola. Ma la mia strana patologia arrivò - devo dire come? - alle orecchie materne della signora Preside: nei tre anni delle medie e per tutto il periodo del Ginnasio dovetti rinunciare alle gare di Istituto, non potei entrare nella squadra di pallacanestro e, durante le partite di calcio, mi costrinsero a fare l’arbitro se non, peggio ancora, il guardalinee (questi ultimi corrono - e quindi sudano - un po’ meno dell’arbitro!). Nell’ultimo anno del liceo ero diventato un ragazzone normale, nemmeno brutto, per il mio specchio; un ragazzetto abbastanza gracile e bianchino per mia madre. Prima di prendere l’autobus della scuola, la mattina, mi assestava con amore dei rapidi pizzicotti alle guance per aumentarne la circolazione sanguigna e farmi apparire, in questo modo, un po’ più colorito. Quando seppe che mi ero fidanzato, non sapeva come fare a mettermi al corrente di tutte quelle controindicazioni che, in questi casi, è meglio sapere. Con giri di parole e metafore più o meno esaustive, mi informò che “certe cose fanno male al cervello, specialmente durante lo studio”; meglio era se avessi aspettato un po’ di tempo, perché “quella” ragazza era fin già troppo matura e chissà cosa avrebbe combinato al mio fisico... Più tardi, quando mi sono innamorato di mia moglie, il giorno in cui ci siamo fidanzati le ho chiesto subito se le sembravo un ragazzo normale; insomma: uno dotato di salute. Mi sono reso conto che la ragazza trovava la domanda assolutamente idiota, e in quel preciso istante (ma forse, in maniera subliminale, anche prima), sono finalmente guarito sul serio. Ogni tanto vado a trovare la mamma al cimitero: con quella certa maturità di chi ha girato la pagina dei cinquanta, mi chiedo se ancora le rimprovero 9 Autobiografia semiseria queste piccole sofferenze trascorse e se lei riesce a perdonare a me la mia capacità di scherzarci sopra. Ma, ogni volta che provo a porle questa domanda, mi sembra che mi guardi dalla foto con l’aria un po’ preoccupata e protettiva; e, come al solito, non mi risponde nulla. 10