gli eredi di gramsci

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GLI EREDI DI GRAMSCI
A partire dalla straordinaria ricchezza di spunti che offre l’opera
gramsciana, quattro autori – accomunati dal fatto di vivere tutti
lontani dai propri paesi d’origine – hanno rielaborato in modo
personale e originale il concetto di egemonia, fornendo un notevole
contributo all’elaborazione del pensiero politico a partire dagli anni
Ottanta. Da Hall a Laclau, da Guha ad Arrighi, una fotografia di
quattro ‘appropriazioni’ che hanno consentito di mettere a frutto il
pensiero di Gramsci in forme che egli stesso non aveva previsto.
PERRY ANDERSON
Nessun pensatore italiano gode attualmente di una fama più ampia di quella di Antonio Gramsci. Le citazioni accademiche e i riferimenti online che lo riguardano sono più numerosi di quelli
relativi a Machiavelli, mentre la bibliografia inerente all’opera
gramsciana, composta sia di articoli che di monografie, arriva oggi
a sfiorare le ventimila voci. È possibile orientarsi in qualche modo
all’interno di questo ginepraio? I Quaderni del carcere vennero
pubblicati per la prima volta in Italia, nella versione «riveduta e
corretta» dal gruppo dirigente del Pci, alla fine degli anni Quaranta. La prima traduzione di una certa ampiezza in una lingua straniera risale invece ai primi anni Settanta, con le Selections pubblicate in inglese a cura di Quintin Hoare e Geoffrey Nowell Smith.
Quest’ultime rimangono probabilmente ancora oggi l’edizione in
volume singolo dei Quaderni più consultata al mondo, nonché
quella grazie alla quale l’opera gramsciana entrò per la prima volta
in contatto con un pubblico globale. Circa quarant’anni dopo esi-
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ste già un’ampia letteratura secondaria relativa alla storia della ricezione mondiale dei Quaderni, comprendente un’ampia gamma
di diversi riutilizzi del pensiero di Gramsci 1. La vastità di questo
fenomeno di riappropriazione, verificatosi in un’epoca molto diversa da quella in cui visse e formulò il proprio pensiero il filosofo
di Ales, è dovuta a due caratteristiche dell’eredità intellettuale di
quest’ultimo che la rendono inconfondibile con quella di qualsiasi
altro rivoluzionario del suo tempo.
La prima consiste nella multidimensionalità della riflessione
gramsciana. L’ampiezza dei temi affrontati nei Quaderni del carcere
– la storia dei più importanti Stati europei; la struttura delle loro
classi dirigenti; i tratti distintivi del loro dominio sui governati; la
funzione degli intellettuali e la sua mutazione; l’esperienza operaia
e la mentalità contadina; i rapporti fra Stato e società civile; le forme più recenti di produzione e consumo; le problematiche filosofiche e pedagogiche; le interconnessioni fra la cultura tradizionale
e quella delle avanguardie e fra la cultura popolare e quella folkloristica; la costruzione delle nazioni e la sopravvivenza delle religioni; e infine, non meno importante, la questione di come e con
quali strumenti superare il capitalismo e fondare su solide basi il
socialismo – è sempre stata, e rimane tuttora, ineguagliata nella
letteratura teorica di sinistra. Un’ampiezza non solo di argomenti,
ma anche di riferimenti spaziali, poiché in Italia si trovavano unite
un’industria capitalistica avanzata a nord e una società precapitalistica e arcaica a sud, e i Quaderni furono il risultato dell’esperienza
diretta di entrambe, capaci quindi di parlare tanto ai lettori del
primo quanto a quelli del terzo mondo. Di materiali da cui scegliere, in sintesi, ce n’erano in abbondanza.
Il secondo motivo che spiega l’attrazione magnetica esercitata da
questi scritti risiede nella loro frammentarietà. Le note che
Gramsci prendeva in prigione erano appunti disordinati, stringati
e preliminari in vista di opere che non riuscì mai a scrivere da libero. Come avrebbe opportunamente fatto notare David Forgacs 2,
ciò contribuì a renderle, più che tesi dal sapore definitivo, semplici suggestioni, facilmente soggette, una volta morto il loro estensore, a tentativi di ricostruzione immaginifica all’interno di questo
o quel quadro d’insieme. Meno vincolanti di una teoria fatta e finiSi vedano, insieme a molto altro, i due volumi E.J. Hobsbawm, Gramsci in
Europa e in America, Laterza, Bari 1995, e A. Baldussi, P. Manduchi (a cura di),
Gramsci in Asia e in Africa, Aipsa, Cagliari 2010.
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D. Forgacs, «Gramsci and Marxism in Britain», New Left Review, 1/176, luglioagosto 1989, p. 71.
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ta, proprio per questo erano in grado di attrarre interpreti di tutti
i tipi, una sorta di partitura che lasciava libero campo all’improvvisazione. Nel paese del loro autore le conseguenze di tutto ciò furono infelici, dal momento che a tenere le fila di tutto il processo
c’era il partito che Gramsci stesso aveva guidato e che, tuttavia,
aveva subìto un mutamento di pelle durante la sua prigionia, finendo, una volta in esilio, sotto il rigido controllo di Stalin. Ciò
significò una costante strumentalizzazione per scopi ufficiali del
pensiero gramsciano, usato a mo’ di difesa e di esemplificazione
della linea politica del Pci, a prescindere dalle numerose posizioni
contraddittorie che quest’operazione era in grado di generare, dai
tempi del Cominform a quelli dell’eurocomunismo, e ancora più
in là fino all’autoliquidazione finale. Una simile camicia di forza
tattica impedì ovviamente qualsiasi esame critico delle tensioni e
delle incertezze, come anche delle illuminazioni, contenute nei
Quaderni 3. In un primo momento, per non risultare in nessun modo sospetto agli occhi di Mosca, Gramsci dovette essere identificato in blocco con Lenin. Dopo il 20° e il 21° congresso del Pcus, la
sua figura divenne invece complementare a quella del leader della
rivoluzione d’Ottobre, per poi scalzarla definitivamente dopo il
1968. Da ultimo, mentre la fine si avvicinava, Gramsci venne gettato alle ortiche in quanto, dopo tutto, era stato pur sempre contaminato da Lenin, mentre il partito, poco prima di tirare le cuoia,
sosteneva ormai di essere evoluto lasciandosi alle spalle entrambi.
Visto che il Pci non occupò mai interamente il campo della sinistra
italiana, il quale conteneva al contrario altre tendenze importanti e
in molti casi dissenzienti dalla linea comunista ufficiale, l’eredità di
Gramsci non venne mai monopolizzata completamente dal partito.
Negli anni Sessanta e Settanta, accanto a un suo rifiuto in blocco in
quanto ideologia di un’organizzazione ormai compromessa, ne
emerse una lettura alternativa, incentrata sul ruolo chiave assegnato
ai consigli di fabbrica nei testi giovanili pubblicati su L’ordine nuovo
e tendente a contrapporre l’idea dell’azione autonoma dei lavoratori
nei consigli a quella, propria dei Quaderni, del partito come «moderno principe». Pur esprimendosi talvolta con grande energia,
questa formazione reattiva non riuscì in ultima analisi a scalzare la
sequenza oscillante delle interpretazioni ufficiali del pensiero
gramsciano basate sugli scritti del periodo della prigionia. Il risultato finale, misurabile nel momento in cui tanto il Pci quanto le spine
Per una loro analisi rimando al mio «The Antinomies of Antonio Gramsci»,
New Left Review, 1/100, novembre 1976-gennaio 1977.
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conficcate nel suo fianco finirono per evaporare, fu la sterilizzazione
del pensiero di Gramsci nel paese che gli aveva dato i natali.
Il tentativo di un riuso creativo, libero da limitazioni istituzionali,
migrò all’estero. L’illustrazione di quelli che ne sono stati i risultati è, per forza di cose, un’operazione in certo modo arbitraria.
Ciononostante, fra le tante esistenti, si possono contare senza
dubbio quattro appropriazioni principali – presumibilmente le
quattro appropriazioni principali – del pensiero di Gramsci. Databili a partire dagli anni Ottanta e analizzabili in maniera comparata, possiamo chiederci se esse siano riconducibili a uno schema
unitario. La risposta è affermativa: da alcuni punti di vista lo sono
senz’altro, e la cosa non può non colpire. In tutti e quattro i casi
abbiamo a che fare infatti con appropriazioni operate da pensatori
che vivevano lontani dai propri paesi d’origine. Tutte hanno fatto
la loro comparsa nel mondo anglofono – nel Regno Unito, negli
Usa e in Australia – nell’arco di un decennio, quello che va dalla
metà degli anni Ottanta alla metà degli anni Novanta. Tutte sono
state costruzioni individuali, ma ciascuna di esse è stata in qualche
modo anche il frutto di un progetto collettivo. Tutte, infine, ruotano attorno al concetto gramsciano di egemonia. In quanto segue
vorremmo offrire una fotografia di ciascuna 4.
1. La Gran Bretagna è stato il primo paese in cui si sia verificato un
acclimatamento in contesto estero del pensiero di Gramsci in grado di produrre ciò che il suo addomesticamento in patria aveva
impedito: un’analisi importante e originale della topografia del
paese capace di stabilire dei nuovi punti di riferimento in vista
della comprensione delle trasformazioni cui esso sarebbe potuto
andare incontro. Nel Regno Unito la ricezione di Gramsci era cominciata in realtà già nei primi anni Sessanta, quando egli era ancora molto poco conosciuto fuori dall’Italia 5. Dieci anni più tardi,
il punto di partenza per una più importante azione di condizionamento esercitata dalla sua opera lo si ebbe con la pubblicazione di
un saggio di Raymond Williams nel quale l’autore abbracciava e
allo stesso tempo sviluppava la nozione gramsciana di egemonia,
vista come un «fondamentale sistema di pratiche, significati e valori impregnanti la coscienza di una società a un livello molto più
profondo dell’ideologia nelle sue accezioni ordinarie». Nel sottoliSi tratta di istantanee tratte da un album più ampio, quello relativo alla storia
del concetto di egemonia dall’antichità a oggi, di prossima pubblicazione.
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Si veda, per una descrizione dettagliata, D. Forgacs, «Gramsci and Marxism in
Britain», New Left Review, cit., pp. 74-77.
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neare come l’egemonia, così concepita, implicasse sempre l’esistenza di un insieme complesso di strutture da «rinnovare, ricreare e difendere» continuamente, strutture suscettibili di adattarsi in
maniera attiva alle pratiche e ai significati alternativi e, quando
possibile, di incorporarli, Williams distingueva due tipi di culture
di opposizione, ciascuna delle quali riconducibile a una classe, in
grado di sfuggire a questa incorporazione: residuale ed emergente
– radicate, cioè, l’una nel passato e l’altra in ciò che avrebbe potuto risultare in un futuro. Vi erano poi anche altre pratiche e valori,
più difficilmente cedibili, tipicamente inclini a sottrarsi alla presa
egemonica. Questo perché, ci teneva a far notare Williams, l’egemonia era per definizione selettiva: «Nella realtà, nessun modo di
produzione e, di conseguenza, nessuna società dominante o ordinamento sociale e, di conseguenza, nessuna cultura dominante
riesce a esaurire le possibili prassi, l’energia e le finalità umane» 6.
Questi assiomi poterono funzionare da suggerimenti per i risultati
conseguiti in un secondo momento da Stuart Hall, il quale era arrivato dalla Giamaica per studiare letteratura inglese a Oxford nei
primi anni Cinquanta. Fondatore della Universities and Left Review
nel 1957, poi direttore di questa rivista a partire dal 1960, nel 1964
entrò a far parte del Centre for Contemporary Cultural Studies di
Birmingham, un’istituzione all’epoca diretta da Richard Hoggart
e, in seguito e senza rinunciare ad avvalersi della collaborazione di
quest’ultimo, dallo stesso Hall per circa un decennio. Lì egli cominciò, a partire dalla metà degli anni Settanta, ad analizzare le
profonde trasformazioni in atto nella politica britannica e a prevederne con sorprendente precisione l’esito finale, fornendo quello
che è ancora oggi il più lungimirante esempio di diagnosi gramsciana di una data società di cui si abbia notizia 7. Ad un anno dall’elezione, nel 1974, del nuovo governo laburista, Hall partecipò insieme ad altri alla stesura di una raccolta di saggi intitolata Resistance
through Rituals, un’analisi delle sottoculture presenti – principalmente ma non solo – nel proletariato giovanile. Queste venivano
R. Williams, «Base and Superstructure in Marxist Cultural Theory», New Left
Review, 1/82, novembre-dicembre 1973, pp. 8-13. Gli stessi temi sono stati ripresi in forma ampliata nella trattazione del tema dell’egemonia presente in R.
Williams, Marxismo e letteratura, Laterza, Bari 1979.
7
A garanzia di quanto Hall fosse padrone delle problematiche gramsciane si
veda il suo saggio, scritto in anni successivi, «Gramsci’s Relevance for the Study
of Race and Ethnicity», Journal of Communication Inquiry, giugno 1986. Il suo
pensiero fu d’altra parte influenzato anche da quello di Althusser e di Poulantzas: per quest’ultimo si veda ad esempio «Nicos Poulantzas: State, Power,
Socialism», New Left Review, 1/119, gennaio-febbraio 1980.
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interpretate come un’area di opposizione latente all’interno di una
cultura dominante la cui egemonia non era mai stata capace né di
essere stabilmente omeostatica né di assorbire interamente i germi di resistenza, arrivando al massimo a produrre un equilibrio
mobile da riadattare in continuazione al fine di controllare le pratiche dissenzienti 8. Tre anni dopo, un altro volume scritto a più
mani, Policing the Crisis, concentrava la propria attenzione su alcune ondate di «panico morale» – relative ai minacciosi fantasmi
della rivolta giovanile, dell’immigrazione nera e della conflittualità
sindacale – che si erano susseguite in un periodo di aspra crisi
economica e di forte turbolenza sociale e che stavano scatenando
una violenta reazione da parte della piccola borghesia. La crescente richiesta di un’imposizione della disciplina sociale si trovava già
rispecchiata nel passaggio da Heath a Thatcher all’interno dell’opposizione conservatrice. Il Labour, d’altro canto, dopo essersi limitato in un primo momento a «gestire il dissenso», si stava ormai
lasciando trasportare alla deriva verso un aumento della repressione, facendo oscillare l’ago della bilancia in direzione di una condizione nella quale «la coercizione diventa, per così dire, la modalità
naturale e consueta per assicurarsi il consenso». Ciò non significava che il Regno Unito si trovasse a dover fronteggiare un giro di
vite violento e proveniente dall’alto, sul modello cileno. Piuttosto,
rimanendo comunque intatte tutte le forme di uno Stato post-liberale, un atteggiamento più duro da parte del governo poteva ora
fare affidamento su «una potente ondata di legittimazione popolare» 9. Quello che si profilava all’orizzonte era dunque un populismo autoritario.
Un mese prima che Thatcher arrivasse al potere, nel 1979, Hall
avvertiva che la socialdemocrazia si era dimostrata incapace di gestire quella che era ormai diventata una crisi organica del compromesso postbellico, alla quale il thatcherismo offriva adesso una
risposta quanto mai persuasiva. Intrecciando i fili contraddittori
del neoliberismo monetarista e del conservatorismo organicista,
esso stava tentando di edificare un nuovo senso comune, inteso
alla maniera di Gramsci. Identificando la libertà con il mercato e
l’ordine con la tradizione morale, le opportunità offerte dal primo
e i valori propri della seconda venivano fusi insieme in un pacchetto pronto per il consumo popolare. Si trattava di un progetto
S. Hall, T. Jefferson (a cura di), Resistance through Rituals: Youth Sub-Cultures in
Post-War Britain, Londra 1975, pp. 38-42 ss.
9
S. Hall, C. Critcher, T. Jefferson, J. Clarke, B. Roberts, Policing the Crisis, Palgrave, London 1978, pp. 307-16.
8
egemonico, la cui capacità attrattiva era già evidente nel dibattito
pubblico riguardante gli insuccessi del sistema scolastico sotto il
governo laburista di James Callaghan 10.
Dopo l’arrivo al potere di Thatcher, Hall elaborò ulteriormente
queste tesi lungo tutto il decennio successivo, riuscendo a prevedere in maniera corretta anche la seconda e la terza vittoria elettorale della lady di ferro. La sinistra britannica aveva subìto una
sconfitta duratura, analogamente a quanto era successo a quella
italiana negli anni Venti: l’insieme dei concetti gramsciani aveva
una diretta rilevanza per l’esperienza locale. Se è vero che Thatcher
non riuscì mai ad attrarre a sé la maggioranza numerica dell’elettorato e che la sua autorità venne sempre contestata da gran parte
della popolazione, riuscì tuttavia a saldare insieme una serie di figure sociali che spaziavano dai banchieri e dai professionisti fino
ai piccoli imprenditori e ai lavoratori specializzati, un blocco storico in senso gramsciano. In maniera intuitiva, il thatcherismo aveva
compreso che gli interessi sociali sono spesso contraddittori, che
le ideologie non sono per forza coerenti e che le identità non sono
quasi mai stabili, e aveva lavorato a tutti e tre i livelli per costruire
dei nuovi soggetti popolari in grado di incarnare la propria egemonia. Al centro di quest’ultima, come aveva insegnato Gramsci,
c’era necessariamente un nucleo economico: deregolamentazione
finanziaria e privatizzazione delle utilities a beneficio della City,
tasse più basse per il ceto medio, crescita dei salari per i lavoratori
specializzati, vendita delle case popolari per le grandi masse di
cittadini. Il tutto era però racchiuso all’interno di quella che era la
versione thatcheriana della «rivoluzione passiva» gramsciana: la
promessa ideologica di una modernità a lungo attesa in un paese
che non aveva mai vissuto la seconda fase di trasformazione capitalistica che aveva rinvigorito la Germania e il Giappone postbellici. La chiave del successo di Thatcher andava cercata nel paradosso di una «modernizzazione regressiva» 11.
Si trattava di un’analisi convincente, sotto ogni punto di vista, del
regime thatcheriano. Mancava sicuramente una cornice internazionale, e questo proprio nel momento in cui negli Stati Uniti Reagan
consolidava il proprio dominio – fondato su basi più ampie – e le
ricette neoliberiste si diffondevano in tutto il mondo capitalistico
avanzato. Tuttavia, nessuna interpretazione politica di una determinata congiuntura è mai esaustiva, e quella di Hall era stata messa a
«The Great Moving Right Show», The Hard Road to Renewal, Verso, London
1988.
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«Gramsci and Us», The Hard Road to Renewal, cit., pp. 162, 164, 167.
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punto con un obiettivo preciso: individuare il modo migliore per
contrastare e sconfiggere il regime conservatore instauratosi in
Gran Bretagna. Ciò, nella visione di Hall, implicava di necessità il
fatto di sfidarlo sul suo stesso piano, contrapponendogli un’idea
alternativa di modernità in grado di offrire una più ampia e radicale
forma di emancipazione dal passato. Questo avrebbe implicato dare
battaglia in lungo e in largo nell’intera società civile, oltre che nelle
istituzioni, evitando assolutamente di scivolare in atteggiamenti di
indifferenza e disprezzo verso campi e problematiche tradizionalmente considerati impolitici: genere, razza, famiglia, sessualità,
istruzione, consumo, svago, natura, al pari di lavoro, salari, tasse,
sanità e comunicazioni. Le realtà di mercato di piccole dimensioni,
il cui capitalismo artigianale costituiva un ambito di varietà e di
scelta, dovevano essere rispettate, e la sinistra non avrebbe mai dovuto aspettare di «perdere i legami con lo scenario dei piaceri popolari». Il suo obiettivo, ad ogni modo, avrebbe dovuto essere all’altezza delle ambizioni dell’avversario: trasformare, non semplicemente
riformare, la società.
In Italia, un partito di massa erede delle idee di Gramsci le aveva
sterilizzate, finendo per produrre ben poche analisi originali della
società nella quale era inserito e nessuna strategia coerente per
cambiarla. In Gran Bretagna si era verificato il contrario: un’analisi originale era stata effettivamente prodotta, unitamente a un abbozzo di strategia da essa derivata, ma non esisteva uno strumento
in grado di farsene carico. Gli interventi di Hall venivano pubblicati sulla rivista del piccolo Communist Party of Great Britain, il
quale avrebbe finito per seguire il Pci sulla strada dell’eurocomunismo e dell’autoliquidazione. Rimaneva il Partito laburista, rispetto al quale la presa delle analisi di Hall si faceva più incerta.
Pur criticando il miope statalismo e l’istintiva ostilità nei confronti
della partecipazione democratica, per non parlare della mobilitazione, tipici del Labour, egli approvò comunque, più o meno
esplicitamente, la determinazione mostrata dai dirigenti di quel
partito nel tentare di disfarsi, in nome di una certa modernizzazione, di una sinistra interna considerata ancora più arretrata. Oltre a
ciò, in un primo momento Hall ricoprì Blair di elogi 12 – anche se,
Dalla «notevole dimostrazione di coraggio politico» fino alla «genuina umanità». Si vedano ad esempio i testi «Parties on the Verge of a Nervous Breakdown»,
Soundings, n. 1, autunno 1995, pp. 23, 26, e «The Great Moving Nowhere
Show», Marxism Today, novembre-dicembre 1998, p. 14, nel quale, in mezzo a
varie critiche anche molto aspre, del New Labour si diceva che aveva ancora «un
sostanziale diritto a valersi del nostro appoggio».
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va detto, manifestando di tanto in tanto qualche dubbio – prima di
arrivare alla conclusione che il New Labour – che si riempiva costantemente la bocca dell’aggettivo «moderno» – era in realtà una
delusione, un’entità incline ad ampliare, più che a rimuovere, il
dominio del thatcherismo. La ben più approfondita comprensione della natura del partito rinvenibile nella più antica assimilazione di Gramsci in terra britannica, quella di Tom Nairn, gli avrebbe
senz’altro risparmiato tale delusione 13.
Era stato sempre Nairn a individuare l’altra faccia della medaglia
della congiuntura storica che aveva messo in moto il progetto di
Hall, destinata tuttavia a rimanere assente all’interno di quest’ultimo. Gramsci, in Italia, considerava elemento decisivo di ogni vera
egemonia la creazione di un’indole e di una cultura «nazional-popolari». Nella ricezione di Hall il momento popolare comporta l’eclissi pressoché completa di quello nazionale. Egli non prestò
praticamente nessuna attenzione alle pressioni esercitate da
Thatcher sull’unità dell’«Ukania» 14, che già aveva cominciato a
dare segni di cedimento nel periodo in cui Nairn pubblicava The
Break-Up of Britain (1977), e cioè negli stessi anni in cui Hall veniva elaborando la sua analisi della rottura [break-up] del compromesso politico postbellico. La cosa aveva probabilmente una spiegazione. La Gran Bretagna, come aveva ben visto Nairn, non era
né era mai stata una nazione: era un regno composito risalente alla
prima età moderna che era continuato a esistere fuori tempo massimo grazie al fatto di aver assunto le sembianze grandiose di un
impero. Ma quella che il thatcherismo andava strombazzando come un’identità imperiale ancora viva – materializzatasi con l’arrivo
delle portaerei britanniche nell’Atlantico meridionale – cominciava a trasformarsi in una scappatoia multiculturale per gli immigrati provenienti dalle diverse province dell’impero stesso, meno imperturbabile dell’inglesità tradizionale, anche se inevitabilmente
subordinata al legame storico con la Gran Bretagna. Non stupisce,
T. Nairn, «The Nature of the Labour Party», New Left Review, 1/27, settembreottobre 1964 e New Left Review, 1/28, novembre-dicembre 1964; «Labour Imperialism», New Left Review, 1/32, luglio-agosto 1965; «The English Working
Class», New Left Review, 1/24, marzo-aprile 1964 e, infine, «Hugh Gaitskell», New
Left Review, 1/25, maggio-giugno 1964.
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«Ukania» (da Uk, United Kingdom) è il nomignolo assegnato dallo scozzese
Tom Nairn al Regno Unito, nell’intento di sottolinearne il carattere anacronistico di monarchia plurinazionale per certi versi assimilabile a quello che fu l’impero austro-ungarico sotto gli Asburgo. Quest’ultimo, nel romanzo di Robert
Musil L’uomo senza qualità, viene chiamato «Kakania», da cui, per assonanza,
l’«Ukania» di Nairn, n.d.t.
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pertanto, che un giamaicano ben consapevole della sorte del proprio paese e, più in generale, di tutti i Caraibi, scegliesse di distogliere lo sguardo dal nodo inestricabile che andava stringendosi
attorno alla gola del momento nazionale, così come concepito da
Gramsci 15.
Per gli stessi motivi, proprio la riaffermazione della nazione britannica nel mondo, che insieme all’esempio offerto dalla Gran
Bretagna a tutti gli altri popoli nel mettere al primo posto la libertà
costituiva il più fiero motivo di orgoglio di Thatcher, si sarebbe
infine rivelata la rovina di quest’ultima, considerato come il processo di integrazione europea che lei stessa aveva contribuito ad
accelerare finì per intrappolarla; fu, di fatto, il potere di un italiano molto discreto a provocarne la caduta, per ragioni che Hall non
era stato in grado di prevedere nel dar conto della genesi del potere thatcheriano. Quest’esito contribuì forse a far emergere, in maniera retrospettiva, i limiti della sua interpretazione dell’egemonia
thatcheriana? Innegabilmente, almeno in una certa misura. La
duplice torsione che stava provocando l’avvitamento di un’Ukania
stretta fra Edimburgo e Bruxelles, oggi una palese deformità, cominciava a essere visibile già all’epoca. In maniera analoga, pur
avendo fatto notare una crescente propensione all’utilizzo della
forza bruta negli anni Settanta, nei suoi scritti del decennio successivo Hall sottostimò il ruolo giocato dalla coercizione nel con«Non sono, né sarò mai, “inglese”», ebbe a dire Hall in quella che è forse la sua
ricostruzione più personale del proprio ambiente familiare giamaicano di origine
e dell’incontro con la società imperiale nella quale era giunto in un secondo momento, l’intervista contenuta in Stuart Hall: Critical Dialogues in Cultural Studies,
Routledge, London 1996, p. 490; si veda anche «Negotiating Caribbean Identities», New Left Review, 1/209, gennaio-febbraio 1995. Il suo «Notes on Deconstructing the “Popular”» – pubblicato come contributo al volume People’s History and
Socialist Theory, promosso dalla rivista History Workshop e curato da Raphael Samuel nel 1981 – cita Gramsci con riferimento alla nozione di nazional-popolare,
ma restringe il campo al secondo dei due agettivi. Samuel, al contrario, avrebbe
in seguito curato tre volumi intitolati Patriotism: The Making and Unmaking of British National Identity (1989), nei quali spiegava, a mo’ di autocritica, che History
Workshop aveva «giocato un suo ruolo, per quanto piccolo, nella recrudescenza
del nazionalismo culturale», dal momento che aveva tentato di «espellere le parole straniere dalle nostre pagine». Ora, tuttavia, la rivista propendeva per l’uso
dell’aggettivo «britannico», percepito come più ospitale nei confronti dei nuovi
venuti e dei forestieri, al posto di «inglese», tenendo allo stesso tempo a debita
distanza la «nozione gramsciana di egemonia», giudicata elitaria (una critica di
Gramsci che era un’anticipazione di quella che avrebbe sviluppato successivamente James Scott). I rapporti fra Hall e Samuel, le due figure principali della
prima New Left, potrebbero essere materia per uno studio affascinante. Il più bel
testo mai scritto da Hall è il suo tributo all’amico scomparso pubblicato sulla New
Left Review (1/221, gennaio-febbraio 1997).
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sentire a Thatcher di consolidare il proprio potere, laddove le due
vittorie decisive che, dopo una fase iniziale di incertezza, ne affermarono l’egemonia si basarono in realtà entrambe sul mero esercizio della violenza: la repressione dello sciopero dei minatori e la
guerra coloniale per le isole Falklands. Né l’una né l’altra ricevettero attenzione adeguata da parte di Hall. Questi fu in seguito afflitto dalla stessa miopia quando al potere arrivò il New Labour.
Definire il regime blairiano «il grande spettacolo che non va da
nessuna parte» 16 fu una scelta imprudente, visto che, di lì a poco,
esso si sarebbe messo in moto per andare, armi in pugno, a
Priština, Helmand e Bassora. Per contro, il consenso ottenuto da
Thatcher venne ricondotto con eccessiva insistenza alla presa
dell’ideologia, sottovalutando invece gli incentivi materiali, e le
stesse sirene ideologiche divennero – mai esplicitamente, ma comunque in assenza delle necessarie cautele – fin troppo suscettibili di perdere ogni ancoraggio sociale, come se potessero fluttuare
liberamente in una direzione politica o nell’altra in virtù di un
semplice colpo di bacchetta magica di questo o quell’abile prestigiatore. Hall non sarebbe mai arrivato a tale conclusione, né mai
avrebbe potuto, ma aprì almeno in parte la strada verso una deriva
di questo tipo.
2. In tutto ciò erano evidenti i segni lasciati nel suo pensiero da
un’altra impresa intellettuale sviluppatasi in parallelo. Alla fine
degli anni Sessanta, circa vent’anni dopo l’arrivo di Hall dalla Giamaica, un altro immigrato più o meno suo coetaneo era arrivato in
Gran Bretagna dall’Argentina. Ernesto Laclau, formatosi come
storico a Buenos Aires, era stato in precedenza un militante del
piccolo Partito socialista della sinistra nazionale 17 fondato da Jorge Abelardo Ramos, di fatto l’unico pensatore socialista della sua
generazione che aveva sostenuto la necessità di schierarsi al fianco
di Perón sin dall’inizio del suo governo negli anni Quaranta 18.
Sbarcato a Oxford, la sua prima pubblicazione in inglese fu una
classica analisi marxista della costellazione sociale che in Argentina aveva prodotto la dittatura di Onganía e il Cordobazo, il grande
«The Great Moving Nowhere Show» è il titolo dell’articolo di analisi del fenomeno New Labour pubblicato da Hall su Marxism Today nel 1998 (cfr. supra,
nota 12), il quale riprendeva, modificandolo, il precedente «The Great Moving
Right Show», comparso sulla stessa rivista nel 1979 e dedicato invece all’ascesa
del thatcherismo, n.d.t.
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Partido Socialista de la Izquierda Nacional, Psin, n.d.t.
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Si vedano in proposito le osservazioni dello stesso Laclau in New Reflections on
the Revolution of Our Time, Verso, London-New York 1990, pp. 197-201.
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sollevamento politico contro di essa del maggio 1969 19. Dopo esser passato dalla storia alla teoria politica a seguito dell’ottenimento di una cattedra presso l’università dell’Essex, Laclau pubblicò
un volume composto da quattro saggi diversi, Politics and Ideology
in Marxist Theory, nel quale utilizzava in maniera originale e critica
alcuni concetti althusseriani. Fu proprio tale opera a influenzare
in maniera fondamentale le riflessioni di Hall sul thatcherismo 20.
A quel tempo egli aveva già cominciato a collaborare strettamente
con un’altra intellettuale immigrata, Chantal Mouffe, una belga
che veniva dalla filosofia, materia che aveva insegnato in Colombia. Nel 1985 i due pubblicarono il volume Egemonia e strategia
socialista, con il quale portavano il poststrutturalismo a incidere
direttamente sulla tradizione marxista, schierandosi politicamente
a fianco di ciò che era stato l’eurocomunismo ma in una prospettiva teorica ormai apertamente postmarxista. Passando in rassegna
la storia della seconda e della terza internazionale, Laclau e Mouffe arrivavano alla conclusione che entrambe erano rimaste intrappolate nell’illusione secondo la quale le ideologie corrispondono
alle classi sociali e il divenire storico mosso dalla necessità economica al trionfo del socialismo. Il problema che né l’una né l’altra
erano state in grado di risolvere era quello dell’esistenza non solo
di divisioni interne alla classe operaia intesa come principale vettore, avente sembianze di soggetto rivoluzionario della storia, di
tale presunta necessità, ma anche di quelle classi sociali che, pur
non essendo capitaliste, non erano nemmeno parte del proletariato. Agli interrogativi sollevati da questi due fattori erano state offerte solo risposte incoerenti, in successione, da Plechanov e Labriola, Bernstein e Kautsky, Luxemburg e Trockij. Gli insuccessi
di questi ultimi erano poi stati almeno in parte superati dalla nozione leninista di egemonia del proletariato, che implicava una
qualche articolazione degli obiettivi proletari con le rivendicazioni
dei contadini. La vera svolta era arrivata però con Gramsci, che
aveva approfondito l’idea proposta da Lenin in due modi: trasformando la nozione di egemonia fino a intenderla come una leadership intellettuale e morale, non più meramente politica, e arrivan«Argentina. Imperialist Strategy and the May Crisis», New Left Review, 1/62,
luglio-agosto 1970.
20
Politics and Ideology in Marxist Theory. Capitalism-Fascism-Populism, New Left
Books, London-New York 1977. Hall si mantenne invece molto più cauto rispetto ai successivi lavori di Laclau: si veda in tal senso «On Postmodernism and
Articulation: An Interview with Stuart Hall», in Stuart Hall: Critical Dialogues in
Cultural Studies, pp. 146-147.
19
do a comprendere che il soggetto egemonico non può essere identificato con una classe socio-economica precostituita, ma è piuttosto una volontà collettiva frutto di un’opera di assemblaggio politico, una forza capace di produrre una sintesi – un’unità nazionalpopolare – a partire da rivendicazioni eterogenee non necessariamente legate l’una all’altra e suscettibili di muoversi in direzioni
anche molto diverse.
Si trattava, facevano osservare Laclau e Mouffe, di un progresso
notevole. Gramsci, tuttavia, aveva pur sempre mantenuto l’idea
che il proletariato fosse, da un punto di vista strutturale, una «classe fondamentale». Non solo: ritenendo che la «guerra di posizione»
incentrata sulla ricerca del consenso potesse essere affiancata in
Occidente da una «guerra di movimento» basata sull’uso della forza, non aveva rotto in maniera netta col bolscevismo. Bisognava
ora spingersi ancora oltre e abbandonare ogni residuo di essenzialismo classista, insieme all’idea di una guerra di movimento. Non
erano gli interessi a far emergere le ideologie, ma i discorsi a creare posizioni soggettive, e l’obiettivo da raggiungere nel mondo di
oggi non dovrebbe essere tanto il socialismo, quanto una «democrazia radicale» della quale il socialismo costituirebbe comunque
una dimensione – dal momento che il capitalismo tende a riprodurre relazioni di subordinazione non democratiche – e non il
contrario 21. Nel successivo lavoro di Laclau, La ragione populista, il
riferimento al socialismo scompare del tutto, mentre il populismo
prende il posto dell’egemonia in qualità di simbolo più pregnante
ed efficace del processo, di per sé estemporaneo, che consente di
unificare in una volontà collettiva diverse rivendicazioni democratiche – le quali, considerate isolatamente, potrebbero anche andare a formare il tessuto di un discorso antidemocratico. Unito da un
insieme di simboli condivisi e da una serie di legami affettivi nei
confronti del proprio leader, un popolo in rivolta può quindi procedere a contrastare i poteri dominanti all’interno della propria
società, forzando la linea divisoria dell’antagonismo dicotomico
che lo oppone agli stessi.
Questo schema formale, proposto inizialmente al tempo di
Thatcher e Reagan, riusciva a prevedere quella che sarebbe stata
l’evoluzione del contesto politico europeo trent’anni dopo, quando per effetto della deindustrializzazione una classe operaia ormai
divisa e in contrazione avrebbe lasciato il campo a un panorama
sociale molto più frammentato e si sarebbero moltiplicati, a destra
21
Egemonia e strategia socialista, Il melangolo, Genova 2011, p. 236.
1
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come a sinistra, i movimenti volti a contestare l’ordine costituito
in nome del popolo; un «populismo» diventato nel giro di poco
tempo lo spauracchio delle élite in tutta l’Unione europea 22. Hall
aveva previsto l’ascesa del thatcherismo. In maniera non meno
degna di nota, Laclau e Mouffe sono stati in grado di predire l’ondata di reazione al neoliberismo. Stanti queste circostanze, i due
autori hanno anche concretizzato il progetto che a Hall non era
mai riuscito: far sì che la propria visione politica venisse abbracciata da un partito di massa. In Spagna, i leader di Podemos –
aventi anche loro alle spalle dei trascorsi latinoamericani – hanno
esplicitamente fondato la propria strategia sulle ricette fornite da
Laclau e Mouffe per dar vita a un populismo di tipo egemonico 23.
Un risultato non trascurabile, sotto ogni punto di vista, per un
edificio teorico caratterizzato da un tecnicismo a tratti scoraggiante. Ma un conto è l’efficacia politica, un altro la cogenza intellettuale. Le aporie, in questo caso, erano fin troppo evidenti.
La svolta linguistica della teoria, in combutta con la sua generale
tendenza a uniformarsi alle mode intellettuali del tardo XX secolo,
proponeva di fatto un idealismo sconclusionato che recideva ogni
legame stabile fra significati e referenti. Idee e rivendicazioni, di
conseguenza, finivano per essere talmente prive di qualsiasi ancoraggio socio-economico da poter essere fatte proprie da qualsiasi
agente ai fini di qualsiasi sintesi politica. Di per sé la gamma delle
articolazioni possibili non conosceva limiti. Tutto era possibile:
l’esproprio degli espropriatori poteva diventare la parola d’ordine
Si veda, in proposito, la caustica ricostruzione della storia delle attuali polemiche fatta da Marco d’Eramo in «Populism and the New Oligarchy», New Left
Review, 82, luglio-agosto 2013 (pubblicato anche in italiano come «Apologia del
populismo», MicroMega, 4/2013). Per una recente ed energica rivendicazione
dell’uso del termine: C. Mouffe, «El momento populista», El País, 10/6/2016.
Quanto segue non rende giustizia al lavoro di Mouffe, i cui scritti – soprattutto
il loro confronto serrato con Schmitt e la determinazione con cui tentano di
tradurre le contraddizioni antagonistiche in contraddizioni agonistiche nel quadro del sistema politico democratico – costituiscono un corpus a se stante, distinto dai volumi firmati a quattro mani con Laclau.
23
Si veda il dialogo fra Íñigo Errejón e Chantal Mouffe, Construir Pueblo. Hegemonía y radicalización de la democracia, Icaria, Madrid 2015, passim; ciascuno dei
due autori colloca il momento della propria presa di coscienza politica durante
un periodo di permanenza in America Latina (in Colombia nel caso di Mouffe e
in Bolivia per quanto riguarda Errejón), pp. 72-73. Anche Laclau, del resto, in
Argentina non è rimasto certo un profeta inascoltato, potendo godere alla fine
della propria vita della stima di Cristina Fernández Kirchner, di cui era un fervente sostenitore. Cfr. l’indignato profilo di Laclau di impostazione conservatrice «Ernesto Laclau, el ideólogo de la Argentina dividida», Noticias de la Semana,
13/4/2014, e il brillante e affettuoso tributo di Robin Blackburn «Ernesto Laclau
1935-2014», 14/4/2014, versobooks.com.
22
dei banchieri, la statalizzazione delle terre di proprietà della Chiesa un obiettivo del Vaticano, la distruzione delle corporazioni l’ideale degli artigiani, i licenziamenti di massa una rivendicazione
della classe operaia, le recinzioni l’obiettivo dei contadini. La proposta si sconfiggeva da sola. Non solo tutto poteva essere articolato in qualsiasi direzione, ma tutto finiva per essere articolazione.
L’egemonia prima, il populismo poi, erano stati inizialmente presentati come un tipo particolare di politica. In seguito, in una tipica mossa inflazionistica, erano diventati la definizione di tutte le
politiche possibili, autocondannandosi pertanto alla ridondanza 24.
Se simili stramberie potevano essere messe da parte e catalogate
come semplici ammiccamenti alle mode correnti, altri aspetti della
stessa interpretazione saltavano maggiormente agli occhi. L’egemonia, in maniera analoga a quanto era avvenuto nella tradizione
del Pci, veniva portata avanti come strategia senza essere sorretta
da un’adeguata topografia. Il nazional-popolare, pur essendo considerato un obiettivo fondamentale, non veniva affiancato da nessuna descrizione del panorama sociale nazionale. Il contrasto con
l’analisi del peronismo in Argentina prodotta da Laclau stesso
prima di approdare al postmarxismo, mirabile per la sua capacità
di penetrazione e di analisi dettagliata, era impressionante 25. L’espatrio spiegava sicuramente, almeno in parte, tale mutamento di
prospettiva, che a sua volta faceva sì che una strategia priva di ancoraggio sociale potesse procedere senza porsi grandi problemi.
Tuttavia esso era anche il frutto di una logica concettuale interna.
Una volta stabilito che l’egemonia era per forza populista non era
più richiesta alcuna caratterizzazione precisa della scacchiera sociale. «Il linguaggio di un discorso populista – di sinistra o di destra – sarà impreciso e fluttuante», faceva notare Laclau, ma questa
«vaghezza e imprecisione» non rappresentano un limite conoscitiCosì, mentre in un primo momento «l’egemonia è, semplicemente, un tipo di
relazione politica, una forma, se si preferisce, della politica», in seguito diventa
«il campo del politico» in quanto tale, un gioco che ha «almeno un nome: egemonia» (Egemonia e strategia socialista, cit., pp. 219, 284). Allo stesso modo, in un
primo momento, «il populismo è, se vogliamo dirla nel modo più semplice, un
modo di costruire il politico», ma poi «la ragione populista […] equivale alla ragione politica tout court»; infatti, il populismo non è forse «la condizione stessa
dell’azione politica?» (La ragione populista, Laterza, Roma-Bari 2008, p. XXXIII,
212, 19).
25
Cfr. Politics and Ideology in Marxist Theory, cit., pp. 176-191, dove viene detto,
fra l’altro, che «la presenza massiccia della classe operaia all’interno del movimento peronista fu all’origine della sua eccezionale persistenza» e che il discorso politico possiede una «doppia articolazione», rispetto alle idee del popolo e
alle posizioni strutturali relative ai rapporti di produzione, pp. 190, 194.
24
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2
vo, perché è la stessa realtà sociale a essere estremamente instabile
ed eterogenea 26. Nessun bisogno, quindi – o, a dirla tutta, nessuna
possibilità? – di un’analisi dettagliata sul tipo di quelle fornite da
Marx per la Francia, da Lenin per la Russia, da Mao per la Cina e
da Gramsci per l’Italia. Nel tessere le lodi del principale slogan di
Occupy («siamo il 99 per cento contro l’1 per cento»), l’interlocutore spagnolo di Mouffe chiarisce che il discorso egemonico non è
«statistico, ma performativo» 27. Per una performance del genere i
dettagli possono costituire un impedimento, la vaghezza una virtù,
quasi una precondizione per risultare efficaci.
Vaghissima, per la ragione populista, era di necessità la delineazione dell’avversario, poiché precisarne l’identità in maniera troppo
accurata o realistica comportava il rischio di stendere la rete dei richiami egemonici su una superficie troppo ristretta, mettendone a
nudo l’alta percentuale di retorica e finzione. In maniera saggia Errejón si rifiuta di spacchettare la casta [in spagnolo nel testo] contro
la quale Podemos nel proprio paese chiama la gente [in spagnolo nel
testo] a ribellarsi 28. Possiamo comprendere le motivazioni politiche
sulle quali si basa tale reticenza. La sua controparte teorica, tuttavia,
è il vuoto. Mentre Gramsci comincia la propria riflessione sull’egemonia con un’analisi del blocco sociale dominante durante il Risorgimento, nell’interpretazione di Laclau e Mouffe coloro che si trovano in posizione di dominio svaniscono nella più rarefatta delle
astrazioni, diventando «le istituzioni», o anche «il sistema istituzionale», senza ulteriori precisazioni, come se dare un volto qualsiasi
alle forze che opprimono coloro che stanno in basso rischiasse di
abbattere il morale di questi ultimi. La logica conseguenza di tutto
ciò, in barba alle dichiarazioni formali che asseriscono il contrario,
è che l’egemonia diventa di fatto affare esclusivo dei governati, come ben illustrato dall’affermazione «non c’è egemonia senza la costruzione di un’identità popolare a partire dalla pluralità delle domande democratiche» 29. Gramsci sarebbe rimasto sbalordito. Ciò
La ragione populista, cit., p. 112.
Construir Pueblo, cit., p. 105; per un’ulteriore utilizzo della stessa opposizione
e della stessa nozione di «performatività» si vedano anche le pp. 118, 121.
28
Mouffe esprime un certo scetticismo di fronte all’uso disinvolto del secondo
termine, il cui omologo anglofono potrebbe essere individuato nella predilezione di Obama per la parola «folks», come la si ritrova nel superficiale inciso
presidenziale riguardante la condotta dei servizi segreti statunitensi: «Folks have
been tortured». Difendendo l’uso del termine la casta, Errejón osserva che «la
sua capacità di mobilitare le persone risiede nel suo carattere indefinito»: Construir Pueblo, cit., pp. 121-122.
29
La ragione populista, cit., p. 90.
26
27
che contrasta il progetto di unificazione egemonica è la «differenziazione istituzionale», un indistinto divide et impera destinato a rimanere anonimo 30. Le forme storicamente normali di egemonia, che
hanno sempre riguardato le classi dominanti, vengono rispedite
dietro le quinte.
Tutto ciò comportava l’impossibilità di fare un bilancio delle esperienze politiche che La ragione populista citava a sostegno della
propria tesi, il che avrebbe significato occuparsi non solo dell’opera di costruzione dal basso di nuove posizioni soggettive, ma anche delle condizioni oggettive che potevano dar luogo alla «rottura
populista» (ammesso che la si volesse considerare necessaria) e
degli esiti altrettanto oggettivi della traiettoria delineata da
quest’ultima negli Stati Uniti di fine Ottocento, nell’Argentina del
Novecento o in qualsiasi altro luogo. In maniera sintomatica, tutto
ciò che si riusciva a dire circa le sorti del populismo americano
degli anni Novanta del XIX secolo erano quattro laconiche parole:
«le differenziazioni istituzionali prevalsero» 31. All’interno di questo discorso, Togliatti, Tito e Mao venivano tutti e tre lodati in
quanto nazional-populisti, anche se ancora intralciati nella loro
azione dal retrogrado internazionalismo del Comintern; il motivo
per cui il primo aveva fallito mentre gli altri due no, non rientrava
nella scarna trattazione di Laclau. Laddove gli appelli sono tutto
ciò che conta, le definizioni perdono di importanza. Podemos è in
grado di rifiutare la socialdemocrazia un giorno e di autodefinirsi
la nuova socialdemocrazia il giorno successivo 32. Difficoltà da
principianti, forse, ma distanti anni luce dal prigioniero di Turi.
3. La seconda vita di Gramsci prese una curvatura completamente
diversa in Asia. Nel 1947 un giovane militante del Partito comunista d’India originario del Bengala arrivava a Parigi per lavorare
come quadro della Federazione mondiale della gioventù democratica, un’organizzazione fondata dall’Unione Sovietica negli anni in
cui in Europa esplodeva la guerra fredda. All’epoca Ranajit Guha
O anche, più raramente, la «totalizzazione istituzionale», volta a negare qualsiasi estraneità rispetto alla comunità di appartenenza, ivi, p. 75-76.
31
Ivi, p. 197.
32
Così Pablo Iglesias nel discorso pronunciato all’Hotel Ritz di Madrid il 5 giugno 2016. Tre settimane dopo gli elettori spagnoli sarebbero rimasti alquanto
scettici. Per ironia, Errejón aveva rifiutato la definizione di «populista» applicata
da Mouffe a Podemos sulla base del fatto che il termine veniva usato nel circo
mediatico in senso dispregiativo, ed è anche per questo, verosimilmente, che il
partito aveva preferito indossare all’ultimo minuto il rassicurante tricornio di
González e della sua progenie, con risultati peraltro deludenti.
30
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aveva venticinque anni. Dopo aver passato i successivi sei anni
viaggiando, alla maniera degli inviati del Comintern di un tempo,
fra il Medio Oriente, il Nordafrica, l’Europa orientale e occidentale, l’Urss e la Cina, era in seguito tornato in Bengala, dove aveva
prima lavorato come operaio di fabbrica e come scaricatore di porto e poi aveva cominciato a insegnare e a fare ricerca storica nelle
università locali. Nel 1956, in disaccordo con l’invasione sovietica
dell’Ungheria, Guha uscì dal partito e, tre anni dopo, si trasferì in
Inghilterra, dove avrebbe insegnato per circa due decenni nelle
Università di Manchester e del Sussex. Nel 1970-71 un anno sabbatico trascorso in India coincise con la feroce repressione della
ribellione contadina naxalita 33 esplosa in Bengala, alla quale collaborarono entrambe le ramificazioni del comunismo indiano (spaccatosi a partire dal 1964 in filorussi e filocinesi) 34. Determinato a
lavorare, di lì in avanti, sulla resistenza contadina, verso la fine
degli anni Settanta Guha riunì attorno a sé, presso l’Università del
Sussex, alcuni storici indiani molto più giovani con lo scopo di
fondare una nuova rivista, Subaltern Studies, il cui nome lasciava
già intuire quella che ne sarebbe stata la fonte di ispirazione. «Nella nostra urgenza di imparare da Gramsci» avrebbe spiegato tempo
dopo lo storico bengalese, «eravamo mossi da un’esigenza tutta
nostra e in nessun modo influenzati dai due partiti dominanti nel
campo comunista indiano». Da questi ultimi, anzi, il gruppo di
Guha prendeva le distanze in maniera netta: «Ai nostri occhi erano entrambi nient’altro che un prolungamento “progressista di
sinistra” dell’élite indiana al potere» 35.
In un famoso manifesto programmatico che attaccava la tradizione
storiografica nazionalista derivata dal movimento indipendentista
per via della sua focalizzazione esclusiva sulla storia delle élite politiche, Guha chiedeva a gran voce che lo studio delle lotte delle
classi subalterne – operai, contadini, poveri delle città non impieNel maggio del 1967, nel villaggio di Naxalbari (Bengala occidentale) scoppiò
una ribellione di contadini poverissimi contro i latifondisti locali. Da allora vengono chiamati naxaliti i ribelli maoisti riuniti nel People’s Liberation Guerrilla
Army, espressione militare del Partito comunista d’India (maoista), organizzazione clandestina il cui leader è Muppala Lakshman Rao, detto Ganapathi. La
guerriglia naxalita controlla attualmente diverse aree del paese in diversi Stati
indiani, n.d.t.
34
Per una ricostruzione di queste vicende si veda la nota editoriale di Partha
Chatterjee premessa al libro di Guha, The Small Voice of History: Collected Essays,
Permanent Black, Ranikhet 2009.
35
«Gramsci in India: Homage to a Teacher», Journal of Modern Italian Studies, vol.
16, n. 2, 2011, p. 289.
33
gati nell’industria e fasce più deboli della piccola borghesia – si
costituisse in ambito di ricerca autonomo, all’interno del quale
ampi strati della vita e della coscienza popolari avrebbero potuto
sottrarsi alle versioni storiche ufficiali di una borghesia indiana la
cui incapacità di ricomprenderli sotto la propria leadership significava il «fallimento storico della nazione di creare se stessa» 36. Nei
trent’anni successivi Subaltern Studies lasciò un segno indelebile
nella storiografia sud-asiatica, portando avanti il proprio programma di ricerca attraverso diversi studi originali delle varie forme di
resistenza popolare, una «storia dal basso» più vicina al lavoro di
Edward Thompson 37 che non a quello della scuola di Birmingham. Col tempo, tuttavia, in particolare dopo l’abbandono della
direzione della rivista da parte di Guha alla fine degli anni Ottanta, prese piede un mutamento di prospettiva non dissimile da
quello che abbiamo riscontrato nel lavoro di Hall e Laclau. Sotto
l’influsso del post-strutturalismo si delineò una svolta sempre più
accentuata verso interpretazioni tendenti a spiegare la coscienza e
l’azione delle masse a partire da fattori non più materiali ma culturali o genericamente relativi ai rapporti di potere; in questo caso
però – e non è una differenza di poco conto – la reazione contro la
pretesa di incarnare la via della modernità e del progresso propria
dello Stato nato dall’indipendenza, rifiutata in quanto parte del
patrimonio ideologico del raj 38, avrebbe preso infine la piega di un
sentimentalismo volto a idealizzare le comunità contadine e di una
deriva neo-indigenista 39.
Guha, dal canto suo, più vecchio di una generazione e tempratosi
all’interno di un movimento comunista internazionale ancora dotato di una capacità di influenza totalizzante, non cambiò granché.
«A proposito di alcuni aspetti della storiografia dell’India coloniale», in R.
Guha, G.C. Spivak, Subaltern Studies. Modernità e (post)colonialismo, Ombre Corte, Verona 2002, p. 39.
37
Edward P. Thompson (1924-1993) è stato uno storico britannico, noto per i
suoi lavori sui movimenti radicali sviluppatisi in Inghilterra fra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento e autore del fondamentale saggio The Making of
the English Working Class (1963). Inizialmente legato al Partito comunista di Gran
Bretagna, dal quale uscì nel 1956 in seguito all’invasione sovietica dell’Ungheria,
fu fra gli animatori della prima New Left alla fine degli anni Cinquanta, diventando poi una delle figure di spicco del movimento pacifista britannico, n.d.t.
38
Il raj britannico (dall’hindi raj, «governo», «dominio») è stato l’impero angloindiano o l’insieme dei domini nel subcontinente indiano assoggettati alla corona britannica fra il 1858 e il 1947, n.d.t.
39
Per una critica di questa involuzione da parte di uno dei membri fondatori
della rivista si veda S. Sarkar, «The Decline of the Subaltern in Subaltern Studies», in V. Chaturvedi, Mapping Subaltern Studies and the Postcolonial, Verso,
London-New York 2000.
36
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6
Nel 1980 si trasferì all’Australian National University di Canberra.
La sua opera successiva, Elementary Aspects of Peasant Insurgency in
Colonial India, data alle stampe nel 1983 a distanza di pochi mesi
dal lancio di Subaltern Studies ma frutto del lavoro di tutto un decennio, fu un condensato di doti diverse, raramente compresenti
in uno storico: una mente teorica potente e incline alla formalizzazione, un’attitudine alla ricerca empirica meticolosa, un’ampia
padronanza della casistica e, non ultimo, una scrittura notevole e
particolarmente incisiva.
Scopo degli Elementary Aspects era quello di dimostrare «l’indipendenza, la coerenza e la logica» delle idee e delle azioni che i
contadini ribelli avevano opposto ai proprietari di terre, agli usurai e ai funzionari al tempo del raj. Queste non venivano viste come una semplice successione di rivolte ma come un repertorio di
forme, fra le quali la prima era quella della «negazione», seguita
dall’ambiguità, dalla modalità, dalla solidarietà, dalla trasmissione
e dalla territorialità. Per analizzarle Guha faceva ampio ricorso alla
sua formidabile padronanza di uno strumentario intellettuale
estremamente differenziato, in grado di spaziare da Propp, Vygotsky, Lotman e Barthes da un lato fino a Lévi-Strauss, Gluckman,
Dumont, Bourdieu, Hilton, Hill e Lefebvre dall’altro, per non parlare dell’onnipresente Mao 40. Suo principale scopo e risultato era
Tutti autori citati in modo pertinente e con uno scopo preciso, non semplicemente buttati lì per far sfoggio di ampie letture, come sarebbe accaduto invece
fin troppo spesso in tanta letteratura successiva. In una prefazione di grande
garbo e generosità – considerato anche come il suo lavoro sia sostanzialmente
antitetico a quello di Guha – James Scott ha scritto, in occasione della riedizione degli Elementary Aspects di circa vent’anni successiva alla prima: «Un libro di
grande originalità e vaste ambizioni può essere utilmente paragonato a un cantiere navale. Una misura certa della sua capacità d’influenza ce la potrebbe dare
il numero di navi che sono state varate dalle sue banchine. Se consideriamo
anche solo questo criterio, appare chiaro come Elementary Aspects of Peasant
Insurgency abbia avuto un impatto enorme. Migliaia di imbarcazioni hanno preso il largo sventolandone la bandiera. E, dato che in questo caso il carpentiere
navale si è fatto guidare, più che da un progetto rigidamente inteso, da una sua
filosofia della costruzione navale, non sorprende che dallo stesso cantiere siano
potute partire navi progettate in maniera anche molto diversa, dirette verso
porti sconosciuti e cariche di merci nuove ed esotiche. Il carpentiere, credo,
potrebbe anche negare di essere l’ispiratore di alcune di queste realizzazioni e,
di fatto, potrebbe persino rifiutarsi di associare il proprio nome a non poche di
esse. Questo, ad ogni modo, è l’innegabile destino di ogni capomastro: le sue
idee vengono semplicemente incorporate nelle procedure ordinarie che presiedono alla costruzione delle navi, spesso senza che ciò venga riconosciuto esplicitamente. Anche se egli si sentirà in più occasioni travisato e piratato, ciò è pur
sempre meglio dell’essere ignorati» (Elementary Aspects of Peasant Insurgency in
Colonial India, Duke University Press, Durham 1999, p. xi).
40
quello di riabilitare i contadini indiani in quanto soggetti della
propria storia e autori della propria ribellione. Tuttavia, a differenza di molti suoi seguaci, Guha non indietreggiava affatto quando si trattava di dar conto dei limiti che, durante il periodo coloniale, avevano caratterizzato quella storia e quella ribellione, rifiutandosi di attribuire un «finto laicismo» alle forme di solidarietà
fra ribelli e prendendo nota dei modi in cui il senso di appartenenza di classe era stato spesso manipolato per dar luogo a un
sentimento razziale, del fatto che la classe contadina aveva prodotto «non solo ribelli ma anche collaboratori, informatori, traditori»
e della frequenza con cui i ribelli armati provenivano da insediamenti abitati da persone appartenenti tutte alla stessa casta, quindi da una minoranza di villaggi 41. Le interpretazioni tutte rose e
fiori della generazione successiva gli erano estranee.
In maniera coerente con questa impostazione, Elementary Aspects
venne seguito da uno stringato capolavoro intitolato Dominance without Hegemony, forse il libro più notevole che sia mai stato scritto
sulla scorta di Gramsci. Tema del volume erano le strutture di potere del raj ma anche quelle presenti all’interno del movimento di liberazione. Nel tentativo di offrirne un quadro esaustivo, Guha elaborava un modello analitico talmente chiaro e potente da portarlo a
ritenere, senza particolare enfasi ma con una buona dose di ragione,
che esso avrebbe potuto ovviare ad alcune ambiguità presenti nello
stesso Gramsci. Nell’India coloniale sussisteva, va da sé, una sconcertante varietà di rapporti sociali squilibrati in termini di potere.
Tutti, ad ogni modo, implicavano una relazione fra qualche forma
di Dominio (D) e qualche forma di Subordinazione (S). Tanto D
quanto S erano a loro volta composti da un’altra coppia di elementi
in grado di interagire fra loro; il Dominio può infatti darsi sia tramite la Coercizione (C) sia tramite la Persuasione (P), mentre la Subordinazione può tradursi in Collaborazione (C*) ma anche in Resistenza (R), secondo lo schema alla pagina seguente.
In una data società e in un determinato momento storico la relazione D/S varia in relazione a quella che Guha definiva, in analogia col capitale, la «composizione organica» del potere, la quale
dipende dal peso relativo di C e P in D e di C* e R in S, fattori di
per sé sempre contingenti. L’egemonia è quella particolare condizione di Dominio in cui P è maggiore di C, in cui cioè la capacità
di persuasione ha un ruolo più importante rispetto al mero uso
della forza. «Così definita» scriveva Guha, «l’egemonia opera come
41
Ivi, pp. 173, 177, 198, 314.
1
4
7
CONFIGURAZIONE GENERALE DEL POTERE
C
D
P
Potere (D/S)
C*
S
1
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8
R
un concetto dinamico e fa sì che anche la più persuasiva delle
strutture di Dominio sia sempre necessariamente aperta alla Resistenza». Allo stesso tempo, «poiché l’egemonia, così intesa, è una
particolare condizione di D e quest’ultimo è costituito da C e P,
non può darsi il caso di un sistema egemonico nel quale P è così
prevalente su C da ridurla a zero. Se ciò accadesse, non ci sarebbe
alcun Dominio e quindi nessuna egemonia». Questa concettualizzazione, faceva osservare l’autore di Dominance without Hegemony,
«evita la giustapposizione gramsciana dei concetti di dominio ed
egemonia visti come antinomici», la quale era stata «ahimè fin
troppo spesso utilizzata come pretesto teorico per giustificare l’assurdità liberal secondo la quale potrebbe esistere uno Stato che
non ricorre mai alla coercizione, e questo nonostante Gramsci sostenga l’opposto» 42.
«In breve, la nozione di egemonia ricavata in questo modo da quella di dominio presenta un doppio vantaggio in quanto, da un lato, riesce a prevenire il
rischio di una deriva verso una concezione dello Stato di matrice utopisticoprogressista e, dall’altro, ci fornisce una corretta rappresentazione del potere
come concreta relazione storica caratterizzata necessariamente e irriducibilmente dalla forza e dal consenso» (Dominance without Hegemony: History and Power in
Colonial India, Harvard University Press, Cambridge, MA 1997, pp. 20-23).
42
Dotatosi di questa griglia interpretativa, Guha poteva quindi procedere a illustrare i modi specifici di manifestarsi dei quattro elementi costitutivi di D e S al tempo della dominazione britannica. In uno
Stato coloniale C tende per definizione a prevalere su P e il raj, in
effetti, poteva vantare «un esercito permanente fra i più grossi del
mondo, un complesso sistema penale e una forza di polizia ampiamente sviluppata», alla testa dei quali vi era una burocrazia dotata di
poteri straordinari. Dopo che il potere britannico ebbe raggiunto
l’assetto di un «impero regolato», il linguaggio della conquista aveva
ceduto il passo a quello dell’«Ordine». Quest’ultimo, oltre al normale ricorso alla repressione, autorizzava anche gli interventi a tutela
della salute pubblica, il lavoro forzato, il reclutamento militare e altro. Il linguaggio dell’Ordine, tuttavia, non operava in maniera isolata, ma interagiva con un idioma locale a esso complementare,
quello del Danda («punizione»), riferito a tutte le forme tradizionali
di potere basate sulla forza e sul timore intesi come manifestazioni
della volontà divina in ambito politico. Quanto a P, l’altro elemento
costitutivo di D, la ricerca di rapporti non antagonistici con la popolazione assoggettata produceva il linguaggio del Miglioramento, tipico del raj, che si impegnava a garantire un sistema scolastico di
tipo occidentale, il mecenatismo nei confronti della letteratura e
dell’arte indiane, i progetti orientalisti di tutela del patrimonio culturale, la cooptazione nei ranghi dell’amministrazione, il paternalismo rurale, la realizzazione di infrastrutture moderne e altre cose
analoghe. Questo linguaggio, a sua volta, trovava la propria controparte indigena nelle dottrine hindu del Dharma, inteso come il dovere morale di attenersi alle funzioni assegnate a ciascun essere
umano all’interno della gerarchia delle caste, un ideale perfettamente adattabile a moderne teorie della conciliazione di classe come quelle di Tagore e di Gandhi.
Passando poi a esaminare S, anche i suoi due elementi costitutivi
potevano essere espressi tanto nel linguaggio dei colonizzatori
quanto in quello dei colonizzati. La Collaborazione veniva infatti
inculcata sia tramite le dottrine britanniche dell’Obbedienza (particolarmente evidenti in Gandhi prima del massacro di Amritsar 43),
che discendevano da Hume ed erano poi passate attraverso il benthamismo delle origini, sia tramite le ideologie indiane del Bakhti
(«fedeltà»), risalenti al Bhagavadgita. La Resistenza, d’altro lato,
Il 13 aprile 1919 ad Amritsar, principale città dello Stato indiano del Punjab,
il generale britannico Reginald Dyer ordinò alle sue truppe di aprire il fuoco
sulla folla che assisteva a un comizio, causando più di 1.500 tra morti e feriti,
n.d.t.
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poteva essere codificata sul versante britannico come un «diritto al
dissenso» facente appello alla classica idea liberale dei diritti naturali, risalente a Locke ed esprimentesi (per lo più) attraverso petizioni, manifestazioni e marce rispettose della legge; in termini locali, assumeva invece le sembianze della «protesta dharmica», vale
a dire di azioni di massa come ribellioni, diserzioni, sit-in, hartal
[scioperi], non ispirate da una qualche consapevolezza dei propri
diritti ma pervase di indignazione di fronte al mancato rispetto, da
parte dei governanti, del proprio dovere morale di offrire protezione e soccorso ai governati.
Il potere del raj, fondato sulla netta prevalenza di C su P, costituiva un Dominio senza Egemonia. Com’era invece la situazione
all’interno del movimento nazionale che gli si contrapponeva?
Poiché il Congresso nazionale indiano non disponeva del potere
statale, al quale aspirava ma che gli era ancora precluso, e dal momento che la rappresentanza elettorale era il frutto di un suffragio
ristretto, il suo rivendicare un sostegno di massa si basava soprattutto sulla mobilitazione popolare. Questa, tuttavia, era da più
punti di vista una finzione. Che il movimento nazionale suscitasse
un genuino entusiasmo di massa è cosa certa. La sua leadership
borghese, tuttavia, era incapace di integrare gli interessi di classe
degli operai e dei contadini all’interno del movimento stesso, motivo per cui quest’ultimo, dall’inizio alla fine, fu sempre inevitabilmente pervaso da una tendenza alla coercizione. Le distruzioni di
beni, le intimidazioni violente e il ricorso alle sanzioni previste dal
sistema delle caste avevano caratterizzato le prime campagne del
movimento swadeshi 44. Successivamente, al tempo della non cooperazione, era subentrato il moralismo della «forza dell’anima»
posta a fondamento del codice di disciplina gandhiano, finalizzato
a reprimere qualsiasi manifestazione turbolenta ed egualitaria del
sentimento popolare, inevitabilmente bollata come una forma di
oclocrazia. Le élite che guidavano il movimento indipendentista
aspiravano sicuramente all’egemonia ma, reprimendo sul nascere
qualsiasi immediatezza istintuale nella lotta, non riuscirono a evitare l’uso della forza e, in una sorta di nemesi degli oppressi, finiParte del movimento per l’indipendenza dell’India, il movimento swadeshi
consistette fondamentalmente in una strategia economica avente come obiettivi
la fine del governo coloniale e il miglioramento della condizione economica del
paese attraverso l’applicazione dei princìpi dell’autosufficienza (swadeshi). Sviluppatosi soprattutto dopo la divisione del Bengala da parte di Lord Curzon, nel
1905, e proseguito fino all’ottenimento dell’indipendenza nel 1947, esso comportò anche il boicottaggio delle merci britanniche e la riscoperta della produzione e dei prodotti locali, n.d.t.
44
rono per essere incapaci di contenere le forze del comunalismo 45,
che rifiutavano ma che non erano in grado di superare 46. Anche in
R, quindi, P non riusciva a prevalere su C. Nel subcontinente indiano i governanti effettivi e quelli in pectore erano accomunati da
un deficit egemonico.
Questa messa in stato d’accusa del movimento nazionale che sarebbe culminato nella partition 47 aveva una sua forza e una sua legittimità ancor oggi evidenti. Prolungando la propria arringa fino
a ricomprendervi anche il dominio del Congresso 48 su un’India in
versione ridotta, tuttavia, Guha si spinse un po’ troppo in là 49. Egli
fece notare fin troppo bene, insistendo giustamente su questo
punto, come il Congresso, una volta al potere, si fosse impadronito fino in fondo dell’apparato repressivo creato dagli inglesi e come avesse fatto in più occasioni brutalmente ricorso allo stesso tipo di violenza poliziesca e militare per fiaccare ogni resistenza alla
propria azione di governo, dovunque essa si presentasse. Non
tenne però nella dovuta considerazione i nuovi strumenti di persuasione a disposizione del partito, fornitigli dallo Stato e dalla
società civile postimperiali. Si era ora in un sistema a suffragio
universale e le elezioni, tenute regolarmente sulla base delle norme utilmente tendenziose lasciate in eredità dai colonizzatori, erano in grado di trasformare la metà, o anche meno, dei voti dell’elettorato in una maggioranza schiacciante di seggi all’interno di un
parlamento che incarnava una sovranità popolare inesistente al
Il termine «comunalismo» (communalism), introdotto al principio del XX secolo dai colonizzatori britannici, viene usato in Asia meridionale per indicare
una politica esclusivista, fondata sull’identità religiosa e tendente a fomentare lo
scontro fra comunità etniche e religiose diverse che condividono lo stesso paese
o territorio, n.d.t.
46
Dominance without Hegemony, cit., pp. 131-2.
47
La divisione dell’impero anglo-indiano in due Stati sovrani e indipendenti,
India e Pakistan, avvenuta nel 1947, n.d.t.
48
Il Congresso nazionale indiano è il partito politico di centro-sinistra, fondato
nel 1885, che ha guidato il movimento per l’indipendenza dell’India e che, dopo
l’ottenimento di quest’ultima, ha governato il paese ininterrottamente dal 1947
al 2014, n.d.t.
49
Le formule usate da Guha al riguardo tradiscono un’indecisione piuttosto
atipica, dietro la quale è forse possibile scorgere le tracce di una qualche nostalgia per il movimento nazionale, nel suo caso abbastanza insolita. In Dominance
without Hegemony egli scriveva che «la coercizione ingaggiò una competizione
con la persuasione all’interno del progetto nazionale», senza poi specificare il
risultato di tale competizione se non in forma negativa (p. 151). Trent’anni dopo
avrebbe parlato di una «leadership che era stata legittimata dal consenso popolare durante il movimento per l’indipendenza» e che tuttavia «non era riuscita a
tradurre tale consenso in una vera e propria egemonia una volta a capo del
nuovo Stato sovrano» («Gramsci in India: Homage to a Teacher», cit., p. 294).
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tempo del raj: probabilmente il più importante meccanismo consensuale nella struttura di qualsiasi legittimazione capitalista. Anche la religione, del resto, era adesso in grado di giocare un ruolo
meno divisivo, dal momento che il connotato sociologico di formazione indù proprio del partito di governo, nel contesto del
post-indipendenza, ricalcava in maniera molto più precisa il profilo della nazione, mentre il sistema delle caste manteneva vivo il
consenso elettorale attraverso i confini linguistici ed etnici. In
questa nuova situazione, il Congresso aveva ereditato di fatto
un’autentica condizione di egemonia. Forse questa conclusione,
unitamente al suo epilogo odierno rappresentato dall’hindutva 50,
era troppo sgradita.
Negli anni Settanta, mentre era al lavoro sugli Elementary Aspects,
Guha era intervenuto sulla scena politica indiana con una serie di
virulente denunce del regime di repressione e tortura instaurato
dal Congresso 51. Negli anni Ottanta, quando l’impresa intellettuale di Subaltern Studies era ormai in corso, rimase invece politicamente silente. C’era una qualche connessione? Forse il soffocamento della ribellione naxalita nel Bengala aveva eliminato in lui
ogni residua speranza che le masse indiane riuscissero a scrollarsi
di dosso in tempi ragionevoli le strutture di quella che era stata
contrabbandata come la loro emancipazione. Forse era arrivato a
pensare, senza dirlo, che nessuna strategia, intesa alla maniera di
Gramsci, fosse possibile in mezzo a tanto caos. Una simile conclusione pessimistica, ad ogni modo, non va in alcun modo a detrimento dell’eleganza intellettuale e dell’intransigenza politica di
Dominance without Hegemony.
4. Nel lavoro di Giovanni Arrighi, nato l’anno della morte di
Gramsci, sono confluite due diverse correnti di pensiero riguardanti l’egemonia che fino a quel momento avevano continuato a scorrere ciascuna nel proprio alveo: egemonia come relazione di potere
tra classi ed egemonia come relazione di potere tra Stati. Un percorso esistenziale non comune, cominciato come apprendista manager
alla Unilever e proseguito con un’esperienza di militanza internazionalista in Rhodesia, con l’organizzazione di alcune lotte operaie
in Italia e con una serie di ricerche sulla migrazione contadina in
La nozione di hindutva («induità») è al centro dell’ideologia della destra nazionalista indù, attualmente al potere in India con il Bharatiya Janata Party del
primo ministro Narendra Modi, n.d.t.
51
Si vedano i cinque testi pubblicati fra il 1971 e il 1979, primo fra tutti «On Torture and Culture», pubblicato nella quinta parte di The Small Voice of History, cit.
50
Calabria, dotò Arrighi di un campo di esperienze davvero unico
(multinazionali, movimenti di liberazione antimperialisti, rivolte di
fabbrica, terra e lavoro) sul quale edificare la propria impresa intellettuale. Da esso scaturì innanzitutto, più o meno nello stesso periodo in cui Hall si occupava del thatcherismo, Laclau del populismo e
Guha delle ribellioni contadine, il saggio La geometria dell’imperialismo (1978), che tentava di integrare i due modelli alternativi di Hobson e Lenin in un insieme di proposte coerenti in grado di dar
conto dell’avvicendamento degli imperi britannico, tedesco e americano e delle concomitanti metamorfosi del capitale. Rispondendo
ad alcune critiche in una postfazione scritta qualche anno dopo
(1982), Arrighi meditava sul fatto che forse sarebbe stato meglio designare le successive fasi dell’imperialismo che aveva preso in esame come altrettanti cicli egemonici, teoria di cui il suo libro costituiva ancora un semplice abbozzo 52. In quello stesso anno, un suo
contributo pubblicato all’interno di un volume scritto a più mani,
Dynamics of Global Crisis – contributo che attingeva a idee che aveva
sviluppato quando era una figura di spicco del Gruppo Gramsci,
una delle varie correnti rivoluzionarie presenti all’interno della
grande ondata di proteste studentesche e operaie che aveva investito l’Italia fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta
–, faceva chiaramente emergere come egli avesse già cominciato a
collegare e a tenere insieme in un’unica cornice i livelli intrastatale
e interstatale dell’egemonia 53.
In quel periodo Arrighi si era già trasferito negli Stati Uniti, dove
aveva cominciato a lavorare con Immanuel Wallerstein instaurando un produttivo scambio di influenze reciproche: il passaggio di
Braudel dal secondo al primo era stato compensato dal passaggio
di Gramsci dal primo al secondo. Con Il lungo XX secolo (1994), il
cui ambizioso progetto era stato concepito a Cosenza molti anni
prima, quando Arrighi aveva sognato di riconciliare Smith e Marx,
The Geometry of Imperialism, Verso, London 1983, pp. 172-173 (la versione
italiana, pubblicata nel 1978, non contiene la postfazione di cinque anni successiva di cui parla Anderson: La geometria dell’imperialismo, Feltrinelli, Milano
1978, n.d.t.).
53
«A Crisis of Hegemony», in S. Amin, G. Arrighi, A. Gunder Frank, I. Wallerstein, Dynamics of Global Crisis, Monthly Review Press, New York 1982, pp. 108
ss. Nel 1972 Arrighi aveva previsto la recessione economica che sarebbe arrivata
di lì a poco in un articolo pubblicato originariamente in italiano e tradotto anni
dopo: «Towards a Theory of Capitalist Crisis», New Left Review, 1/111, settembre-ottobre 1978 («Una nuova crisi generale», Rassegna Comunista, nn. 2, 3, 4 e 7,
1972, n.d.t.). Per alcuni ricordi di Arrighi relativi a quel periodo si veda la sua
intervista con David Harvey «The Winding Paths of Capital», New Left Review,
56, marzo-aprile 2009, pp. 65-68.
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Weber e Schumpeter, teoria e storia venivano fuse insieme, accompagnate da un’inconfondibile chiarezza di stile ed essenzialità
di forma. Per Arrighi, come per Gramsci, l’egemonia era un miscuglio di forza bruta e consenso. A differenza di molti suoi contemporanei, però, egli ne individuava il nodo fondamentale non
nell’ideologia ma nell’economia. Sul piano internazionale condizione fondamentale per essere egemonici era quella di essere portatori di un modello superiore di organizzazione, produzione e
consumo incline non solo a generare acquiescenza agli ideali e ai
valori della potenza egemone ma anche una generale tendenza
degli altri Stati a cercare di imitarla prendendola a modello. Questa condizione di egemonia, a sua volta, era fonte di vantaggi per i
gruppi dominanti di tutti gli Stati, nella misura in cui stabiliva alcune regole certe per il sistema internazionale e teneva sotto controllo le minacce più comuni dirette contro lo stesso. L’egemonia
così intesa non andava confusa con il semplice «dominio sfruttatore», che vede uno Stato particolarmente potente estorcere in maniera violenta l’obbedienza e la sottomissione degli altri Stati senza concedergli alcuni vantaggi compensativi. All’interno di un
singolo Stato o nel rapporto fra Stati l’egemonia era «il potere aggiuntivo che deriva a un gruppo dominante dalla sua capacità di
porre su un piano “universale” tutte le questioni attorno alle quali
verte il conflitto». A livello internazionale essa si risolveva nella
leadership che derivava a qualsiasi Stato che «può credibilmente
affermare di essere la forza motrice di un’espansione generale del
potere collettivo dei governanti nei confronti dei cittadini» o che
«può credibilmente affermare che l’espansione del proprio potere
rispetto ad alcuni Stati, o persino rispetto a tutti gli altri stati, è
nell’interesse generale dei cittadini di tutti gli Stati» 54. Pretese di
questo tipo venivano tipicamente realizzate non solo con la gestione ma con la trasformazione dei sistemi di Stati preesistenti, dando cioè ogni volta inizio a una nuova combinazione di capitalismo
e territorialismo: le due dinamiche indipendenti ma intrecciate
dell’accumulazione del capitale a livello dell’impresa e dell’espansione territoriale a livello statale.
All’interno di questa cornice analitica si inseriva la successione
storica delle varie egemonie globali delineata nel Lungo XX secolo.
Alle protoegemonie di città-Stato quali Venezia e Genova durante
il Rinascimento italiano erano seguite quelle che Arrighi consideIl lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, il Saggiatore, Milano 2014, pp. 36, 38.
54
rava le tre grandi egemonie dell’età moderna: olandese nel XVII,
britannica nel XIX e, infine, statunitense nel XX secolo 55. Forza
motrice di questa progressione erano i diversi cicli dell’accumulazione del capitale, spiegati dalla formula marxiana D-M-D'. L’espansione del capitale, che vede le imprese all’avanguardia concentrarsi nella potenza egemone, ha inizialmente un carattere materiale: dei soldi vengono investiti per produrre merci e per conquistare nuovi mercati. Col passare del tempo, tuttavia, la competizione tende a far calare i profitti, dal momento che nessun blocco
capitalistico riesce a controllare lo spazio all’interno del quale i
blocchi avversari sviluppano le tecniche e i prodotti che spingono
i prezzi verso il basso. A quel punto il processo di accumulazione
interno alla potenza egemone – ma anche l’accumulazione considerata nel suo complesso – imbocca la strada dell’espansione finanziaria, nella misura in cui i vari Stati rivali cominciano a competere per il capitale mobile mossi dal proprio impulso verso l’ingrandimento territoriale. In un clima di crescente antagonismo,
segnato anche dallo scoppio di conflitti militari, un determinato
assetto egemonico collassa, sfociando in un periodo di caos sistemico. Dal caos emerge infine un nuovo potere egemonico, che dà
il via a un nuovo ciclo di espansione materiale su basi nuove, capaci di rispondere agli interessi di tutti gli altri Stati e ad alcuni o
tutti gli interessi di coloro che sono sottoposti al governo dello
Stato egemone. Nella sequenza qui considerata, ogni egemonia è
stata più ampia di quella che l’ha preceduta, potendo contare rispetto a essa su una base più estesa e più solida: dalla repubblica
olandese, di fatto un ibrido fra una città-Stato e uno Stato nazione, si è passati allo Stato nazione Gran Bretagna per approdare
infine al predominio degli Usa, Stato continentale.
L’inclusione nella sequenza dell’egemonia olandese, di cui non viene fatta
menzione nella Geometria dell’imperialismo, è il segno della proficua collaborazione fra Arrighi e Wallerstein. La parola «egemonia» è completamente assente
nel primo volume, pubblicato nel 1974, di Il sistema mondiale dell’economia moderna (il Mulino, Bologna 1978, vol. 1). Nel secondo (1980) l’egemonia viene
definita come la condizione di superiorità che caratterizza un potere basilare
rispetto a tutti gli altri nelle sfere, a un tempo, della produzione, del commercio
e della finanza (superiorità alla quale andavano affiancati, nel caso olandese, la
potenza marittima, l’avanzamento scientifico e tecnologico, un pizzico di mobilità sociale e salari più alti di quelli di qualsiasi altro paese, tutti fattori che,
consentendo un certo bilanciamento fra gli interessi dei proprietari e quelli dei
produttori, rendono più solido uno Stato). Si veda I. Wallerstein, Il sistema mondiale dell’economia moderna, il Mulino, Bologna 1982, vol. 2. Nel quarto volume
(2011), dedicato alla memoria di Arrighi, l’autore ritiene superfluo dare una
definizione di egemonia: la nozione viene data per scontata, e a farlo notare è lo
stesso Wallerstein (p. xii).
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A che punto si era, in questa successione di eventi storici? Con
largo anticipo rispetto a molti altri Arrighi si era convinto del fatto
che l’espansione materiale postbellica del capitalismo a guida
americana si fosse esaurita alla fine degli anni Sessanta e che, con
la crisi degli anni Settanta, essa avesse passato il testimone a un
ciclo di espansione finanziaria sfruttato dagli Stati Uniti per conservare il proprio potere globale fuori tempo massimo. Egli riuscì
a prevedere, anche in questo caso molto precocemente, che tale
espansione finanziaria sarebbe risultata alla lunga insostenibile e
che con la sua implosione finale anche l’egemonia americana sarebbe arrivata alla sua crisi terminale. Cosa si profilava all’orizzonte? Scrivendo nel 1994, Arrighi osservava che un aspetto inedito
del prevedibile tramonto dell’egemonia americana, in questo decisamente dissimile dai crepuscoli olandese e britannico, consisteva
nel fatto che si era ormai determinata una scissione fra potenza
militare e potenza finanziaria, poiché gli Usa, che pure stavano
sprofondando verso la condizione di nazione debitrice mentre il
forziere del mondo si spostava in Asia orientale, potevano ancora
contare su una superiorità soverchiante dal punto di vista militare.
Nulla di simile si era mai verificato prima. Era forse il segno del
fatto che, con il venir meno di un determinato assetto egemonico,
ci si avviava verso un nuovo periodo di caos sistemico?
Non necessariamente. Nei suoi ultimi lavori Arrighi cominciò a
flirtare con l’idea che il mondo potesse essere in grado di sfuggire
alla logica del capitale e dei cicli egemonici e alle sue conseguenze
distruttive. Braudel aveva insegnato che il capitalismo non coincide con la produzione per il mercato, ma con la superstruttura finanziaria edificata sopra di essa, bisognosa, per poter funzionare,
dell’assistenza del potere statale. Una società di mercato concepita
alla maniera di Smith, tutt’altro che un fautore dell’avidità mercantile e dell’aggressione coloniale, poteva forse rappresentare
un’alternativa egualitaria al capitale così come lo aveva descritto
Marx? I modelli di sviluppo che avevano caratterizzato l’Asia orientale in età premoderna, prima dell’arrivo dell’imperialismo occidentale, lasciavano forse presagire la percorribilità di questa strada? La crescita spettacolare, nei primi anni del nuovo millennio,
della Repubblica popolare cinese, che si avviava a diventare la
prima economia del mondo superando gli Usa, era forse basata
sulla riattivazione della dinamica che aveva caratterizzato quell’epoca precedente 56? A tutte queste domande era possibile dare riAdam Smith a Pechino. Genealogie del Ventunesimo secolo, Feltrinelli, Milano
2008, pp. 37-53, 70-76, 350-372.
56
sposte solo provvisorie ma, negli ultimi anni della sua vita, Arrighi
aveva cominciato a guardare con speranza proprio in questa direzione, quella della «nascita di una società di mercato mondiale
imperniata sull’Asia orientale e basata sul mutuo rispetto delle
culture e delle civiltà mondiali» e di un «modello di sviluppo […]
socialmente ed ecologicamente sostenibile» 57.
L’insorgere di simili aspettative aveva una sua logica se si tiene conto dell’interruzione del progetto originario di Arrighi. Il lavoro,
elemento centrale della sintesi che egli aveva concepito a metà anni
Settanta prima del trasferimento negli Stati Uniti, era assente nel
Lungo XX secolo. Troppo difficile, per ammissione dello stesso autore, si era rivelato il tentativo di ricomprenderlo in una struttura dominata dalle dinamiche della finanziarizzazione, ancora poco chiare
al tempo della sistematizzazione precedente 58. In Adam Smith a Pechino, ideale prosecuzione del lavoro cominciato con il volume del
1994, continuava tuttavia a mancare lo stesso tassello. Dietro questa
lacuna si nascondeva di fatto una delusione. Arrighi aveva potuto
osservare con i propri occhi, nella turbolenta realtà sociale dell’Italia degli anni Sessanta e dei primi anni Settanta, la classe operaia
occidentale giunta al culmine della propria tendenza all’insubordinazione e, mentre lavorava alla stesura del Lungo XX secolo, aveva
mantenuto vivo il proprio interesse per i destini globali delle forze
del lavoro. Della traiettoria storica seguita da quest’ultime a partire
dalla stesura del Manifesto del Partito comunista egli aveva offerto una
ricostruzione magistrale appena quattro anni prima. Secondo Marx
il ruolo di becchino del capitale che la classe operaia avrebbe svolto
in futuro era determinato, da un lato, dal potere collettivo conferito
a essa dall’industria moderna e, dall’altro, dalla miseria sociale impostale dalla tendenza all’impoverimento insita nella produzione
capitalista finalizzata al profitto; un elemento positivo, quello che
rendeva il proletariato capace di rovesciare il dominio del capitale,
si combinava in sostanza con uno negativo, in base al quale esso
sarebbe stato infine obbligato alla rottura rivoluzionaria.
Ciò che Marx aveva unito, tuttavia, venne in un primo momento
diviso dalla storia. Là dove l’industria avanzata riuscì a portare ai
massimi livelli il potere sociale oggettivo del lavoro – in Scandinavia e nei paesi anglofoni e, nel secondo dopoguerra, in Europa
«Poscritto alla nuova edizione», in Il lungo XX secolo, cit., p. 408.
«The Winding Paths of Capital», cit., pp. 73-74. Toccò alla compagna di Arrighi, Beverly Silver, affrontare l’altro lato della questione nel suo Le forze del lavoro. Movimenti operai e globalizzazione dal 1870, Bruno Mondadori, Milano 2008
(ed. or. 2003).
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occidentale e in Giappone – i lavoratori scelsero la strada del riformismo indicata loro da Bernstein. Nelle nazioni in cui, al contrario, il grado di sviluppo economico era molto basso, e cioè in Russia e in altri paesi orientali, la miseria materiale creò le condizioni
soggettive per far sì che le masse percorressero la via leninista
della rivoluzione. Con il declino economico iniziato negli anni
Settanta, tuttavia, entrambe le mete erano entrate in crisi: se da un
lato le delocalizzazioni verso i paesi del Sud del mondo avevano
indebolito la classe operaia occidentale, il processo di industrializzazione aveva d’altro canto rafforzato quella dei paesi dell’Est, cominciando a rimescolare le diverse componenti della forza lavoro
globale e a ridurne la polarizzazione. Il movimento di Solidarność
in Polonia e alcune ondate di scioperi in Corea e in Brasile erano i
segnali di un livellamento globale delle condizioni della classe
operaia che sembrava alludere alla possibilità che una situazione
simile a quella illustrata da Marx stesse per prendere corpo 59.
Dopo dieci anni di neoliberismo, svanita Solidarność e con i livelli
di sindacalizzazione in caduta libera in tutto l’Occidente, tutto ciò
era ancora vero? Caos e governo del mondo, scritto insieme a Beverly
Silver, era più cauto ma non pessimista. Senz’altro si era ormai in
presenza di un «regime internazionale […] labour-unfriendly», ma
non poteva forse darsi che fosse in azione anche il contromovimento di resistenza alla mercificazione teorizzato da Karl Polanyi? La
socialdemocrazia, in fin dei conti, era al governo in tredici dei quindici paesi membri dell’Unione europea. «La perdita di potere dei
movimenti sociali – in particolare del movimento operaio – che ha
accompagnato l’espansione finanziaria globale degli anni Ottanta e
Novanta è un fenomeno in larga misura congiunturale», concludevano quindi Arrighi e Silver, prevedendo il prossimo manifestarsi
di una nuova ondata di conflitti sociali 60. Una qualche eco di questa
speranza, ancorché piuttosto debole e marginale rispetto al tema
principale del libro, è presente anche in Adam Smith a Pechino, là
dove l’autore accenna brevemente al tema delle rivolte urbane e
rurali in Cina.
Questa particolare caratteristica del pensiero di Arrighi scaturiva da
quella che ne era stata la matrice originaria in Italia. Il gruppo che
egli aveva guidato nei primi anni Settanta era parte dell’ampio fiu«Marxist Century, American Century: The Making and Remaking of the World
Labour Movement», New Left Review, 1/179, gennaio-febbraio 1990.
60
G. Arrighi, B.J. Silver, Caos e governo del mondo. Come cambiano le egemonie e
gli equilibri planetari, Bruno Mondadori, Milano 2003 (ed. or. 1999), pp. 14-15,
328.
59
me dell’operaismo, una corrente del quale individuava in Mario
Tronti il proprio teorico di riferimento e guardava con ammirazione
alle conquiste effettuate dal movimento operaio americano nel fortino del fordismo durante il lungimirante governo di Franklin Delano Roosevelt. Ereditando da questo filone italiano una sopravvalutazione del New Deal, Arrighi attribuiva all’egemonia americana
arrivata al suo culmine la capacità di proiettare all’esterno un modello di welfare globale simile a quello creato a suo tempo da Roosevelt, come se Washington avesse effettivamente risposto all’«interesse generale dei governati di tutti gli Stati». Perdendo di vista il proprio ammonimento secondo il quale «la pretesa di rappresentare un interesse generale propria del gruppo dominante è sempre più o meno truffaldina» 61, un’errata valutazione delle conquiste
del Cio 62 e dell’Umw 63 aveva aperto la strada alla successiva tendenza a trascurare il fattore lavoro. Allo stesso tempo, nel repertorio di
esperienze politiche di Arrighi, trovava posto anche un’altra spinta
alla ribellione, oltre che sorgente di cambiamento politico, di cui
era stato testimone in Africa e per la quale avrebbe sempre mantenuto un grande trasporto. La diseguaglianza globale fra gli Stati era,
in ultima analisi, molto più ampia di quella sussistente fra le classi
degli Stati avanzati dell’Occidente. Il Terzo mondo non si sarebbe
lasciato assoggettare così facilmente. Le previsioni di Marx non si
sarebbero avverate a Detroit, ma le intuizioni di Smith stavano forse
assumendo forma concreta a Pechino.
La formazione giovanile di Arrighi ebbe infine anche un’altra conseguenza sulle sue ricerche più tarde. A differenza dell’operaismo
in genere, il suo gruppo era stato espressamente gramsciano. Nel
teorizzare l’«autonomia operaia», tuttavia, aveva insistito non tanto
sui Quaderni del carcere, quanto sugli scritti relativi ai consigli di
fabbrica che il filosofo sardo aveva pubblicato su L’ordine nuovo
«The Three Hegemonies of Historical Capitalism», Review (Fernand Braudel
Center), estate 1990, p. 367.
62
Congress of Industrial Organizations (Cio), raggruppamento di sindacati
dell’industria statunitensi e canadesi creato nel 1935 come corrente interna
dell’American Federation of Labor (Afl), la più antica e ampia confederazione
sindacale Usa, e poi scissosi da quest’ultima nel 1938. Le due sigle sarebbero
infine tornate a formare un’unica organizzazione (l’attuale Afl-Cio) nel 1955. Il
Cio, aperto anche agli afroamericani, sostenne Franklin Delano Roosevelt e la
New Deal Coalition negli anni Trenta, n.d.t.
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United Mine Workers of America (Umw o Umwa), sindacato dei minatori statunitensi e canadesi. Fu, sotto la guida di John L. Lewis, uno dei più importanti sindacati che diedero vita al Cio negli anni Trenta. Tuttora esistente, rappresenta oggi, insieme ai minatori, anche altre categorie di lavoratori nordamericani e fa parte dell’Afl-Cio, n.d.t.
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prima di essere imprigionato. Ribellandosi alla strumentalizzazione dei Quaderni operata dal Pci, il Gruppo Gramsci non prestò
grande attenzione ai temi «nazional-popolari» di cui essi erano
pervasi, temi che del resto erano oggetto di assoluto disprezzo da
parte di altri settori dell’operaismo. Tutto ciò aveva in qualche
modo lasciato un segno in Arrighi. Sviluppando le idee di Gramsci
oltre il livello nazionale dei rapporti fra classi in direzione del sistema internazionale delle relazioni fra Stati, egli trasformò l’eredità intellettuale gramsciana in maniera più radicale e creativa di
chiunque altro. Eppure, anche se la costruzione che ne risultò includeva entrambi i livelli, non potevano esservi dubbi su quale dei
due fosse quello prevalente. Prima veniva il sistema e poi, a grande distanza, gli Stati che entravano a farne parte. «Il nostro interesse verso i processi al livello delle unità», faceva notare in Caos e
governo del mondo, «è strettamente limitato al loro ruolo di causa
prima del mutamento sistemico nelle transizioni egemoniche» 64.
Le nazioni rimasero sempre l’anello debole della sua elaborazione
gramsciana, e alle strutture del potere egemonico a esse interne
egli non prestò mai particolare attenzione. Ciò poteva condurlo a
una certa spensieratezza, che avrebbe giovato in egual misura ai
governanti dell’America e a quelli della Cina, paladini del New
Deal o dell’era delle riforme, ritratti nella tela affrescata da Arrighi
con pennellate troppo grossolane per coglierne con precisione i
contorni e il dettaglio degli artigli ben conficcati nelle schiene dei
rispettivi sudditi.
Lo spostamento, con risultati di assoluto interesse, della nozione
gramsciana di egemonia dal livello intrastatale a quello interstatale
avvenne quindi a un prezzo. Arrighi conosceva bene il lavoro di
Guha, da lui citato regolarmente come fonte del proprio modo di
descrivere il declino della potenza statunitense nel mondo,
anch’essa ormai caratterizzata da un «dominio senza egemonia» 65.
Fra i due piani, tuttavia, esiste una differenza. Le relazioni fra classi interne a una singola nazione si inseriscono in una cornice legale e culturale comune, inesistente nel caso dei rapporti fra Stati.
La composizione organica dell’egemonia, per usare l’espressione
di Guha, è sempre molto definita nel contesto politico internazionale, con un equilibrio fra coercizione e persuasione nettamente
più sbilanciato a favore della prima di quanto non avvenga nell’ambito della politica nazionale. Lo strumento ancor oggi più tipico
64
65
Caos e governo del mondo, cit., p. 41.
Ivi, cit., pp. 31, 282-286; Adam Smith a Pechino, cit., pp. 170-171, 200.
per regolare i rapporti fra Stati rimane la guerra – un Nobel per la
pace 66 ne sta portando avanti attualmente ben sette – di cui le sanzioni rappresentano un complemento accessorio appena poco meno brutale. Da un punto di vista storico il ricorso alla forza militare, che secondo Arrighi era un sintomo del prossimo declino
dell’egemonia americana, era in realtà il suo modo più tradizionale di manifestarsi (mentre la strada dell’embargo economico a esso
associata si è spesso rivelata inefficace). Che la tempistica delle
previsioni di Arrighi possa essere inesatta non implica ovviamente
che esse siano destinate a rivelarsi sbagliate. In un’opinione così
diffusa come quella qui considerata, ad ogni modo, si è sempre
sentita la mancanza di una qualche forma di protezione dal rischio
di confondere desideri e realtà.
5. Il concetto di egemonia ha avuto una storia lunga e complessa.
Le rielaborazioni del pensiero di Gramsci che abbiamo preso in
esame ne rappresentano in realtà solo una parte, ancorché la più
significativa dell’epoca contemporanea. Tutte e quattro sono nate
da un’unione di impegno politico e intellettuale. Alla base di ciascuna vi è stata un’esperienza formativa di coinvolgimento attivo
in alcuni grandi processi di radicalizzazione a sinistra verificatisi
nel secondo dopoguerra (la New Left in Gran Bretagna, il Psin in
Argentina, il Cpi in India e l’operaismo in Italia), in un contesto
storico che vedeva il capitalismo costretto alla difensiva in numerose parti del mondo e diverse rivoluzioni, da quella jugoslava a
quella vietnamita, da quella cubana a quella portoghese, succedersi a distanza di pochi anni. Le longeve imprese intellettuali che ne
sono seguite hanno mosso i loro primi passi nel clima di riflusso
politico cominciato poco dopo la crisi economica di inizio anni
Settanta e perdurante ancora oggi (eccezion fatta per un’interruzione regionale). Figlie, a un tempo, dello sradicamento geografico e della sconfitta politica, esse hanno dato prova dei grandi risultati teorici che possono essere raggiunti anche in tempi proibitivi per l’azione.
Non sono state le uniche a farlo, ovviamente. Ciò che le ha caratterizzate, piuttosto, è stata la comune scelta di ispirarsi al più grande
pensatore marxista vissuto nel periodo fra le due guerre, la cui
immaginifica e articolata problematica dell’egemonia è stata centrale in ciascuna di esse. Ognuna ne ha tratto suggestioni diverse:
Il riferimento polemico è ovviamente a Obama, ancora in carica nel momento
in cui Anderson scriveva, n.d.t.
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la comprensione della complessità ideologica del dominio di classe ha interessato soprattutto il giamaicano; le assillanti preoccupazioni strategiche di Gramsci sono state al centro del lavoro dell’argentino; la consapevolezza profonda della vita dei gruppi subalterni ha ispirato le ricerche del bengalese; sull’interesse per le forme
più avanzate della produzione, infine, si è focalizzata soprattutto
l’attenzione dell’italiano. In nessun caso, ad ogni modo, si è trattato di appropriazioni in vitro. Come già accaduto alle precedenti
generazioni di marxisti occidentali, non sono mancate diverse importanti contaminazioni col pensiero di autori esterni al canone
marxista: Hall si è ispirato, fra gli altri, a Bachtin, Laclau a Lacan,
Guha a Lévi-Strauss, Arrighi a Braudel. Gli esiti di ciascuna impresa non sono stati perfetti: considerate a posteriori – ma, in fondo, già all’epoca della loro prima formulazione – le quattro sintesi
teoriche qui analizzate non sono esenti da limiti di vario tipo, in
alcuni casi più evidenti, in altri meno. Lo stesso si può dire, tuttavia, di qualsiasi scritto di argomento politico, sempre più o meno
soggetto a margini di errore in ogni tempo e luogo. Ciò che colpisce, in ultima analisi, è l’elemento creativo che ha consentito di
mettere a frutto il pensiero di Gramsci in forme che egli stesso
non aveva previsto o aveva giudicato erroneamente. Nell’era della
televisione, dei tabloid, della psefologia e degli spin doctor, per
non parlare del punk, l’egemonia era mutata non poco rispetto al
tempo del duce: il populismo non si identificava più con una camminata sfiancante verso i villaggi russi, i contadini si erano mostrati più autonomi di quanto il prigioniero di Turi non avesse creduto, la gerarchia fra Stati poteva funzionare non solo come fattore
di mantenimento, ma anche di ricostruzione della gerarchia fra le
classi. Questi e altri cambiamenti inattesi sono stati presi in carico
dai successori di Gramsci. L’eredità di quest’ultimo è stata assorbita solo in parte da ciascuno di essi, producendo di volta in volta
una riflessione teorica che non era il «marxismo d’insieme» invocato disperatamente da David Forgacs un quarto di secolo fa e
che, anzi, era sempre piuttosto parziale, sia per il suo limitato campo di applicazione, sia per il suo modo di interpretare il marxismo.
Ciò non toglie che i lavori di questi quattro autori, considerati nel
loro complesso, rappresentino oggettivamente un esempio di «intellettuale collettivo» per coloro che verranno.*
(traduzione di Marco Zerbino)
* Pubblicato originariamente come «The Heirs of Gramsci», New Left Review,
100, luglio-agosto 2016, © 2016 New Left Review.