Donne di Foligno, Donne a Foligno…
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Donne di Foligno, Donne a Foligno…
COMUNE DI FOLIGNO Assessorato Politiche di Genere e Pari Opportunità 10 Donne di Foligno, Donne a Foligno… 8 marzo 2014 Illustrazione e ideazione grafica: Francesca Greco www.francescagreco.it Progettazione e stampa: Dimensione Grafica Ringraziamenti Si ringrazia particolarmente il personale dell’Ufficio Pari Opportunità dell’Area Diritti di Cittadinanza del Comune di Foligno, ovvero la Responsabile Giuliana Caporali e Melina De Bellis per la cura nella realizzazione dei Quaderni, dai testi alle immagini, e per il lavoro quotidiano e straordinario, non scontato e non dovuto, per la passione con cui è stato profuso per realizzare le Politiche di Genere e per le Pari Opportunità l’Assessora Rita Zampolini Sommario Introduzione Storie di Donne Lonita … un dolce ritratto Flavia Agostini Armida Mariotti Paola e Maria Palma, due ragazze pronte a spiccare il volo con le proprie radici nel cuore Federica Fratini, una donna appena sopra la terra La mia piccola, ma vissuta storia di donna 20 minuti Agente speciale Daniela Antonini Un salto e un rimbalzo nella natura Maura e Patrizia Bocci … Le mie insegnanti di danza 1721, Tecla Maddalena Vitelleschi: una Rosa senza spine? Maria Rosaria Tradardi Ritratti di donne Da qualche parte nel mondo Pag. 5 Pag. 9 Pag. 15 Pag. 21 Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. 29 35 41 45 47 51 57 61 67 73 81 Introduzione Leggo le storie tutte insieme, una dietro l’altra, come ogni anno, da dieci anni. Ognuna è un viaggio in una vita. Un viaggio nei sentimenti, nelle scelte, nelle gioie e nelle amarezze, nelle difficoltà e nella forza trovata per affrontarle, per mettersi in gioco, per rinascere, per ritrovarsi. E lo stupore si rinnova, autentico, attraversando i racconti, scoprendo ancora donne straordinarie nella loro ordinarietà, protagoniste per lo più senza clamore ma con determinazione della storia della città, intente a costruire esistenze e a prendersene cura, senza preoccuparsi o assicurarsi visibilità. A partire da quello stupore ritrovato ancora una volta sento di poter affermare che probabilmente la scommessa iniziata dieci anni fa con i “Quaderni dell’8 marzo” è stata vinta. L’avventura iniziò proponendosi di far conoscere nelle sue sfaccettature e fuori dagli stereotipi la parte di società costituita dal genere femminile, quella di cui la ricerca storica, le cronache solitamente si dimenticano. Si voleva far sì che tali figure fossero conosciute nel valore che la differenza di genere aggiunge come risorsa, come ricchezza, cui attingere singolarmente e collettivamente. S’intendeva rendere chiaro a tutti, più che a tutte, anche quanto quella differenza sia stata e sia ancora elemento di discriminazione e di aggravio per le donne segnate nelle loro vite da una cultura tradizionalista e maschilista che ne disconosce in forme vecchie o nuove e insidiose il ruolo sociale, l’indipendenza, la realizzazione lavorativa, il sovraccarico di responsabilità familiari, la dignità umana. Si voleva allo stesso tempo dare parola, dare voce alle donne. Per questo si è chiesto rigorosamente ad altre donne di raccontare. Con lo straordinario risultato di moltiplicare le visibilità, perché nel raccontare delle altre ciascuna ci ha raccontato anche un po’ di sé. Con le storie delle donne di Foligno, nate qui o divenute folignate, sono stati anche tirati fuori dall’oblio spaccati di vita quotidiana e di vita cittadina del passato e del presente. É stato fatto senza pretese storiche o scientifiche ma con la convinzione di lanciare appigli per approfondimenti, ricerche storiche e sociologiche fondate su un approccio di genere. Confesso un ulteriore intento ora che siamo giunti alla decima edizione. Nelle vite raccontate dalle donne del passato, del presente (nelle diverse età) e del futuro (le giovani di cui si narra) ciascuna può specchiarsi e può trarne ispirazione e forza rispetto alla propria condizione, alle aspirazioni che ha, alla sfide e alle difficoltà che gli eventi pongono loro di fronte o che scaturiscono da scelte di vita. Si voleva cioè creare quel fruttuoso circuito per cui arriva dalle donne la forza delle donne. Ecco forse l’obiettivo più ambizioso perseguito con i Quaderni: offrire esperienze ed esistenze su cui fondare la fiducia nelle proprie capacità, in se stesse, nel proprio essere, nel genere femminile. Consapevolezze basilari per sviluppare quell’autonomia personale che permette di costruire relazioni paritarie, di qualità, in cui beneficiare dello scambio, della reciprocità, della solidarietà, nella comunità, negli ambiti sociali, amicali e familiari. L’autonomia personale é in- dispensabile per sconfiggere alla radice la cultura maschilista della sopraffazione che alimenta la disparità di potere, è alla base della violenza sulle donne, delle discriminazioni nell’accesso, nella permanenza e nel trattamento sul lavoro, nell’intraprendere, nel ricoprire ruoli decisionali. I “Quaderni dell’8 marzo” hanno accompagnato e supportato come un motivo di fondo lieve, ma persistente ed incisivo, le politiche e le azioni messe in atto in questi dieci anni di Assessorato per promuovere una cultura e costruire pari opportunità di genere. Dai progetti nelle scuole di vario grado, alle iniziative di approfondimento e di sensibilizzazione, dagli eventi teatrali ai film, dai dibattiti ai seminari fino ai flash mob, per l’8 marzo, per il 25 novembre “Giornata internazionale contro la violenza sulle donne” fino al 14 febbraio, giorno della mobilitazione internazionale “One Billion rising!”; dai servizi realizzati come lo Sportello Donna fino alla Casa delle Donne, luogo di incontro e di socialità femminile animato dalle associazioni, con i suoi laboratori ed attività mirati all’ empowerment delle donne. Spaziando dai temi della conciliazione e condivisione dei tempi di vita e di lavoro tra donne e uomini, al contrasto alla violenza di genere, al ruolo delle donne nella storia e nella ricerca scientifica, tutte le azioni effettuate e previste, per filoni d’intervento, sono state raggruppate e programmate nel Piano per le Politiche di Genere e il Piano di Azioni Positive, dotando così il Comune di strumenti stabili per consolidare politiche concrete e l’approccio culturale che le ha ispirate. Nell’arco del decennio si è operato anche per dotare la cittadinanza di uno strumento di predisposizione e valutazione delle azioni amministrative secondo l’ottica di genere, per orientarle verso la produzione dell’uguaglianza tra uomini e donne, in modo trasversale a tutti gli ambiti della vita cittadina (mainstreaming). Si tratta del Bilancio di Genere la cui prima edizione vedrà la luce proprio alla fine dell’attuale mandato amministrativo. Particolare attenzione ha avuto l’azione di contrastare la violenza di genere. Accanto alle iniziative di prevenzione e intervento, negli ultimi anni si è intensificato l’impegno con la partecipazione al progetto regionale U.N.A. Umbria Network Antiviolenza per costruire la rete regionale, con servizi locali integrati a sostegno delle donne colpite dalla violenza di genere, in attesa che la proposta di legge regionale su “Norme per le politiche di genere e per una nuova civiltà delle relazioni tra donne e uomini” diventi realtà. Nell’ultimo anno l’impegno si è concentrato sulla definizione della rete locale antiviolenza, con la costituzione del tavolo tra tutti i soggetti istituzionali e non, coinvolti e alla cui definizione si giungerà con la stipula del protocollo d’intesa. Tutto ciò avveniva ancor prima che anche la nostra città fosse segnata dal dramma orrendo del femminicidio. Proprio nel giugno scorso infatti due donne sono state uccise da uomini loro partner o ex. É una ferita profonda nel nostro sentire, che ha impresso dentro di noi il ricordo delle vite spezzate di Sandita Munteanu e di Olga Dunina. La loro memoria è un ulteriore monito a non smettere mai di contrastare quella cultura prevaricatrice e proprietaria, negatrice della dignità, dei diritti e delle libertà delle donne, segno del degrado persistente di civiltà. Nelle storie delle donne di Foligno troviamo la speranza di riscatto individuale e collettivo delle donne e con loro di tutta la comunità. Un impegno che è bello immaginare e che veda sempre più uniti gli uomini con le donne. L’auspicio è che i “Quaderni” abbiano sempre più lettori attenti. Con la decima edizione si chiude un ciclo. È dunque inevitabile per me tornare a ringraziare con grande riconoscenza tutte le donne che in questi anni hanno generosamente accettato di raccontarsi, farsi raccontare, raccontare delle altre. Tutti i loro nomi sono indicati nell’appendice a questa edizione, anno per anno. Un ringraziamento particolarmente sentito e affettuoso lo rivolgo alle donne che quest’anno si sono messe in gioco in vario modo: aprendo squarci sulla storia dell’impegno politico delle donne come nel caso di Serena Rondoni che ha raccolto la testimonianza di Flavia Agostini, e di Luana Brilli che ha ricordato intensamente Armida Mariotti; parlando di un futuro che affonda le radici nell’eredità di un’arte antica come ha fatto Antonella Maria Ambrogi raccontando di Paola e Maria Palma, o nella riscoperta dell’”arte della terra” come insegna la storia di Federica Fratini narrata da Livia Villani; raccontandoci di dolci rinascite come Barbara Bibi; o di passioni professionali come nel caso di Daniela Antonini raccontata da Cinzia Giannangeli e di Sara Trabalza di cui ci parla Ilaria Bellani, che riempiono la vita e disseminano quella di altre come scrive Teresa Rospetti raccontando di Patrizia e Maura Bocci; parlandoci delle passioni e del talento poetico che danno nuova vita come nel caso di Maria Rosaria Tradardi raccontata da Carla Oliva o danno voce a “legami insondabili” tra donne come scrive Elena Laureti raccontandoci di Maddalena Tecla Vitelleschi; gridandoci la forza vitale nonostante tutto come fa Hayat; svelandoci “l’amore materno che non nasce nella pancia”, racconto di cui ringrazio Patrizia Bocci. Ringrazio sentitamente Annamaria Rodante che non ha mancato mai all’appuntamento con i Quaderni e che ha ripercorso in un ritratto corale le storie narrate in dieci anni soffermandosi su una figura dotata di lungimirante innovazione. Un ringraziamento struggente lo rivolgo a Francesca Cesarini e Lella Giorgetti che ci hanno permesso di condividere la bellezza di una donna che non abbiamo scoperto abbastanza quando avremmo potuto. Loro ci raccontano di Lonita Lattari che ci ha lasciati l’estate scorsa, troppo presto e troppo severamente. Un saluto affettuoso va a colei che nella seconda edizione dei Quaderni ci regalò uno spaccato di storia personale e cittadina del movimento delle donne negli anni settanta. Una storia che mi auguro si possa ricostruire presto con cura e nell’intensità che ebbe. Quella donna è Annamaria Arcamone che ci ha lasciato da alcune settimane e di cui voglio ricordare il sorriso mite e sapiente. Di tutte queste storie e memorie faremo, dovremmo fare tesoro. Così come dovremmo far tesoro delle immagini che Francesca Greco ci ha consegnato di anno in anno, attraverso il manifesto e le tavole interne ai Quaderni. Ringrazio ancora Francesca, calorosamente. Ogni volta ha saputo cogliere ed interpretare con espressioni diverse la condizione delle donne e il messaggio di liberazione e di emancipazione che si voleva trasmettere, con la complessità, le contraddizioni, le difficoltà, le speranze che lo accompagnano, nelle molteplici dimensioni che le donne sanno tenere insieme. In questa decima edizione sono state inserite le immagini che lei ha realizzato di anno in anno in una sequenza che ripercorre il percorso compiuto. L’immagine in copertina è la prima che Francesca Greco realizzò per raffigurare l’8 marzo per il Comune di Foligno, iniziando quel felice scambio che nelle diverse edizioni ha sviluppato i concetti in modo poetico, intenso e lieve, rilanciando la sfida più avanti. Quell’immagine è stata qui riprodotta con l’andatura in direzione opposta alla prima versione, a segnare un arrivo, una ripartenza. Colei che va è una donna che ci invita con lo sguardo ad andare avanti, fiduciose della nostra forza e della nostra ricchezza, con passo lieve ma deciso, con ai piedi la sua città, rimpiccolita ma vitale. È una donna grande di sé e della sua curiosità, che con la borsa di viaggio, di lavoro, di conoscenze, forte delle sue radici e con la gonna larga si proietta su orizzonti più ampi, con libertà. Così mi piace immaginare che siano, che diventeranno, ciascuna a suo modo, le donne della nostra città. Rita Zampolini Assessora alle Politiche di Genere e di Pari Opportunità tra Donne e Uomini del Comune di Foligno 7 Storie di Donne Lonita... un dolce ritratto Pronto, ciao Lella sono Francesca... Abbiamo un compito da svolgere insieme... Si, stavo per chiamarti anch’io...ci vediamo per parlarne? Ok, ti va bene giovedì al bar verso le 18? Per me va bene... Ciao Francy, è vero ho cominciato solo oggi a scrivere di Lola, sì è il 27 gennaio, non è un caso, oggi è il giorno della Memoria... Una memoria difficile, è passato troppo poco tempo, ma non so se passandone ancora si colmerà questo vuoto o rimarrà a testimoniare la sua presenza discreta ma potente, leggera ma radicata, quasi un ossimoro incarnato, la congiunzione tra lo yin o lo yang. Bè, mi piace pensare in questo giorno che rimanda a tanta tragedia, alla sua parca ma solida solarità, a quanto abbiamo condiviso, amato, discusso, ma anche riso e pianto. Tanti anni abbiamo passato insieme, da quando ventenni, cominciavamo a tessere la ragnatela del nostro futuro, io in un modo lei in un altro, ma insieme ... Ti ricordi Francy i primi passi nel mondo del lavoro, i nostri entusiasmi, le nostre sfide, la Cooperativa casa nostra, i valori il nostro cibo, l’aiuto agli altri il nostro ossigeno. Quanta solidarietà è corsa tra di noi, abbiamo condiviso la vita insieme... Oggi, la penso Lola e ogni volta oltre alla commozione, nella mia mente scorrono immagini di vita, un caleidoscopio di colori, emozioni ... Lella, la tua esperienza nasce prima come collega e poi come amica, per me il rapporto oscilla tra tre poli: quello di avere un legame familiare, eravamo cugine, di essere cresciute come amiche ed essere poi diventate anche colleghe… come se la mia vita fosse strettamente intrecciata con la sua da quando siamo nate a un mese 9 di distanza l’una dall’altra. Saremmo potute nascere insieme, ma io ho scalpitato per uscire prima e lei se l’è presa più comoda!!!! Con lei ho condiviso i pantaloni a zampa d’elefante, le battaglie contro quelle che allora erano definite istituzioni totali, le prime sigarette fumate di nascosto sulla torre di Capodacqua, i primi amori, i libri “seri”, quell’essere giovani, quell’essere adulte, piangere insieme anche senza un perché, certo che a volte aveva la lacrima facile, come senza un perché ridere fino ad avere il mal di stomaco. Infatti ricordo la sua forte sensibilità che incrociandosi con la mia, “rompeva la diga” e poi giù a ridere di quanto ci sentivamo sceme dopo aver tanto pianto, si, dovevamo dimostrare sempre di essere forti e quella nostra debolezza veniva così da noi stesse ridicolizzata. L’ultima volta che abbiamo pianto insieme e di seguito riso di noi è stata quando ci siamo viste dopo la morte del mio amatissimo cane Whilly: ci siamo solo guardate ma ci siamo fortemente sentite. Il primo impegno lavorativo alla Locomotiva è stato come educatore alla comunità per minori, successivamente ha contribuito alla nascita “progettuale” del servizio diurno per minori che nel 1989 aprì nei locali attigui alla stessa comunità. Ed è in quel momento che la sua attività professionale si è tramutata in una passione viva, palpitante, che ha attraversato la sua vita. Il nome stesso che aveva scelto per questo servizio, il Paguro, riusciva a racchiudere l’essenza stessa del centro, una conchiglia, un guscio, un luogo protetto, una casa sostitutiva dove stare fino a che ce ne fosse stato bisogno…. Una premura rivolta non soltanto ai bambini e ai ragazzi del Paguro, ma anche alle famiglie, perché crescessero insieme ai figli e riuscissero a recuperare un rapporto sereno. Una sua intuizione importantissima quella di lavorare con le famiglie, perché non percepissero il servizio concorrenziale rispetto al loro essere genitori e perché anche loro avessero qualcuno con cui confidarsi, senza paura di essere giudicati. Il rammarico che ho è che spesso la gente non ha compreso appieno lo spessore politico dell’impegno sociale, quel profondo senso di uguaglianza, giustizia, pari opportunità che ci ha accumunato, che esonda come un fiume in piena dalla tua vita lavorativa fino a dilagare nella tua esistenza, negli aspetti della quotidianità, nel modo 10 stesso di porti con gli altri. Non c’è niente di più profondamente rivoluzionario che rendere concreta un’uguale attenzione, una stessa considerazione, un identico, profondo rispetto per qualunque persona indipendentemente dal ruolo, dallo status sociale, dal riconoscimento pubblico. Mi piace ricordare anche il suo impegno con le persone con problemi di salute mentale, quando in cooperativa era lei a portare avanti questo tipo di progetti. Con infinita pazienza intrecciava un tessuto delicato che sosteneva un rapporto di fiducia appena nato fino a vedere l’altra persona aprirsi alla vita… La famiglia, per Lola, è sempre stato un valore indissolubile, e così come cercava di proteggere quella dei “suoi bimbi”, ha curato, protetto, amato la sua, con instancabile dedizione. La sua famiglia non era solo quella di origine, era una famiglia allargata di cugine, cugini, nipoti, zii, tanti amici e tantissime amiche che le sono state sempre vicino, segno delle relazioni profonde che riusciva ad istaurare e a mantenere nel tempo. Nel novero del familiari c’erano anche i gatti, a cominciare dalla capostipite storica Mughetta fino ai sei degli ultimi tempi. Con i nomi ha sempre avuto una gran fantasia. Chi ama i gatti di solito non ama i cani, ma lei voleva bene ad entrambi, perché chi è veramente capace di amare non mette i limiti delle appartenenze, delle razze, della “proprietà”, ma ama perché amare è il suo modo di essere, di vivere la quotidianità, di respirare la vita. Memorabile è stata la sua disponibilità ad ospitare cani e gatti di amici durante le vacanze!!! A Le’, e quando si autodefiniva Calimero? Certo che era strano che quando andava a mangiare fuori spesso “si dimenticavano” di portarle quello che aveva ordinato, succedeva così spesso che non poteva essere solo una coincidenza… anche quando siamo uscite insieme è successo tante volte e, quando ci rendevamo conto che stavano servendo tutti tranne lei, cominciavamo a prenderla in giro… E’ già Calimero, ma ti ricordi quante volte l’abbiamo presa in giro perché “le veniva tutto a tempo”? La chiamavamo la Placida o Corda lenta, ma solo oggi parlandone con te, è chiaro quanto quel suo incedere tranquillo, pacato, quel 11 suo buttarsi dietro le spalle la fretta del fare, ci ha aiutato a riflettere, a placare l’ansia e ad agire con cognizione di causa. Lola ci hai dato molto di te, con umiltà e leggerezza, ma la tua vita è stata tutta così, il “dare” è stato parte della tua vita, del tuo lavoro, dei tuoi affetti. La stranezza del nome è sempre stato un cruccio per lei, soprattutto perché non era improbabile che qualcuno la chiamasse Leonida o più frequentemente Lolita. Ma sai che quel nome unico derivava da una trasformazione di quello di sua nonna Apollonia? Ma fuori del lavoro, era sempre Lola. L’ultima volta che ho provato a piangere insieme a lei, non me lo ha permesso, a me uscivano le lacrime, lei mi salutava stringendomi forte forte la mano dicendomi grazie per averle massaggiato i piedi, lì su quel letto due giorni dopo ho trovato solo il suo corpo... Se n’è andata con la riservatezza e la dignità che l’ha sempre contraddistinta, piano piano, leggera leggera, farfalla colorata che non voleva infastidire chi amava, ma con la forza di dire “grazie” per qualsiasi cosa si facesse per lei, anche solo per una carezza... Uno degli ultimi ricordi che ho di lei prima che fosse annientata dalla malattia, è del giorno che ha avuto i risultati degli esami dopo la chemio che le hanno palesato la gravità della situazione. Era in programma una cena dell’associazione ed io ero a Capodacqua per aiutare in cucina come al solito. Ci siamo sentite più volte per telefono, sapevo che aveva bisogno di sentire vicino qualcuno e condividevamo il pensiero di sollevare un po’ sua sorella dalle cure che con dedizione infinita si è prodigata, incessantemente, a darle. Le dicevo: se vuoi mi fermo, lei: no non ti preoccupare, io: non mi costa nulla dormire da te, dovrai solo sopportare l’odore di cucina, non ho portato un cambio… lei: allora vorrà dire che terremo aperta la finestra, non ce la faccio a star sola…grazie! E’ difficile in poche righe restituire ad altri ciò che insieme siamo state, si rischia l’ovvietà o la superficialità, ma come ci siamo dette io e Francy, l’altra sera, discutendo di questo nostro scritto, alla fine Lola chi la conosce la sa. Lella Giorgetti, Francesca Cesarini 12 Maria Lonita Lattari è nata a Foligno il 22 novembre del 1958, da Giacinto e Rosa Raponi, dopo la morte dei genitori ha continuato a vivere nella casa paterna con la sorella Lorena e i suoi numerosi animali. Prima collaboratrice e poi socia dal 3 febbraio del 1988, ha contribuito con il suo lavoro alla crescita de La Locomotiva Società Cooperativa Sociale, sia come operatore nei servizi che come amministratore, ruolo che ha svolto per un lungo periodo. Ha operato in diversi servizi socio-educativi, lasciando la sua profonda impronta: Comunità per minori, Centro accoglienza “Il Paguro”, Centro giovani “Sventola”, ha curato numerosi progetti individuali per persone con problemi di salute mentale. Ha anche svolto ruoli in staff al Consiglio di Amministrazione, come quello di Responsabile del Sistema Qualità e di RSPP (Responsabile del Servizio Prevenzione e Protezione). Ha sempre avuto un forte impegno sociale, un saldo legame con il territorio e con la “sua” Capodacqua. È stata infatti per molti anni consigliera dell’Associazione Sportiva Capodacqua ed ha espresso il suo impegno politico prima nei DS e poi nel PD. Ci ha lasciato, fisicamente, il 23 agosto 2013. 13 14 Flavia Agostini Conosco Flavia Agostini da sempre da quando, tanto tempo fa, ci incontravamo alla sezione Innamorati del PCI, alle manifestazioni e soprattutto alle feste dell’Unità dove era maestra in cucina, lei con l’esperienza dei suoi anni e di una vita intensamente vissuta, ed io con la determinazione della mia giovinezza, orgogliose entrambi delle nostre passioni politiche. Flavia Agostini è oggi una signora di 90 anni che ho ritrovato, in occasione di questa mia intervista, con il sorriso leggero ed accogliente di allora, gli occhi freschi e brillanti, desiderosa di sapere, di essere informata di quello che accade in questa nostra città, attenta alla politica italiana ed alle sue vicende. Il racconto della sua vita si fa subito allargato, corale, include le donne e gli uomini della sua famiglia, della sua Belfiore. Racconto a volte aspro, duro per i contrasti che hanno segnato la storia di un paese intero insieme alle storie personali: le guerre, la dittatura, la resistenza, l’impegno politico. Ma è anche e soprattutto racconto di scelte comuni, di aiuti reciproci tra donne, di solidarietà concreta verso i più deboli, perché questo era sentito e condiviso come giusto e questo andava fatto. Flavia Agostini è nata a Belfiore il 24 settembre del 1924. I suoi ricordi più lontani sono legati ai racconti della vita di suo padre Oberdan Agostini, attivista del PSI sin da quando nel lontanissimo 1914 partecipò al congresso del partito che si svolse ad Ancona, qualche mese prima dello scoppio della prima guerra mondiale e della decisione di Mussolini, a quel congresso presente, di passare da neutralista ad interventista e per questo espulso dal partito. Alla fine della guerra il padre aderì al nuovo Partito Comunista d’Italia. Erano gli anni in cui iniziavano le discriminazioni politiche, le inti15 midazioni e le violenze. La vita della giovanissima Flavia è segnata da queste vicende. Suo padre deve più volte fuggire e nascondersi. In una di queste occasioni lei, sua madre, le due sorelle ed il fratello furono portati in caserma poiché si voleva sapere da loro dove nascondessero il materiale propagandistico e la bandiera del partito. Con orgoglio Flavia afferma “non dicemmo niente” e furono trattati per questo a schiaffi e male parole. Nel 1935 il padre fu arrestato. Quel giorno i carabinieri furono guidati da una persona iscritta al fascio di Foligno che durante l’incursione, con una spinta, fece cadere dalle scale la madre di Flavia Due mesi dopo la poveretta sarebbe morta per i traumi ricevuti, aspettava un altro figlio. In quell’anno Flavia avrebbe dovuto sostenere l’esame di ammissione all’avviamento ma fu sospesa da tutte le scuole del regno insieme al fratello, che frequentava le industriali, perché figlia di un comunista. Il maestro Carloni, di nascosto, le fece frequentare le scuole serali. Flavia superò anche gli esami ma non le consegnarono mai il diploma. Nel 1936 il padre fu processato e deportato al confino a S. Demetrio Corone in provincia di Cosenza. Vi rimase 5 anni. I quattro figli andarono ad assistere al processo e furono fermati in carcere un intero giorno. Dopo l’8 settembre 1943 avvengono le scelte più importanti per Flavia e per la sua comunità. Suo padre divenne partigiano Foligno venne bombardata per la prima volta a novembre e fino a giugno del ’44 i bombardamenti furono numerosi. Molte famiglie della città sfollarono a Belfiore, a Pale e nei paesi vicini. Antonio Pizzoni aveva aperto il forno nel paese e la prima infornata del pane veniva fatta perché fosse distribuita alle famiglie che non avevano di che mangiare. Ad Annifo i tedeschi in un rastrellamento uccisero Paolucci, ed obbligarono sua moglie a far per loro il pane mentre il marito era steso nel letto. 16 Flavia e le sorelle, accorsero in aiuto della povera donna, e presero con loro due figlie, una bambina di 4 anni e l’altra di 20 mesi che ospitarono nella loro casa fin quando non furono mandate a scuola presso il collegio degli orfani partigiani istituito a Roma. Divenute grandi, queste due sorelle sono poi sempre rimaste affettuosamente in contatto con la famiglia di Flavia. Nell’ospedale organizzato alla meglio a Belfiore si nascondevano anche i partigiani feriti. Flavia ricorda in particolare la sollecitudine con cui una suora di nome Francesca si adoperava per proteggerli affinché non fossero scoperti. A Belfiore c’era anche un partigiano montenegrino, gravemente ammalato, che fu accolto in casa da una vicina di Flavia, tale Marietta Mora, sola e madre di quattro figli. Bisognava che fosse curato e tutto il paese se ne preoccupava. Fu anche chiamato un dottore perché lo operasse ma lo si dovette trasportare all’ospedale di Perugia. Particolare curioso, in ambulanza un uomo del paese si mise sopra di lui in qualche modo per superare eventuali controlli. Flavia aiutava i partigiani ed i particolare il montenegrino portando anche suoi messaggi fino alla cascina di Radicosa dove c’era il comando della Brigata Garibaldi. Andava a piedi di macchia in macchia insieme a Toni Nardino. A volte si fermavano a Pale dove il farmacista Bartoli, anche lui sfollato, dava loro le medicine. I messaggi erano scritti con l’inchiostro simpatico, ma molte volte Flavia doveva mangiarli per non farseli trovare. Se incontrava i tedeschi, che erano sempre guidati nei rastrellamenti da qualcuno che conosceva bene i posti e soprattutto le persone, Flavia faceva finta di raccoglier more o andar per funghi Lei ricorda ancora bene i nomi di chi informava i tedeschi, consentendo che molti giovani fossero imprigionati e deportati. Dopo la guerra Flavia voleva impegnarsi seriamente in politica frequentando anche corsi formativi lontano da Foligno. In questo suo proposito venne dissuasa dal padre, preoccupato per una scelta così radicale, consapevole di quanto a lui stesso fosse costata questa scelta.. 17 Lei si impegnò in ogni caso nell’attività della Camera del Lavoro e del Partito Comunista di Foligno. Ricorda, di quei tempi, la partecipazione agli scioperi delle raccoglitrici di olive e la sua attività nell’organizzare assemblee, nel distribuire, quando necessario, sia i volantini che il giornale del partito. Dopo la Guerra anche a Foligno con un gruppo di donne di diversa provenienza politica fondò una sezione dell’Unione Donne Italiane. Ne facevano parte, tra le altre, oltre a lei stessa, Alba Agostini, Giuliana e Chiara Catarinelli, Antonia Mela, Ilva Salustri, Armida Mariotti, Anna Pizzoni. La presidente era la signora Caprai, impegnata moltissimo nel sociale e nella lotta per l’emancipazione femminile. L’UDI si adoperò perché i diritti delle donne fossero riconosciuti a tutti i livelli mentre la nuova repubblica prendeva forma ed al tempo stesso costituì quella rete di solidarietà laica, importantissima in quei primi anni di democrazia dove ancora ,in un paese poverissimo, l’assistenza pubblica e i servizi sociali erano tutti da costituire.. L’UDI, tra l’altro, si impegnò per l’accoglienza dei bambini provenienti dalle zone alluvionate del Polesine e vennero ospitati nelle case di molte donne di Foligno e dei paesi vicini. Così era stato anche per i bambini accolti dal sud d’Italia dove interi paesi erano stati bombardati, mentre il fronte della guerra avanzava. L’UDI di Foligno negli anni successivi si impegnerà e parteciperà a battaglie di emancipazione e di libertà promuovendo azioni di solidarietà anche di carattere internazionale. Con questo spirito Flavia ricorda la partecipazione dell’UDI alla prima marcia per la pace organizzata da Aldo Capitini. Ma negli anni della riconquistata libertà non tutto era semplice o scontato. E Flavia ricorda la prima volta che fu festeggiato il primo maggio a Foligno nel 1946. A S. Paolo c’era il raduno di coloro che provenivano dai paesi vicini e a piazza S. Domenico avrebbe dovuto svolgersi il comizio. Intervenne il reparto della Celere con le camionette per impedire la manifestazione, tutti si sdraiarono a terra e parecchi furono arrestati. Nel 1949 furono organizzate manifestazioni anche a Foligno per opporsi alla stipula del patto Atlantico . Ci furono cariche della Celere. 18 A Terni morì, dopo una di queste cariche, un operaio delle acciaierie, Luigi Trastulli. Ma Flavia ricorda anche le serate conviviali per raccogliere fondi da destinare alla causa del momento e soprattutto le feste dell’Unità . Quanti gnocchi, e quanti arrosti preparati! Il nostro colloquio volge al termine, ma prima di lasciarci Flavia vuole consegnarmi un manoscritto molto vecchio perché ne venga fatta una memoria per la città. Per non dimenticare. Flavia mi racconta di averlo avuto nel 1947 da un contadino che lo scrisse seduto accanto a lei mentre c’era la trebbiatura del grano. Si tratta .di una lunga ballata scritta alla maniera dei cantastorie popolari che racconta la vicenda tragica dei 24 giovani massacrati dai tedeschi a Collecroce nel 1944. La scrittura è bella e lineare, le parole cercate con accuratezza e una qualche eleganza. E’ questo per me un modo significativo di lasciarci, con la leggerezza e l’asprezza di un canto popolare, con il riconoscimento di una storia fatta di “noi”, di una cultura di rispetto reciproco, di valori condivisi tra diversi per formazione, convinzioni e provenienza. Serena Rondoni 19 Armida Mariotti Il mio incontro con Armida avvenne quando ero una ragazzina, avevo poco più di 10 anni ed accompagnavo mia sorella Elvira a casa della sua amica e compagna di scuola delle medie Lelletta, la figlia di quella signora- ricordo ancora- così simpatica, con un bel sorriso e una gran parlantina! Mi piaceva così tanto ascoltarla mentre raccontava storie di guerra, di desolazione, di povertà, di paura, ma anche di significative figure femminili, di riscatto, di speranza! Col passare degli anni, poi, mantenendo con loro sempre una bella amicizia, misi sempre più a fuoco la sua figura, e compresi quanto Armida fosse determinata, coraggiosa, animata da una grande idealità e quanto abbia contribuito, in un periodo storico in cui il ruolo delle donne veniva relegato primariamente nell’ambito domestico, alla promozione del movimento femminile. Un forte senso di giustizia, all’inizio innato, poi sempre più consapevole, l’ha spinta infatti a ribellarsi alla posizione d’inferiorità e passività che veniva imposto alla donna dalla cultura fascista in cui si trovò a vivere. Armida aveva dei sogni da realizzare, voleva ragionare con la sua testa e quando era convinta di avere ragione sapeva contraddire e difendere le proprie idee: tutte doti che più tardi mise al servizio di un rinnovamento delle coscienze, a favore dell’infanzia, dell’emancipazione della donna e della vita del PCI della nostra città. Per me è dunque un vero piacere scrivere queste righe per Armida ed un motivo in più per trascorrere un piacevole pomeriggio con Lelletta a parlare di lei. Armida nacque a Spoleto nel 1922 già orfana di padre. Amico Proietti era appena morto per una malattia contratta nella guerra del ‘15’18, lasciando vedova la madre Candida che, poco più che ventenne, si ritrovò sola, in condizione di miseria e senza aiuto da parte della 21 sua famiglia. Candida, poi, si risposò con Vincenzo, detto Cencio, ma poiché la situazione economica rimaneva difficile riuscì a farsi assumere come Casellante delle FFSS in un paesino vicino a Spoleto, dove si trasferì tutta la famiglia. Candida e Cencio misero al mondo altri tre figli, Ettore, Abramo e Lina, che amarono e ammirarono Armida come sorella maggiore. Finite le scuole elementari dovette abbandonare gli studi e andò a Spoleto per imparare il mestiere di sarta. All’inizio faceva la pendolare poi si trasferì dagli zii paterni i quali contribuirono a far germogliare in lei i semi di un pensiero fondato sui valori dell’uguaglianza sociale, del comunismo, della possibilità di riscatto dei problemi della classe operaia, del superamento della disparità tra uomo e donna. Le camice nere in quel momento storico spadroneggiavano con violenza, dimostrando arroganza e prepotenza, ed in Armida nascevano i primi interrogativi, i primi approcci a quelle tematiche che più tardi avrebbero assunto nella sua vita una posizione centrale. Il 1937 fu per Armida un anno indimenticabile, si recò a far vista ad un cugino di “papà Cencio” e conobbe il figlio di lui, Bruno. Lei aveva 15 anni, lui 22. Per entrambi fu subito un colpo al cuore. L’indomani iniziarono a scriversi bellissime lettere d’amore e dopo un anno si sposarono e andarono a vivere a Giuncano di Terni, dove Bruno lavorava come dipendente delle Ferrovie. Nel ’39 nacque il primo figlio: Cupido. Il nome Cupido venne scelto perché richiamava la figura mitologica romana del dio dell’amore, ma proprio per questo, quando si recarono in chiesa per il battesimo, il prete disse loro di non volerlo registrare con quel nome perché: “di Dio ce n’è uno solo”! Dopo un iniziale disappunto, Armida e Bruno cedettero alle richieste del prete e lo chiamarono Claudio. Per loro essere comunisti non significava rinnegare la religione cattolica, che infatti impartirono ai loro figli poiché, dicevano, sarebbero stati loro stessi, da grandi, a scegliere la loro strada. Dopo la nascita di Claudio, Bruno fu trasferito presso la stazione di Scanzano e la famiglia andò a vivere a Belfiore. Qui conobbero Antonio e Anna Pizzoni, che facevano i panettieri. Nacque subito una bella amicizia, cementata dalla stessa fede per gli ideali comunisti. Per tutta la sua vita Armida ha raccontato con ammirazione il coraggio di questi amici 22 che non solo donavano il pane a chiunque ne avesse bisogno, ma addirittura lo facevano pervenire di nascosto ai partigiani della zona, cosa rischiosissima perché i fascisti la punivano con la fucilazione. A causa di vigliacche delazioni, raccontava Armida, Antonio diverse volte rischiò la vita. I fascisti tentarono spesso di coglierlo sul fatto, mentre distribuiva il pane ai partigiani che nottetempo si avvicinavano alla panetteria, ma gli amici e la moglie Anna riuscirono sempre ad aiutarlo a scongiurare il pericolo! Certo che la situazione politica italiana in quei tempi era incandescente. Nel novembre del ’43, anche a Foligno erano cominciati i bombardamenti. Gli aerei erano tornati a seminare terrore, distruzione e morte anche nel gennaio 1944 e proprio sotto i bombardamenti Armida mise al mondo il suo secondogenito: Alberto. Furono anni difficili, terribili, quelli, c’era la guerra, le tribolazioni, la fame, ma Armida rafforzò il suo carattere combattivo. L’aver vissuto in prima persona tutti i fatti caratterizzano quell’era consolidò le sue convinzioni antifasciste e comuniste. Armida raccontava che quando la guerra finì, l’antica bellezza di Foligno era solo un ricordo e la situazione pressoché drammatica. I bombardamenti avevano distrutto buona parte della città, il cibo mancava, scarseggiava il carbone ed anche i medicinali, ma le donne non si perdettero d’animo e Armida con loro. Vivendo a Belfiore, cominciò a legare e a frequentare altre donne con gli stessi suoi ideali e proprio in quel difficile momento conobbe Dina Maria Tanganelli Caprai. Una donna coraggiosa, intelligente, tenace e ricca di grandi ideali che per togliere i bambini delle Case Operaie dal disagio derivato dalla scarsità di cibo e di assistenza non ci pensò due volte ad occupare un appartamento e fondare un asilo infantile, rimediando in giro per la città l’occorrente. Nello stesso modo istituì anche le colonie estive e i doposcuola. La Caprai è stata una maestra di vita per Armida: la stimò fin da subito per la sua caparbietà e chiarezza di obiettivi e senza esitazione si mise a lavorare al suo fianco. Conobbe in quel periodo anche Luciana Fittaioli che è stata ed è ancora oggi una delle figure più rappresentative della vita politica folignate. Grande combattente per i diritti e le libertà delle donne e di tutti i lavoratori. Armida ammirava Luciana, tra loro nacque una grande amicizia consolidata dalla stessa passione politica che nel 23 1948, portò Luciana ad essere la prima donna umbra ad entrare in Parlamento. Armida, nel 1945, oltre le altre donne, a fianco di Maria Caprai, Luciana Fittaioli, Anna Pizzoni, Ida Carlotti, Alba Panciotti, Maria Pietrangeli Chiodi fondò a Foligno l’UDI, Unione Donne Italiane. Gli scopi prioritari dell’UDI (che radunò molte donne iscritte al PCI, al PSI e al Partito d’Azione) erano: quello di togliere i bambini dalla strada; di liberare le casalinghe dal loro isolamento; di scuotere le coscienze femminili e convincerle a lottare per la parità dei diritti e in particolar modo per il diritto al voto. Nel 1946 venne vinta la storica battaglia per il suffragio universale. Questi furono anni molto importanti per Armida sia a livello politicosociale, che personale. Infatti nel 1948 diede alla luce anche Ester, detta Lelletta. Alla nascita di questa figlia seguì, dopo poco, il trasferimento della famiglia a Foligno, visto che Bruno aveva iniziato a lavorare negli uffici delle FFSS. Questo passaggio rappresentò la realizzazione di un sogno perché andarono ad abitare in una casa dei ferrovieri nel centro della città. Questo spostamento rese la sua vita ancora più animata, consentendole di partecipare con maggiore continuità alla vita politica. Da quel momento in poi, infatti, non ci fu congresso, riunione, comizio in cui lei non partecipò. Portava la parola del partito nelle riunioni, nelle sezioni con grande tenacia e passione. In quegli anni fece anche un comizio in Piazza della Repubblica che riscosse il riconoscimento dei compagni e delle compagne. Armida in quella occasione poté dimostrare tutta la sua passione e la sua preparazione politica. In quel periodo frequentava anche un’altra grande donna: Aurora Pascolini, partigiana, che aveva combattuto nella Resistenza la Guerra di Liberazione e decorata poi con la Croce al merito per le sue valorose gesta. Lelletta ricorda che l’affascinavano i suoi racconti e che stava ad ascoltarla per ore ed ore. Ricorda poi che l’8 marzo era una giornata di commemorazione, ma anche di mobilitazione. Negli anni cinquanta in quel giorno Armida andava a trovare le vecchiette dell’ospizio, ma anche le detenute nelle carceri femminili e le ragazzine al doposcuola in Via Istituto Denti, per offrire sempre a tutte una parola di conforto, di solidarietà. La sera poi ci si incontrava nei circoli tra donne, si mangiava qualcosa che ognuna portava e spesso si faceva una lotte24 ria. A quei tempi erano già memorabili anche le Feste dell’Unità e i Veglioni Rossi. Claudio, il primogenito di Armida, racconta quando a Belfiore, in occasione del Carnevale, si organizzò un Veglione Rosso. Le donne abbellirono la sala da ballo portando da casa di tutto, dalle lampade alle tovaglie ed anche addirittura gli specchi che per l’occasione vennero tolti dall’armadio di casa e vennero disposti intorno alle pareti moltiplicando luci e immagini delle coppie ballerine, creando un’atmosfera di allegria! Come si può immaginare per stare dietro ai suoi impegni, Armida era spesso fuori casa, ma egualmente riusciva a conciliare le esigenze della famiglia con l’attività politica. Organizzava a puntino la vita dei figli più grandi e portava sempre con sé la piccola, Lelletta. La figlia, che all’epoca avrà avuto 5 o 6 anni, racconta oggi scherzosamente: “bastava che da lontano vedessi le amiche della mamma per preoccuparmi. Sapevo bene che se si fosse fermata a parlare, chissà quanto tempo sarebbe passato! Quando mi vedevo persa mi mettevo a protestare, tanto che le amiche dicevano ridendo: “Armì, non sarà che per reazione, a forza de sentì ‘sti discorsi e ‘sti comizi, da grande diventerà anticomunista?!”. Armida, comunque, quando sapeva che l’indomani aveva da fare, la sera prima, fino a tarda ora, a volte anche non dormendo, provvedeva alle necessità della famiglia e della casa. Sempre di notte, ricorda l’amica Alfea, quando c’era bisogno di pantaloni o gonne per i figli, con abilità li realizzava ricavandoli da vecchi pantaloni o giacche in disuso di Bruno e la mattina dopo era tutto pronto! È stata una madre che ha contribuito a rendere autonomi e autosufficienti i figli. Non faceva distinzione di educazione tra la figlia femmina e i maschi. Diceva che i ragazzi dovevano essere “ben educati” dalla famiglia, in special modo dalla madre che non doveva preservare il figlio maschio da incombenze considerate femminili, come cucinare o riassettare. È stata accanto ai figli anche nelle lotte studentesche. Bruno, il marito, dal carattere calmo e riflessivo, al contrario di lei, grintosa e combattiva, non ha mai ostacolato la moglie nelle attività del partito e dell’UDI. Anzi, ricorda il figlio Alberto, quando lei commentava con analisi e considerazioni personali le problematiche politiche del giorno, lui, seduto sulla poltrona, con 25 la sigaretta in bocca, accoglieva il suo fiume di parole con fare tranquillo e soddisfatto, dimostrandole sempre approvazione e stima. Le cose in cui credeva, Armida, le viveva anche nella quotidianità. Lo dimostrava anche il fatto che casa sua era aperta a tutti, era un punto di ritrovo. La sua ospitalità, insieme a Bruno, la dimostrava anche aprendo la loro casa ai compagni che venivano a Foligno per partecipare a congressi o altre iniziative di partito che duravano diversi giorni. Non potendo pagare l’albergo alloggiavano “dai Mariotti”. Habitués erano Lodovico Maschiella (poi eletto in Parlamento nel ’63) e Primetta Martini. Bisogna poi dire che anche se Armida aveva fatto solo le elementari, amava leggere e tenersi informata su tutto. Aveva sempre una copia di Noi Donne (rivista dell’UDI) e Vie Nuove. La domenica mattina arrivava sempre Rolando Polli a portare l’Unità. La sua visita non si limitava alla consegna del giornale: spesso e volentieri intavolava con Armida animose ed interminabili conversazioni politiche di cui spesso il tema era quello a lei tanto caro del diritto alla pensione delle casalinghe. Era anche affascinata dalla narrativa, in particolar modo da Sibilla Aleramo. La disponibilità economica era poca, ma i libri per i figli si comperavano sempre e si pagavano a rate. Armida visse anche il dibattito politico che si sviluppò verso il ’68 in Italia, su leggi come quelle sul divorzio e l’aborto, in cui si concretizzava per ogni donna la possibilità di essere responsabile del proprio destino. Proposte di legge che cominciarono inevitabilmente ad evidenziare le profonde differenze esistenti tra la battaglia delle donne dell’UDI e quella del nascente movimento femminista. L’opera dell’UDI si era diffusa nel periodo della ricostruzione e riorganizzazione sociale post bellico, poi gradualmente era diventata sempre più funzionale alle scelte politiche del PCI. Le donne che avevano aderito all’UDI volevano raggiungere una parità nella coppia, senza però volerla mettere in discussione. Le giovani femministe invece, fecero scelte ben più radicali e si spinsero oltre le pretese di uguaglianza, creando un movimento slegato dai partiti storici della sinistra e tutto questo, come è immaginabile, creò dibattiti e confronti serrati. Armida, pur restando nell’UDI si aprì al dibattito delle nuove problematiche poste dalle femministe. Condivise con loro diverse 26 lotte, come quelle a favore del divorzio, dell’aborto e dei consultori famigliari. A volte invece non condivise in pieno le scelte e le strategie politiche del partito, ma preferì sempre il confronto interno, senza allontanarsi da esso. Alla fine degli anni ’70 ricordo che gestendo Radio ARA e in particolar modo la trasmissione mattutina “Dibattito Aperto” in cui si discutevano in diretta tutte le problematiche cittadine, più volte mi è capitato di riconoscere la voce di Armida tra le donne che prendevano parola sulle diverse questioni che emergevano: il suo era sempre un contributo centrato, fattivo e costruttivo. Armida aveva la convinzione che le cose, lottando, potevano cambiare e migliorare, credeva fermamente su un futuro migliore e comunicava questo ottimismo ai figli e a tutti coloro che le vivevano accanto. Questa convinzione l’ha animata fino alla fine e la sua incrollabile fiducia in un mondo migliore ha sostenuto le donne di generazioni più giovani che s’incamminavano in una realtà che si è rivelata poi complessa e difficile come la nostra. Rolando Polli alla sua scomparsa inviò alla famiglia le seguenti righe: “Armida è stata una bandiera per la lotta per l’emancipazione della donna e della classe operaia, una bandiera per la pace e per i diritti umani: sei sempre in testa a tutte le lotte, non ti sei mai arresa neppure davanti alle forze dell’ordine. La tua bandiera non verrà ammainata”. Luana Brilli 27 Paola e Maria Palma, due ragazze pronte a spiccare il volo con le proprie radici nel cuore. Paola e Maria Palma sono due amiche coetanee che da piccole giocavano nel giardinetto del paese condividendo gli stessi giochi, poi diventando donne hanno saputo scegliere, entrambe con determinazione la propria strada da percorrere non condizionate da deviazioni o apparenti scorciatoie ma andando diritte, in modo serio dove la passione le avrebbe condotte. Entrambe hanno dato risposta in modo del tutto personale alla crisi che attanaglia il tessuto sociale del nostro paese. Paola Lauretani è una ragazza nata a Foligno il 25 luglio del 1990 vive a Rasiglia, un piccolo borgo della montagna. La più piccola dopo tre fratelli maschi, è vissuta a Rasiglia nella casa di famiglia dove la nonna, presenza fondamentale, ha contribuito alla sua crescita ed è stata presenza gioiosa per la sua infanzia . La nonna si chiamava Vincenza, aveva avuto quattordici parti ma dieci figli sopravvissuti, grazie alla sua esperienza aiutava anche le donne del paese a partorire, era una donna che sapeva bene cosa fosse il lavoro e la fatica, aveva un negozio di stoffe, sale e tabacchi, lavorava nei campi e faceva il pane non solo per la propria famiglia ma lo vendeva pure. Era tanto buono, lo cuoceva nel forno a legna e fino a quando ha potuto l’ha sempre fatto. Lei raccontava della sua lunga vita e stava sempre con Paola che rimaneva spesso incantata e colpita dal suo grande amore per il nonno Lorenzo, dei suoi figli cresciuti da soli, aiutandosi l’uno con l’altro, dei “tribbuli” che aveva sopportato ma affrontato sempre a testa alta. Aveva sempre tra le mani l’uncinetto, gli aghi da lana e l’ago per ricamare e da lei ha imparato tutto, rubava con gli occhi e dalle sue mani da questa presenza, da questa radice nasce il desiderio di fare e di mettere in pratica tutto il proprio bagaglio che 29 con il tempo aveva accumulato fino al 2005, quando è morta. Lei ha segnato la vita di Paola, l’ha arricchita e anche se non c’è più ora nel nostro tempo, lei è presenza viva in lei. Paola ha frequentato il Liceo Scientifico, ma dopo la maturità quando non sapeva cosa fare e quale strada scegliere, le è stato proposto di frequentare un corso di tessitura promosso dall’ Associazione Rasiglia e le sue Sorgenti di cui è socia, al Laboratorio di Scienze Sperimentali, ha accettato non sapendo cosa questa esperienza avrebbe significato per lei. Subito si è appassionata e sentiva nel suo cuore che la nonna sarebbe stata tanto contenta nel vedere che proprio sua nipote avrebbe portato avanti una tradizione così importante, LA TESSITURA, in un paese dove lanifici, lana, tessere significavano pane. Il telaio la prende, la entusiasma, le fa dimenticare tutto, il tempo non esiste ed intanto il lavoro procede. Per questo decide di comprare un telaio e si è messa al lavoro ed ha incominciato a produrre: sciarpe, asciugamani, tende, runner, poncho, cinture. La cognata l’ha aiutata a realizzare una pagina facebook intitolata “Gli antichi valori” dove si possono vedere tutti i suoi lavori. Per autofinanziarsi va a far mercatini o alle feste di paese anche per non chiedere ancora a papà Romano e mamma Amalia. Loro l’hanno sempre appoggiata e sostenuta. La sua abilità nel tessere su telaio moderno ed antico, la mette anche a disposizione dei ragazzi delle scuole e delle varie associazioni che vengono a visitare Rasiglia grazie alla promozione che ne fa l’associazione Rasiglia e le sue Sorgenti. Tutti rimangono ben colpiti dai lavori, dal modo di tessere, a chi vuole, fa anche delle brevi lezioni. L’emozione più grande l’ha provata quando il primo gennaio ha donato in occasione della Messa per la pace, in Cattedrale, a Sua Eccellenza il Vescovo, un telo tessuto da lei per l’ambone. Alla fine del liceo, Paola era scoraggiata, era stufa di sentirsi dire no, ora è molto orgogliosa di aver trovato questa strada, per il momento, è consapevole di avere fra le mani un’arte che esige rispetto perché è molto antica, ma che con la sua fantasia può rendere attuale e coinvolgente e le permette di guardare al futuro con speranza. Maria Palma è nata a Foligno il 13 giugno 1991, il giorno dopo la mamma Milena e papà Alvaro con il fratellino Carlo l’hanno portata subito a Rasiglia forse per farle respirare quell’aria fredda e farle 30 riconoscere il rumore del fiume. Il suo nome deriva da Palmira, la bisnonna che venuta da lontano, da Tarquinia, nel piccolo borgo aveva trovato l’amore, l’amicizia….LA FAMIGLIA. Oltre ad aver allevato due cognate, si era prestata a farlo anche con la nipote Milena, dal momento che Domenica, la mamma, lavorava a tempo pieno al Lanificio Tonti, alla quale ha trasmesso l’amore per la letteratura, infatti le recitava a memoria. L’Orlando Furioso, la Divina Commedia e se qualcuno del paese le chiedeva di scrivere una lettera o di leggerla lei era sempre disponibile. Questo grande bagaglio, non solo d’amore, ma anche culturale, Milena ha cercato di trasmetterlo a sua figlia, i ricordi di Maria Palma sono pieni di poesie, ninna nanne, storie che le venivano raccontate ogni qualvolta ce ne fosse l’occasione. Non poteva che nascere in lei una grande passione quella per la poesia e per tutto quello che è letteratura. Scrive la prima poesia dal titolo LA FELICITA’ in prima elementare, tra l’incredulità dei genitori e della maestra, anni dopo scrive, IL BRUCO, che non fu ammessa ad un concorso scolastico a causa dell’età troppo giovane. Porta con sé un ricordo sempre nitido delle parole di mamma e papà: ”Maria Palma ricordati bene la conoscenza è una ricchezza incredibile , un patrimonio che hai dentro di te , non può essere paragonato a nulla , a nessuna ricchezza materiale, nessuno te la può prendere e rimane sempre con te.” Queste parole la fanno impegnare con costanza e determinazione. Dopo aver frequentato il Liceo Scientifico con ottimi risultati, preferisce scegliere la facoltà di Lettere e Filosofia contro il parere di tutti anche dei professori che hanno potuto constatare e premiare le sue doti. Non ha avuto paura di andare contro corrente, ha studiato con impegno e si è laureata in letteratura latina, con 110 e lode, con una tesi dal titolo: ”Livio tra retorica e drammatizzazione.” Ma lo studio non è il solo suo impegno, da diciotto anni pratica la danza classica e dallo scorso anno insegna questa disciplina alle piccole, nella scuola di danza “Balletto di Foligno”, grazie a questa preparazione quest’anno partecipa ad un progetto in collaborazione con sei scuole materne dal titolo: “Al ritmo del rispetto” sui diritti e doveri dell’infanzia. Collabora come socia alle iniziative promosse dall’Associazione Rasiglia e le sue Sorgenti, e in occasione della manifestazione “Penelope a Rasiglia” è 31 guida per i visitatori, non solo per la storia del paese, ma anche riguardo al suo poeta, appunto Marco da Rasiglia. Grazie all’interesse suscitato in lei da quest’ultimo ha collaborato con la professoressa Elena Laureti alla trascrizione e al commento della “Frottola dei 100 Romiti” di Marco da Rasiglia. Ha inoltre rappresentato l’Associazione in occasione di un convegno sulla tessitura a Pieve Bovigliana. La sua disponibilità nei confronti del paese è dovuta al grande rispetto per quelle radici che la tengono sempre per mano, la scuotono, la sorreggono, la spingono sempre di più a dare, tanto che nei suoi progetti c’è la stesura di un libro sulla sua famiglia, ma in relazione al borgo delle sorgenti che, si è piccolo, ma cerca con la sua acqua di spingersi sempre più lontano. Paola e Maria Palma che crescono con semplicità e hanno posto alla base delle loro scelte l’eredità culturale come patrimonio e non come zavorra, trovano, rivolgendosi al passato, la voglia e la passione per guardare al futuro, Le due amiche sono esempi validi per i giovani di come si possa crescere con onestà vivendo la propria giovinezza e nello stesso tempo mettendo basi concrete e reali per poi spiccare il volo senza paura, nella consapevolezza che senza la passione o il cuore è assai difficile incominciare a percorrere la strada della vita e delle scelte, ma sono indispensabili tenacia e impegno con il sacrificio che essi comportano. Antonella Maria Ambrogi 32 34 Federica Fratini, una donna appena sopra la terra Antefatto. Lui ferroviere, lei sarta. Giuseppe e Maria. Nulla di biblico, se non il loro grande amore e gli anni di attesa prima che venisse al mondo lei: Federica, dall’uno ereditando allegria e leggerezza, dall’altra perseveranza e inventiva. Federica: “portatrice di pace”, o meglio, “che domina con la pace”. Un nome, una promessa. Da quel momento, però, furono lunghe notti insonni con quella bimbetta tra le braccia che pareva non volerne sapere di chiudere gli occhi e che, tutt’ora, continua a non dormire, seppur in senso metaforico, per fortuna dei suoi cari. Così inizia la storia di questa donna, una grande amica, una sorella. Si, perché non necessariamente i fratelli nascono sotto lo stesso tetto. Li si riconosce andando, per strada, sopra la terra, appunto, quando si è mossi dalla stessa scintilla o qualcosa del genere, e allora non si può sbagliare. E qui entro in gioco io, con l’arduo compito di raccontare un’amica e la sua avventura. Tutto quello che scriverò è vivace argomento di conversazione e dibattito da anni con Federica, molto felice di parlare, in questa sede, della propria esperienza con la terra, del suo ritorno ad una vita più semplice. Spero di essere all’altezza del compito. Gli inizi. Federica comincia il suo exploit con grande energia, propulsione indispensabile al suo progetto di vita che si delinea pian piano, ma con sempre maggior nitidezza nel corso degli anni. Da subito fu chiaro a tutti quanto fosse curiosa e desiderosa di conquistare la sua indipendenza: sin dalla più tenera età, Federica manifesta 35 una certa idiosincrasia per le gerarchie di potere, malgrado i vari tentativi dei genitori, infatti, viene gentilmente allontanata da ogni scuola materna di cui abbia varcato la soglia. Nonostante le premesse, la piccola non è solo un “fulmine in bottiglia”, come sembrerebbe a prima vista, ma una sensibile e fragile creatura in un’apparente impenetrabile corazza. Proprio come suggerirebbe il suo segno zodiacale, il cancro: duro fuori, tenero dentro. Infanzia, adolescenza, parentesi bohémienne, maturità. Avanti veloce. La bambina cresce, diventa una studiosa e vivace ragazzina, la sua vita scorre tra traduzioni di greco e latino e lunghe scampagnate in montagna con i suoi amici a cantare, raccogliere asparagi, castagne, o a far nulla. Un’infanzia ed un’adolescenza ricche di affetti e contatti con la parte più bella del territorio: le montagne, i boschi. Forse è qui che nasce il suo amore per la terra, anche se passeranno anni prima che diventi un lavoro. Maturità classica poi l’università, ma l’esigenza di essere indipendente è più forte e così inizia il variegato percorso lavorativo: cameriera di sala, gestrice di un circolo, organizzatrice di concerti, barista.. Nel frattempo porta avanti progetti sociali, dipinge, scolpisce, ricicla qualunque cosa e realizza, complice la qui scrivente, manufatti di varia natura. Vai così con i mercatini. Non posso inoltre tacere il suo fantastico passato di clown e supereroina (chi vuole delucidazioni chieda a lei direttamente). Poi sono arrivati gli orti biologici sperimentali su terra altrui, i primi compostaggi, le feste di primavera attorno ai falò, l’Iperico raccolto il giorno di S.Giovanni per farne il miracoloso unguento, da vera strega buona. Da Platone alle patate: come con una formazione classica si voglia zappare la terra. Nel 2005 accade qualcosa di davvero importante: nasce Ernesto. Meraviglioso grande dono. A detta di Federica l’aver avuto un bambino è stato un trampolino. L’amore per la terra, come detto, c’è sempre stato, ma l’idea di farlo diventare un lavoro si concretizza dopo l’esperienza della maternità. 36 Forse per poter essere più vicina al figlio, agli affetti tutti, e donare loro una realtà quotidiana ricca di amore e contenuti, far essere questa esperienza parte integrante della propria vita. La terra come quotidiano. La prima vera esperienza lavorativa nel settore, avviene circa un anno dopo la nascita di Ernesto, in una cooperativa sociale che si occupa di agricoltura e vivaismo in collaborazione col Centro di Salute mentale. Fase di grande arricchimento umano e di sperimentazione su più larga scala della coltivazione dell’orto. La seconda esperienza, di 1 anno circa, è con una azienda agricola dove accumula competenze in numerosi ambiti. è questo il momento in cui vive sulla pelle il lato duro dell’agricoltura (paradossalmente quello che ama di più): zappare ettari sotto il cocente sole d’agosto, trapiantare nel fango argilloso, sotto la pioggia battente, in inverno, con qualunque temperatura. Qui la minuta figura impara anche a guidare il trattore, un’immagine davvero evocativa. A parte gli scherzi questo si rivela un anno estremamente duro e ricco in cui Federica ha modo di osservare da dentro una realtà lavorativa che le piace ma che a suo avviso potrebbe essere migliorata. La lampadina si accende. Così per la prima volta, le balena l’idea, ancora in embrione, che sia possibile creare una propria realtà agricola ecocompatibile, secondo le sue regole, all’insegna di un ritorno ai ritmi naturali della terra e a salvaguardia della biodiversità alimentare. Qualche incoraggiamento e una fruttuosa “caccia al pezzo di terra” e prende vita così il progetto in fase iniziale: produrre ortaggi, ricercare e salvare antiche varietà, sperimentare e allo stesso tempo prendere il meglio dalla tradizione, comunicare, ritrovare il lato umano, da qui anche la consegna a domicilio. Collaboratori, vengono, vanno, si consolidano, il progetto si affina, diventa realtà viva e pian piano si arricchisce delle altrui esperienze fino a quello che è oggi: un percorso in divenire che si apre con naturalezza su altri settori, sempre in movimento. Sembrerebbe un paradosso parlando di terra. Quando ti fai perno il mondo intero gira attorno a te. 37 Parola di Federica. “Se non parti da quello che sei, cioè dalla tua cultura, se vivi in maniera scissa dalla tuo retroterra non puoi cogliere l’altrui bellezza”. è questo un concetto caro anche all’antropologia: riconoscere la propria diversità è la base per poter osservare un’altra cultura ed individuarne le peculiarità. “Non siamo più diversi, ma divergenti” – continua Federica, ma due diversità, qui ci aiuta la geometria, possono essere anche parallele ed in un punto infinito incontrarsi, prima o poi; non così per due divergenze – “partiamo dalla nostra cultura, allora, cosa abbiamo qui? Fiumi, boschi, farro, roveglia, pecorino, la pecora sopravvissana, che resiste al freddo ma fa meno latte di altre razze [...] ripartiamo da qui... se no c’è la cassa integrazione..” Questo dell’industria è certamente un anacronismo in Umbria, poiché mai appartenuto alla cultura locale. Sempre Federica: “Siamo partiti dall’arte, dalla poesia, dal teatro, dall’agricoltura e siamo arrivati alle acciaierie... Come abbiamo fatto? Qual’è il valore di tutto questo?” Da queste riflessioni, che ho scelto di trascrivere letteralmente, emerge chiaramente l’intento di questa donna “appena sopra la terra”: trovare sé stessa attraverso il lavoro, scavare e seminare fuori per fare altrettanto dentro. Del resto credo che non possa esserci ricerca spirituale senza compiere azioni concrete, Ignazio da Loyola sarebbe d’accordo. In questa ottica si inserisce il progetto con le scuole per Slow Food, di cui l’azione di Federica e dei suoi collaboratori sposa i principi: preservare e valorizzare l’identità storico-culturale di un territorio specifico; ridurre la filiera distributiva, il rapporto diretto tra produttore e fruitore; educare il palato dei più giovani e le loro coscienze, far sapere loro che dietro un cibo c’è chi lo ha prodotto, una storia, una tradizione con i suoi sapori. Coinvolgere i bambini in questo percorso è, dunque, un aspetto centrale del progetto. Rappresenta la volontà di mostrare una realtà di vita possibile, un percorso di lavoro ricco e gratificante. Perché no? Si, un lavoro. C’è anche questa possibilità. 38 “La terra è fatica. La terra è dura. La terra è bassa. L’orto vuole l’uomo morto. (etc etc)” Tutti restano affascinati quando Federica, con occhi che brillano, racconta la propria esperienza, ma poi commentano sempre così. è la forza del luogo comune, eredità forse della mezzadria. Ma le vite della commessa, del barista o dell’operaio, sono forse meno dure? Fare un lavoro a catena, o di relazione è una fatica, tenere la contabilità è usurante (poi serve pure andare in palestra). Ma non è questo il punto. La questione è la qualità dell’energia che s’impiega nel lavoro. Quanto e cosa ti torna indietro. La fatica è tale quando poco o nulla torna a te, quando è vana. Noi ci siamo incastrati nell’infruttuoso sgobbare, come società. Ci hanno riempito la testa di cosa è importante per noi, ci hanno detto di cosa abbiamo bisogno: soddisfare ogni desiderio, andare in vacanza (vacanza da cosa, mi domando, dalla vita?), comprare, appagando così ogni piccolo grande vuoto. Da quando questo affannarsi è divenuto vano è esplosa la crisi. Ci siamo forse resi conto che si trattava di un’illusione, che la nostra vita non si può comprare, è sempre stata là e vale molto di più di qualunque cifra. Anche se non giungi immediatamente alla mèta, ma senti che la strada che hai intrapreso è giusta, non c’è afflizione. Questo è l’insegnamento più grande, a mio avviso, dell’esempio di Federica. Jiddu Krishnamurti diceva «La verità è una terra senza sentieri». L’obiettivo, poi, non può più essere esclusivamente creare merce. È il concetto di “limite”. Ciò che è buono e ben fatto non può essere a disposizione di tutti e in ogni momento, non per snobismo, ma perché c’è un limite nella sua produzione. è inevitabile, se si rispettano i tempi, senza stressare terre e animali, massificare, spremere. Se si vuole qualità, vita. Enormi sono i progressi nel campo della comunicazione, della medicina che hanno giovato all’umanità. Ciò è accaduto anche alla biologia e all’agricoltura. Parte di questo sviluppo si è rivelato vantaggioso, ma parte di esso è distruttivo. Anni e anni di chimica sterilizzano i suoli, la produzione di massa impoverisce alimenti e tasche di produttori e consumatori a vantaggio degli intermediari. Questa corsa spiana la 39 strada alla politica del Land grabbing, l’accaparramento indiscriminato di grandi estensioni agrarie da parte di compagnie transnazionali, governi stranieri e singoli soggetti privati in paesi definiti in via di sviluppo. Sfruttamento, schiavismo. Unico scopo il lucro. Ecco cos’è. Una triste vecchia storia. Come nei supermercati, così tra le ben più alte sfere: tutto ciò che si somiglia va al potere. L’esperienza di Federica, però, ci insegna che tutti noi possiamo fare qualcosa per noi stessi, che ci sono altre possibilità oltre alla tirannia del consueto. Diversità come virtù. Salvare anche solo un fazzoletto di terra da morte o abbandono si rivela un grande investimento. L’agricoltore, allora, non è più mezzadro “da soma” né sinonimo di coltura intensiva, è un custode del futuro, lungimirante ed altruista poiché sceglie di non mangiare tutto il suo raccolto, ma di tentare la sorte seminando. Egli compie un gesto di fiducia nel futuro. Un’azione concreta che contiene in sé il senso più profondo del disfacimento come culla di un giovane germoglio. Questa storia vuole essere un invito a pensare in maniera difforme dall’ordinario. Questa storia vuole essere un seme. Livia Villani «Fondamentalmente, tutto il mondo è incantato. Più in profondità si osserva la natura viva, più ci si rende conto quanto bella sia. E credo anche che si sente che là si sta bene. Si fa parte di essa e ci si sente felici, la si può vedere e conoscere. Precisamente, la coscienza è il dono più grande fatto all'umanità. Avere coscienza. Che l'uomo diventi consapevole di essere stato creato. Che noi siamo consapevoli della creazione. Che non stiamo solo camminando ciecamente nel paradiso.» Albert Hoffmann 40 La mia piccola ma vissuta, storia di donna Il giorno della festa della Befana, presso la Caserma Gonzaga, l’Assessora Rita Zampolini, mi chiese se avevo voglia di far parte delle donne del “Quaderno dell’8 Marzo”. Inizialmente ho avuto paura, non credevo di poter far parte di quelle donne, studiose, famose, impegnate, con tante storie vere da raccontare, di donne che avevano vissuto il bello e il brutto della vita. Poi una mattina, guardando mia figlia, mi sono ricreduta; così ho iniziato a voler raccontare “la mia piccola ma vissuta, storia di donna.” Io, Barbara, ho tante cose da raccontare, ma voglio soffermarmi solo sulle più importanti, quelle che hanno profondamente segnato la mia vita. Sono nata a Foligno nel 1974 da due genitori, splendidi, che hanno desiderato tanto due figli Gabriele e me. Io, la più piccola, sono stata sempre coccolata e presa da mille sogni: sognavo di diventare una ballerina come Carla Fracci, una cantante di musica leggera e una maestra di scuola materna. Una sera, al rientro dal lavoro, mi sono resa conto che queste cose non sarebbero mai più potute accadere. A trenta anni ero molto attiva, piena di gioia di vivere che mi pervadeva l’anima e fuoriusciva da tutti i pori sfociando nel mio “paretico sorriso”: lavoravo in un supermercato, la sera mi dilettavo a fare animazione durante le serate di karaoke, cantavo come solista per la Corale del Teatro San Carlo di Foligno e facevo spettacoli con la Compagnia “Un Centesimo per un Sorriso”, ero impegnata attivamente nella protezione civile, tanto che nel 1999 sono andata in Albania per la Missione Arcobaleno e “scalavo montagne”; ma un brutto giorno ho avuto una doccia fredda: mia madre, stringendomi forte tra le sue braccia, mi disse: “Barbara, hai la Sclerosi Multipla”. 41 Sono stata avvolta da un’ondata di gelo, da tanta confusione in testa ed ho pianto come non mai. Non sapevo più cosa dovevo fare, perché e come vivere. Da quel giorno la mia vita è diventata un mondo di rinunce, dove io non riuscivo più ad accettare e a capire il perché di tutto questo radicale cambiamento. Quella sera iniziò un lungo percorso; medici, ospedali, punture, flebo, di tutto e di più. Ogni giorno era una sfida continua tra me e la Sclerosi Multipla che mi ha attanagliato fino a ridurre tutta la mia vita a una semplice sofferenza: non servivo più a niente! Il mio corpo cambiava, le mie forze diminuivano, non riuscivo più a lavorare e tutti se ne accorgevano, nonostante la voglia infinita di essere ancora utile e cercare di portare avanti tutte le mie attività. Ero molto stanca, vivevo tra il letto, la poltrona e la mia autocommiserazione che cresceva di giorno in giorno. A un certo punto mi sono resa conto, accorta, che non ero sola a dover affrontare questa enorme sfida: “dovevo riprendermi la mia vita”, diventare il cambiamento che mi avrebbe permesso di rivivere. Mi sono resa conto che esisteva ancora la mia famiglia, i miei amici, i dottori e altre persone che, con la mia stessa malattia facevano il tifo per me, contavano su di me e su quello che potevo ancora dare. Ho iniziato a reinventare la mia vita in base alle mie possibilità fisiche e il 21 novembre del 2006 è nata una nuova Barbara insieme ad un fagottino di soli due chili e seicento grammi, Lucrezia, mia figlia, colei che mi ha dato e mi dà la forza di andare avanti, di affrontare ogni difficoltà che incontro, colei che mi tiene attiva in tutti i fronti, quella pestifera che mi tiene impegnata tutti i giorni e che quando sto male mi cura con le sue coccole e le sue carezze. La decisione di avere un figlio è stata molto sofferta, le paure mi hanno pervaso ed erosa internamente, ma alla fine ho capito …. La mia vita è rinata con Lei. Da lì mi sono impegnata per riconquistare metro dopo metro, passo dopo passo, minuto dopo minuto, ogni attimo della mia vita e ho deciso di ricominciare a impegnarmi in modo da spronare altre 42 donne come me. Far capire alle mie compagne di viaggio che si può andare avanti anche con una patologia come la nostra. Da oggi vedo il mondo con altri occhi. Ora sono una volontaria A.I.S.M. grazie a una grande donna che mi ha portata con lei in associazione, sono un’amica per i diagnosticati che hanno voglia di parlare un po’, una voce che canta e che interpreta a modo suo le canzoni di altre magnifiche donne per raccogliere i fondi per le varie difficili realtà che ci circondano, ma la cosa più importante è che faccio la MAMMA a tempo pieno con tanta gioia e tante soddisfazioni. Sono una donna come tutte le altre, una donna con la sua “vissuta” storia di “donna”, che continua con nuove energie e nuovi obiettivi da raggiungere ogni giorno. Dedicato a due grandi donne Mamma e Lucrezia. Barbara Bibi 43 44 20 minuti La mia è la storia di una giovane immigrata, che si trova a vivere tra due realtà completamente diverse: una è quella delle mie origini e l’altra è quella in cui sono cresciuta.Tutto ha avuto inizio nel paese in cui sono nata e vissuta per quasi sei anni; poco dopo la mia nascita, la mamma e i miei fratelli più grandi sono partiti per venire qui in Italia, io, invece, sono rimasta con la nonna, la persona che adoro di più al mondo. La mia infanzia con lei è stata qualcosa di unico: per lei ero sempre al primo posto, non mi mancava niente. A cinque anni, però, sono stata divisa da lei, per riunirmi ai miei genitori e fratelli; con la mamma non c’è stato mai un buon rapporto, perché l’ho ritenuta la causa della mia separazione dalla nonna, visto che è stata lei a venirmi a prendere, per affrontare il viaggio verso l’Italia dove la mia vita è cambiata radicalmente. Arrivata in aeroporto non avrei mai pensato che di lì a poche ore avrei incontrato la “bestia “che mi avrebbe rovinato l’infanzia fino ad allora bellissima. La bestia era il migliore amico della famiglia, non avrei mai immaginato cosa mi aspettava in futuro, dopo averlo conosciuto. Era un uomo anziano molto ma molto grosso, che mi costringeva a fare cose bruttissime, ma io, all’età di cinque anni, non capivo niente, non mi rendevo nemmeno conto di quello che mi stesse succedendo. Sono stata sempre zitta. Ho affrontato sempre tutto da sola, non c’era nessuno ad aiutarmi. Dopo circa un anno pensavo che sarebbe tutto finito, finalmente ci eravamo trasferiti, ci eravamo allontanati da quel piccolo paese che tanto avevo odiato, vedevo la nuova casa la mia libertà, ero sollevata. Purtroppo niente era finito. La mia mamma era rimasta in contatto con 45 la moglie di quell’uomo, che avevo il terrore d’incrociare per strada. La mia mamma mi aveva già strappato dalla persona che tanto amavo e mi stava rovinando la vita per la seconda volta, perché ogni tanto andava ad aiutare quella donna a fare le pulizie e mi costringeva ad andare con lei: ogni volta mi mettevo a piangere per non andare, ma lei non se ne accorgeva mai o forse faceva finta di non accorgersi della mia sofferenza, voleva che le facessi compagnia lungo la strada, perché ogni volta erano venti minuti di camminata, che per me non finivano mai. Per la mamma, erano i venti minuti che la portavano verso un guadagno a fine giornata, per me ogni volta erano venti minuti di cammino che mi portavano verso l’inferno in terra. Con il passare del tempo finalmente mia madre smise di andare in quella maledetta casa. In tutto quell’arco di tempo c’era una cosa, io la considero una persona unica fatta di tante persone, una cosa che mi ha aiutata ad andare avanti, a sorridere sempre, a non abbassare mai la testa. Quell’unica persona era la SCUOLA che tanto amavo e che tanto continuo ad amare. In lei mi rifugiavo, in lei c’erano persone speciali che con la loro presenza vicina mi facevano sentire protetta. Sono sempre stata una delle più brave in classe. Cinque anni fa mi sono diplomata. Il mio sogno era entrare a far parte dei “Medici Senza Frontiere” ma, purtroppo, ho trovato molti ostacoli. La mia famiglia non era d’accordo sul fatto che io andassi all’università. me lo hanno impedito, semplicemente perché sono donna, perché non accettano il fatto che una donna superi l’uomo anche solo a livello scolastico; dall’altra parte c’era il bisogno economico, ora lavoro ho i soldi ma ho capito che non bastano nella vita. Se si ha un sogno bisogna sempre rincorrerlo, perché sarà proprio quel sogno che ci darà la forza e la speranza di andare avanti, di lottare nonostante tutti gli ostacoli della vita e tutte le sofferenze. Hayat in collaborazione con la Casa dei Popoli 46 “Agente speciale, Daniela Antonini” Daniela Antonini nasce a Foligno il 12 marzo 1969. Diplomata in Ragioneria, portiera di una squadra di pallamano folignate, qualche lavoro saltuario, tanti sogni nel cassetto. Sapeva di certo che mai e poi mai avrebbe fatto la ragioniera seduta dietro una scrivania e chiusa in qualche ufficio chissà dove, ma non avrebbe neanche mai immaginato che la sua vita sarebbe andata così come sto per raccontare. La sua storia professionale ha inizio nel 1991 quando Daniela, che da grande avrebbe voluto fare il postino, decide di partecipare quasi per gioco ad un concorso per entrare in Polizia. Ironia della sorte vuole che un paio d’anni dopo, all’età di 24 anni, si trova a fare la valigia: destinazione Senigallia dove per sei mesi frequenta il corso di addestramento. Dopo questo periodo, forse ancora inconsapevole del mondo lavorativo che avrebbe affrontato e con l’entusiasmo di una giovane 25enne, inizia l’avventura nel mondo dei “cattivi”. Il commissariato Oltrarno di Firenze è la sua prima destinazione. Qui conosce Luigi che nel 1997 diventa suo marito e dal quale si deve ben presto separare in quanto viene trasferito nella sede di Perugia. Nei rari momenti in cui riuscivamo ad incontrarci mi raccontava di come fare il poliziotto fosse un lavoro intrigante, eccitante talvolta divertente ma nello stesso tempo estremamente difficile e pericoloso soprattutto per una donna. Inseguimenti, arresti, posti di controllo, risse … Me la immaginavo come la protagonista di un film poliziesco, come quelli che si vedono in televisione e forse è proprio in quel modo che si sentiva: la realtà stava diventando 47 un sogno. Un sogno che si interrompe temporaneamente nel 1999 quando viene a sapere di aspettare Martina. Dopo la nascita della bambina viene finalmente trasferita a Perugia; il tempo passa veloce tra servizi di ordine pubblico e tante altre attività. Daniela è un vulcano e non ancora contenta decide di fare il concorso per diventare Sovrintendente. L’esito è positivo. Dapprima grande entusiasmo ma poi, quando viene informata che la sua nuova “casa” sarà a Milano, il grande dubbio… Lasciare tutto, gli amici, la sua famiglia e soprattutto la sua bimba di 8 anni … andare o non andare … una scelta difficile. Ma poi armata di tanto coraggio e consapevole degli immensi sacrifici che avrebbe dovuto affrontare, decide di rimettersi in gioco e all’età di 38 anni si trova nuovamente a fare le valigie. Una scelta dolorosa unita anche a qualche senso di colpa, ma che nonostante tutto, la ripagherà di tantissime soddisfazioni e di un bagaglio professionale e personale inestimabile. Dal 2007 e per tre anni, il suo nuovo lavoro sarà in una delle stazioni ferroviarie più grandi e trafficate d’Europa: Milano Centrale. Qui ha la possibilità di scoprire un mondo che non conosceva e di fare nuove esperienze anche all’estero. Nell’ambito di un programma di cooperazione tra le Polizie Ferroviarie Europee per il contrasto alla criminalità in ambito ferroviario, viene infatti chiamata a prestare servizio nella stazione ferroviaria di Parigi. Dopo tanto peregrinare nel 2010 arriva l’atteso trasferimento alla Polizia Ferroviaria di Foligno. “Finalmente a casa!” dice Daniela mentre sorseggiamo un caffè al bar. “Ho avuto la fortuna di fare delle esperienze indimenticabili ma sono felice di essere di nuovo a Foligno. Mi sono trovata subito bene grazie all’accoglienza dei miei nuovi colleghi e soprattutto grazie ad un Comandante straordinario. Tutto questo lo devo alla mia stupenda famiglia che mi ha permesso di raggiungere questo traguardo e di essere ciò che sono oggi”. Quando mi è stato chiesto di raccontare la storia della vita di Daniela l’ho fatto con vero piacere. Spero di essere riuscita nell’intento di dare il mio piccolo contributo per testimoniare come una 48 donna, anche mamma e moglie, sia in grado, nonostante le infinite difficoltà, di svolgere un lavoro impegnativo come quello del poliziotto, un tempo, e forse ancora oggi, considerato un lavoro destinato a soli uomini. Cinzia Giannangeli, un’amica 49 50 Un salto e un rimbalzo nella natura La Dott.ssa Sara Trabalza è una naturopata della scuola australiana, un sistema di medicina naturale che si focalizza sul trattamento delle cause della malattia mediante l’analisi e il trattamento della persona nella sua interezza. Si pone un’attenzione particolare nell’aiutare il corpo a ritornare ad uno stato di salute ottimale mediante i suoi stessi meccanismi di guarigione. Nel campo della naturopatia australiana viene applicato un approccio scientifico moderno insieme ai principi naturopatici, includendo il potere guaritore della natura, per riconoscere la capacita’ del corpo di superare la malattia. Ho incontrato Sara ad un corso di meditazione in Italia anni fa, quando lei viveva a Sydney e tornava oltreoceano per corsi di aggiornamento e apprendere nuove tecniche per aiutare se stessa e gli altri a vivere una vita piu’ consapevole e felice. Da allora siamo sempre state in contatto e ho potuto assistere alla sua evoluzione e formazione da terapista nel campo olistico. Avendo studiato e lavorato in Australia per molti anni e tornata alla realta’ italiana da quasi un anno, ho trovato interessante poter illustrare la sua esperienza di donna coraggiosa che anni fa lascio’ tutto per fare un salto nell’ignoto ed affidarsi alla vita e alle sue meraviglie. Sara potresti meglio spiegare come la naturopatia australiana viene impiegata e a quali scopi? La naturopatia, stimolando le forze di autoguarigione dell’organismo, con l’aiuto dell’energia terapeutica curante della natura arriva alle cause di qualsiasi malessere e malattia per poterle guarire senza limi51 tarsi alla sola soppressione dei sintomi. Lo scopo dell’attività della naturopatia è, principalmente, quello di andare in profondita’ fino alla radice dello stato di sofferenza: fisica, mentale, spirituale ed emozionale. L’approccio ad ogni tipo di sintomo viene effettuato tramite una visita di un’ora: in questo modo si considera l’individuo nella sua totalita’ e non come un Essere separato dotato di solo corpo fisico. Vengono impiegati rimedi naturali come erbe, fiori, oligoelementi e omeopatia per ristabilire la forza vitale della persona. Quali strumenti del sistema terapeutico australiano vengono impiegati? •Colloquio e valutazioni naturopatiche: mediante l’iridologia, per testare i cosiddetti “punti di forza e debolezza” costituzionali dell’individuo, in quanto è un sistema meraviglioso ed un utile strumento d’analisi. Ogni parte del corpo ha una zona corrispondente nell’iride, quindi si puo’ risalire ad uno stato di salute o malattia di un organo o apparato; mediante l’analisi delle unghie, della lingua, l’analisi fisiognomica e l’analisi degli stili di vita. •Trattamenti e programmi personalizzati di benessere, facendo anche da sostegno alle terapie del medico, per il mantenimento ed il recupero della salute con: nutrizione ed integratori alimentari, floriterapia (fiori australiani), fitoterapia, tecniche psicofisiche e trattamenti di medicina energetica (rilassamento, respirazione, meditazione guidata, purificazione, ecc.), programma di esercizio fisico. Ci potresti raccontare la tua esperienza di studi in Italia e Australia e cosa ti ha spinto ad andare cosi’ lontano? “Sara Trabalza salta e rimbalza” era il ritornello che mi cantavano continuamente i miei compagnetti dell’asilo per gioco, ma che da bambina sensibile e timida qual’ero, mi faceva soffrire tanto perche’ mi sentivo presa in giro e non amata. Nel ricordare ora quelle buffe parole penso davvero che rappresentassero invece una vera e propria predizione sul mio futuro, una magica profezia.... Mi sono laureata in Farmacia presso l’Universita’ di Perugia a 24 52 anni e specializzata nella stessa universita’ in Chimica e Tecnologie Alimentari, iniziando (nel frattempo che mi specializzavo) a lavorare nel campo farmaceutico in cui sono rimasta per cinque anni. La mia grande passione per i viaggi, l’esperienza in ambito farmaceutico e un’apertura verso nuove tecniche terapeutiche naturali mi hanno spinto verso un’entusiasmante avventura che mi ha portato dall’altra parte del mondo. Il salto nel vuoto è avvenuto proprio nel 2009, quando in Europa iniziava la crisi economica ed affrontando le paure collettive con coraggio e determinazione, spinta da dentro a crescere ed esplorare nuovi mondi interiori ed esteriori, ho dato le dimissioni da un lavoro “sicuro” che avevo tanto amato e che mi aveva aiutata a crescere fino ad allora, per saltare nell’ignoto ed intraprendere una carriera da naturopata a Sydney. Improvvisamente si stavano aprendo nuove porte di mondi sconosciuti, sia dentro che fuori, per approfondire la conoscenza di me stessa e degli altri e perciò poter essere d’aiuto in maniera piu’ profonda e terapeutica. Trovai un college a tempo pieno di naturopatia a Sydney e l’Australia era sempre stato un paese che aveva attirato la mia attenzione, soprattutto da bambina nei racconti di mio nonno, il quale durante la seconda guerra mondiale era stato prigioniero proprio lì, quindi era come se stessi continuando il suo desiderio di vivere lì, tanto era il suo amore per questa terra nuova e rigogliosa che descriveva con stupore e ammirazione. E poi chissà’ se il ritornello abbia davvero dato quella spinta finale affinchè io mi buttassi con un salto oltreoceano e seguissi l’esempio di animali meravigliosi e saggi come i canguri! Per quanti anni hai studiato la medicina naturopatica australiana e come ti sei sentita ad imparare nuove materie in un’altra lingua? Il college di medicina naturopatica australiana era di 3 anni a tempo pieno, quindi fu un’immersione totale in quello che era un sogno per la mia anima così desiderosa di esplorare, conoscere e fare esperienze nutrienti in un altro paese: fitoterapia, fiori australiani, nutrizione, omeopatia, medicina energetica e vibrazionale, medicina tradizionale cinese, meditazione, yoga, massaggi e tutto ciò che pot53 esse guarire l’individuo in maniera naturale e a tutti i livelli: fisico, mentale, emozionale e spirituale. Finalmente mi sentivo “a casa”, quella sensazione che si ha quando ci ritroviamo, ritorniamo a noi stessi e a ciò’ che ci piace creare col cuore: allora la Vita si dispiega dinnanzi ai nostri occhi con un senso, come dire ”ho trovato la mia strada”. Sentivo dal profondo che stavo facendo la cosa giusta per me e per tutti coloro che mi conoscevano e anche per chi non mi conosceva, perchè quando decidiamo di amarci fino in fondo e di coltivare quella vibrazione d’amore e gioia dentro, indipendentemente da ciò che accade o non accade nel mondo, tutti coloro che ti incontrano ne possono beneficiare, perchè quella gioia e amore possono essere condivisi con chiunque. Siamo in questo mondo per imparare ad amare ed amarci gli uni con gli altri. E proprio in questo modo sono riuscita a costruire relazioni stabili e profonde con persone splendide che ho avuto il privilegio di incontrare lungo la via, che non conoscevo prima e che mi hanno aiutata a comprendere un paese così lontano, con una lingua e delle abitudini totalmente diverse dalle nostre e far in modo che potessi sentirmi a casa mia. All’inizio è stato tutto molto intenso, lasciare la mia “vecchia vita” per entrare nella “nuova”, con la paura che arrivava con tante voci. Sono sempre stata molto determinata nelle mie scelte, quindi quando mi metto in testa una cosa, quando la voce interiore mi parla e mi guida verso una direzione, come si può non ascoltarla ed invecchiare poi con rimpianti e risentimenti per non aver osato? E proprio quando si lasciano andare le paure si può finalmente amare e vivere da esseri liberi.... Ci puoi raccontare cosa e’ accaduto dopo che hai concluso il college di medicina naturopatica australiana? Nel 2012 ero gia’ una naturopata e lavoravo da piu’ di un anno in una clinica a Sydney in cui ho potuto aiutare tantissime persone e praticare intensamente nel paradiso delle terapie naturali tutto ciò per cui ero stata formata: fitoterapia, omeopatia, nutrizione, fiori australiani, medicina energetica, lavorando con adulti e bambini. In Australia c’è un approccio diverso a malattie e disturbi, si ricorre 54 sempre a terapie naturali perchè la natura ci offre tutto cio’ di cui abbiamo bisogno per stare bene e guarire. Poi nel marzo 2013 la mia voce interiore mi ha fatto saltare di nuovo: stavo rientrando in Europa per un corso di aggiornamento sulla medicina energetica e tecniche di meditazione quando decisi di restare più a lungo, lasciare Sydney e ritornare a vivere in Italia per un po’ e Foligno sarebbe stata la mia dolce meta... Da allora è trascorso quasi un anno in cui mi sono impegnata a diffondere la medicina naturopatica australiana nella mia amata città natale, Foligno ed in Italia, per poter aiutare persone locali e tante altre ancora provenienti da diverse parti di Italia. Attualmente lavoro in tre studi: Foligno, Spoleto e Macerata dove mi concentro su tante diverse sintomatologie: allergie e malattie respiratorie, problemi digestivi come gastrite o colite o disturbi dell’alimentazione, stress, ansia, attacchi di panico, depressione, disturbi circolatori, sistema immunitario, dolori articolari, muscolari e infiammazioni, insonnia, apparato riproduttivo femminile e menopausa, problemi ormonali, problemi emozionali, controllo e riduzione del peso corporeo, stanchezza cronica, etc.. Che messaggio puoi offrire a chi ancora non ha mai sentito parlare di medicina naturopatica australiana e di un approccio diverso a malattie e disturbi fisici ma e’ abituato agli standard della medicina tradizionale? La naturopatia è rivolta a tutti, a chiunque ricerchi nella natura dei rimedi per guarire in profondità senza un approccio invasivo quale può essere quello chimico. Si può guarire da qualsiasi malattia, si può ritrovare quello stato di pace interiore che siamo tutti in Essenza al di là di qualsiasi circostanza esterna. Una volta riconosciuta la causa del sintomo che stiamo sperimentando a livello fisico, mentale, emozionale e spirituale, poi si può passare all’azione grazie a rimedi naturali che sono in grado di riportare l’equilibrio dell’individuo a tutti i livelli. Questa è la meraviglia di essere Vita in corpo e di poter trattare il nostro tempio con amore e rispetto. Prenderci cura di noi stessi è 55 la chiave per sperimentare l’amore che tutti noi siamo e offriamo al mondo, a chi ci sta intorno: il vero amore e’ come il sole, splende di luce propria e la offre a tutti. Ilaria Bellani 56 Maura e Patrizia Bocci … Le mie insegnanti di danza Questa che mi è stata data è un’occasione davvero speciale, grazie alla quale potrò parlare di due donne con cui sono stata fianco a fianco per molti anni e che hanno dato un’impronta speciale alla mia vita. Per me non sono state e non sono soltanto le mie insegnanti di danza, ma dei veri e propri riferimenti, a maggior ragione in questo momento della mia carriera in cui il mio percorso ricalca il loro. Studiare danza è una scelta molto coraggiosa. Molti si limitano a dire che ci voglia passione, ma posso assicurare che ci vuole molto di più. La passione ti aiuta, certo, ma devi avere una grande forza interiore, la capacità di mescolare la giusta dose di grinta, di esigenza e di indulgenza con se stessi, la lucidità di riconoscere i propri limiti e i propri talenti, scoprendosi unici e forti di entrambi. Ci vuole una famiglia che capisca quanto ami ciò che fai e che ami che tu lo faccia, sognando insieme a te ogni giorno mentre studi ed ogni volta che calchi la scena. Ogni giorno è rigore, ogni giorno è una prova nuova, ogni giorno ti porta qualcosa e te ne chiede altre… Maura e Patrizia tutto questo lo sanno bene ed io l’ho imparato con loro, lezione dopo lezione. Quando per la prima volta mi sono messa alla sbarra ero praticamente digiuna di danza, eppure già abbastanza grande. Non ero abituata ad un’insegnante che illustrasse l’esercizio e rimasi ammaliata nel guardarle spiegare ogni passo con la voce, ma soprattutto con il corpo. Tecnica, stile… tutto sembrava facile, ed era frutto di una grande competenza. Oggi più che mai capisco quanto quel che fanno ogni giorno in classe, sia il risultato di un percorso lungo e faticoso, che comincia dal passo più “tosto”: decidere di vivere portando la danza in ogni giorno della tua vita, come succede per 57 tutte le grandi passioni. Già, perché significa studiare di più, girare l’Italia in lungo e in largo per cercare stages in ogni stagione, fino ad arrivare a condizionare tutta la famiglia nella scelta dei luoghi di villeggiatura pur di trovare il modo di studiare! Mi piace tantissimo sentirle raccontare, ad esempio, di quando, invece di seguire i genitori nelle località di vacanza scelte da loro, li “trascinavano” fino a Cannes per studiare al Rossella Hightower Dance School, con la roulotte!!! E la ricerca dei migliori maestri, i viaggi per stages, le notti a studiare per gli esami di filosofia, perché di giorno sei in sala di danza, i dolori muscolari, le giornate storte, sono solo un preludio, la fase di preparazione alla tanto attesa audizione… Ed ecco che, seguendo percorsi differenti, arrivano a studiare a Roma, prendendo un treno ogni mattina, cercando di conciliare funambolicamente la vita professionale con quella affettiva, gli studi universitari con gli esami di danza, con le giornate che volano dalle 5 del mattino fino a tardi la sera. Ho chiesto loro tante volte come avessero fatto a non cedere mai ed è stato bello sentir dire che in realtà i momenti di sconforto e di stanchezza ci sono stati, cosi come il pensiero di lasciare, ma che ogni volta era stata un’altra donna a dar loro la forza di non cedere: la mamma, anche lei pronta a qualsiasi sacrificio perché fermamente convinta che sono le passioni a rendere bella la vita e anche perché….tanto orgogliosa delle proprie figlie. Aldilà però delle difficoltà “tecniche ”che sono state capaci di affrontare, a rendere speciali queste due donne è che sono riuscite, pur se con percorsi simili, ma diversi, a realizzarsi come ballerine, come insegnanti, come mogli, come mamme: uniche, distinte, ma sempre unite. Come nel loro modo di lavorare ogni giorno a scuola, in armonia e con un’intesa profonda. Caratteri e sguardi differenti, ma stesso sorriso. Sono una squadra, sono capaci di stimolare e di guidare gli allievi verso orizzonti sempre più lontani e sono felici di realizzarsi nei traguardi dei danzatori che formano. Credono in ciò che fanno, perché amano profondamente ciò che fanno. Proprio attraverso lo studio della danza, a molti ragazzi e ragazze della loro scuola si sono aperte grandi e spesso inaspettate opportunità; è quello che è capitato a me che, con una laurea in ingegneria meccanica in tasca, ho 58 deciso di seguire il cuore e mi ritrovo qui, all’Accademia Nazionale di Danza di Roma, a vivere un sogno. Ed è quello che è successo a Fabrizia D’Intino, ad Angelica Mela, a Giacomo Olivieri ma soprattutto ad Alessandro Sebastiani che, grazie ad un eccezionale talento, muovendo i primi passi dalla loro scuola è approdato all’Accademia Nazionale di Danza dove si è diplomato e partirà tra qualche giorno alla volta del balletto nazionale Cileno. Non parlano di rispetto, lo mettono in pratica ogni giorno, a partire da loro stesse. Sono generose e desiderose di “scendere in campo” per la realizzazione di progetti e spettacoli a scopi benefici. Credono nell’infanzia e credono nelle donne, nella loro forza e bellezza; credono nella potenza del genere femminile perché intelligente. Queste due donne sono esempi di come sia bello esserlo, perché è della donna la capacità di rendere una vita piena di ciò che hai sognato e desiderato e per ottenere la quale hai lavorato ogni giorno. Teresa Rospetti 59 1721, Tecla Maddalena Vitelleschi: una Rosa senza spine? La donna è il motore del mondo, grazie a lei la specie umana da tempi immemorabili tuttora resiste; e, nonostante le oggettive difficoltà (carestie, pandemie, guerre) e finanche soggettive (violenze, stupri), la donna ha garantito la sopravvivenza dei figli suoi e altrui. Miliardi di donne si sono succedute sul suolo del pianeta Terra, di costoro non rimane traccia, se non labilissime e sporadiche, fortuite. E poi si disserta su di loro, sempre in un’ottica maschile, come oggetto d’amore o di vituperi: sono sempre gli uomini a parlarne, poiché è l’uomo che ha il potere, non è necessario che sia un re, ogni uomo, nel corso dei millenni, è stato il re, o il tiranno, della propria compagna. È una derisoria consolazione, in moltissimi casi, ed ancora oggi, nel mondo e in Italia, dove è entrato in pompa magna nel nostro vocabolario un recentissimo neologismo: femminicidio, chiamare la donna: “regina della casa”, “angelo del focolare”. La “regina-angelo” è consapevole dell’ipocrita privilegio (verbale), ma agisce continuando nella difesa e nel mantenimento della prole, magari togliendosi per davvero: “il pane di bocca”. Per rimanere nei secoli antecedenti al nostro, nell’affascinante secolo del Settecento, il secolo “bambino” delle successive epoche più “moderne”, ma non ancora adulte, finalmente le donne, in via eccezionale, iniziano ad avere un ruolo sociale in maggior misura riconosciuto: scienziate, scrittrici e poetesse, pittrici, intelligenti protagoniste di salotti culturali, animatrici della cultura (Clelia Grillo Borromeo Arese, Faustina Maratti Zappi). Pure in Foligno, fin dai primi decenni del Settecento, abbiamo delle protagoniste, un nome per tutte Maria Batista Vitelleschi, aggregata per i suoi meriti poetici a numerose Accademie d’Italia, morta in età precoce, a soli ventisei anni, nubile. Il suo nubilato pone degli interrogativi: bella e deside61 rata, Benedetto Pisani nel suo poemetto Fulginia (1723) la rappresenta sua ideale guida nel mondo della dea Fulginia, dove lui e l’incantevole Nicori Deniatide (nome arcadico di Batista) incontrano gli spiriti eletti, viventi o defunti, tra questi i più celebri nomi dei poeti folignati, ovvero Petronio Barbati, Federico Frezzi, Sigismondo Conti; il giovane poeta veneziano lascia intendere che il suo cuore batte per l’avvenente Nicori. Ma Batista viveva nell’incertezza se consacrare la sua vita a Dio ritirandosi in convento? Seguire quindi le orme di sua sorella Tecla Maddalena? E Tecla ha compiuto un suo autonomo e irrevocabile passo, spinta davvero dalla cosiddetta “chiamata”, oppure rientra nell’innumerevole schiera di giovani fanciulle le quali per ragioni economiche e sociali venivano indirizzate, o con la persuasione più o meno occulta o con una decisiva costrizione, a prendere i voti entrando in convento? A questa terribile “tratta”, poiché è terribile sacrificare la propria irripetibile esistenza, segnata da desideri non necessariamente spirituali, sono state spinte una moltitudine di donne, per ragioni dotali se appartenenti al ceto abbiente, per la fame se appartenenti al ceto povero. Su Maria Batista non possiamo dare risposte certe, ancorché interessante sia l’opinione di Marina Renzini (Quaderni 8 marzo, 2010), ovvero che fu lei, “donna molto moderna e sicura”, a decidere di non sposarsi per garantirsi libertà di pensiero; tuttavia le nostre riflessioni rimangono allo stato di ipotesi in quanto gli anni non sono bastati a Maria Batista per indirizzarla a scegliere un qualsiasi percorso della sua vita, persino quello di rimanere nubile e allo stato laicale; mentre su sua sorella possiamo accertare che decise di diventare suora clarissa nel 1721. Ma chi fosse nella sua squisita individualità la monacanda noi non lo possiamo dire. Ci ritorna un’immagine evanescente, un’immagine virtuale, un’immagine di “carta”: cinque furono le festose raccolte poetiche per il solenne passo: Tecla Maddalena Vitelleschi diventa suor Maria Rosalia, prendendo i voti solenni per il suo ingresso nel Monastero folignate di Santa Lucia del primo ordine di Santa Chiara. Canzoni, odi, sonetti, epigrammi, madrigali: uno sfoggio virtuoso di rime e di giochi di parole tra i nomi di Tecla Maddalena e Rosalia, la quale si trasmuta nella rosa in ogni suo sfumato colore, nella sua intensa fragranza, bisticci nel proporre armenti, campi, oro e 62 azzurro e gigli, di cui l’ignaro lettore non capisce il senso se non conoscendo lo stemma araldico della casata, intrecci tra i nomi di Francesco e Chiara da Assisi, i capostipiti dell’ordine mendicante ove la Vitelleschi aveva deciso di confluire. Un fiume di parole, dove noi a distanza di quasi trecento anni cerchiamo di capire chi fosse davvero la giovane monacanda, ma non troviamo nulla che ci comunichi l’essenza della sua personalità, o una nota peculiare della sua gestualità, o un’espressione tipica del suo modo di pensare. Ottavio Vitelleschi, il padre, Angela Flaminia Barnabò, la madre, due famiglie eminenti alle spalle, tra i figli, la più famosa è Maria Batista, giovanissima poetessa, pastorella arcade, iscritta a molteplici Accademie, accademica rinvigorita, insensata, assordita, filargita, e già i nomi originali che rimandano alle rispettive Accademie la dicono lunga sullo spirito della cultura dei primi decenni del Settecento: un arcadico minuetto. E l’arcadico minuetto è ben visibile negli omaggi poetici sull’ordinazione claustrale di Tecla e che personaggi ragguardevoli della buona società letteraria italiana hanno dedicato ai componenti della famiglia Vitelleschi: Componimenti poetici […], offerti alla madre Flaminia; Componimenti toscani […], donati alla sorella Batista; Illustrissimae dominae Teclae Magdalenae de Vitelleschis […], epigrammi in latino proposti di nuovo alla madre; Per la monacazione […], Corona poetica […], presentata al padre Ottavio; Rime di diversi insigni autori per la monacazione di suor Maria Rosalia […], dedicate alla sorella maggiore Maria Orsola, la quale a sua volta nel 1714, in occasione delle sue nozze con Claudio Gabuccini di Fano, aveva ricevuto una silloge di poesie sul dolce talamo. Gli autori dei componimenti poetici sono di provenienza geografica anche lontana, spesso pastori arcadi, come Maria Batista, anzi i legami con lei spiegano perché per l’evento sacro cinque furono le pubblicazioni, un numero elevato. Nei fatti i poeti arcadi instauravano tra di loro una fitta rete di rapporti, garantiti dalla loro appartenenza all’Accademia d’Arcadia di Roma (1690), la quale assunse un carattere “nazionale” grazie alle colonie arcadiche disseminate sul territorio italiano (a Foligno la Colonia Fulginia, fondata nel 1717). Diventare pastori d’Arcadia significava seguire una moda galante, che esigeva da ogni persona rispettabile perizia culturale e letteraria, abilità nel 63 verseggiare e, a ogni evento mondano, la capacità di offrire ad amici e conoscenti poesie d’occasione per nozze, lauree, lutti, consacrazioni religiose, battesimi, da assemblare in “Corone”, da offrire come omaggi poetici: tutto questo rispondeva alle esigenze di una società mondana e salottiera per la quale la poesia doveva accompagnare ogni evento ed era una forma essenziale della comunicazione sociale. Per tale motivo la sovrabbondanza di moduli espressivi ripetuti può ingenerare stanchezza e un senso di vuoto: insomma quale quadro abbiamo di Tecla Maddalena Vitelleschi? Nessuno ben definito, se non, fisicamente, le bionde chiome sacrificate per segnare il passaggio formale dal mondo esterno a quello claustrale, dall’universo della femminilità a quello della negazione della femminilità, e, spiritualmente, un ardore ansioso di accelerare il passo verso la vita conventuale, così almeno sostiene nella prefazione a Rime di diversi insigni autori […] Giovan Battista Boccolini. Da questa raccolta, in mezzo all’innumere schiera di verseggiatori, ho prescelto la voce di due autrici, perché forse con la loro sensibilità muliebre possono trasmetterci qualcosa di più profondo sul senso di una scelta così radicale: Gaetana Passarini di Spello e Maria Batista Vitelleschi, poetesse di pregio nel mare magnum delle poesie d’occasione, le quali, pur con i limiti segnalati, costituiscono pagine di storia, documenti in versi, magari locali o familiari, ma non per questo meno importanti e significativi della documentazione relativa alla Storia Ufficiale, che è composta anche da queste minuzie comunicative e ad esse la Storia Ufficiale deve corrispondere. Gaetana, pastorella arcade come Silvia Licoatide, nel sonetto da lei composto, gioca con tutti gli artifici retorici a sua disposizione evocando Francesco e Chiara, il nome virginale di Rosalia con la rosa, infine l’appartenenza della fanciulla ai Vitelleschi con i caratteristici simboli araldici: Rosa gentil, che più vezzosa mai/ Non vide il Sol, né far potea Natura,/ Che al bel Giglio del Campo or or farai/ Sposa diletta, e sua gelosa cura;/ Quando coll’onda Chiara ti vedrai/ Innaffiar da Francesco, o quanto pura!/ Fragranza da te stessa spirerai/ Entro le solitarie, e sagre mura./ O quanto bella apparirai vestita/ Dell’alma Luce, che nel sen t’accoglie,/ E che noi ciechi a lagrimare invita!/ Mentre con 64 saggie e generose voglie/ Dal mondo ingannator già fai partita/ E a noi per sempre il santo Amor ti toglie. E di rimando, con delle note che ci fanno pensare alla confidenza più profonda tra le due sorelle (crudo scempio, che tu fai di te stessa, il piè nudo, e l’oro infranto del crine, che per gioco al Mondo dai, chiudendo: ascolta, ridammi almeno la metà de’ gigli), Maria Batista scrive nel primo dei suoi tre sonetti contenuti nel florilegio in versi: Così co’ Gigli in mano o come o quanto/ Saggia, al tuo Nazzaren, Tecla, ten vai/ Ed alla illustre Vergin Chiara accanto,/ Ond’hai lume, e chiarezza, umil ti stai./ Io veggio l’aspra fune, e il rozo ammanto,/ E veggio il crudo scempio, che tu fai/ Di te stessa, il piè nudo, e l’oro infranto/ Del crine, che per gioco al Mondo dai./ E ben verrà quel tempo, che a me volta/ Dirai, che furô saggi i tuoi consigli,/ E che il meglio prendesti, ed io fui stolta;/ Ma pria che tu me ’l dica, i miei perigli/ Fuggo; io Campi non voglio, o Armenti: ascolta,/ Ridammi almeno la metà de’ Gigli. Il mondo femminile è insondabile, per la profondità di affetti che lo compongono, affetti i cui confini neppure noi donne riusciamo a definire, perché confluiscono in quelli del mondo maschile: ma il lacerante quesito di fondo è: quante di queste dinamiche affettive sono state guidate, anche attraverso la voce delle nostre inconsapevoli mamme, dalle aspettative declinate dal maschio dominante? Elena Laureti 65 Maria Rosaria Tradardi Maria Rosaria è molto contenta dell’invito che le è stato rivolto dall’assessora Rita Zampolini, ma non vuole un’intervista, preferisce che sia io a raccontare di lei. Sono felicissima che mi abbia scelto, ma è difficile stare al passo con il suo inarrestabile raccontarsi; utilizzerò ugualmente, quindi, le sue parole. È consolante constatare, di questi tempi, che circoli ancora un po’ di quella umanità che ci fa porre attenzione al prossimo; scoprire che esistono giovani a cui piace interloquire con le persone anziane, primo segno di rispetto in uso una volta. La nostra amica è nata il 2 ottobre 1932: Sempre pronta sul percorso assegnatomi, senza tentennamento alcuno, affrontando gli ostacoli posti dalla guerra, con la forza e la speranza di cui gli anni giovanili sono prodighi. Carestia, fame, bombardamenti, paure, oppressione nazi-fascista, sono i ricordi della mia fanciullezza. Forse proprio grazie alla giovane età, Rosaria attraversa quegli anni difficili quasi con passo di danza. Con una soavità e una grazia che le consentono di scorgere la bellezza e la gioia, la solidarietà e l’amicizia anche nell’orrore, nella brutalità, nella sofferenza. “Coraggio, Marì, anche questo passerà”, la incoraggiava la mamma. Certo, l’unità e l’affetto della famiglia d’origine sono stati fondamentali nell’infonderle il coraggio e la forza necessari. Ma io mi immagino questa bimbetta, e poi ragazzina, con il suo sguardo sempre così attento su tutto ciò che la circondava. Che il mondo voleva scoprire, conoscere, fare suo. Per quanto fosse prevalentemente difficile viverlo in quegli anni. Frequenta le elementari nella scuola che stava sotto i portici di Corso Cavour: “A scuola ci vado contenta, ho imparato a leggere. Faccio anche i disegni e poi li coloro. Io ho solo sei colori. Dentro la scatoli67 na di colori “Giotto” però, ci ho trovato un bel segnalibro tutto giallo con una figurina che rappresenta una donna pirata”. La figurina è ciò che consola la piccola Rosaria, ciò che la aiuta a non invidiare le compagne che hanno scatole da dodici colori ricoperti di vernice lucida e custoditi in astucci di pelle, di latta, di stoffa. Durante l’inverno del ’42 - ’43, la scuola esaurisce la scorta di legna per il riscaldamento; le alunne vengono invitate a portare da casa, ogni giorno, un pezzetto di legna. Mi sono vista, mezza aggobbita, portare sulle spalle un sacco di legna per la scuola lungo tutto il Corso. Com’era possibile, io che sono così gracile, secca come una “pampuia”! Ma la mattina dopo, andando a scuola con quel peso in più che si faceva sentire, incontra la sua compagna di banco, anche lei con un ceppo in braccio: ci siamo guardate, in silenzio, per qualche istante. Poi siamo scoppiate a ridere! L’estate si giocava al Parco dei Canapè: i tanti bei pini, essendo ancora piccoli, avevano i rami a portata di mano e le mamme se ne servivano per appendervi le borse di pezza cucite a casa, in risposta al regime autarchico di allora. Nelle giornate molto calde si andava lungo il fiume Topino: noi ragazzine abbiamo scoperto un piccolo ponticello dove la ripa di destra e quella di sinistra quasi s’incontrano. Il fiume, qui, viene a restringersi sfogando con forte, rumoroso gorgoglio contro l’arcata di mattoni semirotti. Il risultato è che stando sul ponticello, arrivano spruzzi d’acqua rinfrescanti a getto continuo. Cantiamo, raccogliamo fiori, siamo contente. Ci inventiamo tutto questo ed altro ancora per guadagnarci un po’ di serenità, per cercare di non pensare ai bollettini di guerra, almeno per un pezzetto della giornata. Più toccanti sono i racconti dei bombardamenti: anche oggi l’allarme aereo si fa sentire, assordante, in tre riprese continue. I suoni si accavallano uno sull’altro, sembrano lamenti. Inizialmente la sua famiglia, avendo la residenza in Via Scortici, dietro al Vescovado, era destinata al rifugio realizzato sotto Piazzetta Impero, che fu presto chiuso perché ritenuto insicuro. Utilizzarono quindi la cripta di San Feliciano. Il posto è molto buio e freddo. C’è solo una piccola lampadina appesa al centro del soffitto con il filo di 68 ferro. E’ oscurata e manda pochissima luce. A giugno del ’44 lasciano Foligno per andare sul monte di Manciano, dove saranno ospitati, insieme a molti altri, in un granaio messo a disposizione da una generosa famiglia del luogo. Siamo diventati una famiglia di oltre quaranta persone e ognuno si dà da fare per rendersi utile durante il corso della giornata. E come diceva la sua mamma, la guerra passa, Rosaria si fa donna, si diploma all’Istituto Commerciale, lavora come impiegata presso la Ditta di vernici di Luigi Mariotti per dieci anni, fino al 1963, anno in cui, il 14 ottobre, sposa Fausto Scassellati. Con Fausto si conoscevano da sempre, mio compagno d’infanzia (aveva un anno più di me) e vicino di casa dal 1945, quando la mia famiglia si trasferì alle Case Operaie in Viale Ancona. Fin da bambino, Fausto era riservato, silenzioso, così come lei è sempre stata vivace, espansiva. Mi ricordo mentre giocavo “a campana” con le mie amiche: lui, appoggiato a un muretto poco distante, mi guardava saltare e sorrideva quando, nel gioco, i miei zoccoletti di legno volavano via! Si rincontrano adulti, lui era stato qualche anno a Milano per lavoro. Si riconoscono, si frequentano, si sposano. Per mia ponderata, personale scelta, mi licenzio dal posto di lavoro e mi dedico a tempo pieno alla mia famiglia: mio marito, suo padre, due figli. Vivo contenta la mia scelta di lavoro tutto casalingo. Mi gratifica il sentirmi utile al mio prossimo più prossimo. Così Rosaria si immerge negli impegni di famiglia, con la stessa dedizione, con la stessa cura che, da bambina, aveva visto nella madre. Sempre pronta a fare, a cucire, ad accudire, a cucinare. Finché i bambini sono piccoli non si ha neanche il tempo di stare a pensare, le cose da fare sono talmente tante, ma c’è l’energia per farle; e se c’è anche l’amore solido del compagno di vita, tutto si fa, tutto si supera. Ma gli anni passano, gli anziani ai quali bisogna badare non ci sono più, i figli diventano grandi. Mi sento diversa. Giorno dopo giorno. E avviene qualcosa, come uno squarcio di luce in una notte di piena tempesta; la sorpresa di un’esplosione irrefrenabile di fuochi artificiali che, diretti in tutte le direzioni, danno luogo ai disegni più diversi. Ed esco dal tunnel. 69 Provo il piacere di fare, di inventare. Sono presa, insomma, dai più svariati interessi: fotografia, disegno, pittura, ma, soprattutto vengo attratta dalla scrittura con cui afferro i nuovi pensieri che affollano la mia mente. Sento, come non mai, il bisogno di stare tra la gente, per trasmettere e ricevere messaggi. Nell’ottobre del 1986 è tra i soci fondatori dell’Università della Terza Età; dieci anni più tardi, tra quelli di Radio Gente Umbra; e ancora, nel 2008, socia fondatrice dell’Accademia di dialetto “Lu Tribbiu”. All’UNI3 frequenta le lezioni, si fa carico di registrarle, prepara le dispense, propone nuovi corsi e laboratori. Riemerge la passione per la musica ed il canto che ha sempre avuto, sin da bambina. E così fa parte della Corale dell’Università, della Scuola Comunale di Musica e della Corale del Torrino. E Fausto, che ne pensa di questa nuova moglie? Mi dà il suo garbato aiuto, mi guida, compiaciuto, a respirare aria rigeneratrice, visibilmente lieto di ritrovarsi una compagna diversa, ricca di vitalità. La casa si riempie di libri, quotidiani, vocabolari, enciclopedie, di come fare questo, di come fare quello. Fausto e Rosaria, insieme, studiano il dialetto, ne approfondiscono le origini. Scrivono poesie, prima solo in dialetto, poi anche in lingua. Insieme conducono una trasmissione a Radio Gente Umbra: Cronache del XX secolo, notizie storiche locali. Durante l’anno scolastico 2004-05, aderiscono al progetto della Professoressa Orietta Angeletti “Parlateci di voi” rivolto agli studenti della scuola media Piermarini. Racconteranno la vita quotidiana nelle Case Operaie di Viale Ancona. Rosaria continua a fare, inventare: partecipa ad innumerevoli concorsi letterari e di pittura. Ma, soprattutto, inizia a scrivere la sua Biografia. I ricordi d’infanzia escono intatti dalla sua memoria. È cosa piacevole se i ricordi li posso condividere con gli altri. Di alcuni brani ne fa dono alla rivista Chiaroscuro; è così che l’ho conosciuta. Subito mi ha incantato il suo modo “soave” di raccontare anche le cose più brutte: dai suoi scritti emerge sempre un amore per la vita che ha qualcosa di straordinario. Personalmente, ne colgo anche una vena malinconica, che non è solo rammarico per la giovinezza ormai passata, per la vita che volge al termine. Credo sia anche nostalgia di quella gran voglia di cambiare, di fare, di 70 incontrarsi, divertirsi, mettersi in gioco. Per costruire un mondo migliore, senza più guerre, fame, ingiustizie, lavoro per tutti. Nel quale tutti sappiano scorgere la bellezza, la poesia, il senso della vita nelle cose più piccole. Ma è questo il mondo che Rosaria aveva sognato? Anch’io provo nostalgia, invidia, direi, per quella gran voglia di cambiamenti. È difficile, ora, incoraggiare i nostri ragazzi, aiutarli a trovare la loro strada in questo groviglio di situazioni irrisolte che abbiamo lasciato loro in eredità. Nel 2011 Fausto se ne è andato, ma Rosaria lo sente sempre lì con lei, nella casa in cui hanno vissuto insieme per quarantotto anni. E’ lui che la aiuta a mettere ordine nei cataloghi, negli appunti, negli scritti che le ha lasciato e che riempiono il suo studio. E’ lui che la incoraggia a continuare a scrivere la Biografia. E lei prosegue così il suo lavoro e quello di Fausto; in questo modo la solitudine diventa più sopportabile. Anno dopo anno ho imparato ad amare la vita con più intensità, con la ricerca continua, instancabile, di quelle cose timidamente nascoste, ma che danno un senso alla vita. Io immagino Fausto, appoggiato alla porta del suo studio, che guarda Rosaria cercare tra gli appunti, i libri, le riviste e la ascolta brontolare tra sé “Oh Fa’, ma dove hai messo questo? dove sta quell’altro?” E immagino che sorrida, così come quando, un po’ discosto, la guardava, bambina, saltare e ridere e giocare. Carla Oliva 71 72 Ritratti di donne Ed eccomi di nuovo davanti ad un foglio bianco e a pensare a quale donna porgere attenzione per dedicarle uno spazio consacrato da una gradevole consuetudine instaurata da qualche anno. Tema d’obbligo “Donne di Foligno. Donne a Foligno”. La scelta non mi si rivelò facile fin dall’inizio: parlare di persone non comuni, dotate di una qualche virtù o pregi particolari, oppure rivolgere l’attenzione alla sfera del quotidiano e ricercare in esso il soggetto intorno al quale intrecciare la rete che desse modo – all’esterno – di suggerire riflessioni o stimolare emulazione? Una persona, insomma che fosse in grado di suscitare un consenso? Le mie scelte non hanno trascurato né l’una né l’altra parte, valicando anche diversi spazi temporali e sociali. In questo momento mi trovo a rimescolare tra i miei ricordi, anche quelli letterari, tra le mie esperienze di incontri per inserire un nuovo ritratto femminile, mentre pian piano prende forma un’idea sulla quale indugio per constatarne la fattibilità. Ma si! In fondo (lo celavo a me stessa) sapevo fin dall’inizio di quale donna avrei parlato, non molto né a lungo, perché sto imparando a conoscerla proprio in questo periodo, ma sapevo che a lei, benché non folignate, avrei dedicato uno spazio ristretto e consistente, per includerla nella galleria dove ho situato le donne sulle quali ho scritto. Voglio, quindi, cogliere l’occasione per redigere un piccolo consuntivo, per ricordarne alcune, come se questo mio scritto fosse un commiato conclusivo di una collaborazione con l’evento che celebra in questo modo originale la giornata dell’8 marzo fin dal 2005. Elviretta B. in quella data compiva novanta anni. Ho narrato della sua vita di donna legata al mondo rurale, un mondo rurale schietto al quale – dall’orto all’oliveto; dai campi al pollaio e ai maiali – lei era legata. Dall’acetilene alla luce elettrica, alla radio, alla televi73 sione, al telefono, al cellulare, Elviretta, madre, nonna e bisnonna, ha attraversato diverse fasi anche di carattere tecnologico della vita quotidiana ed è stata una reggitrice, una “resdura”, un esempio di figura, ormai di altri tempi, una quercia antica e solenne, simbolo di forza e di tenacia. Rosalba e Nonna Ferruccia, due donne che inserisco nel grande mondo artistico del ricamo. Rosalba lo esercita (e lo insegna) con una passione, una competenza ammirevole e il risultato del suo lavoro è una sintesi di elementi eterogenei che lei domina con leggiadria e con la fermezza di chi vuole raggiungere la perfezione. L’altra la chiamavo affettuosamente nonna Ferruccia pur non avendo vincoli di parentela e la ricordo ancora nella sua cucina, seduta sulla sua sedia, come su un trono, i piedi appoggiati sul banchettino, in mano la tela che sta sfilando con competenza per eseguire i punti intrecciati dello sfilato, dei quali è maestra … Nonna Ferruccia, classe 1924, come Elviretta, è stata donna che ha saputo dare strutture semplici, ma ben solide alla sua vita, alla famiglia che ha costituito, dando prova di sapersi organizzare sia come giovane adolescente, come moglie e vedova, come madre e come nonna. E questo affiora dai racconti che mi ha fatto della sua vita, nella quale emergono quei valori semplici che innegabilmente hanno costituito il terreno solido sul quale si basa il vivere sociale Nel 1648 moriva a Foligno Eugenia Curioli, hospitissa sub signo Sancti Georgei et condutrix postarum civitatis Fulginei. La sua storia è stata ricostruita da Bruno Marinelli anche nei minimi dettagli da fonti documentarie tratte dall’Archivio di Stato della nostra città. E da questo lavoro ho acquisito il materiale per il mio elaborato nel 2010. Giunta col marito dalle Marche nel 1615, Eugenia seppe inserirsi in questo centro occupando un posto di rilevanza non solo come gerente dell’osteria/albergo San Giorgio, ma ricevendo dai Maestri delle Poste la concessione del servizio di Posta dei cavalli nel 1621 insieme con il consorte mentre nel 1627 la concessione sarà fatta a suo solo nome; dopo la sua morte, sarà il figlio Evangelista a continuare questa occupazione di grande responsabilità, considerando le varie strutture che il sistema di quei tempi comportava. La Posta era anche il luogo dove giungevano i corrieri, si cambia74 vano i cavalli, si ricevevano e si distribuivano lettere, si provvedeva all’alloggio sia dei corrieri che dei viaggiatori. Eugenia, insieme con il marito e con i figli, affronta il lavoro con il piglio di una imprenditrice; vende e acquista terreni, amministra il danaro con saggezza, affronta le difficoltà ed è in grado di far valere i suoi diritti anche di fronte alle autorità, senza timori o incertezze. Ma nella mia galleria ho lasciato spazio per altre donne, meno fortunate, le cui tristi vicende ho voluto e voglio rievocare in questa circostanza. Sono state donne che hanno subito violenza dalla società o dal sistema sociale del tempo; sono le concubine, le serve, le prostitute o meretrici, costrette a svolgere un’esistenza nella quale la violenza maschile era parte del loro vivere quotidiano. Nel 2008, facendo tesoro della documentazione presente nel volume Criminalità a Foligno nella seconda metà del XVI secolo di Luisiana e Gabriele Metelli, documentazione tratta dalle carte conservate nell’Archivio di Stato di Foligno, ho potuto parlare delle tristi vicende di Susanna alias Paganella, o di Violante o di Cherubina. In particolare voglio riportare le parole stesse di alcune donne sottoaccusa, trascritte dagli autori nominati, per offrire una comunicazione in diretta con il passato. Anno 1557. Storia di una donna di cui gli autori non riportano il nome. Ella spiega al giudice che la interroga … Io venni ad Foligno piccola, et mio patre mi dette per serva al ser Pietro Paolo Varino …. Io me partì da ser Pietro Paolo quando morse la donna sua, et me ne andai ad star con Francesco alias Tenaglia …. Io ce stetti da dui anni in circa, et mi ingravidò don Ludovico, figliuolo di detto Francesco, et al’hora mi mondorno via … partorì un mammolo, et visse sei dì … Anno 1573 Susanna, alias Paganella, di Foligno, ammette che … so stata donna disonesta et quel che ho fatto, ho fatto per bisogno et per poter vivere et non giacere alla strada … Anno 1577. Aprile. Diambra di Fermo, al vicario che la interroga addebita alla madre l’inizio di una certa sua vita … dalla prima volta in poi ch’io feci male per roffiania che me fece fare una donna al paese, dopo sempre mia madre me ha messa lei a mal fare et ora me trovo como vedete … 75 Chi legge può trarre le amare conclusioni sulla loro “colpevolezza”. E di un’altra colpa sono ritenute responsabili le donne. Depositario di questo argomento è ancora l’Archivio. Amare e praticare il lusso eccessivo è danno morale e danno per lo Stato! Questo è ciò che si deduce dalla lettura delle disposizioni suntuarie emanate in Foligno fin dal 1350. Esse hanno lunga vita perché sono registrate nel secolo XV, nel seguente se ne contano ben 190, mentre, allo stato attuale delle ricerche, se ne conta solo una nel secolo XVII. L’istituzione pubblica, ovvero il Comune, ma anche i pontefici stabiliscono ciò che si può portare in materia di abbigliamento e condannano fissando le “multe” per coloro che incorrono nelle inosservanze e nelle trasgressioni che il legislatore segnala con precisione e con pignoleria. A parte il fatto che un vestito lussuoso indossato si manifestava da sé, ma alle autorità arrivavano, anonime, denunce ben precise, con le indicazioni ed i nominativi delle colpevoli, doppiamente colpevoli se praticavano il lusso al di sopra delle loro possibilità non solo economiche, ma anche sociali. E così … la nora di Crisanti di Mausse … la nora di Casciola … la nora di Giulio ciavattino … indossano … scuffia d’oro et collane, e, aggiunge l’anonimo denunciatore, sono … delle superbe che non si contentano di vivere secondo il loro grado. In un’altra denuncia un anonimo ed indignato cittadino scrive che … per ovviare al pomposo et dannoso vestire delle donne … furono composti li capituli, ma non c’è volontà di osservarli né di farli osservare e, d’altra parte, le donne, animate dalla smania del lusso consumerebbero non solo la propria dote, ma anche quella dei mariti! E nella smania di voler apparire ricercando le novità, l’indignato scrive: … taccio le nuove foggie ritrovate de vestire che essendosi fastidite delli propri abiti donneschi, han cominciato a usar habiti da huomini … Continuo questa mia rassegna chiamando in causa donne particolari e a questo aggettivo, cortese lettore, puoi attribuire i valori che credi più opportuni, donne che io mi sento di poter accostare tra di loro. Ho avuto occasione di parlare di suor Giuseppina Biviglia (1897-1991), monaca di clausura, che non ebbe esitazioni, dubbi o 76 incertezze nell’operare. Lo scenario è quello della seconda guerra mondiale; il luogo è Assisi, in particolare il monastero di san Quirico, dove suor Giuseppina è abbadessa. Con coraggio, con fermezza e con quello spirito di carità che i Grandi possiedono, ella seppe salvare la vita a persone, senza distinzione di razza, religione, opinione politica. L’istituzione israeliana che a Gerusalemme cura il memoriale dell’Olocausto non ha dimenticato la nostra suora, ma l’ha nominata “Giusta fra le Nazioni” il 10 dicembre 2013 con una solenne cerimonia tenuta nella nostra città. … irrigò prima di ogni altro il suolo della sua patria di sangue martirizzato, poiché ella prevenne li martiri di san Feliciano e di altri Santi di Foligno e fu la prima martire di quella città. Questi seguì l’anno del Signore ducentocinquanta quattro, intorno li 23 di gennaro, e il diciotto dell’età di essa santa. La storia del martirio di Messalina è narrata da Lodovico Jacobilli nel libro dedicato alle vite dei Santi e dei Beati di Foligno, del 1628. Sono pagine che a me commuovono per la partecipazione dello scrittore che ritengo sincera e per una mia capacità di immedesimarmi sempre in ciò che leggo, aggiungo sottovoce. La fanciulla muore sotto i colpi di bastoni nodosi e pungenti, resistendo alle lusinghe di aver salva la vita se avesse abiurato alla sua fede. Nel 1612, e nell’anno seguente, furono tenuti a Foligno una serie di atti processuali, secondo le disposizioni della Santa Sede, con testimonianze da parte di persone ragguardevoli per la proclamazione a santa di una fanciulla, martire per aver prestato soccorso al vescovo Feliciano, imprigionato dall’imperatore Decio. Come ho avuto modo di scrivere su questi Quaderni, la storia di Messalina è anche un tassello della storia devozionale di Foligno, si tratta di una devozione che attraversando spazi temporali notevoli, si concretizza in particolare nel secolo XVII, con la proclamazione a santa. La conoscevo di nome e di lei sapevo ben poco, solo quelle nozioni comuni che si memorizzano perché collegate con altri fatti o altri personaggi della storia. Poi una circostanza assolutamente casuale mi ha portato, all’inizio forzatamente, ad acquisire informazioni più 77 precise e, come è mia abitudine, ad approfondire gli spazi storici che ella ha occupato nella sua breve esistenza. Lo scenario questa volta è collocato nel secolo XIX; le città sono Cagliari, Torino, Genova, Napoli, ed in particolare gli spazi fisici sono la corte sovrana del re del Piemonte e del re di Napoli. Su di lei numerose le pubblicazioni, che ne tratteggiano la vita dall’età più tenera fino alla sua tragica morte. Ho cercato di superare il fastidioso sottofondo di una interferenza continua nel tratteggiare la sua infanzia ed adolescenza, la sua vita di figlia devota e di moglie/ regina come di persona già santa. Sfrondati gli elementi agiografici presenti nei tre libri che ho letto su di lei, rivisitato con attenzione il ritratto che ne fa Benedetto Croce nel 1924; incuriosita ed anche meravigliata per il ritratto positivo che ne fa Franco Cardini in un articolo del 2012 su Avvenire, posso dire che sto conoscendo una donna particolare, sto conoscendo Maria Cristina di Savoia. Bambina nata buona, naturalmente buona. Portata alla cristianità e alla preghiera con naturalezza, con gioia e con trasporto; portata fin da piccola a pensare agli altri più bisognosi e portata ad aiutare con elemosine in forma discreta, anonima e non appariscente, senza paternalismi fastidiosi. Divenuta regina di Napoli per il suo matrimonio con Ferdinando II di Borbone, seppe dare una condotta nuova e moderna al suo modo di aiutare i bisognosi, incentivando anche le attività lavorative di carattere artigianale, perché vedeva nel lavoro la forma di riscatto sociale ed il recupero di una dignità che la miseria fa perdere. Si occupa della seteria di San Leucio con piglio imprenditoriale. Acquista alberi di gelso, acquista telai moderni, invia operatori che imparino all’estero l’arte più aggiornata mentre suoi operatori, all’estero, sono attenti alle novità che trasmettono a Napoli, ed è lei stessa che controlla la produzione per mantenerne alto il prestigio. Come d’abitudine avuta fin da adolescente, Maria Cristina registrava tutte le sue entrate ed uscite e si può calcolare con precisione l’ammontare veramente notevole dei suoi “contributi sociali” ante litteram. Muore giovanissima a ventiquattro anni, nel 1836, dopo aver dato alla luce colui che sarà l’ultimo re di Napoli, Francesco II. Spontanea nasce la venerazione per lei da parte di tutti, dai più umili alle persone più altolocate, una forma di riconoscimento per una donna 78 che aveva saputo relazionarsi, per come le strutture del tempo glielo permettevano, con gli indigenti, senza far pesare l’atto di generosità. Concludo. Una particolare affinità lega queste tre donne delle quali ho scritto, affinità che sto scoprendo anche mentre scrivo queste righe. Le unisce un senso di carità profondo e umano, le associa un altrettanto profondo convincimento della fede cristiana. Messalina e Maria Cristina in particolare sono unite per la venerazione che si espande all’intorno della loro esistenza e della loro dipartita e si concretizza in una vera e propria adorazione/ammirazione. Poco importa rilevare l’eventuale forzatura da me effettuata nell’accostare queste due donne così lontane e così diverse. Il dato concreto che mi ha portato a questa convinzione è la risonanza positiva che entrambe possono suscitare per quel loro persistere nelle convinzioni, un messaggio di una religiosità laica e civile che oggi, nel disordinato succedersi degli eventi, io ritengo che abbia il suo valore e la sua validità, anche al di là di ogni ragionevole dubbio. Foligno gennaio 2014 Anna Maria Rodante 79 Da qualche parte nel mondo Siamo partiti alle nove di sera di un giorno di fine febbraio. Dovevamo andare a Roma, passare la notte a casa della presidente dell’associazione e imbarcarci la mattina dopo a Fiumicino insieme ad un’altra coppia di “aspiranti genitori”. Destinazione: Ucraina. Solo tre o quattro giorni prima ci avevano telefonato per dirci di preparare la partenza, ci era stato assegnato un bambino maschio di circa un anno. Dopo la concitazione di quei preparativi difficili, ormai sul sedile del treno mi sentivo frastornata, incapace di pensare e con la necessità di fare dei lunghi e profondi respiri, però ero felice che l’avventura fosse cominciata. Siamo arrivati a Kiev nel primo pomeriggio, erano 17 gradi sotto zero. Ci aspettava il referente dell’associazione che aveva il compito di organizzare tutto lassù e di farci da guida: Roman. Ci ha accompagnato in un appartamento tipicamente sovietico al quarto piano di un palazzone tipicamente sovietico, ma che si trovava in una meravigliosa posizione proprio di fronte al Teatro dell’Opera e da quelle finestre vedevo la grande sala di danza. Mi ricordo di aver preso questa inaspettata coincidenza come un segno: era giusto che fossi lì. La mattina dopo siamo andati al centro adozioni, tanti uffici, tanta gente e la netta sensazione di trovarsi tra “i mercanti del Tempio”. Mentre la presidente e Roman svolgevano tutte le pratiche, noi aspettavamo fiduciosi. Nell’attesa ho cominciato a sfogliare un librone composto da schede con foto di bambini adottabili. Ho cercato di scacciare il senso di nausea che mi dava questo “catalogo” di piccole vite sospese per poter continuare. “Gianni, guarda quanto è bella!” Mi aveva colpito il viso tondo di una bambina con due occhi nerissi81 mi e una dolcezza infinita. L’abbiamo guardata a lungo incantati, poi con in mano la scheda di un bambino di un anno e mezzo per noi e di una bimba di quattro anni per i nostri amici, abbiamo viaggiato in treno tutta la notte per una città sul Mar Nero. Fuori dalla stazione mucchi di neve sporca, un cielo grigio di fumo di centinaia di ciminiere e tanta gente triste e misera. Ore e ore di attesa dentro un pulmino, poi siamo andati in un istituto. Di questo luogo orribile mi è rimasta un’istantanea: dentro una stanza lucida e gelata si muoveva una donna in camice bianco, stava immobile un bimbo dalla fronte enorme, magro e con uno sguardo vuoto a nascondere un abisso di sofferenza; più in là il direttore che parlava a Roman ma lui scuoteva la testa. Per un disguido il “nostro” bambino era già stato adottato. Siamo usciti increduli e con una grande angoscia che nessuno aveva voglia di comunicare agli altri. La sera di nuovo in treno per tornare a Kiev. Dalla stazione direttamente al centro adozioni. Ancora trafile, spostamenti nervosi da un funzionario ad un altro e finalmente una nuova assegnazione. La stessa sera abbiamo preso il treno, diretti sui Carpazi, al confine occidentale dell’Ucraina. Il treno era caldissimo, ma fuori, per 800 chilometri, neve, solitudine e povertà. Noi però avevamo riacquistato fiducia e senso dell’umorismo. Arrivati a Svaliava ci siamo sistemati in un piccolo hotel poi ci siamo separati per andare noi nell’istituto dove c’erano i bambini più piccoli e gli altri in quello dai tre anni in su. Queste cittadine dei Carpazi, al confine fra tre stati, sono piene di orfanatrofi. Entrare in quei luoghi è un’esperienza devastante perché è impossibile sostenere lo sguardo pieno di avida speranza di quei bambini che implorano di sentirsi dire:” Ecco sono arrivata, sono io la tua mamma.” Quello è stato uno dei giorni peggiori della nostra vita: la presidente continuava a ripetere che mai si era verificata una situazione di quel tipo, Roman, agitatissimo, entrava e usciva e non smetteva di telefonare. Il nostro bambino non c’era e non si riusciva a capire dove fosse. Quando nel tardo pomeriggio ci siamo ritrovati tutti, i nostri amici erano finalmente felici, avevano incontrato Natalia e già l’amavano mentre noi eravamo come sacchi vuoti. Pensavamo di dover tornare a casa soli. 82 Ad un certo punto la presidente, che era stata anche nell’altro orfanatrofio, mi disse: “Signora, mi sento di doverle dire una cosa ma è chiaro che lei può prendere tutte le decisioni che vuole. Nel gruppo di Natalia c’era una bambina mora-mora che mi ha colpito perché le somiglia. Se vuole vederla…” La mattina dopo siamo andati. Me la ricordo seduta su un vecchio divano, nell’ufficio della direttrice, aveva più di quattro anni ma sembrava uno scricciolo, due occhi nerissimi e un viso tondo con una espressione severa che un sorriso luminoso allontanava in un attimo. Sembrava nonna Linuccia in quella foto da bambina: stessa pelle scura, stessa faccia tonda, stessa espressione un po’ torva e decisa. Mi sono seduta vicino a lei e mentre la direttrice la incoraggiava a dire una poesia non potevo fare a meno di sorridere, ma quello che c’era dentro di me è del tutto impossibile da spiegare. Ci hanno detto che avevamo tutto il tempo di decidere…ma non c’era più niente da decidere perché era già, immediatamente, accogliere o abbandonare una figlia. Quella sera, dopo un pomeriggio in cui tutte le tensioni di quei giorni si sono sciolte in lacrime, eravamo felici anche noi. Quando la direttrice ci ha consegnato la scheda con la foto di Gianna, l’abbiamo subito riconosciuta: era la stessa del librone di Kiev. Da quel momento in poi, più abbiamo riflettuto su tutta la nostra avventura, cominciata molto tempo prima e piena di speranze deluse, più abbiamo capito che quello che ci era sembrato un destino avverso alla fine ci aveva condotto fin lì, da quella zingarella nata sui Carpazi che oggi è una splendida ragazza di 17 anni severa e dolce, scorbutica e generosa, con uno sguardo inquisitore ed un sorriso che incanta. Solo di una cosa sono certa, l’amore materno non nasce nella pancia (a volte lì non c’è) ma direttamente dal cuore ed è quello che ti spinge senza farti sentire la fatica fino a quel luogo sperduto nel mondo dove c’è una piccola vita che sta aspettando il calore di un abbraccio. Patrizia Bocci 83 Le donne nei Quaderni Anno 2005 Angela da Foligno, Colomba Antonietti, Violetta Carnevali, Blessing Ehigiator, Elvira B., Luciana Fittaioli, Meryem Lakhouite Ne hanno parlato Rita Del Vaso Schoen, Ilaria Pelafiocche, Carla Ponti, Alessandra Schoen, Anna Maria Rodante, Annamaria Arcamone, Maria Rita Cacchione Anno 2006 Eva Moriconi, Olga Caputo, Radio Ara, L’AIED, Elisabetta Pompei, Lina Antonietti, Sairi, Tersilia Rocconi, Ferruccia Ridolfi e Rosalba Pepi, Katia Bastioli, Leandra Angelucci Cominazzini, La dea Fulginia Ne hanno parlato Lina Pizzi e Anna Formica, Carla Ponti, Luana Brilli, Maria Antonietta Colia, Maria Blasucci Ciri, Francesca Gianformaggio, Blessing Ehigiator e F. Gianformaggio, Giuliana Silveri, Anna Maria Rodante, Sara Ferretti, Ilaria Pelafiocche Anno 2007 Liliana Innamorati, Letizia Gianformaggio, Anna Cecalotti Pizzoni, Dina Domenica Lilli Turrioni, Emma Bovini, Annarta Donati “Lella”, Suor Maria Benedetta Pinca, Doina Marku, Lidia Baroni, Debora Mariani, Antonietta Innocenti, Loredana Muzi, Messalina Ne hanno parlato Ilaria Pelafiocche, Rosalba Eutizi e Mariella Giustozzi, Selene Pizzoni, Attilio Turrioni e Rosalba Eutizi, Emma Bovini Bettoni, Annarita Donati “Lella”, Rita Del Vaso Schoen, Blessing Ehigiator, Nadia Buttini, Katia Sposini, Melina De Bellis, Ambra Cenci, Anna Maria Rodante Anno 2008 Aurora Pascolini, Maria Rita Peppoloni e il Forum, Giuseppina Romanelli, Nicoletta Arcamone, Rita Del Vaso Schoen, Gabriella Visani Pagliacci, Angela Donati, Fatima, Valentina Trabalza, Giuseppina Camilli, 85 Concubine, serve e meretrici, Marcella Ortolani, Anna Polidori, Flaminia De Luca e Angela Petesse, Rea Silvia Ne hanno parlato Olga Lucchi, Katia Tozzi, M., Teresa Lorentini, Galardini Antonella e Maria Grazia Bartocci, Nicoletta Arcamone, Gabriella Visani Pagliacci, Tania Raponi, Hanane Oulad, Valentina Trabalza, Silvana Santoni, Anna Maria Rodante, Ambra Cenci, Melina De Bellis, Daniela Riganelli, Annamaria Menichelli Anno 2009 Maria Rita Lorenzetti, Federica Ferioli, Giorgina Formica, Maddalena Maiuro, Maria Teresa Berardelli, Dove sono gli uomini, Anna Rita Farneti, Jamina Derkaoui, Enkeleida Resnjaku, Ambra Cenci Giardini, Dedicato a Foligno, Marianna Masciolini, Glenda Giampaoli, Annachiara Cicioni, Dea Cupra, Caterina Scarpellini Ne hanno parlato Cecilia Mazzoni, Maria Rita Peppoloni, Francesca Gianformaggio, Maura Donati, Mara Falcinelli, Chiara Giacomucci, Nadia Buttini, Jamina Derkaoui, Enkeleida Resnjaku, Giovanni Picuti, Anna Maria Rodante, Roberta Cenci, Emma Bovini Bettoni, Cinzia Gaudino, Sara Pianella Anno 2010 Morena Lupidi, Candida Remoli, Angela Antonelli, Maria Teresa Federici, Stella, Enrica Tonti, Eugenia Curioli, Maria Mancini, Bibliomediateca, Maria Battista Vitelleschi, Figure femminili - Palazzetto Podestà, Donne e Sindacato, Donne e lavoro Ne hanno parlato Cristina Ercolani, Cristina Faraghini, Maria Pizzoni, Nayade, Antonella Maria Ambrogi, Anna Maria Rodante, Laura Berrettini, Federica Bordoni, Lucia Bertoglio, Roberta Feligioni, Elvira Guglielmi, Cristina Peirone, Federica Finauri, Daniela Guarraci, Marina Renzini, Sara Pianella, Donatella Cugini, Ilaria Coresi Anno 2011 Cristina Buonacucina, Marina Sereni, Viola Antonini, Francesca Testasecca, Stefania Sconci, Nella Giamformaggio, Anya, Jackeline, Rita Ce86 rioni, Zia Maria, Patrizia Fratini, Aleandra Bartolomei, Diana bella, Le orme che lasceremo Ne hanno parlato Rita Zampolini, Maura Franquillo, Irene Biscarini, Fabiola Gentili, Silvia Bartoli, Marina Renzini, Daniela Venturini, Francesca Gianformaggio, Cristina Ercolani, Ivana Donati, Elena Laureti, Annamaria Menichelli, Anna Cappelletti Anno 2012 Sara Segatori, Giulia Milone, Storie di donne delle Case Operaie, Tiziana Bartolini, Luciana Frezza, Eleonora Ansuini “Lola”, Caterina Bonamente, Elena Tommasuoli, Magnifici signori e consiglieri, Mi chiamo Cecilia, L’Associazione F.I.D.A.P.A Ne hanno parlato Fabiola Gentili, Simona Bonini, Cristina Ercolani, Melina De Bellis, Franca Trubbianelli, Mina Romagnoli, Elena Laureti, Anna Maria Rodante, Lucia Bertoglio e Suor Claudia Grieco, Anna Lisa Moriconi Anno 2013 Emma Loreti, Giulia Montenovo, Tredici Antonia, Patrizia Ferranti, Maternità, generazioni a confronto, Eueda Gerdeci, Eralda Kuqi, Suor Giuseppina Biviglia, Annita Rondoni, Stefania Menghini, Jessica Piantoni e Giulia Simoncelli, Alessandra Cappelletti, La Dea Supunna Ne hanno parlato Martina Ferretti, Tredici Patrizia, Lucia Ferranti, Eleonora Marchi, Anna Maria Rodante e Maria Biviglia, Monica La Torre, Fabiola Gentili, Mina Romagnoli, Elena Laureti 87 Finito di stampare nel mese di marzo presso Dimensione Grafica - Spello (Pg)