Donne di Foligno, Donne a Foligno…

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Donne di Foligno, Donne a Foligno…
COMUNE DI FOLIGNO
Assessorato Politiche di Genere
e Pari Opportunità
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Donne di Foligno, Donne a Foligno…
8 marzo 2014
Illustrazione e ideazione grafica:
Francesca Greco
www.francescagreco.it
Progettazione e stampa:
Dimensione Grafica
Ringraziamenti
Si ringrazia particolarmente il personale dell’Ufficio Pari Opportunità dell’Area Diritti di Cittadinanza
del Comune di Foligno, ovvero la Responsabile Giuliana Caporali e Melina De Bellis per la cura nella
realizzazione dei Quaderni, dai testi alle immagini, e per il lavoro quotidiano e straordinario, non
scontato e non dovuto, per la passione con cui è stato profuso per realizzare le Politiche di Genere e
per le Pari Opportunità
l’Assessora Rita Zampolini
Sommario
Introduzione
Storie di Donne
Lonita … un dolce ritratto Flavia Agostini
Armida Mariotti
Paola e Maria Palma, due ragazze pronte
a spiccare il volo con le proprie radici nel cuore
Federica Fratini, una donna appena sopra la terra
La mia piccola, ma vissuta storia di donna
20 minuti
Agente speciale Daniela Antonini
Un salto e un rimbalzo nella natura
Maura e Patrizia Bocci … Le mie insegnanti di danza
1721, Tecla Maddalena Vitelleschi: una Rosa senza spine?
Maria Rosaria Tradardi
Ritratti di donne
Da qualche parte nel mondo
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Introduzione
Leggo le storie tutte insieme, una dietro l’altra, come ogni anno, da dieci anni.
Ognuna è un viaggio in una vita. Un viaggio nei sentimenti, nelle scelte, nelle gioie e nelle
amarezze, nelle difficoltà e nella forza trovata per affrontarle, per mettersi in gioco, per rinascere, per ritrovarsi.
E lo stupore si rinnova, autentico, attraversando i racconti, scoprendo ancora donne straordinarie nella loro ordinarietà, protagoniste per lo più senza clamore ma con determinazione
della storia della città, intente a costruire esistenze e a prendersene cura, senza preoccuparsi o
assicurarsi visibilità.
A partire da quello stupore ritrovato ancora una volta sento di poter affermare che probabilmente la scommessa iniziata dieci anni fa con i “Quaderni dell’8 marzo” è stata vinta.
L’avventura iniziò proponendosi di far conoscere nelle sue sfaccettature e fuori dagli stereotipi la parte di società costituita dal genere femminile, quella di cui la ricerca storica, le cronache
solitamente si dimenticano. Si voleva far sì che tali figure fossero conosciute nel valore che la
differenza di genere aggiunge come risorsa, come ricchezza, cui attingere singolarmente e collettivamente. S’intendeva rendere chiaro a tutti, più che a tutte, anche quanto quella differenza
sia stata e sia ancora elemento di discriminazione e di aggravio per le donne segnate nelle loro
vite da una cultura tradizionalista e maschilista che ne disconosce in forme vecchie o nuove e
insidiose il ruolo sociale, l’indipendenza, la realizzazione lavorativa, il sovraccarico di responsabilità familiari, la dignità umana.
Si voleva allo stesso tempo dare parola, dare voce alle donne. Per questo si è chiesto rigorosamente ad altre donne di raccontare. Con lo straordinario risultato di moltiplicare le visibilità,
perché nel raccontare delle altre ciascuna ci ha raccontato anche un po’ di sé.
Con le storie delle donne di Foligno, nate qui o divenute folignate, sono stati anche tirati
fuori dall’oblio spaccati di vita quotidiana e di vita cittadina del passato e del presente. É
stato fatto senza pretese storiche o scientifiche ma con la convinzione di lanciare appigli per
approfondimenti, ricerche storiche e sociologiche fondate su un approccio di genere.
Confesso un ulteriore intento ora che siamo giunti alla decima edizione. Nelle vite raccontate dalle donne del passato, del presente (nelle diverse età) e del futuro (le giovani di cui si
narra) ciascuna può specchiarsi e può trarne ispirazione e forza rispetto alla propria condizione,
alle aspirazioni che ha, alla sfide e alle difficoltà che gli eventi pongono loro di fronte o che
scaturiscono da scelte di vita. Si voleva cioè creare quel fruttuoso circuito per cui arriva dalle
donne la forza delle donne.
Ecco forse l’obiettivo più ambizioso perseguito con i Quaderni: offrire esperienze ed esistenze su cui fondare la fiducia nelle proprie capacità, in se stesse, nel proprio essere, nel genere femminile. Consapevolezze basilari per sviluppare quell’autonomia personale che permette
di costruire relazioni paritarie, di qualità, in cui beneficiare dello scambio, della reciprocità, della
solidarietà, nella comunità, negli ambiti sociali, amicali e familiari. L’autonomia personale é in-
dispensabile per sconfiggere alla radice la cultura maschilista della sopraffazione che alimenta
la disparità di potere, è alla base della violenza sulle donne, delle discriminazioni nell’accesso,
nella permanenza e nel trattamento sul lavoro, nell’intraprendere, nel ricoprire ruoli decisionali.
I “Quaderni dell’8 marzo” hanno accompagnato e supportato come un motivo di fondo
lieve, ma persistente ed incisivo, le politiche e le azioni messe in atto in questi dieci anni di
Assessorato per promuovere una cultura e costruire pari opportunità di genere. Dai progetti
nelle scuole di vario grado, alle iniziative di approfondimento e di sensibilizzazione, dagli
eventi teatrali ai film, dai dibattiti ai seminari fino ai flash mob, per l’8 marzo, per il 25 novembre “Giornata internazionale contro la violenza sulle donne” fino al 14 febbraio, giorno della
mobilitazione internazionale “One Billion rising!”; dai servizi realizzati come lo Sportello Donna
fino alla Casa delle Donne, luogo di incontro e di socialità femminile animato dalle associazioni,
con i suoi laboratori ed attività mirati all’ empowerment delle donne. Spaziando dai temi della
conciliazione e condivisione dei tempi di vita e di lavoro tra donne e uomini, al contrasto alla
violenza di genere, al ruolo delle donne nella storia e nella ricerca scientifica, tutte le azioni effettuate e previste, per filoni d’intervento, sono state raggruppate e programmate nel Piano per
le Politiche di Genere e il Piano di Azioni Positive, dotando così il Comune di strumenti stabili
per consolidare politiche concrete e l’approccio culturale che le ha ispirate.
Nell’arco del decennio si è operato anche per dotare la cittadinanza di uno strumento di
predisposizione e valutazione delle azioni amministrative secondo l’ottica di genere, per orientarle verso la produzione dell’uguaglianza tra uomini e donne, in modo trasversale a tutti gli
ambiti della vita cittadina (mainstreaming). Si tratta del Bilancio di Genere la cui prima edizione
vedrà la luce proprio alla fine dell’attuale mandato amministrativo.
Particolare attenzione ha avuto l’azione di contrastare la violenza di genere. Accanto alle
iniziative di prevenzione e intervento, negli ultimi anni si è intensificato l’impegno con la partecipazione al progetto regionale U.N.A. Umbria Network Antiviolenza per costruire la rete
regionale, con servizi locali integrati a sostegno delle donne colpite dalla violenza di genere, in
attesa che la proposta di legge regionale su “Norme per le politiche di genere e per una nuova
civiltà delle relazioni tra donne e uomini” diventi realtà.
Nell’ultimo anno l’impegno si è concentrato sulla definizione della rete locale antiviolenza,
con la costituzione del tavolo tra tutti i soggetti istituzionali e non, coinvolti e alla cui definizione
si giungerà con la stipula del protocollo d’intesa. Tutto ciò avveniva ancor prima che anche la
nostra città fosse segnata dal dramma orrendo del femminicidio.
Proprio nel giugno scorso infatti due donne sono state uccise da uomini loro partner o
ex. É una ferita profonda nel nostro sentire, che ha impresso dentro di noi il ricordo delle vite
spezzate di Sandita Munteanu e di Olga Dunina. La loro memoria è un ulteriore monito a non
smettere mai di contrastare quella cultura prevaricatrice e proprietaria, negatrice della dignità,
dei diritti e delle libertà delle donne, segno del degrado persistente di civiltà.
Nelle storie delle donne di Foligno troviamo la speranza di riscatto individuale e collettivo delle donne e con loro di tutta la comunità. Un impegno che è bello immaginare e
che veda sempre più uniti gli uomini con le donne. L’auspicio è che i “Quaderni” abbiano
sempre più lettori attenti.
Con la decima edizione si chiude un ciclo. È dunque inevitabile per me tornare a ringraziare
con grande riconoscenza tutte le donne che in questi anni hanno generosamente accettato di
raccontarsi, farsi raccontare, raccontare delle altre. Tutti i loro nomi sono indicati nell’appendice
a questa edizione, anno per anno.
Un ringraziamento particolarmente sentito e affettuoso lo rivolgo alle donne che quest’anno
si sono messe in gioco in vario modo: aprendo squarci sulla storia dell’impegno politico delle
donne come nel caso di Serena Rondoni che ha raccolto la testimonianza di Flavia Agostini, e
di Luana Brilli che ha ricordato intensamente Armida Mariotti; parlando di un futuro che affonda
le radici nell’eredità di un’arte antica come ha fatto Antonella Maria Ambrogi raccontando di
Paola e Maria Palma, o nella riscoperta dell’”arte della terra” come insegna la storia di Federica
Fratini narrata da Livia Villani; raccontandoci di dolci rinascite come Barbara Bibi; o di passioni
professionali come nel caso di Daniela Antonini raccontata da Cinzia Giannangeli e di Sara
Trabalza di cui ci parla Ilaria Bellani, che riempiono la vita e disseminano quella di altre come
scrive Teresa Rospetti raccontando di Patrizia e Maura Bocci; parlandoci delle passioni e del talento poetico che danno nuova vita come nel caso di Maria Rosaria Tradardi raccontata da Carla
Oliva o danno voce a “legami insondabili” tra donne come scrive Elena Laureti raccontandoci
di Maddalena Tecla Vitelleschi; gridandoci la forza vitale nonostante tutto come fa Hayat; svelandoci “l’amore materno che non nasce nella pancia”, racconto di cui ringrazio Patrizia Bocci.
Ringrazio sentitamente Annamaria Rodante che non ha mancato mai all’appuntamento con i
Quaderni e che ha ripercorso in un ritratto corale le storie narrate in dieci anni soffermandosi
su una figura dotata di lungimirante innovazione.
Un ringraziamento struggente lo rivolgo a Francesca Cesarini e Lella Giorgetti che ci hanno
permesso di condividere la bellezza di una donna che non abbiamo scoperto abbastanza quando avremmo potuto. Loro ci raccontano di Lonita Lattari che ci ha lasciati l’estate scorsa, troppo
presto e troppo severamente.
Un saluto affettuoso va a colei che nella seconda edizione dei Quaderni ci regalò uno
spaccato di storia personale e cittadina del movimento delle donne negli anni settanta. Una
storia che mi auguro si possa ricostruire presto con cura e nell’intensità che ebbe. Quella
donna è Annamaria Arcamone che ci ha lasciato da alcune settimane e di cui voglio ricordare il sorriso mite e sapiente.
Di tutte queste storie e memorie faremo, dovremmo fare tesoro.
Così come dovremmo far tesoro delle immagini che Francesca Greco ci ha consegnato di
anno in anno, attraverso il manifesto e le tavole interne ai Quaderni. Ringrazio ancora Francesca, calorosamente. Ogni volta ha saputo cogliere ed interpretare con espressioni diverse la
condizione delle donne e il messaggio di liberazione e di emancipazione che si voleva trasmettere, con la complessità, le contraddizioni, le difficoltà, le speranze che lo accompagnano, nelle
molteplici dimensioni che le donne sanno tenere insieme.
In questa decima edizione sono state inserite le immagini che lei ha realizzato di anno in
anno in una sequenza che ripercorre il percorso compiuto.
L’immagine in copertina è la prima che Francesca Greco realizzò per raffigurare l’8 marzo
per il Comune di Foligno, iniziando quel felice scambio che nelle diverse edizioni ha sviluppato
i concetti in modo poetico, intenso e lieve, rilanciando la sfida più avanti.
Quell’immagine è stata qui riprodotta con l’andatura in direzione opposta alla prima
versione, a segnare un arrivo, una ripartenza.
Colei che va è una donna che ci invita con lo sguardo ad andare avanti, fiduciose della
nostra forza e della nostra ricchezza, con passo lieve ma deciso, con ai piedi la sua città, rimpiccolita ma vitale. È una donna grande di sé e della sua curiosità, che con la borsa di viaggio,
di lavoro, di conoscenze, forte delle sue radici e con la gonna larga si proietta su orizzonti più
ampi, con libertà. Così mi piace immaginare che siano, che diventeranno, ciascuna a suo modo,
le donne della nostra città.
Rita Zampolini
Assessora alle Politiche di Genere e di Pari
Opportunità tra Donne e Uomini
del Comune di Foligno
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Storie di Donne
Lonita... un dolce ritratto
Pronto, ciao Lella sono Francesca... Abbiamo un compito da svolgere insieme... Si, stavo per chiamarti anch’io...ci vediamo per parlarne? Ok, ti va bene giovedì al bar verso le 18? Per me va bene...
Ciao Francy, è vero ho cominciato solo oggi a scrivere di Lola, sì è
il 27 gennaio, non è un caso, oggi è il giorno della Memoria...
Una memoria difficile, è passato troppo poco tempo, ma non so se
passandone ancora si colmerà questo vuoto o rimarrà a testimoniare la sua presenza discreta ma potente, leggera ma radicata, quasi
un ossimoro incarnato, la congiunzione tra lo yin o lo yang.
Bè, mi piace pensare in questo giorno che rimanda a tanta tragedia, alla sua parca ma solida solarità, a quanto abbiamo condiviso, amato, discusso, ma anche riso e pianto.
Tanti anni abbiamo passato insieme, da quando ventenni, cominciavamo a tessere la ragnatela del nostro futuro, io in un modo lei
in un altro, ma insieme ...
Ti ricordi Francy i primi passi nel mondo del lavoro, i nostri entusiasmi, le nostre sfide, la Cooperativa casa nostra, i valori il nostro
cibo, l’aiuto agli altri il nostro ossigeno.
Quanta solidarietà è corsa tra di noi, abbiamo condiviso la vita
insieme...
Oggi, la penso Lola e ogni volta oltre alla commozione, nella mia
mente scorrono immagini di vita, un caleidoscopio di colori, emozioni ...
Lella, la tua esperienza nasce prima come collega e poi come amica, per me il rapporto oscilla tra tre poli: quello di avere un legame familiare, eravamo cugine, di essere cresciute come amiche ed
essere poi diventate anche colleghe… come se la mia vita fosse
strettamente intrecciata con la sua da quando siamo nate a un mese
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di distanza l’una dall’altra. Saremmo potute nascere insieme, ma io
ho scalpitato per uscire prima e lei se l’è presa più comoda!!!!
Con lei ho condiviso i pantaloni a zampa d’elefante, le battaglie
contro quelle che allora erano definite istituzioni totali, le prime sigarette fumate di nascosto sulla torre di Capodacqua, i primi amori,
i libri “seri”, quell’essere giovani, quell’essere adulte, piangere insieme anche senza un perché, certo che a volte aveva la lacrima facile, come senza un perché ridere fino ad avere il mal di stomaco.
Infatti ricordo la sua forte sensibilità che incrociandosi con la mia,
“rompeva la diga” e poi giù a ridere di quanto ci sentivamo sceme
dopo aver tanto pianto, si, dovevamo dimostrare sempre di essere
forti e quella nostra debolezza veniva così da noi stesse ridicolizzata.
L’ultima volta che abbiamo pianto insieme e di seguito riso di noi è
stata quando ci siamo viste dopo la morte del mio amatissimo cane
Whilly: ci siamo solo guardate ma ci siamo fortemente sentite.
Il primo impegno lavorativo alla Locomotiva è stato come educatore
alla comunità per minori, successivamente ha contribuito alla nascita
“progettuale” del servizio diurno per minori che nel 1989 aprì nei
locali attigui alla stessa comunità. Ed è in quel momento che la sua
attività professionale si è tramutata in una passione viva, palpitante,
che ha attraversato la sua vita. Il nome stesso che aveva scelto per
questo servizio, il Paguro, riusciva a racchiudere l’essenza stessa del
centro, una conchiglia, un guscio, un luogo protetto, una casa sostitutiva dove stare fino a che ce ne fosse stato bisogno…. Una premura
rivolta non soltanto ai bambini e ai ragazzi del Paguro, ma anche alle
famiglie, perché crescessero insieme ai figli e riuscissero a recuperare un rapporto sereno. Una sua intuizione importantissima quella di
lavorare con le famiglie, perché non percepissero il servizio concorrenziale rispetto al loro essere genitori e perché anche loro avessero
qualcuno con cui confidarsi, senza paura di essere giudicati.
Il rammarico che ho è che spesso la gente non ha compreso appieno
lo spessore politico dell’impegno sociale, quel profondo senso di
uguaglianza, giustizia, pari opportunità che ci ha accumunato, che
esonda come un fiume in piena dalla tua vita lavorativa fino a dilagare nella tua esistenza, negli aspetti della quotidianità, nel modo
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stesso di porti con gli altri. Non c’è niente di più profondamente
rivoluzionario che rendere concreta un’uguale attenzione, una stessa
considerazione, un identico, profondo rispetto per qualunque persona indipendentemente dal ruolo, dallo status sociale, dal riconoscimento pubblico.
Mi piace ricordare anche il suo impegno con le persone con problemi di salute mentale, quando in cooperativa era lei a portare
avanti questo tipo di progetti. Con infinita pazienza intrecciava un
tessuto delicato che sosteneva un rapporto di fiducia appena nato
fino a vedere l’altra persona aprirsi alla vita…
La famiglia, per Lola, è sempre stato un valore indissolubile, e così
come cercava di proteggere quella dei “suoi bimbi”, ha curato, protetto, amato la sua, con instancabile dedizione. La sua famiglia
non era solo quella di origine, era una famiglia allargata di cugine, cugini, nipoti, zii, tanti amici e tantissime amiche che le sono
state sempre vicino, segno delle relazioni profonde che riusciva ad
istaurare e a mantenere nel tempo.
Nel novero del familiari c’erano anche i gatti, a cominciare dalla
capostipite storica Mughetta fino ai sei degli ultimi tempi. Con i
nomi ha sempre avuto una gran fantasia. Chi ama i gatti di solito
non ama i cani, ma lei voleva bene ad entrambi, perché chi è veramente capace di amare non mette i limiti delle appartenenze,
delle razze, della “proprietà”, ma ama perché amare è il suo modo
di essere, di vivere la quotidianità, di respirare la vita.
Memorabile è stata la sua disponibilità ad ospitare cani e gatti di
amici durante le vacanze!!!
A Le’, e quando si autodefiniva Calimero? Certo che era strano che
quando andava a mangiare fuori spesso “si dimenticavano” di portarle quello che aveva ordinato, succedeva così spesso che non poteva
essere solo una coincidenza… anche quando siamo uscite insieme
è successo tante volte e, quando ci rendevamo conto che stavano
servendo tutti tranne lei, cominciavamo a prenderla in giro…
E’ già Calimero, ma ti ricordi quante volte l’abbiamo presa in giro
perché “le veniva tutto a tempo”?
La chiamavamo la Placida o Corda lenta, ma solo oggi parlandone
con te, è chiaro quanto quel suo incedere tranquillo, pacato, quel
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suo buttarsi dietro le spalle la fretta del fare, ci ha aiutato a riflettere, a placare l’ansia e ad agire con cognizione di causa.
Lola ci hai dato molto di te, con umiltà e leggerezza, ma la tua vita
è stata tutta così, il “dare” è stato parte della tua vita, del tuo lavoro,
dei tuoi affetti.
La stranezza del nome è sempre stato un cruccio per lei, soprattutto perché non era improbabile che qualcuno la chiamasse Leonida
o più frequentemente Lolita. Ma sai che quel nome unico derivava
da una trasformazione di quello di sua nonna Apollonia? Ma fuori
del lavoro, era sempre Lola.
L’ultima volta che ho provato a piangere insieme a lei, non me lo ha
permesso, a me uscivano le lacrime, lei mi salutava stringendomi
forte forte la mano dicendomi grazie per averle massaggiato i piedi,
lì su quel letto due giorni dopo ho trovato solo il suo corpo...
Se n’è andata con la riservatezza e la dignità che l’ha sempre contraddistinta, piano piano, leggera leggera, farfalla colorata che
non voleva infastidire chi amava, ma con la forza di dire “grazie”
per qualsiasi cosa si facesse per lei, anche solo per una carezza...
Uno degli ultimi ricordi che ho di lei prima che fosse annientata dalla malattia, è del giorno che ha avuto i risultati degli esami dopo la
chemio che le hanno palesato la gravità della situazione.
Era in programma una cena dell’associazione ed io ero a Capodacqua per aiutare in cucina come al solito. Ci siamo sentite più volte
per telefono, sapevo che aveva bisogno di sentire vicino qualcuno e
condividevamo il pensiero di sollevare un po’ sua sorella dalle cure
che con dedizione infinita si è prodigata, incessantemente, a darle.
Le dicevo: se vuoi mi fermo, lei: no non ti preoccupare, io: non mi
costa nulla dormire da te, dovrai solo sopportare l’odore di cucina,
non ho portato un cambio… lei: allora vorrà dire che terremo aperta
la finestra, non ce la faccio a star sola…grazie!
E’ difficile in poche righe restituire ad altri ciò che insieme siamo
state, si rischia l’ovvietà o la superficialità, ma come ci siamo dette
io e Francy, l’altra sera, discutendo di questo nostro scritto, alla
fine Lola chi la conosce la sa.
Lella Giorgetti, Francesca Cesarini
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Maria Lonita Lattari è nata a Foligno il 22 novembre del 1958, da
Giacinto e Rosa Raponi, dopo la morte dei genitori ha continuato
a vivere nella casa paterna con la sorella Lorena e i suoi numerosi
animali. Prima collaboratrice e poi socia dal 3 febbraio del 1988,
ha contribuito con il suo lavoro alla crescita de La Locomotiva Società Cooperativa Sociale, sia come operatore nei servizi che come
amministratore, ruolo che ha svolto per un lungo periodo. Ha operato in diversi servizi socio-educativi, lasciando la sua profonda
impronta: Comunità per minori, Centro accoglienza “Il Paguro”,
Centro giovani “Sventola”, ha curato numerosi progetti individuali
per persone con problemi di salute mentale. Ha anche svolto ruoli
in staff al Consiglio di Amministrazione, come quello di Responsabile del Sistema Qualità e di RSPP (Responsabile del Servizio Prevenzione e Protezione). Ha sempre avuto un forte impegno sociale,
un saldo legame con il territorio e con la “sua” Capodacqua. È
stata infatti per molti anni consigliera dell’Associazione Sportiva
Capodacqua ed ha espresso il suo impegno politico prima nei DS e
poi nel PD.
Ci ha lasciato, fisicamente, il 23 agosto 2013.
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Flavia Agostini
Conosco Flavia Agostini da sempre da quando, tanto tempo fa, ci
incontravamo alla sezione Innamorati del PCI, alle manifestazioni e
soprattutto alle feste dell’Unità dove era maestra in cucina, lei con
l’esperienza dei suoi anni e di una vita intensamente vissuta, ed io
con la determinazione della mia giovinezza, orgogliose entrambi
delle nostre passioni politiche.
Flavia Agostini è oggi una signora di 90 anni che ho ritrovato, in
occasione di questa mia intervista, con il sorriso leggero ed accogliente di allora, gli occhi freschi e brillanti, desiderosa di sapere,
di essere informata di quello che accade in questa nostra città, attenta alla politica italiana ed alle sue vicende.
Il racconto della sua vita si fa subito allargato, corale, include le
donne e gli uomini della sua famiglia, della sua Belfiore.
Racconto a volte aspro, duro per i contrasti che hanno segnato la
storia di un paese intero insieme alle storie personali: le guerre, la
dittatura, la resistenza, l’impegno politico.
Ma è anche e soprattutto racconto di scelte comuni, di aiuti reciproci tra donne, di solidarietà concreta verso i più deboli, perché
questo era sentito e condiviso come giusto e questo andava fatto.
Flavia Agostini è nata a Belfiore il 24 settembre del 1924.
I suoi ricordi più lontani sono legati ai racconti della vita di suo padre Oberdan Agostini, attivista del PSI sin da quando nel lontanissimo 1914 partecipò al congresso del partito che si svolse ad Ancona, qualche mese prima dello scoppio della prima guerra mondiale
e della decisione di Mussolini, a quel congresso presente, di passare da neutralista ad interventista e per questo espulso dal partito.
Alla fine della guerra il padre aderì al nuovo Partito Comunista d’Italia.
Erano gli anni in cui iniziavano le discriminazioni politiche, le inti15
midazioni e le violenze.
La vita della giovanissima Flavia è segnata da queste vicende.
Suo padre deve più volte fuggire e nascondersi.
In una di queste occasioni lei, sua madre, le due sorelle ed il fratello furono portati in caserma poiché si voleva sapere da loro dove
nascondessero il materiale propagandistico e la bandiera del partito.
Con orgoglio Flavia afferma “non dicemmo niente” e furono trattati
per questo a schiaffi e male parole.
Nel 1935 il padre fu arrestato.
Quel giorno i carabinieri furono guidati da una persona iscritta al fascio di Foligno che durante l’incursione, con una spinta, fece cadere
dalle scale la madre di Flavia
Due mesi dopo la poveretta sarebbe morta per i traumi ricevuti,
aspettava un altro figlio.
In quell’anno Flavia avrebbe dovuto sostenere l’esame di ammissione all’avviamento ma fu sospesa da tutte le scuole del regno insieme
al fratello, che frequentava le industriali, perché figlia di un comunista. Il maestro Carloni, di nascosto, le fece frequentare le scuole
serali.
Flavia superò anche gli esami ma non le consegnarono mai il diploma.
Nel 1936 il padre fu processato e deportato al confino a S. Demetrio
Corone in provincia di Cosenza. Vi rimase 5 anni.
I quattro figli andarono ad assistere al processo e furono fermati in
carcere un intero giorno.
Dopo l’8 settembre 1943 avvengono le scelte più importanti per Flavia e per la sua comunità. Suo padre divenne partigiano
Foligno venne bombardata per la prima volta a novembre e fino a
giugno del ’44 i bombardamenti furono numerosi. Molte famiglie
della città sfollarono a Belfiore, a Pale e nei paesi vicini.
Antonio Pizzoni aveva aperto il forno nel paese e la prima infornata
del pane veniva fatta perché fosse distribuita alle famiglie che non
avevano di che mangiare.
Ad Annifo i tedeschi in un rastrellamento uccisero Paolucci, ed obbligarono sua moglie a far per loro il pane mentre il marito era steso
nel letto.
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Flavia e le sorelle, accorsero in aiuto della povera donna, e presero
con loro due figlie, una bambina di 4 anni e l’altra di 20 mesi che
ospitarono nella loro casa fin quando non furono mandate a scuola
presso il collegio degli orfani partigiani istituito a Roma.
Divenute grandi, queste due sorelle sono poi sempre rimaste affettuosamente in contatto con la famiglia di Flavia.
Nell’ospedale organizzato alla meglio a Belfiore si nascondevano
anche i partigiani feriti.
Flavia ricorda in particolare la sollecitudine con cui una suora di
nome Francesca si adoperava per proteggerli affinché non fossero
scoperti.
A Belfiore c’era anche un partigiano montenegrino, gravemente ammalato, che fu accolto in casa da una vicina di Flavia, tale Marietta
Mora, sola e madre di quattro figli. Bisognava che fosse curato e
tutto il paese se ne preoccupava. Fu anche chiamato un dottore perché lo operasse ma lo si dovette trasportare all’ospedale di Perugia.
Particolare curioso, in ambulanza un uomo del paese si mise sopra
di lui in qualche modo per superare eventuali controlli.
Flavia aiutava i partigiani ed i particolare il montenegrino portando
anche suoi messaggi fino alla cascina di Radicosa dove c’era il
comando della Brigata Garibaldi. Andava a piedi di macchia in macchia insieme a Toni Nardino.
A volte si fermavano a Pale dove il farmacista Bartoli, anche lui sfollato, dava loro le medicine.
I messaggi erano scritti con l’inchiostro simpatico, ma molte volte
Flavia doveva mangiarli per non farseli trovare. Se incontrava i tedeschi, che erano sempre guidati nei rastrellamenti da qualcuno che
conosceva bene i posti e soprattutto le persone, Flavia faceva finta di
raccoglier more o andar per funghi Lei ricorda ancora bene i nomi
di chi informava i tedeschi, consentendo che molti giovani fossero
imprigionati e deportati.
Dopo la guerra Flavia voleva impegnarsi seriamente in politica frequentando anche corsi formativi lontano da Foligno. In questo suo
proposito venne dissuasa dal padre, preoccupato per una scelta così
radicale, consapevole di quanto a lui stesso fosse costata questa
scelta..
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Lei si impegnò in ogni caso nell’attività della Camera del Lavoro
e del Partito Comunista di Foligno. Ricorda, di quei tempi, la partecipazione agli scioperi delle raccoglitrici di olive e la sua attività
nell’organizzare assemblee, nel distribuire, quando necessario, sia i
volantini che il giornale del partito.
Dopo la Guerra anche a Foligno con un gruppo di donne di diversa
provenienza politica fondò una sezione dell’Unione Donne Italiane.
Ne facevano parte, tra le altre, oltre a lei stessa, Alba Agostini, Giuliana e Chiara Catarinelli, Antonia Mela, Ilva Salustri, Armida Mariotti,
Anna Pizzoni. La presidente era la signora Caprai, impegnata moltissimo nel sociale e nella lotta per l’emancipazione femminile.
L’UDI si adoperò perché i diritti delle donne fossero riconosciuti a
tutti i livelli mentre la nuova repubblica prendeva forma ed al tempo stesso costituì quella rete di solidarietà laica, importantissima in
quei primi anni di democrazia dove ancora ,in un paese poverissimo, l’assistenza pubblica e i servizi sociali erano tutti da costituire..
L’UDI, tra l’altro, si impegnò per l’accoglienza dei bambini provenienti dalle zone alluvionate del Polesine e vennero ospitati nelle
case di molte donne di Foligno e dei paesi vicini.
Così era stato anche per i bambini accolti dal sud d’Italia dove interi
paesi erano stati bombardati, mentre il fronte della guerra avanzava.
L’UDI di Foligno negli anni successivi si impegnerà e parteciperà a
battaglie di emancipazione e di libertà promuovendo azioni di solidarietà anche di carattere internazionale.
Con questo spirito Flavia ricorda la partecipazione dell’UDI alla prima marcia per la pace organizzata da Aldo Capitini.
Ma negli anni della riconquistata libertà non tutto era semplice o
scontato.
E Flavia ricorda la prima volta che fu festeggiato il primo maggio a
Foligno nel 1946. A S. Paolo c’era il raduno di coloro che provenivano dai paesi vicini e a piazza S. Domenico avrebbe dovuto svolgersi
il comizio. Intervenne il reparto della Celere con le camionette per
impedire la manifestazione, tutti si sdraiarono a terra e parecchi furono arrestati.
Nel 1949 furono organizzate manifestazioni anche a Foligno per opporsi alla stipula del patto Atlantico . Ci furono cariche della Celere.
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A Terni morì, dopo una di queste cariche, un operaio delle acciaierie, Luigi Trastulli.
Ma Flavia ricorda anche le serate conviviali per raccogliere fondi da
destinare alla causa del momento e soprattutto le feste dell’Unità .
Quanti gnocchi, e quanti arrosti preparati!
Il nostro colloquio volge al termine, ma prima di lasciarci Flavia vuole consegnarmi un manoscritto molto vecchio perché ne venga fatta
una memoria per la città.
Per non dimenticare.
Flavia mi racconta di averlo avuto nel 1947 da un contadino che
lo scrisse seduto accanto a lei mentre c’era la trebbiatura del grano.
Si tratta .di una lunga ballata scritta alla maniera dei cantastorie popolari che racconta la vicenda tragica dei 24 giovani massacrati dai
tedeschi a Collecroce nel 1944.
La scrittura è bella e lineare, le parole cercate con accuratezza e una
qualche eleganza.
E’ questo per me un modo significativo di lasciarci, con la leggerezza e l’asprezza di un canto popolare, con il riconoscimento di una
storia fatta di “noi”, di una cultura di rispetto reciproco, di valori
condivisi tra diversi per formazione, convinzioni e provenienza.
Serena Rondoni
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Armida Mariotti
Il mio incontro con Armida avvenne quando ero una ragazzina, avevo poco più di 10 anni ed accompagnavo mia sorella Elvira a casa
della sua amica e compagna di scuola delle medie Lelletta, la figlia
di quella signora- ricordo ancora- così simpatica, con un bel sorriso e una gran parlantina! Mi piaceva così tanto ascoltarla mentre
raccontava storie di guerra, di desolazione, di povertà, di paura,
ma anche di significative figure femminili, di riscatto, di speranza!
Col passare degli anni, poi, mantenendo con loro sempre una bella
amicizia, misi sempre più a fuoco la sua figura, e compresi quanto
Armida fosse determinata, coraggiosa, animata da una grande idealità e quanto abbia contribuito, in un periodo storico in cui il ruolo
delle donne veniva relegato primariamente nell’ambito domestico,
alla promozione del movimento femminile. Un forte senso di giustizia, all’inizio innato, poi sempre più consapevole, l’ha spinta infatti
a ribellarsi alla posizione d’inferiorità e passività che veniva imposto
alla donna dalla cultura fascista in cui si trovò a vivere. Armida aveva
dei sogni da realizzare, voleva ragionare con la sua testa e quando
era convinta di avere ragione sapeva contraddire e difendere le proprie idee: tutte doti che più tardi mise al servizio di un rinnovamento
delle coscienze, a favore dell’infanzia, dell’emancipazione della donna e della vita del PCI della nostra città.
Per me è dunque un vero piacere scrivere queste righe per Armida
ed un motivo in più per trascorrere un piacevole pomeriggio con
Lelletta a parlare di lei.
Armida nacque a Spoleto nel 1922 già orfana di padre. Amico Proietti era appena morto per una malattia contratta nella guerra del ‘15’18, lasciando vedova la madre Candida che, poco più che ventenne,
si ritrovò sola, in condizione di miseria e senza aiuto da parte della
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sua famiglia. Candida, poi, si risposò con Vincenzo, detto Cencio,
ma poiché la situazione economica rimaneva difficile riuscì a farsi
assumere come Casellante delle FFSS in un paesino vicino a Spoleto,
dove si trasferì tutta la famiglia. Candida e Cencio misero al mondo
altri tre figli, Ettore, Abramo e Lina, che amarono e ammirarono Armida come sorella maggiore. Finite le scuole elementari dovette abbandonare gli studi e andò a Spoleto per imparare il mestiere di sarta. All’inizio faceva la pendolare poi si trasferì dagli zii paterni i quali
contribuirono a far germogliare in lei i semi di un pensiero fondato
sui valori dell’uguaglianza sociale, del comunismo, della possibilità
di riscatto dei problemi della classe operaia, del superamento della
disparità tra uomo e donna. Le camice nere in quel momento storico
spadroneggiavano con violenza, dimostrando arroganza e prepotenza, ed in Armida nascevano i primi interrogativi, i primi approcci a
quelle tematiche che più tardi avrebbero assunto nella sua vita una
posizione centrale.
Il 1937 fu per Armida un anno indimenticabile, si recò a far vista
ad un cugino di “papà Cencio” e conobbe il figlio di lui, Bruno. Lei
aveva 15 anni, lui 22. Per entrambi fu subito un colpo al cuore. L’indomani iniziarono a scriversi bellissime lettere d’amore e dopo un
anno si sposarono e andarono a vivere a Giuncano di Terni, dove
Bruno lavorava come dipendente delle Ferrovie. Nel ’39 nacque il
primo figlio: Cupido. Il nome Cupido venne scelto perché richiamava la figura mitologica romana del dio dell’amore, ma proprio
per questo, quando si recarono in chiesa per il battesimo, il prete
disse loro di non volerlo registrare con quel nome perché: “di Dio
ce n’è uno solo”! Dopo un iniziale disappunto, Armida e Bruno
cedettero alle richieste del prete e lo chiamarono Claudio. Per loro
essere comunisti non significava rinnegare la religione cattolica, che
infatti impartirono ai loro figli poiché, dicevano, sarebbero stati loro
stessi, da grandi, a scegliere la loro strada. Dopo la nascita di Claudio, Bruno fu trasferito presso la stazione di Scanzano e la famiglia
andò a vivere a Belfiore. Qui conobbero Antonio e Anna Pizzoni,
che facevano i panettieri. Nacque subito una bella amicizia, cementata dalla stessa fede per gli ideali comunisti. Per tutta la sua vita
Armida ha raccontato con ammirazione il coraggio di questi amici
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che non solo donavano il pane a chiunque ne avesse bisogno, ma
addirittura lo facevano pervenire di nascosto ai partigiani della zona,
cosa rischiosissima perché i fascisti la punivano con la fucilazione.
A causa di vigliacche delazioni, raccontava Armida, Antonio diverse
volte rischiò la vita. I fascisti tentarono spesso di coglierlo sul fatto,
mentre distribuiva il pane ai partigiani che nottetempo si avvicinavano alla panetteria, ma gli amici e la moglie Anna riuscirono sempre
ad aiutarlo a scongiurare il pericolo! Certo che la situazione politica italiana in quei tempi era incandescente. Nel novembre del ’43,
anche a Foligno erano cominciati i bombardamenti. Gli aerei erano
tornati a seminare terrore, distruzione e morte anche nel gennaio
1944 e proprio sotto i bombardamenti Armida mise al mondo il suo
secondogenito: Alberto. Furono anni difficili, terribili, quelli, c’era la
guerra, le tribolazioni, la fame, ma Armida rafforzò il suo carattere
combattivo. L’aver vissuto in prima persona tutti i fatti caratterizzano
quell’era consolidò le sue convinzioni antifasciste e comuniste.
Armida raccontava che quando la guerra finì, l’antica bellezza di
Foligno era solo un ricordo e la situazione pressoché drammatica.
I bombardamenti avevano distrutto buona parte della città, il cibo
mancava, scarseggiava il carbone ed anche i medicinali, ma le donne
non si perdettero d’animo e Armida con loro. Vivendo a Belfiore, cominciò a legare e a frequentare altre donne con gli stessi suoi ideali
e proprio in quel difficile momento conobbe Dina Maria Tanganelli
Caprai. Una donna coraggiosa, intelligente, tenace e ricca di grandi
ideali che per togliere i bambini delle Case Operaie dal disagio derivato dalla scarsità di cibo e di assistenza non ci pensò due volte ad
occupare un appartamento e fondare un asilo infantile, rimediando
in giro per la città l’occorrente. Nello stesso modo istituì anche le
colonie estive e i doposcuola. La Caprai è stata una maestra di vita
per Armida: la stimò fin da subito per la sua caparbietà e chiarezza di obiettivi e senza esitazione si mise a lavorare al suo fianco.
Conobbe in quel periodo anche Luciana Fittaioli che è stata ed è
ancora oggi una delle figure più rappresentative della vita politica
folignate. Grande combattente per i diritti e le libertà delle donne e
di tutti i lavoratori. Armida ammirava Luciana, tra loro nacque una
grande amicizia consolidata dalla stessa passione politica che nel
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1948, portò Luciana ad essere la prima donna umbra ad entrare in
Parlamento. Armida, nel 1945, oltre le altre donne, a fianco di Maria
Caprai, Luciana Fittaioli, Anna Pizzoni, Ida Carlotti, Alba Panciotti,
Maria Pietrangeli Chiodi fondò a Foligno l’UDI, Unione Donne Italiane. Gli scopi prioritari dell’UDI (che radunò molte donne iscritte al
PCI, al PSI e al Partito d’Azione) erano: quello di togliere i bambini
dalla strada; di liberare le casalinghe dal loro isolamento; di scuotere
le coscienze femminili e convincerle a lottare per la parità dei diritti
e in particolar modo per il diritto al voto. Nel 1946 venne vinta la
storica battaglia per il suffragio universale.
Questi furono anni molto importanti per Armida sia a livello politicosociale, che personale. Infatti nel 1948 diede alla luce anche Ester,
detta Lelletta. Alla nascita di questa figlia seguì, dopo poco, il trasferimento della famiglia a Foligno, visto che Bruno aveva iniziato
a lavorare negli uffici delle FFSS. Questo passaggio rappresentò la
realizzazione di un sogno perché andarono ad abitare in una casa
dei ferrovieri nel centro della città. Questo spostamento rese la sua
vita ancora più animata, consentendole di partecipare con maggiore
continuità alla vita politica. Da quel momento in poi, infatti, non ci
fu congresso, riunione, comizio in cui lei non partecipò. Portava la
parola del partito nelle riunioni, nelle sezioni con grande tenacia
e passione. In quegli anni fece anche un comizio in Piazza della Repubblica che riscosse il riconoscimento dei compagni e delle
compagne. Armida in quella occasione poté dimostrare tutta la sua
passione e la sua preparazione politica. In quel periodo frequentava
anche un’altra grande donna: Aurora Pascolini, partigiana, che aveva combattuto nella Resistenza la Guerra di Liberazione e decorata
poi con la Croce al merito per le sue valorose gesta. Lelletta ricorda
che l’affascinavano i suoi racconti e che stava ad ascoltarla per ore
ed ore. Ricorda poi che l’8 marzo era una giornata di commemorazione, ma anche di mobilitazione. Negli anni cinquanta in quel
giorno Armida andava a trovare le vecchiette dell’ospizio, ma anche
le detenute nelle carceri femminili e le ragazzine al doposcuola in
Via Istituto Denti, per offrire sempre a tutte una parola di conforto,
di solidarietà. La sera poi ci si incontrava nei circoli tra donne, si
mangiava qualcosa che ognuna portava e spesso si faceva una lotte24
ria. A quei tempi erano già memorabili anche le Feste dell’Unità e i
Veglioni Rossi. Claudio, il primogenito di Armida, racconta quando a
Belfiore, in occasione del Carnevale, si organizzò un Veglione Rosso.
Le donne abbellirono la sala da ballo portando da casa di tutto, dalle
lampade alle tovaglie ed anche addirittura gli specchi che per l’occasione vennero tolti dall’armadio di casa e vennero disposti intorno
alle pareti moltiplicando luci e immagini delle coppie ballerine, creando un’atmosfera di allegria!
Come si può immaginare per stare dietro ai suoi impegni, Armida
era spesso fuori casa, ma egualmente riusciva a conciliare le esigenze della famiglia con l’attività politica. Organizzava a puntino la vita
dei figli più grandi e portava sempre con sé la piccola, Lelletta. La
figlia, che all’epoca avrà avuto 5 o 6 anni, racconta oggi scherzosamente: “bastava che da lontano vedessi le amiche della mamma
per preoccuparmi. Sapevo bene che se si fosse fermata a parlare,
chissà quanto tempo sarebbe passato! Quando mi vedevo persa mi
mettevo a protestare, tanto che le amiche dicevano ridendo: “Armì,
non sarà che per reazione, a forza de sentì ‘sti discorsi e ‘sti comizi,
da grande diventerà anticomunista?!”. Armida, comunque, quando
sapeva che l’indomani aveva da fare, la sera prima, fino a tarda
ora, a volte anche non dormendo, provvedeva alle necessità della
famiglia e della casa. Sempre di notte, ricorda l’amica Alfea, quando
c’era bisogno di pantaloni o gonne per i figli, con abilità li realizzava
ricavandoli da vecchi pantaloni o giacche in disuso di Bruno e la
mattina dopo era tutto pronto!
È stata una madre che ha contribuito a rendere autonomi e autosufficienti i figli. Non faceva distinzione di educazione tra la figlia
femmina e i maschi. Diceva che i ragazzi dovevano essere “ben
educati” dalla famiglia, in special modo dalla madre che non doveva
preservare il figlio maschio da incombenze considerate femminili,
come cucinare o riassettare. È stata accanto ai figli anche nelle lotte
studentesche. Bruno, il marito, dal carattere calmo e riflessivo, al
contrario di lei, grintosa e combattiva, non ha mai ostacolato la moglie nelle attività del partito e dell’UDI. Anzi, ricorda il figlio Alberto,
quando lei commentava con analisi e considerazioni personali le
problematiche politiche del giorno, lui, seduto sulla poltrona, con
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la sigaretta in bocca, accoglieva il suo fiume di parole con fare tranquillo e soddisfatto, dimostrandole sempre approvazione e stima.
Le cose in cui credeva, Armida, le viveva anche nella quotidianità.
Lo dimostrava anche il fatto che casa sua era aperta a tutti, era un
punto di ritrovo. La sua ospitalità, insieme a Bruno, la dimostrava
anche aprendo la loro casa ai compagni che venivano a Foligno
per partecipare a congressi o altre iniziative di partito che duravano
diversi giorni. Non potendo pagare l’albergo alloggiavano “dai Mariotti”. Habitués erano Lodovico Maschiella (poi eletto in Parlamento
nel ’63) e Primetta Martini. Bisogna poi dire che anche se Armida
aveva fatto solo le elementari, amava leggere e tenersi informata su
tutto. Aveva sempre una copia di Noi Donne (rivista dell’UDI) e Vie
Nuove. La domenica mattina arrivava sempre Rolando Polli a portare l’Unità. La sua visita non si limitava alla consegna del giornale:
spesso e volentieri intavolava con Armida animose ed interminabili
conversazioni politiche di cui spesso il tema era quello a lei tanto
caro del diritto alla pensione delle casalinghe. Era anche affascinata
dalla narrativa, in particolar modo da Sibilla Aleramo. La disponibilità economica era poca, ma i libri per i figli si comperavano sempre
e si pagavano a rate.
Armida visse anche il dibattito politico che si sviluppò verso il ’68
in Italia, su leggi come quelle sul divorzio e l’aborto, in cui si concretizzava per ogni donna la possibilità di essere responsabile del
proprio destino. Proposte di legge che cominciarono inevitabilmente
ad evidenziare le profonde differenze esistenti tra la battaglia delle
donne dell’UDI e quella del nascente movimento femminista. L’opera dell’UDI si era diffusa nel periodo della ricostruzione e riorganizzazione sociale post bellico, poi gradualmente era diventata sempre
più funzionale alle scelte politiche del PCI. Le donne che avevano
aderito all’UDI volevano raggiungere una parità nella coppia, senza
però volerla mettere in discussione. Le giovani femministe invece,
fecero scelte ben più radicali e si spinsero oltre le pretese di uguaglianza, creando un movimento slegato dai partiti storici della sinistra e tutto questo, come è immaginabile, creò dibattiti e confronti
serrati. Armida, pur restando nell’UDI si aprì al dibattito delle nuove
problematiche poste dalle femministe. Condivise con loro diverse
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lotte, come quelle a favore del divorzio, dell’aborto e dei consultori famigliari. A volte invece non condivise in pieno le scelte e le
strategie politiche del partito, ma preferì sempre il confronto interno, senza allontanarsi da esso. Alla fine degli anni ’70 ricordo che
gestendo Radio ARA e in particolar modo la trasmissione mattutina
“Dibattito Aperto” in cui si discutevano in diretta tutte le problematiche cittadine, più volte mi è capitato di riconoscere la voce di
Armida tra le donne che prendevano parola sulle diverse questioni
che emergevano: il suo era sempre un contributo centrato, fattivo
e costruttivo. Armida aveva la convinzione che le cose, lottando,
potevano cambiare e migliorare, credeva fermamente su un futuro
migliore e comunicava questo ottimismo ai figli e a tutti coloro che
le vivevano accanto. Questa convinzione l’ha animata fino alla fine
e la sua incrollabile fiducia in un mondo migliore ha sostenuto le
donne di generazioni più giovani che s’incamminavano in una realtà
che si è rivelata poi complessa e difficile come la nostra.
Rolando Polli alla sua scomparsa inviò alla famiglia le seguenti righe:
“Armida è stata una bandiera per la lotta per l’emancipazione della
donna e della classe operaia, una bandiera per la pace e per i diritti umani: sei sempre in testa a tutte le lotte, non ti sei mai arresa
neppure davanti alle forze dell’ordine. La tua bandiera non verrà
ammainata”.
Luana Brilli
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Paola e Maria Palma, due ragazze pronte a spiccare
il volo con le proprie radici nel cuore.
Paola e Maria Palma sono due amiche coetanee che da piccole giocavano nel giardinetto del paese condividendo gli stessi giochi, poi
diventando donne hanno saputo scegliere, entrambe con determinazione la propria strada da percorrere non condizionate da deviazioni
o apparenti scorciatoie ma andando diritte, in modo serio dove la
passione le avrebbe condotte.
Entrambe hanno dato risposta in modo del tutto personale alla crisi
che attanaglia il tessuto sociale del nostro paese. Paola Lauretani
è una ragazza nata a Foligno il 25 luglio del 1990 vive a Rasiglia,
un piccolo borgo della montagna. La più piccola dopo tre fratelli
maschi, è vissuta a Rasiglia nella casa di famiglia dove la nonna,
presenza fondamentale, ha contribuito alla sua crescita ed è stata
presenza gioiosa per la sua infanzia . La nonna si chiamava Vincenza, aveva avuto quattordici parti ma dieci figli sopravvissuti, grazie
alla sua esperienza aiutava anche le donne del paese a partorire, era
una donna che sapeva bene cosa fosse il lavoro e la fatica, aveva
un negozio di stoffe, sale e tabacchi, lavorava nei campi e faceva il
pane non solo per la propria famiglia ma lo vendeva pure. Era tanto
buono, lo cuoceva nel forno a legna e fino a quando ha potuto l’ha
sempre fatto.
Lei raccontava della sua lunga vita e stava sempre con Paola che
rimaneva spesso incantata e colpita dal suo grande amore per il
nonno Lorenzo, dei suoi figli cresciuti da soli, aiutandosi l’uno con
l’altro, dei “tribbuli” che aveva sopportato ma affrontato sempre a
testa alta. Aveva sempre tra le mani l’uncinetto, gli aghi da lana e
l’ago per ricamare e da lei ha imparato tutto, rubava con gli occhi
e dalle sue mani da questa presenza, da questa radice nasce il desiderio di fare e di mettere in pratica tutto il proprio bagaglio che
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con il tempo aveva accumulato fino al 2005, quando è morta. Lei
ha segnato la vita di Paola, l’ha arricchita e anche se non c’è più ora
nel nostro tempo, lei è presenza viva in lei. Paola ha frequentato il
Liceo Scientifico, ma dopo la maturità quando non sapeva cosa fare
e quale strada scegliere, le è stato proposto di frequentare un corso
di tessitura promosso dall’ Associazione Rasiglia e le sue Sorgenti di
cui è socia, al Laboratorio di Scienze Sperimentali, ha accettato non
sapendo cosa questa esperienza avrebbe significato per lei. Subito
si è appassionata e sentiva nel suo cuore che la nonna sarebbe stata
tanto contenta nel vedere che proprio sua nipote avrebbe portato
avanti una tradizione così importante, LA TESSITURA, in un paese
dove lanifici, lana, tessere significavano pane. Il telaio la prende, la
entusiasma, le fa dimenticare tutto, il tempo non esiste ed intanto il
lavoro procede. Per questo decide di comprare un telaio e si è messa
al lavoro ed ha incominciato a produrre: sciarpe, asciugamani, tende, runner, poncho, cinture. La cognata l’ha aiutata a realizzare una
pagina facebook intitolata “Gli antichi valori” dove si possono vedere tutti i suoi lavori. Per autofinanziarsi va a far mercatini o alle feste
di paese anche per non chiedere ancora a papà Romano e mamma
Amalia. Loro l’hanno sempre appoggiata e sostenuta. La sua abilità
nel tessere su telaio moderno ed antico, la mette anche a disposizione dei ragazzi delle scuole e delle varie associazioni che vengono
a visitare Rasiglia grazie alla promozione che ne fa l’associazione
Rasiglia e le sue Sorgenti. Tutti rimangono ben colpiti dai lavori, dal
modo di tessere, a chi vuole, fa anche delle brevi lezioni. L’emozione più grande l’ha provata quando il primo gennaio ha donato in
occasione della Messa per la pace, in Cattedrale, a Sua Eccellenza
il Vescovo, un telo tessuto da lei per l’ambone. Alla fine del liceo,
Paola era scoraggiata, era stufa di sentirsi dire no, ora è molto orgogliosa di aver trovato questa strada, per il momento, è consapevole
di avere fra le mani un’arte che esige rispetto perché è molto antica,
ma che con la sua fantasia può rendere attuale e coinvolgente e le
permette di guardare al futuro con speranza.
Maria Palma è nata a Foligno il 13 giugno 1991, il giorno dopo la
mamma Milena e papà Alvaro con il fratellino Carlo l’hanno portata subito a Rasiglia forse per farle respirare quell’aria fredda e farle
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riconoscere il rumore del fiume. Il suo nome deriva da Palmira, la
bisnonna che venuta da lontano, da Tarquinia, nel piccolo borgo
aveva trovato l’amore, l’amicizia….LA FAMIGLIA. Oltre ad aver allevato due cognate, si era prestata a farlo anche con la nipote Milena,
dal momento che Domenica, la mamma, lavorava a tempo pieno
al Lanificio Tonti, alla quale ha trasmesso l’amore per la letteratura,
infatti le recitava a memoria. L’Orlando Furioso, la Divina Commedia
e se qualcuno del paese le chiedeva di scrivere una lettera o di leggerla lei era sempre disponibile. Questo grande bagaglio, non solo
d’amore, ma anche culturale, Milena ha cercato di trasmetterlo a sua
figlia, i ricordi di Maria Palma sono pieni di poesie, ninna nanne, storie che le venivano raccontate ogni qualvolta ce ne fosse l’occasione.
Non poteva che nascere in lei una grande passione quella per la
poesia e per tutto quello che è letteratura. Scrive la prima poesia dal
titolo LA FELICITA’ in prima elementare, tra l’incredulità dei genitori
e della maestra, anni dopo scrive, IL BRUCO, che non fu ammessa
ad un concorso scolastico a causa dell’età troppo giovane.
Porta con sé un ricordo sempre nitido delle parole di mamma e
papà: ”Maria Palma ricordati bene la conoscenza è una ricchezza
incredibile , un patrimonio che hai dentro di te , non può essere
paragonato a nulla , a nessuna ricchezza materiale, nessuno te la
può prendere e rimane sempre con te.” Queste parole la fanno impegnare con costanza e determinazione. Dopo aver frequentato il
Liceo Scientifico con ottimi risultati, preferisce scegliere la facoltà di
Lettere e Filosofia contro il parere di tutti anche dei professori che
hanno potuto constatare e premiare le sue doti. Non ha avuto paura
di andare contro corrente, ha studiato con impegno e si è laureata
in letteratura latina, con 110 e lode, con una tesi dal titolo: ”Livio tra
retorica e drammatizzazione.” Ma lo studio non è il solo suo impegno, da diciotto anni pratica la danza classica e dallo scorso anno
insegna questa disciplina alle piccole, nella scuola di danza “Balletto
di Foligno”, grazie a questa preparazione quest’anno partecipa ad
un progetto in collaborazione con sei scuole materne dal titolo: “Al
ritmo del rispetto” sui diritti e doveri dell’infanzia. Collabora come
socia alle iniziative promosse dall’Associazione Rasiglia e le sue Sorgenti, e in occasione della manifestazione “Penelope a Rasiglia” è
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guida per i visitatori, non solo per la storia del paese, ma anche
riguardo al suo poeta, appunto Marco da Rasiglia.
Grazie all’interesse suscitato in lei da quest’ultimo ha collaborato con
la professoressa Elena Laureti alla trascrizione e al commento della
“Frottola dei 100 Romiti” di Marco da Rasiglia. Ha inoltre rappresentato l’Associazione in occasione di un convegno sulla tessitura a Pieve Bovigliana. La sua disponibilità nei confronti del paese è dovuta
al grande rispetto per quelle radici che la tengono sempre per mano,
la scuotono, la sorreggono, la spingono sempre di più a dare, tanto
che nei suoi progetti c’è la stesura di un libro sulla sua famiglia, ma
in relazione al borgo delle sorgenti che, si è piccolo, ma cerca con
la sua acqua di spingersi sempre più lontano.
Paola e Maria Palma che crescono con semplicità e hanno posto
alla base delle loro scelte l’eredità culturale come patrimonio e non
come zavorra, trovano, rivolgendosi al passato, la voglia e la passione per guardare al futuro, Le due amiche sono esempi validi per
i giovani di come si possa crescere con onestà vivendo la propria
giovinezza e nello stesso tempo mettendo basi concrete e reali per
poi spiccare il volo senza paura, nella consapevolezza che senza la
passione o il cuore è assai difficile incominciare a percorrere la strada della vita e delle scelte, ma sono indispensabili tenacia e impegno
con il sacrificio che essi comportano.
Antonella Maria Ambrogi
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Federica Fratini,
una donna appena sopra la terra
Antefatto.
Lui ferroviere, lei sarta. Giuseppe e Maria.
Nulla di biblico, se non il loro grande amore e gli anni di attesa prima
che venisse al mondo lei: Federica, dall’uno ereditando allegria e leggerezza, dall’altra perseveranza e inventiva.
Federica: “portatrice di pace”, o meglio, “che domina con la pace”. Un
nome, una promessa.
Da quel momento, però, furono lunghe notti insonni con quella bimbetta tra le braccia che pareva non volerne sapere di chiudere gli
occhi e che, tutt’ora, continua a non dormire, seppur in senso metaforico, per fortuna dei suoi cari.
Così inizia la storia di questa donna, una grande amica, una sorella.
Si, perché non necessariamente i fratelli nascono sotto lo stesso tetto.
Li si riconosce andando, per strada, sopra la terra, appunto, quando
si è mossi dalla stessa scintilla o qualcosa del genere, e allora non si
può sbagliare.
E qui entro in gioco io, con l’arduo compito di raccontare un’amica
e la sua avventura. Tutto quello che scriverò è vivace argomento di
conversazione e dibattito da anni con Federica, molto felice di parlare,
in questa sede, della propria esperienza con la terra, del suo ritorno
ad una vita più semplice. Spero di essere all’altezza del compito.
Gli inizi.
Federica comincia il suo exploit con grande energia, propulsione indispensabile al suo progetto di vita che si delinea pian piano, ma con
sempre maggior nitidezza nel corso degli anni.
Da subito fu chiaro a tutti quanto fosse curiosa e desiderosa di conquistare la sua indipendenza: sin dalla più tenera età, Federica manifesta
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una certa idiosincrasia per le gerarchie di potere, malgrado i vari tentativi dei genitori, infatti, viene gentilmente allontanata da ogni scuola
materna di cui abbia varcato la soglia.
Nonostante le premesse, la piccola non è solo un “fulmine in bottiglia”, come sembrerebbe a prima vista, ma una sensibile e fragile
creatura in un’apparente impenetrabile corazza.
Proprio come suggerirebbe il suo segno zodiacale, il cancro: duro
fuori, tenero dentro.
Infanzia, adolescenza, parentesi bohémienne, maturità.
Avanti veloce. La bambina cresce, diventa una studiosa e vivace ragazzina, la sua vita scorre tra traduzioni di greco e latino e lunghe scampagnate in montagna con i suoi amici a cantare, raccogliere asparagi,
castagne, o a far nulla. Un’infanzia ed un’adolescenza ricche di affetti
e contatti con la parte più bella del territorio: le montagne, i boschi.
Forse è qui che nasce il suo amore per la terra, anche se passeranno
anni prima che diventi un lavoro.
Maturità classica poi l’università, ma l’esigenza di essere indipendente
è più forte e così inizia il variegato percorso lavorativo: cameriera di
sala, gestrice di un circolo, organizzatrice di concerti, barista.. Nel
frattempo porta avanti progetti sociali, dipinge, scolpisce, ricicla qualunque cosa e realizza, complice la qui scrivente, manufatti di varia
natura. Vai così con i mercatini. Non posso inoltre tacere il suo fantastico passato di clown e supereroina (chi vuole delucidazioni chieda
a lei direttamente). Poi sono arrivati gli orti biologici sperimentali su
terra altrui, i primi compostaggi, le feste di primavera attorno ai falò,
l’Iperico raccolto il giorno di S.Giovanni per farne il miracoloso unguento, da vera strega buona.
Da Platone alle patate: come con una formazione classica si voglia zappare la terra.
Nel 2005 accade qualcosa di davvero importante: nasce Ernesto. Meraviglioso grande dono.
A detta di Federica l’aver avuto un bambino è stato un trampolino.
L’amore per la terra, come detto, c’è sempre stato, ma l’idea di farlo
diventare un lavoro si concretizza dopo l’esperienza della maternità.
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Forse per poter essere più vicina al figlio, agli affetti tutti, e donare
loro una realtà quotidiana ricca di amore e contenuti, far essere questa
esperienza parte integrante della propria vita. La terra come quotidiano.
La prima vera esperienza lavorativa nel settore, avviene circa un anno
dopo la nascita di Ernesto, in una cooperativa sociale che si occupa di
agricoltura e vivaismo in collaborazione col Centro di Salute mentale.
Fase di grande arricchimento umano e di sperimentazione su più larga
scala della coltivazione dell’orto.
La seconda esperienza, di 1 anno circa, è con una azienda agricola
dove accumula competenze in numerosi ambiti. è questo il momento
in cui vive sulla pelle il lato duro dell’agricoltura (paradossalmente
quello che ama di più): zappare ettari sotto il cocente sole d’agosto,
trapiantare nel fango argilloso, sotto la pioggia battente, in inverno,
con qualunque temperatura. Qui la minuta figura impara anche a
guidare il trattore, un’immagine davvero evocativa. A parte gli scherzi
questo si rivela un anno estremamente duro e ricco in cui Federica ha
modo di osservare da dentro una realtà lavorativa che le piace ma che
a suo avviso potrebbe essere migliorata.
La lampadina si accende.
Così per la prima volta, le balena l’idea, ancora in embrione, che sia
possibile creare una propria realtà agricola ecocompatibile, secondo
le sue regole, all’insegna di un ritorno ai ritmi naturali della terra e a
salvaguardia della biodiversità alimentare.
Qualche incoraggiamento e una fruttuosa “caccia al pezzo di terra” e
prende vita così il progetto in fase iniziale: produrre ortaggi, ricercare
e salvare antiche varietà, sperimentare e allo stesso tempo prendere il meglio dalla tradizione, comunicare, ritrovare il lato umano, da
qui anche la consegna a domicilio. Collaboratori, vengono, vanno, si
consolidano, il progetto si affina, diventa realtà viva e pian piano si
arricchisce delle altrui esperienze fino a quello che è oggi: un percorso in divenire che si apre con naturalezza su altri settori, sempre in
movimento.
Sembrerebbe un paradosso parlando di terra. Quando ti fai perno il
mondo intero gira attorno a te.
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Parola di Federica.
“Se non parti da quello che sei, cioè dalla tua cultura, se vivi in maniera scissa dalla tuo retroterra non puoi cogliere l’altrui bellezza”. è
questo un concetto caro anche all’antropologia: riconoscere la propria
diversità è la base per poter osservare un’altra cultura ed individuarne
le peculiarità.
“Non siamo più diversi, ma divergenti” – continua Federica, ma due
diversità, qui ci aiuta la geometria, possono essere anche parallele
ed in un punto infinito incontrarsi, prima o poi; non così per due divergenze – “partiamo dalla nostra cultura, allora, cosa abbiamo qui?
Fiumi, boschi, farro, roveglia, pecorino, la pecora sopravvissana, che
resiste al freddo ma fa meno latte di altre razze [...] ripartiamo da qui...
se no c’è la cassa integrazione..”
Questo dell’industria è certamente un anacronismo in Umbria, poiché
mai appartenuto alla cultura locale. Sempre Federica: “Siamo partiti
dall’arte, dalla poesia, dal teatro, dall’agricoltura e siamo arrivati alle
acciaierie... Come abbiamo fatto? Qual’è il valore di tutto questo?”
Da queste riflessioni, che ho scelto di trascrivere letteralmente, emerge
chiaramente l’intento di questa donna “appena sopra la terra”: trovare
sé stessa attraverso il lavoro, scavare e seminare fuori per fare altrettanto dentro. Del resto credo che non possa esserci ricerca spirituale
senza compiere azioni concrete, Ignazio da Loyola sarebbe d’accordo.
In questa ottica si inserisce il progetto con le scuole per Slow Food, di
cui l’azione di Federica e dei suoi collaboratori sposa i principi:
preservare e valorizzare l’identità storico-culturale di un territorio specifico;
ridurre la filiera distributiva, il rapporto diretto tra produttore e
fruitore;
educare il palato dei più giovani e le loro coscienze, far sapere loro
che dietro un cibo c’è chi lo ha prodotto, una storia, una tradizione
con i suoi sapori.
Coinvolgere i bambini in questo percorso è, dunque, un aspetto centrale del progetto.
Rappresenta la volontà di mostrare una realtà di vita possibile, un
percorso di lavoro ricco e gratificante. Perché no? Si, un lavoro. C’è
anche questa possibilità.
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“La terra è fatica. La terra è dura. La terra è bassa. L’orto vuole l’uomo
morto. (etc etc)”
Tutti restano affascinati quando Federica, con occhi che brillano, racconta la propria esperienza, ma poi commentano sempre così. è la
forza del luogo comune, eredità forse della mezzadria. Ma le vite della
commessa, del barista o dell’operaio, sono forse meno dure? Fare un
lavoro a catena, o di relazione è una fatica, tenere la contabilità è usurante (poi serve pure andare in palestra).
Ma non è questo il punto. La questione è la qualità dell’energia che
s’impiega nel lavoro.
Quanto e cosa ti torna indietro. La fatica è tale quando poco o nulla
torna a te, quando è vana.
Noi ci siamo incastrati nell’infruttuoso sgobbare, come società. Ci hanno riempito la testa di cosa è importante per noi, ci hanno detto di
cosa abbiamo bisogno: soddisfare ogni desiderio, andare in vacanza
(vacanza da cosa, mi domando, dalla vita?), comprare, appagando
così ogni piccolo grande vuoto. Da quando questo affannarsi è divenuto vano è esplosa la crisi. Ci siamo forse resi conto che si trattava di
un’illusione, che la nostra vita non si può comprare, è sempre stata là
e vale molto di più di qualunque cifra. Anche se non giungi immediatamente alla mèta, ma senti che la strada che hai intrapreso è giusta,
non c’è afflizione. Questo è l’insegnamento più grande, a mio avviso,
dell’esempio di Federica. Jiddu Krishnamurti diceva «La verità è una
terra senza sentieri».
L’obiettivo, poi, non può più essere esclusivamente creare merce. È il
concetto di “limite”.
Ciò che è buono e ben fatto non può essere a disposizione di tutti e in
ogni momento, non per snobismo, ma perché c’è un limite nella sua
produzione. è inevitabile, se si rispettano i tempi, senza stressare terre
e animali, massificare, spremere. Se si vuole qualità, vita.
Enormi sono i progressi nel campo della comunicazione, della medicina che hanno giovato all’umanità. Ciò è accaduto anche alla biologia
e all’agricoltura. Parte di questo sviluppo si è rivelato vantaggioso, ma
parte di esso è distruttivo. Anni e anni di chimica sterilizzano i suoli,
la produzione di massa impoverisce alimenti e tasche di produttori
e consumatori a vantaggio degli intermediari. Questa corsa spiana la
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strada alla politica del Land grabbing, l’accaparramento indiscriminato di grandi estensioni agrarie da parte di compagnie transnazionali,
governi stranieri e singoli soggetti privati in paesi definiti in via di
sviluppo.
Sfruttamento, schiavismo. Unico scopo il lucro. Ecco cos’è. Una triste
vecchia storia.
Come nei supermercati, così tra le ben più alte sfere: tutto ciò che si
somiglia va al potere.
L’esperienza di Federica, però, ci insegna che tutti noi possiamo fare
qualcosa per noi stessi, che ci sono altre possibilità oltre alla tirannia
del consueto. Diversità come virtù.
Salvare anche solo un fazzoletto di terra da morte o abbandono si
rivela un grande investimento.
L’agricoltore, allora, non è più mezzadro “da soma” né sinonimo di
coltura intensiva, è un custode del futuro, lungimirante ed altruista
poiché sceglie di non mangiare tutto il suo raccolto, ma di tentare la
sorte seminando. Egli compie un gesto di fiducia nel futuro. Un’azione
concreta che contiene in sé il senso più profondo del disfacimento
come culla di un giovane germoglio.
Questa storia vuole essere un invito a pensare in maniera difforme
dall’ordinario.
Questa storia vuole essere un seme.
Livia Villani
«Fondamentalmente, tutto il mondo è incantato. Più in profondità
si osserva la natura viva, più ci si rende conto quanto bella sia. E
credo anche che si sente che là si sta bene. Si fa parte di essa e ci si
sente felici, la si può vedere e conoscere. Precisamente, la coscienza
è il dono più grande fatto all'umanità. Avere coscienza. Che l'uomo
diventi consapevole di essere stato creato. Che noi siamo consapevoli della creazione. Che non stiamo solo camminando ciecamente
nel paradiso.»
Albert Hoffmann
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La mia piccola ma vissuta, storia di donna
Il giorno della festa della Befana, presso la Caserma Gonzaga, l’Assessora Rita Zampolini, mi chiese se avevo voglia di far parte delle
donne del “Quaderno dell’8 Marzo”.
Inizialmente ho avuto paura, non credevo di poter far parte di quelle
donne, studiose, famose, impegnate, con tante storie vere da raccontare, di donne che avevano vissuto il bello e il brutto della vita.
Poi una mattina, guardando mia figlia, mi sono ricreduta; così ho iniziato a voler raccontare “la mia piccola ma vissuta, storia di donna.”
Io, Barbara, ho tante cose da raccontare, ma voglio soffermarmi solo
sulle più importanti, quelle che hanno profondamente segnato la
mia vita.
Sono nata a Foligno nel 1974 da due genitori, splendidi, che hanno
desiderato tanto due figli Gabriele e me.
Io, la più piccola, sono stata sempre coccolata e presa da mille
sogni: sognavo di diventare una ballerina come Carla Fracci, una
cantante di musica leggera e una maestra di scuola materna.
Una sera, al rientro dal lavoro, mi sono resa conto che queste cose
non sarebbero mai più potute accadere.
A trenta anni ero molto attiva, piena di gioia di vivere che mi pervadeva l’anima e fuoriusciva da tutti i pori sfociando nel mio “paretico sorriso”: lavoravo in un supermercato, la sera mi dilettavo a
fare animazione durante le serate di karaoke, cantavo come solista
per la Corale del Teatro San Carlo di Foligno e facevo spettacoli
con la Compagnia “Un Centesimo per un Sorriso”, ero impegnata
attivamente nella protezione civile, tanto che nel 1999 sono andata
in Albania per la Missione Arcobaleno e “scalavo montagne”; ma un
brutto giorno ho avuto una doccia fredda: mia madre, stringendomi
forte tra le sue braccia, mi disse: “Barbara, hai la Sclerosi Multipla”.
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Sono stata avvolta da un’ondata di gelo, da tanta confusione in testa
ed ho pianto come non mai.
Non sapevo più cosa dovevo fare, perché e come vivere.
Da quel giorno la mia vita è diventata un mondo di rinunce, dove
io non riuscivo più ad accettare e a capire il perché di tutto questo
radicale cambiamento.
Quella sera iniziò un lungo percorso; medici, ospedali, punture,
flebo, di tutto e di più.
Ogni giorno era una sfida continua tra me e la Sclerosi Multipla che
mi ha attanagliato fino a ridurre tutta la mia vita a una semplice
sofferenza: non servivo più a niente!
Il mio corpo cambiava, le mie forze diminuivano, non riuscivo più
a lavorare e tutti se ne accorgevano, nonostante la voglia infinita di
essere ancora utile e cercare di portare avanti tutte le mie attività.
Ero molto stanca, vivevo tra il letto, la poltrona e la mia autocommiserazione che cresceva di giorno in giorno.
A un certo punto mi sono resa conto, accorta, che non ero sola a
dover affrontare questa enorme sfida: “dovevo riprendermi la mia
vita”, diventare il cambiamento che mi avrebbe permesso di rivivere. Mi sono resa conto che esisteva ancora la mia famiglia, i miei
amici, i dottori e altre persone che, con la mia stessa malattia facevano il tifo per me, contavano su di me e su quello che potevo
ancora dare.
Ho iniziato a reinventare la mia vita in base alle mie possibilità fisiche e il 21 novembre del 2006 è nata una nuova Barbara insieme ad
un fagottino di soli due chili e seicento grammi, Lucrezia, mia figlia,
colei che mi ha dato e mi dà la forza di andare avanti, di affrontare
ogni difficoltà che incontro, colei che mi tiene attiva in tutti i fronti,
quella pestifera che mi tiene impegnata tutti i giorni e che quando
sto male mi cura con le sue coccole e le sue carezze.
La decisione di avere un figlio è stata molto sofferta, le paure mi
hanno pervaso ed erosa internamente, ma alla fine ho capito …. La
mia vita è rinata con Lei.
Da lì mi sono impegnata per riconquistare metro dopo metro, passo dopo passo, minuto dopo minuto, ogni attimo della mia vita e
ho deciso di ricominciare a impegnarmi in modo da spronare altre
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donne come me. Far capire alle mie compagne di viaggio che si
può andare avanti anche con una patologia come la nostra.
Da oggi vedo il mondo con altri occhi. Ora sono una volontaria
A.I.S.M. grazie a una grande donna che mi ha portata con lei in
associazione, sono un’amica per i diagnosticati che hanno voglia
di parlare un po’, una voce che canta e che interpreta a modo suo
le canzoni di altre magnifiche donne per raccogliere i fondi per le
varie difficili realtà che ci circondano, ma la cosa più importante è
che faccio la MAMMA a tempo pieno con tanta gioia e tante soddisfazioni.
Sono una donna come tutte le altre, una donna con la sua “vissuta”
storia di “donna”, che continua con nuove energie e nuovi obiettivi
da raggiungere ogni giorno.
Dedicato a due grandi donne Mamma e Lucrezia.
Barbara Bibi
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20 minuti
La mia è la storia di una giovane immigrata, che si trova a vivere tra
due realtà completamente diverse: una è quella delle mie origini e
l’altra è quella in cui sono cresciuta.Tutto ha avuto inizio nel paese in
cui sono nata e vissuta per quasi sei anni; poco dopo la mia nascita,
la mamma e i miei fratelli più grandi sono partiti per venire qui in
Italia, io, invece, sono rimasta con la nonna, la persona che adoro di
più al mondo.
La mia infanzia con lei è stata qualcosa di unico: per lei ero sempre al
primo posto, non mi mancava niente.
A cinque anni, però, sono stata divisa da lei, per riunirmi ai miei genitori e fratelli; con la mamma non c’è stato mai un buon rapporto,
perché l’ho ritenuta la causa della mia separazione dalla nonna, visto
che è stata lei a venirmi a prendere, per affrontare il viaggio verso
l’Italia dove la mia vita è cambiata radicalmente.
Arrivata in aeroporto non avrei mai pensato che di lì a poche ore avrei
incontrato la “bestia “che mi avrebbe rovinato l’infanzia fino ad allora
bellissima.
La bestia era il migliore amico della famiglia, non avrei mai immaginato cosa mi aspettava in futuro, dopo averlo conosciuto.
Era un uomo anziano molto ma molto grosso, che mi costringeva a
fare cose bruttissime, ma io, all’età di cinque anni, non capivo niente,
non mi rendevo nemmeno conto di quello che mi stesse succedendo.
Sono stata sempre zitta. Ho affrontato sempre tutto da sola, non c’era
nessuno ad aiutarmi.
Dopo circa un anno pensavo che sarebbe tutto finito, finalmente ci
eravamo trasferiti, ci eravamo allontanati da quel piccolo paese che
tanto avevo odiato, vedevo la nuova casa la mia libertà, ero sollevata.
Purtroppo niente era finito. La mia mamma era rimasta in contatto con
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la moglie di quell’uomo, che avevo il terrore d’incrociare per strada.
La mia mamma mi aveva già strappato dalla persona che tanto amavo
e mi stava rovinando la vita per la seconda volta, perché ogni tanto
andava ad aiutare quella donna a fare le pulizie e mi costringeva ad
andare con lei: ogni volta mi mettevo a piangere per non andare, ma
lei non se ne accorgeva mai o forse faceva finta di non accorgersi
della mia sofferenza, voleva che le facessi compagnia lungo la strada,
perché ogni volta erano venti minuti di camminata, che per me non
finivano mai.
Per la mamma, erano i venti minuti che la portavano verso un guadagno a fine giornata, per me ogni volta erano venti minuti di cammino
che mi portavano verso l’inferno in terra.
Con il passare del tempo finalmente mia madre smise di andare in
quella maledetta casa.
In tutto quell’arco di tempo c’era una cosa, io la considero una persona unica fatta di tante persone, una cosa che mi ha aiutata ad andare
avanti, a sorridere sempre, a non abbassare mai la testa.
Quell’unica persona era la SCUOLA che tanto amavo e che tanto continuo ad amare.
In lei mi rifugiavo, in lei c’erano persone speciali che con la loro presenza vicina mi facevano sentire protetta.
Sono sempre stata una delle più brave in classe.
Cinque anni fa mi sono diplomata.
Il mio sogno era entrare a far parte dei “Medici Senza Frontiere” ma,
purtroppo, ho trovato molti ostacoli.
La mia famiglia non era d’accordo sul fatto che io andassi all’università. me lo hanno impedito, semplicemente perché sono donna, perché
non accettano il fatto che una donna superi l’uomo anche solo a livello scolastico; dall’altra parte c’era il bisogno economico, ora lavoro ho
i soldi ma ho capito che non bastano nella vita.
Se si ha un sogno bisogna sempre rincorrerlo, perché sarà proprio
quel sogno che ci darà la forza e la speranza di andare avanti, di lottare nonostante tutti gli ostacoli della vita e tutte le sofferenze.
Hayat
in collaborazione con la Casa dei Popoli
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“Agente speciale, Daniela Antonini”
Daniela Antonini nasce a Foligno il 12 marzo 1969. Diplomata in
Ragioneria, portiera di una squadra di pallamano folignate, qualche
lavoro saltuario, tanti sogni nel cassetto. Sapeva di certo che mai
e poi mai avrebbe fatto la ragioniera seduta dietro una scrivania
e chiusa in qualche ufficio chissà dove, ma non avrebbe neanche
mai immaginato che la sua vita sarebbe andata così come sto per
raccontare.
La sua storia professionale ha inizio nel 1991 quando Daniela, che
da grande avrebbe voluto fare il postino, decide di partecipare
quasi per gioco ad un concorso per entrare in Polizia. Ironia della
sorte vuole che un paio d’anni dopo, all’età di 24 anni, si trova a
fare la valigia: destinazione Senigallia dove per sei mesi frequenta il corso di addestramento. Dopo questo periodo, forse ancora
inconsapevole del mondo lavorativo che avrebbe affrontato e con
l’entusiasmo di una giovane 25enne, inizia l’avventura nel mondo
dei “cattivi”.
Il commissariato Oltrarno di Firenze è la sua prima destinazione.
Qui conosce Luigi che nel 1997 diventa suo marito e dal quale si
deve ben presto separare in quanto viene trasferito nella sede di
Perugia.
Nei rari momenti in cui riuscivamo ad incontrarci mi raccontava
di come fare il poliziotto fosse un lavoro intrigante, eccitante talvolta divertente ma nello stesso tempo estremamente difficile e
pericoloso soprattutto per una donna. Inseguimenti, arresti, posti
di controllo, risse … Me la immaginavo come la protagonista di un
film poliziesco, come quelli che si vedono in televisione e forse
è proprio in quel modo che si sentiva: la realtà stava diventando
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un sogno. Un sogno che si interrompe temporaneamente nel 1999
quando viene a sapere di aspettare Martina.
Dopo la nascita della bambina viene finalmente trasferita a Perugia;
il tempo passa veloce tra servizi di ordine pubblico e tante altre
attività.
Daniela è un vulcano e non ancora contenta decide di fare il concorso per diventare Sovrintendente. L’esito è positivo. Dapprima
grande entusiasmo ma poi, quando viene informata che la sua nuova “casa” sarà a Milano, il grande dubbio… Lasciare tutto, gli amici,
la sua famiglia e soprattutto la sua bimba di 8 anni … andare o non
andare … una scelta difficile. Ma poi armata di tanto coraggio e
consapevole degli immensi sacrifici che avrebbe dovuto affrontare,
decide di rimettersi in gioco e all’età di 38 anni si trova nuovamente
a fare le valigie. Una scelta dolorosa unita anche a qualche senso di
colpa, ma che nonostante tutto, la ripagherà di tantissime soddisfazioni e di un bagaglio professionale e personale inestimabile. Dal
2007 e per tre anni, il suo nuovo lavoro sarà in una delle stazioni
ferroviarie più grandi e trafficate d’Europa: Milano Centrale. Qui
ha la possibilità di scoprire un mondo che non conosceva e di fare
nuove esperienze anche all’estero. Nell’ambito di un programma di
cooperazione tra le Polizie Ferroviarie Europee per il contrasto alla
criminalità in ambito ferroviario, viene infatti chiamata a prestare
servizio nella stazione ferroviaria di Parigi.
Dopo tanto peregrinare nel 2010 arriva l’atteso trasferimento alla
Polizia Ferroviaria di Foligno.
“Finalmente a casa!” dice Daniela mentre sorseggiamo un caffè al
bar. “Ho avuto la fortuna di fare delle esperienze indimenticabili
ma sono felice di essere di nuovo a Foligno. Mi sono trovata subito
bene grazie all’accoglienza dei miei nuovi colleghi e soprattutto
grazie ad un Comandante straordinario. Tutto questo lo devo alla
mia stupenda famiglia che mi ha permesso di raggiungere questo
traguardo e di essere ciò che sono oggi”.
Quando mi è stato chiesto di raccontare la storia della vita di Daniela l’ho fatto con vero piacere. Spero di essere riuscita nell’intento di dare il mio piccolo contributo per testimoniare come una
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donna, anche mamma e moglie, sia in grado, nonostante le infinite difficoltà, di svolgere un lavoro impegnativo come quello del
poliziotto, un tempo, e forse ancora oggi, considerato un lavoro
destinato a soli uomini.
Cinzia Giannangeli, un’amica
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Un salto e un rimbalzo nella natura
La Dott.ssa Sara Trabalza è una naturopata della scuola australiana,
un sistema di medicina naturale che si focalizza sul trattamento delle
cause della malattia mediante l’analisi e il trattamento della persona
nella sua interezza.
Si pone un’attenzione particolare nell’aiutare il corpo a ritornare
ad uno stato di salute ottimale mediante i suoi stessi meccanismi di
guarigione.
Nel campo della naturopatia australiana viene applicato un approccio scientifico moderno insieme ai principi naturopatici, includendo
il potere guaritore della natura, per riconoscere la capacita’ del corpo di superare la malattia.
Ho incontrato Sara ad un corso di meditazione in Italia anni fa,
quando lei viveva a Sydney e tornava oltreoceano per corsi di aggiornamento e apprendere nuove tecniche per aiutare se stessa e gli altri
a vivere una vita piu’ consapevole e felice. Da allora siamo sempre
state in contatto e ho potuto assistere alla sua evoluzione e formazione da terapista nel campo olistico.
Avendo studiato e lavorato in Australia per molti anni e tornata alla
realta’ italiana da quasi un anno, ho trovato interessante poter illustrare la sua esperienza di donna coraggiosa che anni fa lascio’ tutto
per fare un salto nell’ignoto ed affidarsi alla vita e alle sue meraviglie.
Sara potresti meglio spiegare come la naturopatia australiana viene
impiegata e a quali scopi?
La naturopatia, stimolando le forze di autoguarigione dell’organismo,
con l’aiuto dell’energia terapeutica curante della natura arriva alle
cause di qualsiasi malessere e malattia per poterle guarire senza limi51
tarsi alla sola soppressione dei sintomi. Lo scopo dell’attività della
naturopatia è, principalmente, quello di andare in profondita’ fino
alla radice dello stato di sofferenza: fisica, mentale, spirituale ed
emozionale. L’approccio ad ogni tipo di sintomo viene effettuato
tramite una visita di un’ora: in questo modo si considera l’individuo
nella sua totalita’ e non come un Essere separato dotato di solo
corpo fisico. Vengono impiegati rimedi naturali come erbe, fiori, oligoelementi e omeopatia per ristabilire la forza vitale della persona.
Quali strumenti del sistema terapeutico australiano vengono impiegati?
•Colloquio e valutazioni naturopatiche: mediante l’iridologia,
per testare i cosiddetti “punti di forza e debolezza” costituzionali
dell’individuo, in quanto è un sistema meraviglioso ed un utile strumento d’analisi. Ogni parte del corpo ha una zona corrispondente
nell’iride, quindi si puo’ risalire ad uno stato di salute o malattia di
un organo o apparato; mediante l’analisi delle unghie, della lingua,
l’analisi fisiognomica e l’analisi degli stili di vita.
•Trattamenti e programmi personalizzati di benessere, facendo anche da sostegno alle terapie del medico, per il mantenimento ed il
recupero della salute con: nutrizione ed integratori alimentari, floriterapia (fiori australiani), fitoterapia, tecniche psicofisiche e trattamenti di medicina energetica (rilassamento, respirazione, meditazione guidata, purificazione, ecc.), programma di esercizio fisico.
Ci potresti raccontare la tua esperienza di studi in Italia e Australia
e cosa ti ha spinto ad andare cosi’ lontano?
“Sara Trabalza salta e rimbalza” era il ritornello che mi cantavano
continuamente i miei compagnetti dell’asilo per gioco, ma che da
bambina sensibile e timida qual’ero, mi faceva soffrire tanto perche’
mi sentivo presa in giro e non amata. Nel ricordare ora quelle buffe
parole penso davvero che rappresentassero invece una vera e propria predizione sul mio futuro, una magica profezia....
Mi sono laureata in Farmacia presso l’Universita’ di Perugia a 24
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anni e specializzata nella stessa universita’ in Chimica e Tecnologie
Alimentari, iniziando (nel frattempo che mi specializzavo) a lavorare
nel campo farmaceutico in cui sono rimasta per cinque anni.
La mia grande passione per i viaggi, l’esperienza in ambito farmaceutico e un’apertura verso nuove tecniche terapeutiche naturali mi
hanno spinto verso un’entusiasmante avventura che mi ha portato
dall’altra parte del mondo.
Il salto nel vuoto è avvenuto proprio nel 2009, quando in Europa
iniziava la crisi economica ed affrontando le paure collettive con
coraggio e determinazione, spinta da dentro a crescere ed esplorare
nuovi mondi interiori ed esteriori, ho dato le dimissioni da un lavoro
“sicuro” che avevo tanto amato e che mi aveva aiutata a crescere
fino ad allora, per saltare nell’ignoto ed intraprendere una carriera
da naturopata a Sydney. Improvvisamente si stavano aprendo nuove
porte di mondi sconosciuti, sia dentro che fuori, per approfondire
la conoscenza di me stessa e degli altri e perciò poter essere d’aiuto
in maniera piu’ profonda e terapeutica. Trovai un college a tempo
pieno di naturopatia a Sydney e l’Australia era sempre stato un paese
che aveva attirato la mia attenzione, soprattutto da bambina nei racconti di mio nonno, il quale durante la seconda guerra mondiale era
stato prigioniero proprio lì, quindi era come se stessi continuando
il suo desiderio di vivere lì, tanto era il suo amore per questa terra
nuova e rigogliosa che descriveva con stupore e ammirazione. E
poi chissà’ se il ritornello abbia davvero dato quella spinta finale affinchè io mi buttassi con un salto oltreoceano e seguissi l’esempio di
animali meravigliosi e saggi come i canguri!
Per quanti anni hai studiato la medicina naturopatica australiana
e come ti sei sentita ad imparare nuove materie in un’altra lingua?
Il college di medicina naturopatica australiana era di 3 anni a tempo
pieno, quindi fu un’immersione totale in quello che era un sogno
per la mia anima così desiderosa di esplorare, conoscere e fare esperienze nutrienti in un altro paese: fitoterapia, fiori australiani, nutrizione, omeopatia, medicina energetica e vibrazionale, medicina
tradizionale cinese, meditazione, yoga, massaggi e tutto ciò che pot53
esse guarire l’individuo in maniera naturale e a tutti i livelli: fisico,
mentale, emozionale e spirituale. Finalmente mi sentivo “a casa”,
quella sensazione che si ha quando ci ritroviamo, ritorniamo a noi
stessi e a ciò’ che ci piace creare col cuore: allora la Vita si dispiega
dinnanzi ai nostri occhi con un senso, come dire ”ho trovato la mia
strada”. Sentivo dal profondo che stavo facendo la cosa giusta per
me e per tutti coloro che mi conoscevano e anche per chi non mi
conosceva, perchè quando decidiamo di amarci fino in fondo e di
coltivare quella vibrazione d’amore e gioia dentro, indipendentemente da ciò che accade o non accade nel mondo, tutti coloro che
ti incontrano ne possono beneficiare, perchè quella gioia e amore
possono essere condivisi con chiunque. Siamo in questo mondo
per imparare ad amare ed amarci gli uni con gli altri. E proprio in
questo modo sono riuscita a costruire relazioni stabili e profonde
con persone splendide che ho avuto il privilegio di incontrare lungo
la via, che non conoscevo prima e che mi hanno aiutata a comprendere un paese così lontano, con una lingua e delle abitudini totalmente diverse dalle nostre e far in modo che potessi sentirmi a casa
mia. All’inizio è stato tutto molto intenso, lasciare la mia “vecchia
vita” per entrare nella “nuova”, con la paura che arrivava con tante
voci. Sono sempre stata molto determinata nelle mie scelte, quindi
quando mi metto in testa una cosa, quando la voce interiore mi
parla e mi guida verso una direzione, come si può non ascoltarla ed
invecchiare poi con rimpianti e risentimenti per non aver osato? E
proprio quando si lasciano andare le paure si può finalmente amare
e vivere da esseri liberi....
Ci puoi raccontare cosa e’ accaduto dopo che hai concluso il college
di medicina naturopatica australiana?
Nel 2012 ero gia’ una naturopata e lavoravo da piu’ di un anno in
una clinica a Sydney in cui ho potuto aiutare tantissime persone e
praticare intensamente nel paradiso delle terapie naturali tutto ciò
per cui ero stata formata: fitoterapia, omeopatia, nutrizione, fiori
australiani, medicina energetica, lavorando con adulti e bambini. In
Australia c’è un approccio diverso a malattie e disturbi, si ricorre
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sempre a terapie naturali perchè la natura ci offre tutto cio’ di cui
abbiamo bisogno per stare bene e guarire.
Poi nel marzo 2013 la mia voce interiore mi ha fatto saltare di nuovo:
stavo rientrando in Europa per un corso di aggiornamento sulla medicina energetica e tecniche di meditazione quando decisi di restare
più a lungo, lasciare Sydney e ritornare a vivere in Italia per un po’
e Foligno sarebbe stata la mia dolce meta...
Da allora è trascorso quasi un anno in cui mi sono impegnata a diffondere la medicina naturopatica australiana nella mia amata città
natale, Foligno ed in Italia, per poter aiutare persone locali e tante
altre ancora provenienti da diverse parti di Italia. Attualmente lavoro
in tre studi: Foligno, Spoleto e Macerata dove mi concentro su tante
diverse sintomatologie: allergie e malattie respiratorie, problemi digestivi come gastrite o colite o disturbi dell’alimentazione, stress,
ansia, attacchi di panico, depressione, disturbi circolatori, sistema
immunitario, dolori articolari, muscolari e infiammazioni, insonnia,
apparato riproduttivo femminile e menopausa, problemi ormonali,
problemi emozionali, controllo e riduzione del peso corporeo, stanchezza cronica, etc..
Che messaggio puoi offrire a chi ancora non ha mai sentito parlare
di medicina naturopatica australiana e di un approccio diverso a
malattie e disturbi fisici ma e’ abituato agli standard della medicina
tradizionale?
La naturopatia è rivolta a tutti, a chiunque ricerchi nella natura dei
rimedi per guarire in profondità senza un approccio invasivo quale
può essere quello chimico. Si può guarire da qualsiasi malattia, si può
ritrovare quello stato di pace interiore che siamo tutti in Essenza al di
là di qualsiasi circostanza esterna.
Una volta riconosciuta la causa del sintomo che stiamo sperimentando a livello fisico, mentale, emozionale e spirituale, poi si può passare all’azione grazie a rimedi naturali che sono in grado di riportare
l’equilibrio dell’individuo a tutti i livelli.
Questa è la meraviglia di essere Vita in corpo e di poter trattare il
nostro tempio con amore e rispetto. Prenderci cura di noi stessi è
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la chiave per sperimentare l’amore che tutti noi siamo e offriamo al
mondo, a chi ci sta intorno: il vero amore e’ come il sole, splende di
luce propria e la offre a tutti.
Ilaria Bellani
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Maura e Patrizia Bocci …
Le mie insegnanti di danza
Questa che mi è stata data è un’occasione davvero speciale, grazie
alla quale potrò parlare di due donne con cui sono stata fianco a
fianco per molti anni e che hanno dato un’impronta speciale alla
mia vita.
Per me non sono state e non sono soltanto le mie insegnanti di
danza, ma dei veri e propri riferimenti, a maggior ragione in questo
momento della mia carriera in cui il mio percorso ricalca il loro.
Studiare danza è una scelta molto coraggiosa. Molti si limitano a dire
che ci voglia passione, ma posso assicurare che ci vuole molto di
più. La passione ti aiuta, certo, ma devi avere una grande forza interiore, la capacità di mescolare la giusta dose di grinta, di esigenza
e di indulgenza con se stessi, la lucidità di riconoscere i propri limiti
e i propri talenti, scoprendosi unici e forti di entrambi. Ci vuole una
famiglia che capisca quanto ami ciò che fai e che ami che tu lo faccia, sognando insieme a te ogni giorno mentre studi ed ogni volta
che calchi la scena. Ogni giorno è rigore, ogni giorno è una prova
nuova, ogni giorno ti porta qualcosa e te ne chiede altre… Maura
e Patrizia tutto questo lo sanno bene ed io l’ho imparato con loro,
lezione dopo lezione.
Quando per la prima volta mi sono messa alla sbarra ero praticamente digiuna di danza, eppure già abbastanza grande. Non ero
abituata ad un’insegnante che illustrasse l’esercizio e rimasi ammaliata nel guardarle spiegare ogni passo con la voce, ma soprattutto
con il corpo. Tecnica, stile… tutto sembrava facile, ed era frutto
di una grande competenza. Oggi più che mai capisco quanto quel
che fanno ogni giorno in classe, sia il risultato di un percorso lungo
e faticoso, che comincia dal passo più “tosto”: decidere di vivere
portando la danza in ogni giorno della tua vita, come succede per
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tutte le grandi passioni. Già, perché significa studiare di più, girare
l’Italia in lungo e in largo per cercare stages in ogni stagione, fino
ad arrivare a condizionare tutta la famiglia nella scelta dei luoghi di
villeggiatura pur di trovare il modo di studiare! Mi piace tantissimo
sentirle raccontare, ad esempio, di quando, invece di seguire i genitori nelle località di vacanza scelte da loro, li “trascinavano” fino
a Cannes per studiare al Rossella Hightower Dance School, con la
roulotte!!! E la ricerca dei migliori maestri, i viaggi per stages, le notti
a studiare per gli esami di filosofia, perché di giorno sei in sala di
danza, i dolori muscolari, le giornate storte, sono solo un preludio,
la fase di preparazione alla tanto attesa audizione… Ed ecco che,
seguendo percorsi differenti, arrivano a studiare a Roma, prendendo
un treno ogni mattina, cercando di conciliare funambolicamente la
vita professionale con quella affettiva, gli studi universitari con gli
esami di danza, con le giornate che volano dalle 5 del mattino fino
a tardi la sera.
Ho chiesto loro tante volte come avessero fatto a non cedere mai
ed è stato bello sentir dire che in realtà i momenti di sconforto e di
stanchezza ci sono stati, cosi come il pensiero di lasciare, ma che
ogni volta era stata un’altra donna a dar loro la forza di non cedere:
la mamma, anche lei pronta a qualsiasi sacrificio perché fermamente
convinta che sono le passioni a rendere bella la vita e anche perché….tanto orgogliosa delle proprie figlie.
Aldilà però delle difficoltà “tecniche ”che sono state capaci di affrontare, a rendere speciali queste due donne è che sono riuscite, pur
se con percorsi simili, ma diversi, a realizzarsi come ballerine, come
insegnanti, come mogli, come mamme: uniche, distinte, ma sempre
unite. Come nel loro modo di lavorare ogni giorno a scuola, in armonia e con un’intesa profonda. Caratteri e sguardi differenti, ma stesso
sorriso. Sono una squadra, sono capaci di stimolare e di guidare gli
allievi verso orizzonti sempre più lontani e sono felici di realizzarsi
nei traguardi dei danzatori che formano. Credono in ciò che fanno,
perché amano profondamente ciò che fanno. Proprio attraverso lo
studio della danza, a molti ragazzi e ragazze della loro scuola si sono
aperte grandi e spesso inaspettate opportunità; è quello che è capitato a me che, con una laurea in ingegneria meccanica in tasca, ho
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deciso di seguire il cuore e mi ritrovo qui, all’Accademia Nazionale
di Danza di Roma, a vivere un sogno.
Ed è quello che è successo a Fabrizia D’Intino, ad Angelica Mela, a
Giacomo Olivieri ma soprattutto ad Alessandro Sebastiani che, grazie
ad un eccezionale talento, muovendo i primi passi dalla loro scuola
è approdato all’Accademia Nazionale di Danza dove si è diplomato
e partirà tra qualche giorno alla volta del balletto nazionale Cileno.
Non parlano di rispetto, lo mettono in pratica ogni giorno, a partire
da loro stesse. Sono generose e desiderose di “scendere in campo”
per la realizzazione di progetti e spettacoli a scopi benefici. Credono
nell’infanzia e credono nelle donne, nella loro forza e bellezza; credono nella potenza del genere femminile perché intelligente.
Queste due donne sono esempi di come sia bello esserlo, perché è
della donna la capacità di rendere una vita piena di ciò che hai sognato e desiderato e per ottenere la quale hai lavorato ogni giorno.
Teresa Rospetti
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1721, Tecla Maddalena Vitelleschi:
una Rosa senza spine?
La donna è il motore del mondo, grazie a lei la specie umana da
tempi immemorabili tuttora resiste; e, nonostante le oggettive difficoltà (carestie, pandemie, guerre) e finanche soggettive (violenze,
stupri), la donna ha garantito la sopravvivenza dei figli suoi e altrui.
Miliardi di donne si sono succedute sul suolo del pianeta Terra, di
costoro non rimane traccia, se non labilissime e sporadiche, fortuite. E poi si disserta su di loro, sempre in un’ottica maschile, come
oggetto d’amore o di vituperi: sono sempre gli uomini a parlarne,
poiché è l’uomo che ha il potere, non è necessario che sia un re,
ogni uomo, nel corso dei millenni, è stato il re, o il tiranno, della
propria compagna. È una derisoria consolazione, in moltissimi casi,
ed ancora oggi, nel mondo e in Italia, dove è entrato in pompa magna nel nostro vocabolario un recentissimo neologismo: femminicidio, chiamare la donna: “regina della casa”, “angelo del focolare”.
La “regina-angelo” è consapevole dell’ipocrita privilegio (verbale),
ma agisce continuando nella difesa e nel mantenimento della prole,
magari togliendosi per davvero: “il pane di bocca”.
Per rimanere nei secoli antecedenti al nostro, nell’affascinante secolo del Settecento, il secolo “bambino” delle successive epoche
più “moderne”, ma non ancora adulte, finalmente le donne, in via
eccezionale, iniziano ad avere un ruolo sociale in maggior misura
riconosciuto: scienziate, scrittrici e poetesse, pittrici, intelligenti protagoniste di salotti culturali, animatrici della cultura (Clelia Grillo
Borromeo Arese, Faustina Maratti Zappi). Pure in Foligno, fin dai
primi decenni del Settecento, abbiamo delle protagoniste, un nome
per tutte Maria Batista Vitelleschi, aggregata per i suoi meriti poetici
a numerose Accademie d’Italia, morta in età precoce, a soli ventisei
anni, nubile. Il suo nubilato pone degli interrogativi: bella e deside61
rata, Benedetto Pisani nel suo poemetto Fulginia (1723) la rappresenta sua ideale guida nel mondo della dea Fulginia, dove lui e l’incantevole Nicori Deniatide (nome arcadico di Batista) incontrano gli
spiriti eletti, viventi o defunti, tra questi i più celebri nomi dei poeti
folignati, ovvero Petronio Barbati, Federico Frezzi, Sigismondo Conti; il giovane poeta veneziano lascia intendere che il suo cuore batte
per l’avvenente Nicori. Ma Batista viveva nell’incertezza se consacrare la sua vita a Dio ritirandosi in convento? Seguire quindi le orme
di sua sorella Tecla Maddalena? E Tecla ha compiuto un suo autonomo e irrevocabile passo, spinta davvero dalla cosiddetta “chiamata”, oppure rientra nell’innumerevole schiera di giovani fanciulle le
quali per ragioni economiche e sociali venivano indirizzate, o con
la persuasione più o meno occulta o con una decisiva costrizione, a
prendere i voti entrando in convento? A questa terribile “tratta”, poiché è terribile sacrificare la propria irripetibile esistenza, segnata da
desideri non necessariamente spirituali, sono state spinte una moltitudine di donne, per ragioni dotali se appartenenti al ceto abbiente,
per la fame se appartenenti al ceto povero. Su Maria Batista non
possiamo dare risposte certe, ancorché interessante sia l’opinione di
Marina Renzini (Quaderni 8 marzo, 2010), ovvero che fu lei, “donna
molto moderna e sicura”, a decidere di non sposarsi per garantirsi
libertà di pensiero; tuttavia le nostre riflessioni rimangono allo stato
di ipotesi in quanto gli anni non sono bastati a Maria Batista per
indirizzarla a scegliere un qualsiasi percorso della sua vita, persino
quello di rimanere nubile e allo stato laicale; mentre su sua sorella
possiamo accertare che decise di diventare suora clarissa nel 1721.
Ma chi fosse nella sua squisita individualità la monacanda noi non
lo possiamo dire. Ci ritorna un’immagine evanescente, un’immagine
virtuale, un’immagine di “carta”: cinque furono le festose raccolte
poetiche per il solenne passo: Tecla Maddalena Vitelleschi diventa
suor Maria Rosalia, prendendo i voti solenni per il suo ingresso nel
Monastero folignate di Santa Lucia del primo ordine di Santa Chiara.
Canzoni, odi, sonetti, epigrammi, madrigali: uno sfoggio virtuoso di
rime e di giochi di parole tra i nomi di Tecla Maddalena e Rosalia,
la quale si trasmuta nella rosa in ogni suo sfumato colore, nella
sua intensa fragranza, bisticci nel proporre armenti, campi, oro e
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azzurro e gigli, di cui l’ignaro lettore non capisce il senso se non
conoscendo lo stemma araldico della casata, intrecci tra i nomi di
Francesco e Chiara da Assisi, i capostipiti dell’ordine mendicante
ove la Vitelleschi aveva deciso di confluire. Un fiume di parole,
dove noi a distanza di quasi trecento anni cerchiamo di capire chi
fosse davvero la giovane monacanda, ma non troviamo nulla che
ci comunichi l’essenza della sua personalità, o una nota peculiare
della sua gestualità, o un’espressione tipica del suo modo di pensare. Ottavio Vitelleschi, il padre, Angela Flaminia Barnabò, la madre,
due famiglie eminenti alle spalle, tra i figli, la più famosa è Maria
Batista, giovanissima poetessa, pastorella arcade, iscritta a molteplici
Accademie, accademica rinvigorita, insensata, assordita, filargita, e
già i nomi originali che rimandano alle rispettive Accademie la dicono lunga sullo spirito della cultura dei primi decenni del Settecento: un arcadico minuetto. E l’arcadico minuetto è ben visibile negli
omaggi poetici sull’ordinazione claustrale di Tecla e che personaggi
ragguardevoli della buona società letteraria italiana hanno dedicato
ai componenti della famiglia Vitelleschi: Componimenti poetici […],
offerti alla madre Flaminia; Componimenti toscani […], donati alla
sorella Batista; Illustrissimae dominae Teclae Magdalenae de Vitelleschis […], epigrammi in latino proposti di nuovo alla madre; Per la
monacazione […], Corona poetica […], presentata al padre Ottavio;
Rime di diversi insigni autori per la monacazione di suor Maria Rosalia […], dedicate alla sorella maggiore Maria Orsola, la quale a sua
volta nel 1714, in occasione delle sue nozze con Claudio Gabuccini
di Fano, aveva ricevuto una silloge di poesie sul dolce talamo. Gli
autori dei componimenti poetici sono di provenienza geografica anche lontana, spesso pastori arcadi, come Maria Batista, anzi i legami
con lei spiegano perché per l’evento sacro cinque furono le pubblicazioni, un numero elevato. Nei fatti i poeti arcadi instauravano tra
di loro una fitta rete di rapporti, garantiti dalla loro appartenenza
all’Accademia d’Arcadia di Roma (1690), la quale assunse un carattere “nazionale” grazie alle colonie arcadiche disseminate sul territorio
italiano (a Foligno la Colonia Fulginia, fondata nel 1717). Diventare
pastori d’Arcadia significava seguire una moda galante, che esigeva
da ogni persona rispettabile perizia culturale e letteraria, abilità nel
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verseggiare e, a ogni evento mondano, la capacità di offrire ad amici
e conoscenti poesie d’occasione per nozze, lauree, lutti, consacrazioni religiose, battesimi, da assemblare in “Corone”, da offrire come
omaggi poetici: tutto questo rispondeva alle esigenze di una società
mondana e salottiera per la quale la poesia doveva accompagnare
ogni evento ed era una forma essenziale della comunicazione sociale. Per tale motivo la sovrabbondanza di moduli espressivi ripetuti
può ingenerare stanchezza e un senso di vuoto: insomma quale
quadro abbiamo di Tecla Maddalena Vitelleschi? Nessuno ben definito, se non, fisicamente, le bionde chiome sacrificate per segnare
il passaggio formale dal mondo esterno a quello claustrale, dall’universo della femminilità a quello della negazione della femminilità, e,
spiritualmente, un ardore ansioso di accelerare il passo verso la vita
conventuale, così almeno sostiene nella prefazione a Rime di diversi
insigni autori […] Giovan Battista Boccolini. Da questa raccolta, in
mezzo all’innumere schiera di verseggiatori, ho prescelto la voce di
due autrici, perché forse con la loro sensibilità muliebre possono
trasmetterci qualcosa di più profondo sul senso di una scelta così
radicale: Gaetana Passarini di Spello e Maria Batista Vitelleschi, poetesse di pregio nel mare magnum delle poesie d’occasione, le quali,
pur con i limiti segnalati, costituiscono pagine di storia, documenti
in versi, magari locali o familiari, ma non per questo meno importanti e significativi della documentazione relativa alla Storia Ufficiale,
che è composta anche da queste minuzie comunicative e ad esse la
Storia Ufficiale deve corrispondere.
Gaetana, pastorella arcade come Silvia Licoatide, nel sonetto da lei
composto, gioca con tutti gli artifici retorici a sua disposizione evocando Francesco e Chiara, il nome virginale di Rosalia con la rosa,
infine l’appartenenza della fanciulla ai Vitelleschi con i caratteristici
simboli araldici:
Rosa gentil, che più vezzosa mai/ Non vide il Sol, né far potea Natura,/ Che al bel Giglio del Campo or or farai/ Sposa diletta, e sua gelosa
cura;/ Quando coll’onda Chiara ti vedrai/ Innaffiar da Francesco,
o quanto pura!/ Fragranza da te stessa spirerai/ Entro le solitarie, e
sagre mura./ O quanto bella apparirai vestita/ Dell’alma Luce, che
nel sen t’accoglie,/ E che noi ciechi a lagrimare invita!/ Mentre con
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saggie e generose voglie/ Dal mondo ingannator già fai partita/ E a
noi per sempre il santo Amor ti toglie.
E di rimando, con delle note che ci fanno pensare alla confidenza
più profonda tra le due sorelle (crudo scempio, che tu fai di te stessa,
il piè nudo, e l’oro infranto del crine, che per gioco al Mondo dai,
chiudendo: ascolta, ridammi almeno la metà de’ gigli), Maria Batista
scrive nel primo dei suoi tre sonetti contenuti nel florilegio in versi:
Così co’ Gigli in mano o come o quanto/ Saggia, al tuo Nazzaren,
Tecla, ten vai/ Ed alla illustre Vergin Chiara accanto,/ Ond’hai lume,
e chiarezza, umil ti stai./ Io veggio l’aspra fune, e il rozo ammanto,/
E veggio il crudo scempio, che tu fai/ Di te stessa, il piè nudo, e l’oro
infranto/ Del crine, che per gioco al Mondo dai./ E ben verrà quel
tempo, che a me volta/ Dirai, che furô saggi i tuoi consigli,/ E che il
meglio prendesti, ed io fui stolta;/ Ma pria che tu me ’l dica, i miei
perigli/ Fuggo; io Campi non voglio, o Armenti: ascolta,/ Ridammi
almeno la metà de’ Gigli.
Il mondo femminile è insondabile, per la profondità di affetti che
lo compongono, affetti i cui confini neppure noi donne riusciamo
a definire, perché confluiscono in quelli del mondo maschile: ma il
lacerante quesito di fondo è: quante di queste dinamiche affettive
sono state guidate, anche attraverso la voce delle nostre inconsapevoli mamme, dalle aspettative declinate dal maschio dominante?
Elena Laureti
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Maria Rosaria Tradardi
Maria Rosaria è molto contenta dell’invito che le è stato rivolto
dall’assessora Rita Zampolini, ma non vuole un’intervista, preferisce
che sia io a raccontare di lei. Sono felicissima che mi abbia scelto,
ma è difficile stare al passo con il suo inarrestabile raccontarsi; utilizzerò ugualmente, quindi, le sue parole.
È consolante constatare, di questi tempi, che circoli ancora un po’
di quella umanità che ci fa porre attenzione al prossimo; scoprire
che esistono giovani a cui piace interloquire con le persone anziane,
primo segno di rispetto in uso una volta.
La nostra amica è nata il 2 ottobre 1932: Sempre pronta sul percorso
assegnatomi, senza tentennamento alcuno, affrontando gli ostacoli
posti dalla guerra, con la forza e la speranza di cui gli anni giovanili
sono prodighi. Carestia, fame, bombardamenti, paure, oppressione
nazi-fascista, sono i ricordi della mia fanciullezza.
Forse proprio grazie alla giovane età, Rosaria attraversa quegli anni
difficili quasi con passo di danza. Con una soavità e una grazia che
le consentono di scorgere la bellezza e la gioia, la solidarietà e l’amicizia anche nell’orrore, nella brutalità, nella sofferenza. “Coraggio,
Marì, anche questo passerà”, la incoraggiava la mamma.
Certo, l’unità e l’affetto della famiglia d’origine sono stati fondamentali nell’infonderle il coraggio e la forza necessari. Ma io mi immagino questa bimbetta, e poi ragazzina, con il suo sguardo sempre così
attento su tutto ciò che la circondava. Che il mondo voleva scoprire,
conoscere, fare suo. Per quanto fosse prevalentemente difficile viverlo in quegli anni.
Frequenta le elementari nella scuola che stava sotto i portici di Corso Cavour: “A scuola ci vado contenta, ho imparato a leggere. Faccio
anche i disegni e poi li coloro. Io ho solo sei colori. Dentro la scatoli67
na di colori “Giotto” però, ci ho trovato un bel segnalibro tutto giallo
con una figurina che rappresenta una donna pirata”.
La figurina è ciò che consola la piccola Rosaria, ciò che la aiuta a
non invidiare le compagne che hanno scatole da dodici colori ricoperti di vernice lucida e custoditi in astucci di pelle, di latta, di
stoffa. Durante l’inverno del ’42 - ’43, la scuola esaurisce la scorta di
legna per il riscaldamento; le alunne vengono invitate a portare da
casa, ogni giorno, un pezzetto di legna. Mi sono vista, mezza aggobbita, portare sulle spalle un sacco di legna per la scuola lungo tutto
il Corso. Com’era possibile, io che sono così gracile, secca come una
“pampuia”!
Ma la mattina dopo, andando a scuola con quel peso in più che si
faceva sentire, incontra la sua compagna di banco, anche lei con un
ceppo in braccio: ci siamo guardate, in silenzio, per qualche istante.
Poi siamo scoppiate a ridere!
L’estate si giocava al Parco dei Canapè: i tanti bei pini, essendo ancora piccoli, avevano i rami a portata di mano e le mamme se ne
servivano per appendervi le borse di pezza cucite a casa, in risposta
al regime autarchico di allora. Nelle giornate molto calde si andava
lungo il fiume Topino: noi ragazzine abbiamo scoperto un piccolo
ponticello dove la ripa di destra e quella di sinistra quasi s’incontrano. Il fiume, qui, viene a restringersi sfogando con forte, rumoroso
gorgoglio contro l’arcata di mattoni semirotti. Il risultato è che stando sul ponticello, arrivano spruzzi d’acqua rinfrescanti a getto continuo. Cantiamo, raccogliamo fiori, siamo contente. Ci inventiamo
tutto questo ed altro ancora per guadagnarci un po’ di serenità, per
cercare di non pensare ai bollettini di guerra, almeno per un pezzetto della giornata.
Più toccanti sono i racconti dei bombardamenti: anche oggi l’allarme aereo si fa sentire, assordante, in tre riprese continue. I suoni si
accavallano uno sull’altro, sembrano lamenti.
Inizialmente la sua famiglia, avendo la residenza in Via Scortici, dietro al Vescovado, era destinata al rifugio realizzato sotto Piazzetta
Impero, che fu presto chiuso perché ritenuto insicuro. Utilizzarono
quindi la cripta di San Feliciano. Il posto è molto buio e freddo. C’è
solo una piccola lampadina appesa al centro del soffitto con il filo di
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ferro. E’ oscurata e manda pochissima luce.
A giugno del ’44 lasciano Foligno per andare sul monte di Manciano,
dove saranno ospitati, insieme a molti altri, in un granaio messo a
disposizione da una generosa famiglia del luogo.
Siamo diventati una famiglia di oltre quaranta persone e ognuno si
dà da fare per rendersi utile durante il corso della giornata.
E come diceva la sua mamma, la guerra passa, Rosaria si fa donna,
si diploma all’Istituto Commerciale, lavora come impiegata presso la
Ditta di vernici di Luigi Mariotti per dieci anni, fino al 1963, anno in
cui, il 14 ottobre, sposa Fausto Scassellati. Con Fausto si conoscevano da sempre, mio compagno d’infanzia (aveva un anno più di
me) e vicino di casa dal 1945, quando la mia famiglia si trasferì alle
Case Operaie in Viale Ancona.
Fin da bambino, Fausto era riservato, silenzioso, così come lei è sempre stata vivace, espansiva. Mi ricordo mentre giocavo “a campana”
con le mie amiche: lui, appoggiato a un muretto poco distante, mi
guardava saltare e sorrideva quando, nel gioco, i miei zoccoletti di
legno volavano via!
Si rincontrano adulti, lui era stato qualche anno a Milano per lavoro.
Si riconoscono, si frequentano, si sposano.
Per mia ponderata, personale scelta, mi licenzio dal posto di lavoro
e mi dedico a tempo pieno alla mia famiglia: mio marito, suo padre,
due figli. Vivo contenta la mia scelta di lavoro tutto casalingo. Mi
gratifica il sentirmi utile al mio prossimo più prossimo. Così Rosaria
si immerge negli impegni di famiglia, con la stessa dedizione, con la
stessa cura che, da bambina, aveva visto nella madre. Sempre pronta
a fare, a cucire, ad accudire, a cucinare.
Finché i bambini sono piccoli non si ha neanche il tempo di stare
a pensare, le cose da fare sono talmente tante, ma c’è l’energia per
farle; e se c’è anche l’amore solido del compagno di vita, tutto si fa,
tutto si supera. Ma gli anni passano, gli anziani ai quali bisogna badare non ci sono più, i figli diventano grandi.
Mi sento diversa. Giorno dopo giorno. E avviene qualcosa, come
uno squarcio di luce in una notte di piena tempesta; la sorpresa di
un’esplosione irrefrenabile di fuochi artificiali che, diretti in tutte
le direzioni, danno luogo ai disegni più diversi. Ed esco dal tunnel.
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Provo il piacere di fare, di inventare. Sono presa, insomma, dai più
svariati interessi: fotografia, disegno, pittura, ma, soprattutto vengo
attratta dalla scrittura con cui afferro i nuovi pensieri che affollano
la mia mente. Sento, come non mai, il bisogno di stare tra la gente, per trasmettere e ricevere messaggi. Nell’ottobre del 1986 è tra i
soci fondatori dell’Università della Terza Età; dieci anni più tardi, tra
quelli di Radio Gente Umbra; e ancora, nel 2008, socia fondatrice
dell’Accademia di dialetto “Lu Tribbiu”. All’UNI3 frequenta le lezioni,
si fa carico di registrarle, prepara le dispense, propone nuovi corsi
e laboratori. Riemerge la passione per la musica ed il canto che ha
sempre avuto, sin da bambina. E così fa parte della Corale dell’Università, della Scuola Comunale di Musica e della Corale del Torrino.
E Fausto, che ne pensa di questa nuova moglie? Mi dà il suo garbato aiuto, mi guida, compiaciuto, a respirare aria rigeneratrice,
visibilmente lieto di ritrovarsi una compagna diversa, ricca di vitalità. La casa si riempie di libri, quotidiani, vocabolari, enciclopedie,
di come fare questo, di come fare quello. Fausto e Rosaria, insieme,
studiano il dialetto, ne approfondiscono le origini. Scrivono poesie,
prima solo in dialetto, poi anche in lingua. Insieme conducono una
trasmissione a Radio Gente Umbra: Cronache del XX secolo, notizie
storiche locali. Durante l’anno scolastico 2004-05, aderiscono al progetto della Professoressa Orietta Angeletti “Parlateci di voi” rivolto
agli studenti della scuola media Piermarini. Racconteranno la vita
quotidiana nelle Case Operaie di Viale Ancona.
Rosaria continua a fare, inventare: partecipa ad innumerevoli concorsi letterari e di pittura.
Ma, soprattutto, inizia a scrivere la sua Biografia. I ricordi d’infanzia
escono intatti dalla sua memoria. È cosa piacevole se i ricordi li posso
condividere con gli altri.
Di alcuni brani ne fa dono alla rivista Chiaroscuro; è così che l’ho
conosciuta. Subito mi ha incantato il suo modo “soave” di raccontare
anche le cose più brutte: dai suoi scritti emerge sempre un amore
per la vita che ha qualcosa di straordinario. Personalmente, ne colgo anche una vena malinconica, che non è solo rammarico per la
giovinezza ormai passata, per la vita che volge al termine. Credo
sia anche nostalgia di quella gran voglia di cambiare, di fare, di
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incontrarsi, divertirsi, mettersi in gioco. Per costruire un mondo migliore, senza più guerre, fame, ingiustizie, lavoro per tutti. Nel quale
tutti sappiano scorgere la bellezza, la poesia, il senso della vita nelle
cose più piccole. Ma è questo il mondo che Rosaria aveva sognato? Anch’io provo nostalgia, invidia, direi, per quella gran voglia di
cambiamenti. È difficile, ora, incoraggiare i nostri ragazzi, aiutarli a
trovare la loro strada in questo groviglio di situazioni irrisolte che
abbiamo lasciato loro in eredità.
Nel 2011 Fausto se ne è andato, ma Rosaria lo sente sempre lì con
lei, nella casa in cui hanno vissuto insieme per quarantotto anni. E’
lui che la aiuta a mettere ordine nei cataloghi, negli appunti, negli
scritti che le ha lasciato e che riempiono il suo studio. E’ lui che la
incoraggia a continuare a scrivere la Biografia. E lei prosegue così il
suo lavoro e quello di Fausto; in questo modo la solitudine diventa
più sopportabile.
Anno dopo anno ho imparato ad amare la vita con più intensità,
con la ricerca continua, instancabile, di quelle cose timidamente
nascoste, ma che danno un senso alla vita.
Io immagino Fausto, appoggiato alla porta del suo studio, che guarda Rosaria cercare tra gli appunti, i libri, le riviste e la ascolta brontolare tra sé “Oh Fa’, ma dove hai messo questo? dove sta quell’altro?”
E immagino che sorrida, così come quando, un po’ discosto, la guardava, bambina, saltare e ridere e giocare.
Carla Oliva
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Ritratti di donne
Ed eccomi di nuovo davanti ad un foglio bianco e a pensare a quale
donna porgere attenzione per dedicarle uno spazio consacrato da
una gradevole consuetudine instaurata da qualche anno. Tema d’obbligo “Donne di Foligno. Donne a Foligno”. La scelta non mi si rivelò
facile fin dall’inizio: parlare di persone non comuni, dotate di una
qualche virtù o pregi particolari, oppure rivolgere l’attenzione alla
sfera del quotidiano e ricercare in esso il soggetto intorno al quale intrecciare la rete che desse modo – all’esterno – di suggerire riflessioni
o stimolare emulazione? Una persona, insomma che fosse in grado di
suscitare un consenso? Le mie scelte non hanno trascurato né l’una
né l’altra parte, valicando anche diversi spazi temporali e sociali.
In questo momento mi trovo a rimescolare tra i miei ricordi, anche
quelli letterari, tra le mie esperienze di incontri per inserire un nuovo ritratto femminile, mentre pian piano prende forma un’idea sulla
quale indugio per constatarne la fattibilità. Ma si! In fondo (lo celavo
a me stessa) sapevo fin dall’inizio di quale donna avrei parlato, non
molto né a lungo, perché sto imparando a conoscerla proprio in
questo periodo, ma sapevo che a lei, benché non folignate, avrei dedicato uno spazio ristretto e consistente, per includerla nella galleria
dove ho situato le donne sulle quali ho scritto. Voglio, quindi, cogliere l’occasione per redigere un piccolo consuntivo, per ricordarne
alcune, come se questo mio scritto fosse un commiato conclusivo di
una collaborazione con l’evento che celebra in questo modo originale la giornata dell’8 marzo fin dal 2005.
Elviretta B. in quella data compiva novanta anni. Ho narrato della
sua vita di donna legata al mondo rurale, un mondo rurale schietto
al quale – dall’orto all’oliveto; dai campi al pollaio e ai maiali – lei
era legata. Dall’acetilene alla luce elettrica, alla radio, alla televi73
sione, al telefono, al cellulare, Elviretta, madre, nonna e bisnonna,
ha attraversato diverse fasi anche di carattere tecnologico della vita
quotidiana ed è stata una reggitrice, una “resdura”, un esempio di
figura, ormai di altri tempi, una quercia antica e solenne, simbolo di
forza e di tenacia.
Rosalba e Nonna Ferruccia, due donne che inserisco nel grande
mondo artistico del ricamo. Rosalba lo esercita (e lo insegna) con
una passione, una competenza ammirevole e il risultato del suo
lavoro è una sintesi di elementi eterogenei che lei domina con leggiadria e con la fermezza di chi vuole raggiungere la perfezione.
L’altra la chiamavo affettuosamente nonna Ferruccia pur non avendo
vincoli di parentela e la ricordo ancora nella sua cucina, seduta sulla
sua sedia, come su un trono, i piedi appoggiati sul banchettino, in
mano la tela che sta sfilando con competenza per eseguire i punti
intrecciati dello sfilato, dei quali è maestra … Nonna Ferruccia, classe 1924, come Elviretta, è stata donna che ha saputo dare strutture
semplici, ma ben solide alla sua vita, alla famiglia che ha costituito,
dando prova di sapersi organizzare sia come giovane adolescente,
come moglie e vedova, come madre e come nonna. E questo affiora
dai racconti che mi ha fatto della sua vita, nella quale emergono quei
valori semplici che innegabilmente hanno costituito il terreno solido
sul quale si basa il vivere sociale
Nel 1648 moriva a Foligno Eugenia Curioli, hospitissa sub signo Sancti Georgei et condutrix postarum civitatis Fulginei. La sua storia è
stata ricostruita da Bruno Marinelli anche nei minimi dettagli da fonti documentarie tratte dall’Archivio di Stato della nostra città. E da
questo lavoro ho acquisito il materiale per il mio elaborato nel 2010.
Giunta col marito dalle Marche nel 1615, Eugenia seppe inserirsi in
questo centro occupando un posto di rilevanza non solo come gerente dell’osteria/albergo San Giorgio, ma ricevendo dai Maestri delle
Poste la concessione del servizio di Posta dei cavalli nel 1621 insieme con il consorte mentre nel 1627 la concessione sarà fatta a suo
solo nome; dopo la sua morte, sarà il figlio Evangelista a continuare
questa occupazione di grande responsabilità, considerando le varie
strutture che il sistema di quei tempi comportava.
La Posta era anche il luogo dove giungevano i corrieri, si cambia74
vano i cavalli, si ricevevano e si distribuivano lettere, si provvedeva
all’alloggio sia dei corrieri che dei viaggiatori. Eugenia, insieme con
il marito e con i figli, affronta il lavoro con il piglio di una imprenditrice; vende e acquista terreni, amministra il danaro con saggezza,
affronta le difficoltà ed è in grado di far valere i suoi diritti anche di
fronte alle autorità, senza timori o incertezze.
Ma nella mia galleria ho lasciato spazio per altre donne, meno fortunate, le cui tristi vicende ho voluto e voglio rievocare in questa
circostanza. Sono state donne che hanno subito violenza dalla società o dal sistema sociale del tempo; sono le concubine, le serve, le
prostitute o meretrici, costrette a svolgere un’esistenza nella quale la
violenza maschile era parte del loro vivere quotidiano.
Nel 2008, facendo tesoro della documentazione presente nel volume
Criminalità a Foligno nella seconda metà del XVI secolo di Luisiana e Gabriele Metelli, documentazione tratta dalle carte conservate
nell’Archivio di Stato di Foligno, ho potuto parlare delle tristi vicende di Susanna alias Paganella, o di Violante o di Cherubina. In
particolare voglio riportare le parole stesse di alcune donne sottoaccusa, trascritte dagli autori nominati, per offrire una comunicazione
in diretta con il passato.
Anno 1557. Storia di una donna di cui gli autori non riportano il
nome. Ella spiega al giudice che la interroga … Io venni ad Foligno
piccola, et mio patre mi dette per serva al ser Pietro Paolo Varino ….
Io me partì da ser Pietro Paolo quando morse la donna sua, et me
ne andai ad star con Francesco alias Tenaglia …. Io ce stetti da dui
anni in circa, et mi ingravidò don Ludovico, figliuolo di detto Francesco, et al’hora mi mondorno via … partorì un mammolo, et visse
sei dì …
Anno 1573 Susanna, alias Paganella, di Foligno, ammette che … so
stata donna disonesta et quel che ho fatto, ho fatto per bisogno et per
poter vivere et non giacere alla strada …
Anno 1577. Aprile. Diambra di Fermo, al vicario che la interroga addebita alla madre l’inizio di una certa sua vita … dalla prima volta
in poi ch’io feci male per roffiania che me fece fare una donna al
paese, dopo sempre mia madre me ha messa lei a mal fare et ora me
trovo como vedete …
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Chi legge può trarre le amare conclusioni sulla loro “colpevolezza”.
E di un’altra colpa sono ritenute responsabili le donne. Depositario
di questo argomento è ancora l’Archivio. Amare e praticare il lusso
eccessivo è danno morale e danno per lo Stato! Questo è ciò che si
deduce dalla lettura delle disposizioni suntuarie emanate in Foligno
fin dal 1350. Esse hanno lunga vita perché sono registrate nel secolo
XV, nel seguente se ne contano ben 190, mentre, allo stato attuale
delle ricerche, se ne conta solo una nel secolo XVII. L’istituzione
pubblica, ovvero il Comune, ma anche i pontefici stabiliscono ciò
che si può portare in materia di abbigliamento e condannano fissando le “multe” per coloro che incorrono nelle inosservanze e nelle
trasgressioni che il legislatore segnala con precisione e con pignoleria. A parte il fatto che un vestito lussuoso indossato si manifestava
da sé, ma alle autorità arrivavano, anonime, denunce ben precise,
con le indicazioni ed i nominativi delle colpevoli, doppiamente colpevoli se praticavano il lusso al di sopra delle loro possibilità non
solo economiche, ma anche sociali. E così … la nora di Crisanti di
Mausse … la nora di Casciola … la nora di Giulio ciavattino … indossano … scuffia d’oro et collane, e, aggiunge l’anonimo denunciatore, sono … delle superbe che non si contentano di vivere secondo il
loro grado. In un’altra denuncia un anonimo ed indignato cittadino
scrive che … per ovviare al pomposo et dannoso vestire delle donne
… furono composti li capituli, ma non c’è volontà di osservarli né
di farli osservare e, d’altra parte, le donne, animate dalla smania del
lusso consumerebbero non solo la propria dote, ma anche quella
dei mariti! E nella smania di voler apparire ricercando le novità, l’indignato scrive:
… taccio le nuove foggie ritrovate de vestire che essendosi fastidite
delli propri abiti donneschi, han cominciato a usar habiti da huomini …
Continuo questa mia rassegna chiamando in causa donne particolari e a questo aggettivo, cortese lettore, puoi attribuire i valori che
credi più opportuni, donne che io mi sento di poter accostare tra
di loro. Ho avuto occasione di parlare di suor Giuseppina Biviglia
(1897-1991), monaca di clausura, che non ebbe esitazioni, dubbi o
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incertezze nell’operare. Lo scenario è quello della seconda guerra
mondiale; il luogo è Assisi, in particolare il monastero di san Quirico, dove suor Giuseppina è abbadessa. Con coraggio, con fermezza
e con quello spirito di carità che i Grandi possiedono, ella seppe
salvare la vita a persone, senza distinzione di razza, religione, opinione politica. L’istituzione israeliana che a Gerusalemme cura il
memoriale dell’Olocausto non ha dimenticato la nostra suora, ma
l’ha nominata “Giusta fra le Nazioni” il 10 dicembre 2013 con una
solenne cerimonia tenuta nella nostra città.
… irrigò prima di ogni altro il suolo della sua patria di sangue martirizzato, poiché ella prevenne li martiri di san Feliciano e di altri
Santi di Foligno e fu la prima martire di quella città.
Questi seguì l’anno del Signore ducentocinquanta quattro, intorno li
23 di gennaro, e il diciotto dell’età di essa santa.
La storia del martirio di Messalina è narrata da Lodovico Jacobilli
nel libro dedicato alle vite dei Santi e dei Beati di Foligno, del 1628.
Sono pagine che a me commuovono per la partecipazione dello
scrittore che ritengo sincera e per una mia capacità di immedesimarmi sempre in ciò che leggo, aggiungo sottovoce. La fanciulla muore
sotto i colpi di bastoni nodosi e pungenti, resistendo alle lusinghe
di aver salva la vita se avesse abiurato alla sua fede. Nel 1612, e
nell’anno seguente, furono tenuti a Foligno una serie di atti processuali, secondo le disposizioni della Santa Sede, con testimonianze da
parte di persone ragguardevoli per la proclamazione a santa di una
fanciulla, martire per aver prestato soccorso al vescovo Feliciano,
imprigionato dall’imperatore Decio. Come ho avuto modo di scrivere su questi Quaderni, la storia di Messalina è anche un tassello
della storia devozionale di Foligno, si tratta di una devozione che
attraversando spazi temporali notevoli, si concretizza in particolare
nel secolo XVII, con la proclamazione a santa.
La conoscevo di nome e di lei sapevo ben poco, solo quelle nozioni
comuni che si memorizzano perché collegate con altri fatti o altri
personaggi della storia. Poi una circostanza assolutamente casuale
mi ha portato, all’inizio forzatamente, ad acquisire informazioni più
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precise e, come è mia abitudine, ad approfondire gli spazi storici che
ella ha occupato nella sua breve esistenza. Lo scenario questa volta
è collocato nel secolo XIX; le città sono Cagliari, Torino, Genova,
Napoli, ed in particolare gli spazi fisici sono la corte sovrana del re
del Piemonte e del re di Napoli.
Su di lei numerose le pubblicazioni, che ne tratteggiano la vita dall’età più tenera fino alla sua tragica morte. Ho cercato di superare il
fastidioso sottofondo di una interferenza continua nel tratteggiare la
sua infanzia ed adolescenza, la sua vita di figlia devota e di moglie/
regina come di persona già santa. Sfrondati gli elementi agiografici
presenti nei tre libri che ho letto su di lei, rivisitato con attenzione
il ritratto che ne fa Benedetto Croce nel 1924; incuriosita ed anche
meravigliata per il ritratto positivo che ne fa Franco Cardini in un articolo del 2012 su Avvenire, posso dire che sto conoscendo una donna
particolare, sto conoscendo Maria Cristina di Savoia. Bambina nata
buona, naturalmente buona. Portata alla cristianità e alla preghiera
con naturalezza, con gioia e con trasporto; portata fin da piccola a
pensare agli altri più bisognosi e portata ad aiutare con elemosine in
forma discreta, anonima e non appariscente, senza paternalismi fastidiosi. Divenuta regina di Napoli per il suo matrimonio con Ferdinando II di Borbone, seppe dare una condotta nuova e moderna al suo
modo di aiutare i bisognosi, incentivando anche le attività lavorative
di carattere artigianale, perché vedeva nel lavoro la forma di riscatto
sociale ed il recupero di una dignità che la miseria fa perdere. Si occupa della seteria di San Leucio con piglio imprenditoriale. Acquista
alberi di gelso, acquista telai moderni, invia operatori che imparino all’estero l’arte più aggiornata mentre suoi operatori, all’estero,
sono attenti alle novità che trasmettono a Napoli, ed è lei stessa che
controlla la produzione per mantenerne alto il prestigio. Come d’abitudine avuta fin da adolescente, Maria Cristina registrava tutte le
sue entrate ed uscite e si può calcolare con precisione l’ammontare
veramente notevole dei suoi “contributi sociali” ante litteram.
Muore giovanissima a ventiquattro anni, nel 1836, dopo aver dato
alla luce colui che sarà l’ultimo re di Napoli, Francesco II. Spontanea nasce la venerazione per lei da parte di tutti, dai più umili alle
persone più altolocate, una forma di riconoscimento per una donna
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che aveva saputo relazionarsi, per come le strutture del tempo glielo
permettevano, con gli indigenti, senza far pesare l’atto di generosità.
Concludo. Una particolare affinità lega queste tre donne delle quali
ho scritto, affinità che sto scoprendo anche mentre scrivo queste
righe. Le unisce un senso di carità profondo e umano, le associa un
altrettanto profondo convincimento della fede cristiana.
Messalina e Maria Cristina in particolare sono unite per la venerazione che si espande all’intorno della loro esistenza e della loro
dipartita e si concretizza in una vera e propria adorazione/ammirazione. Poco importa rilevare l’eventuale forzatura da me effettuata
nell’accostare queste due donne così lontane e così diverse. Il dato
concreto che mi ha portato a questa convinzione è la risonanza positiva che entrambe possono suscitare per quel loro persistere nelle
convinzioni, un messaggio di una religiosità laica e civile che oggi,
nel disordinato succedersi degli eventi, io ritengo che abbia il suo
valore e la sua validità, anche al di là di ogni ragionevole dubbio.
Foligno gennaio 2014
Anna Maria Rodante
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Da qualche parte nel mondo
Siamo partiti alle nove di sera di un giorno di fine febbraio. Dovevamo andare a Roma, passare la notte a casa della presidente
dell’associazione e imbarcarci la mattina dopo a Fiumicino insieme
ad un’altra coppia di “aspiranti genitori”. Destinazione: Ucraina.
Solo tre o quattro giorni prima ci avevano telefonato per dirci di
preparare la partenza, ci era stato assegnato un bambino maschio di
circa un anno.
Dopo la concitazione di quei preparativi difficili, ormai sul sedile del
treno mi sentivo frastornata, incapace di pensare e con la necessità
di fare dei lunghi e profondi respiri, però ero felice che l’avventura
fosse cominciata.
Siamo arrivati a Kiev nel primo pomeriggio, erano 17 gradi sotto
zero. Ci aspettava il referente dell’associazione che aveva il compito
di organizzare tutto lassù e di farci da guida: Roman. Ci ha accompagnato in un appartamento tipicamente sovietico al quarto piano
di un palazzone tipicamente sovietico, ma che si trovava in una
meravigliosa posizione proprio di fronte al Teatro dell’Opera e da
quelle finestre vedevo la grande sala di danza. Mi ricordo di aver
preso questa inaspettata coincidenza come un segno: era giusto che
fossi lì.
La mattina dopo siamo andati al centro adozioni, tanti uffici, tanta gente e la netta sensazione di trovarsi tra “i mercanti del Tempio”. Mentre la presidente e Roman svolgevano tutte le pratiche, noi
aspettavamo fiduciosi. Nell’attesa ho cominciato a sfogliare un librone composto da schede con foto di bambini adottabili. Ho cercato di
scacciare il senso di nausea che mi dava questo “catalogo” di piccole
vite sospese per poter continuare. “Gianni, guarda quanto è bella!”
Mi aveva colpito il viso tondo di una bambina con due occhi nerissi81
mi e una dolcezza infinita. L’abbiamo guardata a lungo incantati, poi
con in mano la scheda di un bambino di un anno e mezzo per noi
e di una bimba di quattro anni per i nostri amici, abbiamo viaggiato
in treno tutta la notte per una città sul Mar Nero. Fuori dalla stazione mucchi di neve sporca, un cielo grigio di fumo di centinaia di
ciminiere e tanta gente triste e misera. Ore e ore di attesa dentro un
pulmino, poi siamo andati in un istituto. Di questo luogo orribile mi
è rimasta un’istantanea: dentro una stanza lucida e gelata si muoveva
una donna in camice bianco, stava immobile un bimbo dalla fronte
enorme, magro e con uno sguardo vuoto a nascondere un abisso di
sofferenza; più in là il direttore che parlava a Roman ma lui scuoteva
la testa. Per un disguido il “nostro” bambino era già stato adottato.
Siamo usciti increduli e con una grande angoscia che nessuno aveva
voglia di comunicare agli altri. La sera di nuovo in treno per tornare
a Kiev. Dalla stazione direttamente al centro adozioni. Ancora trafile,
spostamenti nervosi da un funzionario ad un altro e finalmente una
nuova assegnazione. La stessa sera abbiamo preso il treno, diretti sui
Carpazi, al confine occidentale dell’Ucraina. Il treno era caldissimo,
ma fuori, per 800 chilometri, neve, solitudine e povertà. Noi però
avevamo riacquistato fiducia e senso dell’umorismo.
Arrivati a Svaliava ci siamo sistemati in un piccolo hotel poi ci siamo
separati per andare noi nell’istituto dove c’erano i bambini più piccoli e gli altri in quello dai tre anni in su. Queste cittadine dei Carpazi, al confine fra tre stati, sono piene di orfanatrofi. Entrare in quei
luoghi è un’esperienza devastante perché è impossibile sostenere lo
sguardo pieno di avida speranza di quei bambini che implorano di
sentirsi dire:” Ecco sono arrivata, sono io la tua mamma.”
Quello è stato uno dei giorni peggiori della nostra vita: la presidente
continuava a ripetere che mai si era verificata una situazione di quel
tipo, Roman, agitatissimo, entrava e usciva e non smetteva di telefonare. Il nostro bambino non c’era e non si riusciva a capire dove
fosse.
Quando nel tardo pomeriggio ci siamo ritrovati tutti, i nostri amici
erano finalmente felici, avevano incontrato Natalia e già l’amavano
mentre noi eravamo come sacchi vuoti. Pensavamo di dover tornare
a casa soli.
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Ad un certo punto la presidente, che era stata anche nell’altro orfanatrofio, mi disse: “Signora, mi sento di doverle dire una cosa ma è
chiaro che lei può prendere tutte le decisioni che vuole. Nel gruppo
di Natalia c’era una bambina mora-mora che mi ha colpito perché le
somiglia. Se vuole vederla…”
La mattina dopo siamo andati. Me la ricordo seduta su un vecchio
divano, nell’ufficio della direttrice, aveva più di quattro anni ma sembrava uno scricciolo, due occhi nerissimi e un viso tondo con una
espressione severa che un sorriso luminoso allontanava in un attimo.
Sembrava nonna Linuccia in quella foto da bambina: stessa pelle
scura, stessa faccia tonda, stessa espressione un po’ torva e decisa.
Mi sono seduta vicino a lei e mentre la direttrice la incoraggiava a
dire una poesia non potevo fare a meno di sorridere, ma quello che
c’era dentro di me è del tutto impossibile da spiegare.
Ci hanno detto che avevamo tutto il tempo di decidere…ma non
c’era più niente da decidere perché era già, immediatamente, accogliere o abbandonare una figlia. Quella sera, dopo un pomeriggio in
cui tutte le tensioni di quei giorni si sono sciolte in lacrime, eravamo
felici anche noi.
Quando la direttrice ci ha consegnato la scheda con la foto di Gianna, l’abbiamo subito riconosciuta: era la stessa del librone di Kiev.
Da quel momento in poi, più abbiamo riflettuto su tutta la nostra
avventura, cominciata molto tempo prima e piena di speranze deluse, più abbiamo capito che quello che ci era sembrato un destino
avverso alla fine ci aveva condotto fin lì, da quella zingarella nata sui
Carpazi che oggi è una splendida ragazza di 17 anni severa e dolce,
scorbutica e generosa, con uno sguardo inquisitore ed un sorriso
che incanta.
Solo di una cosa sono certa, l’amore materno non nasce nella pancia (a volte lì non c’è) ma direttamente dal cuore ed è quello che
ti spinge senza farti sentire la fatica fino a quel luogo sperduto nel
mondo dove c’è una piccola vita che sta aspettando il calore di un
abbraccio.
Patrizia Bocci
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Le donne nei Quaderni
Anno 2005
Angela da Foligno, Colomba Antonietti, Violetta Carnevali, Blessing
Ehigiator, Elvira B., Luciana Fittaioli, Meryem Lakhouite
Ne hanno parlato
Rita Del Vaso Schoen, Ilaria Pelafiocche, Carla Ponti, Alessandra
Schoen, Anna Maria Rodante, Annamaria Arcamone, Maria Rita Cacchione
Anno 2006
Eva Moriconi, Olga Caputo, Radio Ara, L’AIED, Elisabetta Pompei,
Lina Antonietti, Sairi, Tersilia Rocconi, Ferruccia Ridolfi e Rosalba
Pepi, Katia Bastioli, Leandra Angelucci Cominazzini, La dea Fulginia
Ne hanno parlato
Lina Pizzi e Anna Formica, Carla Ponti, Luana Brilli, Maria Antonietta
Colia, Maria Blasucci Ciri, Francesca Gianformaggio, Blessing Ehigiator e F. Gianformaggio, Giuliana Silveri, Anna Maria Rodante, Sara
Ferretti, Ilaria Pelafiocche
Anno 2007
Liliana Innamorati, Letizia Gianformaggio, Anna Cecalotti Pizzoni,
Dina Domenica Lilli Turrioni, Emma Bovini, Annarta Donati “Lella”,
Suor Maria Benedetta Pinca, Doina Marku, Lidia Baroni, Debora Mariani, Antonietta Innocenti, Loredana Muzi, Messalina
Ne hanno parlato
Ilaria Pelafiocche, Rosalba Eutizi e Mariella Giustozzi, Selene Pizzoni,
Attilio Turrioni e Rosalba Eutizi, Emma Bovini Bettoni, Annarita Donati “Lella”, Rita Del Vaso Schoen, Blessing Ehigiator, Nadia Buttini,
Katia Sposini, Melina De Bellis, Ambra Cenci, Anna Maria Rodante
Anno 2008
Aurora Pascolini, Maria Rita Peppoloni e il Forum, Giuseppina Romanelli, Nicoletta Arcamone, Rita Del Vaso Schoen, Gabriella Visani Pagliacci, Angela Donati, Fatima, Valentina Trabalza, Giuseppina Camilli,
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Concubine, serve e meretrici, Marcella Ortolani, Anna Polidori, Flaminia De Luca e Angela Petesse, Rea Silvia
Ne hanno parlato
Olga Lucchi, Katia Tozzi, M., Teresa Lorentini, Galardini Antonella e
Maria Grazia Bartocci, Nicoletta Arcamone, Gabriella Visani Pagliacci,
Tania Raponi, Hanane Oulad, Valentina Trabalza, Silvana Santoni, Anna
Maria Rodante, Ambra Cenci, Melina De Bellis, Daniela Riganelli, Annamaria Menichelli
Anno 2009
Maria Rita Lorenzetti, Federica Ferioli, Giorgina Formica, Maddalena
Maiuro, Maria Teresa Berardelli, Dove sono gli uomini, Anna Rita Farneti, Jamina Derkaoui, Enkeleida Resnjaku, Ambra Cenci Giardini, Dedicato a Foligno, Marianna Masciolini, Glenda Giampaoli, Annachiara
Cicioni, Dea Cupra, Caterina Scarpellini
Ne hanno parlato
Cecilia Mazzoni, Maria Rita Peppoloni, Francesca Gianformaggio, Maura Donati, Mara Falcinelli, Chiara Giacomucci, Nadia Buttini, Jamina
Derkaoui, Enkeleida Resnjaku, Giovanni Picuti, Anna Maria Rodante,
Roberta Cenci, Emma Bovini Bettoni, Cinzia Gaudino, Sara Pianella
Anno 2010
Morena Lupidi, Candida Remoli, Angela Antonelli, Maria Teresa Federici, Stella, Enrica Tonti, Eugenia Curioli, Maria Mancini, Bibliomediateca,
Maria Battista Vitelleschi, Figure femminili - Palazzetto Podestà, Donne
e Sindacato, Donne e lavoro
Ne hanno parlato
Cristina Ercolani, Cristina Faraghini, Maria Pizzoni, Nayade, Antonella
Maria Ambrogi, Anna Maria Rodante, Laura Berrettini, Federica Bordoni, Lucia Bertoglio, Roberta Feligioni, Elvira Guglielmi, Cristina Peirone, Federica Finauri, Daniela Guarraci, Marina Renzini, Sara Pianella,
Donatella Cugini, Ilaria Coresi
Anno 2011
Cristina Buonacucina, Marina Sereni, Viola Antonini, Francesca Testasecca, Stefania Sconci, Nella Giamformaggio, Anya, Jackeline, Rita Ce86
rioni, Zia Maria, Patrizia Fratini, Aleandra Bartolomei, Diana bella, Le
orme che lasceremo
Ne hanno parlato
Rita Zampolini, Maura Franquillo, Irene Biscarini, Fabiola Gentili, Silvia
Bartoli, Marina Renzini, Daniela Venturini, Francesca Gianformaggio,
Cristina Ercolani, Ivana Donati, Elena Laureti, Annamaria Menichelli,
Anna Cappelletti
Anno 2012
Sara Segatori, Giulia Milone, Storie di donne delle Case Operaie, Tiziana Bartolini, Luciana Frezza, Eleonora Ansuini “Lola”, Caterina Bonamente, Elena Tommasuoli, Magnifici signori e consiglieri, Mi chiamo
Cecilia, L’Associazione F.I.D.A.P.A
Ne hanno parlato
Fabiola Gentili, Simona Bonini, Cristina Ercolani, Melina De Bellis, Franca Trubbianelli, Mina Romagnoli, Elena Laureti, Anna Maria Rodante,
Lucia Bertoglio e Suor Claudia Grieco, Anna Lisa Moriconi
Anno 2013
Emma Loreti, Giulia Montenovo, Tredici Antonia, Patrizia Ferranti, Maternità, generazioni a confronto, Eueda Gerdeci, Eralda Kuqi, Suor Giuseppina Biviglia, Annita Rondoni, Stefania Menghini, Jessica Piantoni e
Giulia Simoncelli, Alessandra Cappelletti, La Dea Supunna
Ne hanno parlato
Martina Ferretti, Tredici Patrizia, Lucia Ferranti, Eleonora Marchi, Anna
Maria Rodante e Maria Biviglia, Monica La Torre, Fabiola Gentili, Mina
Romagnoli, Elena Laureti
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Finito di stampare nel mese di marzo
presso Dimensione Grafica - Spello (Pg)