Il tramonto dell`Inghilterra

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Il tramonto dell`Inghilterra
Il tramonto dell’Inghilterra
di Ed Vulliamy, Harper’s Magazine, da Internazionale.it - L’industria a pezzi. La società allo
sbando. La violenza sempre più diffusa. Trent’anni di Thatcher e New Labour hanno devastato
il paese che per oltre un secolo è stato l’officina del mondo. La Gran Bretagna raccontata da un
grande giornalista inglese.Una domenica pomeriggio di un mese solitamente noioso come
agosto, nel 2011, i cellulari di Enfield, nella zona nord di Londra, ricevono un messaggio:
“Cominciate ora. Prendete borse, carrelli, macchine, camioncini, martelli, tutto”. I destinatari
sono invitati a non farlo sapere agli “infami”: l’obiettivo è “rubare tutto”. Poche ore prima, nel
vicino quartiere di Tottenham, si era conclusa una notte di rabbia e rivolta. La polizia aveva
ucciso, apparentemente senza motivo, Mark Duggan, padre di tre figli, scatenando la reazione
dell’intera comunità. Dopo quella domenica sono cominciati i saccheggi di alcuni tra i simboli più
riconoscibili della vita quotidiana in Gran Bretagna: negozi di grandi catene, job centres,
agenzie immobiliari e di scommesse. Alcuni negozi sono stati dati alle fiamme.
La sera
successiva, il lunedì, i saccheggi e le sommosse hanno cominciato a somigliare a una rivolta
politica e la polizia ha perso il controllo di interi quartieri della città, travolta da un’ondata di
fuoco e rabbia. Ci sono volute tre ore prima che gli agenti riuscissero a placare i tumulti a
Pembury Estate, nella zona orientale di Londra. Qui un gruppo di ragazzi aveva assaltato una
macchina della polizia, costringendo l’agente alla guida a scappare sfrecciando tra la folla. “Vi
odiamo. La colpa di tutto questo è solo vostra!”, hanno urlato in faccia ai poliziotti alcune
ragazzine che stavano aiutando un coetaneo accoltellato.
Nei giorni seguiti alle più gravi rivolte degli ultimi decenni in Gran Bretagna, i lea­der politici si
sono sforzati di dare un senso a quello che stava succedendo in un paese ormai in declino, fino
a poco tempo prima convinto di vivere in una sorta di idillio, tra il matrimonio di William e Kate e
le Olimpiadi del 2012 a Londra. Tornato in anticipo dalle sue vacanze in Toscana, il primo
ministro David Cameron ha parlato di “pura e semplice criminalità”. Anche il laburista Jack
Straw, ex ministro dell’interno, ha dichiarato che era arrivato “il momento di costruire nuove
carceri”.
Il leader liberaldemocratico Nick Clegg, oggi vicepremier, aveva invece previsto le rivolte con
più di un anno d’anticipo. L’11 aprile 2010 era intervenuto in tv su Sky News per commentare le
sommosse in Grecia. In quella circostanza aveva lanciato un avvertimento: se un governo
conservatore fosse andato al potere in Gran Bretagna e avesse “tagliato drasticamente la
spesa pubblica con una maggioranza parlamentare risicata, molte persone avrebbero reagito
male”. Alla domanda se “reagire male” volesse dire organizzare rivolte e saccheggi, Clegg
aveva risposto: “Credo che il rischio sia decisamente alto”.
Per i britannici Clegg è una figura in qualche modo ridicola, ma anche simbolicamente
importante. Dopo le elezioni del maggio 2010 si è alleato con i conservatori di Cameron,
garantendogli così la maggioranza necessaria per realizzare proprio quei progetti che il leader
del Partito liberaldemocratico aveva detto di temere. E ora Clegg si trova a osservare le
conseguenze delle rivolte che lui stesso aveva previsto. Un tempo a Eton, il college
dell’aristocrazia britannica, frequentato anche da Cameron, c’era la tradizione del fagging: ai
ragazzi più grandi erano assegnati degli alunni più piccoli come servitori, i fags, appunto. Non a
caso nella stampa satirica Clegg viene dipinto come “il fag di Eton”, a servizio del governo.
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Gossip e denaro
Nel giorno più violento delle rivolte dell’estate scorsa, la borsa di Londra è crollata ai minimi
dell’anno. Poco dopo la fine dei riots si è venuto a sapere che il 20 per cento dei britannici tra i
sedici e i ventiquattro anni è senza lavoro e che il 2011 sarebbe stato l’anno con il numero più
alto mai registrato di candidati non ammessi all’università. Cameron ha parlato del “lento
declino morale” della Gran Bretagna, riprendendo un’espressione più volte usata quando era
all’opposizione: broken Britain, un paese in pezzi.
Il primo ministro ha insistito sulla necessità di affrontare “i presupposti che hanno trascinato
parte della società britannica in questa situazione agghiacciante”, tra cui “l’irresponsabilità,
l’egoismo e l’incapacità di pensare alle conseguenze delle proprie scelte”. Cameron è stato
virtuoso e risoluto. Ma di recente anche la sua reputazione è stata macchiata da uno scandalo
che ancora lo imbarazza: il suo ex spin doctor, Andy Coulson, è stato coinvolto nel caso delle
intercettazioni del tabloid News of the World di Rupert Murdoch, di cui era stato direttore dal
2003 al 2007.
L’ex premier laburista Tony Blair ha subito sottolineato che affermazioni come quelle di
Cameron non fanno che danneggiare l’immagine della Gran Bretagna. Blair, inoltre, ha negato
di aver lasciato in eredità ai conservatori una “nazione in pezzi”. Ma neanche i laburisti possono
permettersi di fare i moralisti. L’anno scorso lo scandalo dei rimborsi ai parlamentari ha rivelato
che la deputata laburista Hazel Blears aveva chiesto rimborsi pubblici che non le spettavano,
mentre sfruttava uno stratagemma per non pagare le tasse sulla vendita di due appartamenti a
Londra.
Ma forse i reati più comprensibili per chi ha messo a ferro e fuoco la Gran Bretagna ad agosto
sono quelli di un altro laburista, Gerald Kaufman. Prima di condannare i riots, Kaufman aveva
chiesto il rimborso per una gigantesca tv del valore di 8.865 sterline (circa diecimila euro) e per
dei lavori nel suo appartamento di Londra, nel ricco quartiere di Regent’s Park, costati 28.834
sterline.
Sembra, insomma, che il “declino morale” della società britannica cominci ai piani alti. Tutti,
però, hanno fatto finta di non vedere gli accordi poco trasparenti tra le élite, il clientelismo, le
reciproche convenienze. I problemi del paese sono particolari: particolarmente seri,
particolarmente fastidiosi e particolarmente indecenti. Il paese che si autodefinisce “Cool
Britannia” è diventato avido, ossessionato dall’affarismo, xenofobo, bellicoso e arrogante.
Gli stranieri che arrivano in Gran Bretagna cominciano a rendersi conto di questa
decomposizione della società già all’aeroporto di Heathrow, a Londra, uno dei più importanti del
mondo ma anche il più fatiscente. Un’infrastruttura così inefficiente che nel dicembre 2010 ha
chiuso per quattro giorni dopo una leggera nevicata: mancavano gli sbrinatori per gli aerei. Agli
stranieri può essere piaciuto lo show del matrimonio reale in tv, anche se non sapevano (o
magari hanno preferito dimenticare) che qualche anno fa il principe William aveva
accompagnato a una festa in maschera suo fratello Harry vestito in divisa nazista. “Sono
ragazzate”, aveva commentato la gente allora.
Gli americani possono anche pensare che Londra sia un fedele alleato in Iraq, in Afghanistan e
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nella guerra al terrorismo, ma ignorano il fatto che il pretesto usato per giustificare questi
interventi, cioè il dossier presentato da Blair nel 2003, era stato manipolato ad arte. Gli
americani dovranno anche sorvolare sul fatto che la guerra al terrorismo è stata poi
improvvisamente sospesa quando altre urgenze hanno fatto sì che Abdel Basset Ali Mohmed al
Megrahi, l’attentatore libico del volo Pan Am 103, esploso sulla cittadina scozzese di Lockerbie
nel 1988, venisse liberato per far piacere al colonnello Gheddafi, con cui Blair era in ottimi
rapporti. Nello stesso periodo – che coincidenza! – la Libia stava per siglare un importante
contratto con la compagnia petrolifera britannica Bp.
Quanto pesa la City
“La giustizia piegata agli interessi economici”: così il senato statunitense avrebbe
successivamente descritto il rilascio di Al Megrahi. Una definizione che sembra adattarsi bene
agli affari della Gran Bretagna di oggi, un paese ormai in vendita, a prezzi stracciati, a chiunque
abbia soldi da spendere. Nessun’altra nazione al mondo permette che le decisioni cruciali per la
sua economia siano prese all’estero. Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti.
La Renault è controllata dai francesi, la Fiat è italiana. La Jaguar e la Land Rover, invece, sono
indiane, la Vauxhall è americana e la Rolls-Royce è tedesca. Ferrero Rocher è un cioccolatino
italiano, mentre le barrette Cadbury sono di proprietà statunitense. I magazzini Harrods sono
del Qatar. Perfino il passatempo preferito di un’intera nazione è stato svenduto all’estero:
mentre la Juventus e il Milan sono di proprietà italiana e il Barcellona e il Real Madrid sono
controllati addirittura dai loro tifosi, il Manchester United e il Liverpool sono statunitensi, il
Chelsea è russo e l’Arsenal se lo dividono un americano e un russo-uzbeco.
L’intero settore industriale britannico è in dismissione. Il suo declino, però, viene mascherato da
una sfilza di slogan pubblicitari. “Looking after your world” (Ci prendiamo cura del tuo mondo) è
lo spot scelto dalla British Gas. Quello della British Telecom è “Bringing it all together for
London 2012” (Uniamo il paese per Londra 2012), mentre la polizia della capitale ha scelto
“Working together for a safer London” (Lavoriamo insieme per una Londra più sicura). Dietro
questi stupidi slogan, una miscela di avidità, incompetenza e autoritarismo sta trasformando la
Gran Bretagna in un paese non solo inefficiente ma anche invivibile. Un paese che ormai ha
perso le sue proverbiali buone maniere e che si fonda sull’opportunismo e sul gossip.
È difficile dire quando e perché la società britannica ha cominciato a decomporsi. Ma alcune
risposte si possono trovare nello smantellamento del settore industriale e nella perdita di
coesione e del senso di comunità che quel mondo si portava dietro. La scomparsa delle
fabbriche e del loro tessuto sociale si è consumata tra gli anni ottanta e novanta, parallelamente
alla privatizzazione senza scrupoli delle infrastrutture e dei servizi pubblici, che un tempo non
erano considerati come semplici opportunità di speculazione. Le industrie tradizionali sono state
sostituite dalle imprese di servizi e commercio, e in particolare da un settore: la finanza.
In questo modo l’economia ha finito per dipendere dai capricci e dagli interessi delle grandi
banche. La Gran Bretagna moderna è plasmata dalla City di Londra, dai suoi valori e dal suo
denaro. Tutto questo è evidente se si considera la prostituzione della politica nei confronti della
finanza, che si è manifestata, per esempio, nell’uso del denaro dei contribuenti per salvare le
banche. Di recente, inoltre, è diventata quasi una regola che i membri del governo lascino i loro
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incarichi per diventare consulenti di quegli stessi istituti. La società britannica si ispira sempre di
più all’avidità delle grandi banche.
Inizialmente si pensava che la dipendenza del paese nei confronti della finanza globale potesse
generare effetti benefici per tutta l’economia. Invece alla fine sono stati i soldi dei contribuenti,
decine di miliardi di sterline, a salvare le istituzioni che avevano messo in crisi l’economia
britannica. Quando il premier Gordon Brown ha detto al parlamento che il bailout delle banche
era servito a “salvare il mondo”, ha anche specificato che dopo l’intervento pubblico i britannici
avrebbero controllato la Royal Bank of Scotland e le sue associate. Ma dopo averci trascinato
sulla soglia del baratro e dopo essere state tenute a galla con i soldi dei cittadini, le banche e le
compagnie di assicurazioni nel 2011 hanno distribuito ai loro manager premi per 14 miliardi di
sterline.
Uno dei pochi esperti di finanza a parlare senza peli sulla lingua è Martin Woods, un ex
detective antitruffa della National crime squad (una sorta di Fbi britannica) che si occupa di
riciclaggio di denaro. Woods sottolinea che “una delle principali conseguenze della dipendenza
dell’economia dalle banche è stata la trasformazione della geografia delle opportunità. Durante
l’era industriale le occasioni di successo nel campo degli affari e dell’industria erano
disseminate in tutto il paese. Oggi il denaro vero, quello che conta, si trova a Londra. La
centralità della capitale e dello spirito che la contraddistingue è ancor più evidente di quanto
immaginino i britannici”.
Woods ha ragione quando sostiene che il disagio di una nazione parte dalla sua capitale.
L’arroganza di Londra ha assunto proporzioni mai viste prima. Chi arriva alle stazioni di Kings
Cross, Euston o Paddington viene accolto dai manifesti della serie “Maybe it’s because you’re a
londoner” (Forse è perché sei un londinese), che vogliono far notare ai passanti che città
meravigliosa è la capitale britannica, sciorinando slogan falsamente ottimistici: “Forse è perché i
londinesi hanno il 37 per cento di possibilità in più di diventare opinion leader” o “Forse i tuoi
amici che non sono di Londra devono mettersi a correre per tenere il tuo ritmo”.
Il londinese intraprendente va sempre di corsa, con una borsa di marca in una mano e nell’altra
una tazza di caffè. Secondo questa campagna, il vero londinese è fiero del suo cinismo, sempre
pronto a ridere dei britannici di provincia. Paul Gilroy, professore di sociologia alla London
school of economics, sostiene che questo fenomeno è frutto di una “malinconia postcoloniale”.
L’Inghilterra, spiega Gilroy, è un paese che mescola razzismo e xenofobia, che passa
“dall’esaltazione schizofrenica (nello sport) alla depressione e all’odio per se stesso”. Una
condizione in cui i cittadini non possono che “rammaricarsi per la perdita di potere e prestigio a
livello globale. La potenza di un tempo ha innescato le fantasie che hanno fatto credere ai
britannici di essere i padroni del mondo. Mentre il paese è sempre meno influente. È l’irrisolto
fardello del colonialismo britannico”. Gilroy si concentra soprattutto sulle guerre a cui partecipa
Londra e sottolinea “come i giornali di Murdoch siano diventati la voce dei nostri eroici soldati in
giro per il mondo. Ma è cinismo, e serve solo a vendere più copie”.
La partita tra Germania e Inghilterra ai Mondiali di calcio del 2010 è una buona metafora
dell’attuale stato del paese. Nelle settimane precedenti i calciatori inglesi avevano occupato
quotidianamente le prime pagine dei giornali, ma non per le loro gesta sportive. Il capitano
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dell’Inghilterra, John Terry, era finito in uno scandalo per aver messo incinta la ragazza di un ex
compagno di squadra. La fascia di capitano era passata così a Steven Gerrard, accusato in
quei giorni, ma poi assolto, di aver provocato una rissa in un pub. Wayne Rooney, invece, era
su tutte le prime pagine per una relazione extraconiugale con una prostituta, mentre era
risaputo che un altro compagno di Terry al Chelsea, Ashley Cole, aveva tradito sua moglie
Cheryl, altra ospite fissa dei tabloid. Nonostante questa commedia, gli inglesi avevano grandi
aspettative per la partita. Sui giornali era comparsa addirittura una foto di Rooney con in testa
un elmetto britannico della prima guerra mondiale, pronto ad affrontare “i crucchi”. Alla fine la
giovane squadra tedesca si è dimostrata di gran lunga superiore, vincendo per 4 a 1.
L’argenteria di famiglia
Nel 1990 ho lasciato la Gran Bretagna e sono rimasto lontano dal paese per quasi tredici anni.
Sono partito poche settimane prima che Margaret Thatcher fosse sostitui­ta da John Major.
Secondo i sostenitori della Lady di ferro, il paese era riuscito a scacciare lo spettro del
socialismo, mentre i laburisti accusavano l’ex premier di aver distrutto l’“officina del mondo”,
come la Gran Bretagna è stata conosciuta per più di un secolo. La Thatcher ha sempre insistito
su un punto: “La società non esiste”. Forse la decomposizione è cominciata da qui.
È stata la Thatcher ad avviare le privatizzazioni, svendendo le risorse della nazione a una
nuova oligarchia di azionisti. Un esperimento che ha allargato i confini del libero mercato,
sostengono i suoi ammiratori. Secondo i suoi avversari, invece, è stata la trasformazione del
paese in una terra desolata, in cui le strutture del vivere civile sono state annichilite e sostituite
dall’egoismo e dall’avidità.
Sono tornato in Gran Bretagna nel 1995, ma sono partito di nuovo il giorno in cui Tony Blair ha
stravinto le elezioni, nel 1997. Per i suoi sostenitori, con Blair cominciava una nuova era dopo la
lunga notte del governo conservatore. Chi non lo aveva votato, me compreso, pensava invece
che il nuovo premier fosse il successore naturale di Margaret Thatcher. Nel 2003 sono tornato
oltremanica in pianta stabile e, dopo sei anni di governo Blair, ho trovato una nazione più
malata di tredici anni prima.
Protestare per lo sgretolamento dei vecchi valori non è solo nostalgia. Certo, qualcosa è andato
perso nel 1985, nel sesto anno del governo Thatcher, quando l’ex premier Harold Macmillan
pronunciò davanti all’organizzazione conservatrice Tory reform group uno dei discorsi politici
più importanti della storia britannica contemporanea. Macmillan, un conservatore che aveva
guidato il paese durante il boom economico del dopoguerra, paragonò il programma di
privatizzazioni di Thatcher alla vendita dell’argenteria di famiglia: “Prima scompare l’argenteria
georgiana, poi tutti i bei mobili che adornano il salotto. Infine tocca ai quadri di Canaletto”.
Macmillan avrebbe poi dichiarato che le sue critiche erano dirette “all’uso delle immense
somme ricavate con le privatizzazioni”, ma il termine “argenteria di famiglia” è diventato così
comune che è tornato di moda perfino negli ultimi dibattiti sul salvataggio alla Grecia. Quanto è
arcaica, ma ancora affascinante alle orecchie dei britannici, questa lista di nomi: National Coal
Board, British Rail, Gas Board, Water Board. Sono i nomi delle aziende di stato che gestivano i
più importanti servizi pubblici. Spesso si sono dimostrate inefficienti, ma erano comunque
amministrate da persone che sapevano quel che facevano, preoccupate non solo dei dividendi
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degli azionisti, ma soprattutto di offrire un servizio ai cittadini: acqua, riscaldamento,
illuminazione, ferrovie.
Le privatizzazioni hanno fatto comodo ai protagonisti della svendita dell’“argenteria di famiglia”.
Nel 1995 i dirigenti delle aziende di servizi pubblici guadagnavano molto più di quanto
avrebbero guadagnato se le compagnie fossero rimaste in mano allo stato. Nel frattempo erano
stati tagliati 150mila posti di lavoro. La sfacciataggine dei privati che gestiscono questi servizi
continua a stupire. Di recente due grandi fornitori di energia, la Scottish Power e la British Gas,
hanno aumentato le tariffe del 19 e del 18 per cento. Due settimane dopo la British Gas – la
compagnia che “si prende cura del tuo mondo” – ha annunciato profitti per quasi tre milioni di
sterline al giorno. Molte di queste aziende sono state inglobate dalle imprese pubbliche di
Francia e Germania, che sfruttano le loro attività in Gran Bretagna per abbassare le tariffe in
patria. Ma a noi cittadini spiegano che tutto questo è per il bene dei consumatori.
La mia famiglia ha sperimentato sulla propria pelle le conseguenze di queste privatizzazioni.
Nel novembre 2006 la caldaia della casa dove vivevano mio padre (che allora aveva 88 anni) e
mia madre (che ne aveva 80) è stata sostituita nell’ambito di un programma chiamato
HeatStreets (strade riscaldate), gestito dall’amministrazione locale (il Royal Borough of
Kensington and Chelsea) e da una ditta chiamata Powergen, succursale della tedesca E.On.
Per molto tempo la E.On è stata lo sponsor dell’Fa Cup, il torneo più importante del calcio
inglese. Per mesi la caldaia, anche se è stata sostituita più di una volta, non ha funzionato a
dovere.
Mio padre, un architetto in pensione con buone conoscenze di ingegneria civile, capì che c’era
un problema di compatibilità tra le tubature della casa e quelle delle nuove caldaie. Ma non
siamo mai riusciti a spiegarlo alla caterva di operatori di call center che rispondevano alle nostre
telefonate. Una sera d’inverno ho trovato mio padre, seduto accanto a mia madre con una
coperta sulle ginocchia, che si riscaldava al calore del forno della cucina. A quel punto io, mia
sorella e il mio fratellastro ci siamo rivolti direttamente alla Powergen e alla First Response, la
ditta che gestiva la manutenzione delle caldaie. Con loro abbiamo avuto un confronto lungo e
snervante. La prima risposta della First Response ce l’ha data un certo Martin Gillard, le cui
email terminavano con il simbolo di una bandiera a scacchi, come quelle che si usano nelle
gare automobilistiche. Forse voleva sfoggiare il suo dinamismo.
“Salve Mark”, ha scritto al mio fratellastro il 3 febbraio 2007. “Vedrò di troverò (sic) una
soluzione in questo weekend e le farò sapere appena possibile”. Al messaggio sono seguiti
alcuni giorni di silenzio. Dopo cinque settimane e tredici email, da cui erano evidenti la nostra
crescente disperazione e l’arroganza dell’azienda, ci ha contattato una certa Jo Wayne della
E.On, dicendo che era “necessario un grande lavoro sulle tubature per risolvere il problema”.
Noi lo sapevamo da mesi. Quel venerdì Jo ci ha informato che ci sarebbe stata una riunione il
lunedì successivo e che subito dopo ci avrebbe fatto sapere. Ma ancora una volta non ci hanno
fatto sapere nulla. Così abbiamo scritto un’altra email. La signorina Wayne ci ha risposto che
stava “aspettando l’autorizzazione delle autorità competenti per risolvere il problema”. Poi di
nuovo silenzio. Due giorni dopo abbiamo riprovato. Il 17 marzo mio padre ha compiuto 89 anni,
ma solo il 22 marzo il riscaldamento è stato riparato. Mio padre è morto il giorno dopo.
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La Powergen sostiene di aver condotto “un’inchiesta approfondita”. Ci hanno promesso che
avrebbero “preso in considerazione il caso Vulliamy per capire le cause del ritardo
nell’intervento”. Si spera che lo abbiano fatto davvero, considerato che d’inverno in Gran
Bretagna migliaia di persone rischiano di morire per il freddo.
La situazione attuale della Gran Bretagna è figlia in gran parte degli anni del governo Blair. Nel
2007, dopo un decennio di dominio laburista, uno studio dell’Unicef ha messo la Gran Bretagna
in fondo alla classifica sulla qualità della vita dei bambini nei paesi sviluppati. I bambini
britannici erano all’ultimo posto per “benessere soggettivo”, relazioni familiari e interpersonali,
ma primi in classifica per quanto riguarda i “rischi comportamentali”, che includono bullismo e
uso di droghe e alcol: fenomeni usuali, che ogni sabato sera trasformano i centri delle città
inglesi in una baraonda di vomito e risse.
Il governo ha cercato di sdrammatizzare: “In molti casi i dati dello studio risalgono a diversi anni
fa e non tengono conto dei progressi recenti”, ha dichiarato una portavoce dell’esecutivo con il
solito linguaggio intriso di arroganza a cui siamo abituati. Nel frattempo, parlando di cose
concrete, nell’ottobre 2007 gli amministratori delegati dell’Ftse 100, l’indice delle cento società
più capitalizzate della borsa di Londra, avevano raddoppiato in sei anni i guadagni, totalizzando
un reddito medio di 3,17 milioni di sterline all’anno.
Nel maggio 2009, dopo dieci anni di governo Blair e due di governo Brown, il divario tra i ricchi
e i poveri in Gran Bretagna ha raggiunto livelli mai visti, almeno da quando ci sono dati statistici
ufficiali, cioè dai primi anni sessanta. Secondo il ministero del lavoro la diseguaglianza era
cresciuta per il terzo anno di fila, e il numero di bambini e anziani poveri non era diminuito.
Sono solo dati, ma l’atteggiamento del governo lo si poteva capire facilmente dalle dichiarazioni
dei leader politici, tra cui Peter Mandelson, uno dei consiglieri più fidati di Tony Blair, che aveva
dichiarato di non aver “nulla in contrario al fatto che qualcuno diventi schifosamente ricco”.
Gordon Brown e le banche
Perfino Margaret Thatcher aveva tenuto alcuni settori, come le ferrovie, al riparo dalla logica del
profitto. Ma con l’arrivo del suo successore, John Major, anche la British Rail è stata privatizzata
per un tozzo di pane. Il governo era così impaziente di svendere le tre aziende pubbliche del
trasporto su rotaia che ha accettato un’offerta di 1,8 miliardi di sterline nonostante la richiesta
iniziale fosse di 3 miliardi. La cifra era così bassa che le aziende privatizzate sono state subito
rivendute dai compratori per 2,65 miliardi di sterline.
Il costo di quest’operazione ha avuto immediatamente ripercussioni negative sulla sicurezza, le
tariffe per i cittadini e i costi di gestione. Le conseguenze della privatizzazione sono evidenti a
chiunque viaggi sui treni britannici, i più costosi ma anche i peggiori d’Europa. La Gran
Bretagna spende per le sue ferrovie private il 40 per cento in più di quello che investono
Germania, Francia e Paesi Bassi per il loro servizio pubblico. E ha tariffe più care del 30 per
cento. Richard Branson, presidente del Virgin Group, ha guadagnato in dividendi dalle sue
attività legate alle ferrovie circa 171 milioni di sterline, ma i cittadini britannici ancora sborsano
5,2 miliardi di sterline di contributi alla Network Rail, proprietaria delle infrastrutture ferroviarie.
Per quindici anni la Gran Bretagna ha creduto che questo fosse il modo giusto di fare le cose.
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Le compagnie ferroviarie che guadagnano una fortuna in cambio di servizi scadenti hanno
slogan come “Trasformiamo il tuo viaggio” (la First Great Western). Non c’è dubbio che ci siano
riusciti. Poco tempo fa a Londra ho preso un treno molto affollato della First per la Cornovaglia.
A bordo i bagni erano tutti occupati e maleodoranti, gli scarichi erano rotti e non c’era acqua
corrente. Quest’estate un treno della South West Trains si è rotto, lasciando i passeggeri
intrappolati al suo interno per tre ore. Quando sono riusciti a uscire e hanno raggiunto la
stazione più vicina, Woking, hanno rischiato l’arresto per aver attraversato un terreno di
proprietà della Network Rail.
Il Partito laburista ha perseverato in una campagna di privatizzazioni che i conservatori non si
sarebbero nemmeno sognati di intraprendere. Un esempio è la svendita delle linee della
metropolitana di Londra a vari consorzi, nell’ambito di quello che è stato chiamato “partenariato
pubblico-privato”. Il risultato? Mentre i cittadini di Parigi, Madrid, Berlino, Vienna e Stoccolma
sfrecciano su treni di metropolitane economiche, silenziose, pubbliche e ben amministrate, i
londinesi viaggiano in totale confusione e pagando prezzi esorbitanti, mentre gli altoparlanti
strombazzano inutili annunci pubblicitari. I dati pubblicati nel giugno 2011 dimostrano che i
ritardi della metropolitana londinese costano a ogni passeggero l’equivalente di tre giorni di
lavoro all’anno in termini di tempo.
Di solito si dice che questi problemi sono dovuti al fatto che la metropolitana di Londra è molto
antica. Ma i disagi peggiori riguardano la linea Jubilee, la cui estensione è stata inaugurata nel
1999. Tra l’altro, la Jubilee sarà una delle linee più usate in occasione delle prossime Olimpiadi,
un dettaglio che ha comprensibilmente scatenato il panico tra gli organizzatori. L’amministratore
delegato della London Underground promette “meno chiusure e meno disagi per il futuro”. Il
sindaco Boris Johnson assicura che “sarà fatto tutto il lavoro necessario prima delle Olimpiadi”.
E aggiunge di essere “molto fiducioso”. Ma sembra l’unico a crederci.
La privatizzazione della metropolitana di Londra è stata voluta in particolare da Gordon Brown,
che l’ha definita “un’operazione a rischio zero” per portare liquidità nelle casse dello stato. Dopo
essere stato per dieci anni cancelliere dello scacchiere, cioè ministro delle finanze, nel 2007
Brown è diventato premier. Il suo governo sarà ricordato soprattutto per il salvataggio delle
banche, costato una cifra fantasmagorica: 850 miliardi di sterline. Ma forse la mossa che
definisce meglio il suo profilo politico è la vendita di metà delle riserve auree della Gran
Bretagna, effettuata in diciassette aste dal 1999 al 2002, per la cifra di 3,5 miliardi di dollari.
Poco tempo dopo il valore dell’oro è schizzato alle stelle.
La solita pantomima
I cittadini britannici, sempre più trascurati dalla politica, sono considerati dai loro leader alla
stregua di bancomat pieni di soldi, da cui si può attingere quando è necessario. Ma neanche
dopo aver pagato riescono a essere lasciati in pace. Anzi, succede il contrario. Perché i
britannici sono costantemente sotto osservazione. La Gran Bretagna è il paese con la maggior
quantità di telecamere a circuito chiuso per numero di abitanti. Proiettando a livello nazionale i
dati del quartiere londinese di Wandsworth, risulta che i britannici sono osservati da quattro
milioni e 200mila telecamere. Se fosse davvero così significherebbe che il 20 per cento di tutte
le telecamere a circuito chiuso del mondo è ammassato su quest’isola.
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Intanto, mentre la disoccupazione cresce, si può guadagnare qualcosa diventando addetti
virtuali alle telecamere su internet, denunciando alle autorità le attività criminali o illegali e
accumulando così punti che poi si trasformano in denaro. Un sito chiamato Internet Eyes, per
esempio, assegna agli utenti un punto se segnalano attività sospette e dieci se scoprono un
crimine. Le telecamere sono concentrate nelle città, ma perfino uno degli angoli più remoti del
paese, la contea delle isole Shetland, gestisce più telecamere del dipartimento di polizia di San
Francisco.
La Gran Bretagna è il paese che ha trasformato il Grande fratello, un reality show nato nei
Paesi Bassi, in un programma cult a livello mondiale, particolarmente rappresentativo della
cultura del paese: un’intera nazione che spia persone che diventeranno celebrità, quando non
lo sono già.
Con il passare degli anni l’autoritarismo è diventato un tratto distintivo del Partito laburista di
Tony Blair, che sarà ricordato per il tentativo di rendere obbligatoria la carta d’identità con i dati
biometrici dei cittadini. L’attuale premier, David Cameron, invece, ha guadagnato la fiducia di
molti libertari un po’ naïf promettendo di combattere “l’erosione delle libertà civili voluta dai
laburisti” e di ridurre “l’intrusione dello stato nella vita degli individui”.
Ma questo programma ha cominciato a mostrare le sue crepe ancor prima di essere applicato,
quando la polizia ha risposto con insolita durezza agli studenti che protestavano contro
l’aumento del 300 per cento delle tasse universitarie. Le forze dell’ordine hanno usato il metodo
del kettling, in base al quale gli agenti circondano i manifestanti e li intrappolano per ore in uno
spazio delimitato senza permettergli di muoversi.
Subito dopo i riots Cameron ha dichiarato che “le preoccupazioni ipocrite sul rispetto dei diritti
umani” non avrebbero impedito l’identificazione e l’arresto dei protagonisti delle rivolte,
individuati grazie alle telecamere a circuito chiuso. In seguito il premier ha proposto di tagliare i
sussidi ai facinorosi e alle loro famiglie e di sfrattare i responsabili delle violenze nel caso
abitassero in case popolari. Poi ha dato la sua approvazione alle prime condanne penali contro
i rivoltosi, compresi i sei mesi di reclusione affibbiati a un ragazzo che si era dichiarato
colpevole per aver rubato una bottiglia d’acqua da 3,50 sterline.
Cameron è salito al potere attaccando le politiche di Blair e Brown. E aveva ragione a farlo. Ma
la Gran Bretagna sembra essere vittima di una casta politica che si autoalimenta. E nonostante
tutti i proclami sulla sua diversità (confezionati in gran parte da quell’Andy Coulson finito nello
scandalo delle intercettazioni di News of the World), Cameron, spalleggiato dai suoi alleati
liberaldemocratici, non ha fatto che peggiorare le cose. Secondo il suo progetto di Big society, i
cittadini avrebbero dovuto sostituire il governo nella gestione di scuole, biblioteche, uffici postali,
case popolari e servizi pubblici. Il programma della Big society è stato presentato ufficialmente
nel luglio 2010 a Liverpool. Una scelta non casuale.
La parabola di Liverpool – la città della mia famiglia – descrive bene tutto quello che è andato
storto nel paese, e non certo per colpa dei suoi cittadini. Liverpool è famosa per i Beatles, il
porto (ora chiuso), le squadre di calcio e il suo carattere unico. Ma anche per la sua violenza.
Nel 1981 il quartiere multietnico di Toxteth fu teatro di violente rivolte. Quest’anno sono passato
sotto la finestra della prima stanza che affittai quando andai via di casa. Da lì vidi le fiamme
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incendiare quella notte di trent’anni fa. Si dice che quelle rivolte abbiano cambiato la politica
britannica, soprattutto dopo le inchieste volute dal governo per capire le cause dei disordini e far
luce sul razzismo della polizia. Una reazione molto diversa da quella di Cameron di fronte ai
riots del 2011. “Si è trattato di furti, saccheggi e rapine contro la nostra comunità, non abbiamo
bisogno di un’inchiesta per saperlo”, ha detto il premier dopo le violenze.
All’inizio di quest’anno, mentre mi occupavo dell’anniversario di quelle rivolte, ho incontrato un
uomo che chiamerò Steven. Trent’anni fa Steven scese in piazza per battersi contro la polizia.
“Prima c’è stata la deindustrializzazione”, mi ha detto, “ora c’è la recessione. La gente è
preoccupata di perdere il lavoro o di dover lavorare più a lungo per la pensione. Guardo questi
ragazzi e tra me e me penso: ‘Benvenuti nel nostro mondo. Benvenuti nel 1981’”. Alcune
settimane dopo questa conversazione, Toxteth sembrava tornata indietro di trent’anni. Le
strade erano di nuovo in fiamme. Mentre guardava il suo quartiere bruciare, Steven mi ha
mandato un’email: “Credo che si tratti di giovani che hanno aspettato il momento opportuno: le
misure di austerità si fanno sentire, insieme a un’inflazione sempre più alta, prosciugando i
risparmi della classe media”.
Ipocrisia e responsabilità
Né l’autoritarismo di Tony Blair né le promesse di combatterlo fatte da Cameron sono una vera
novità. Quando i leader politici britannici affermano di essere diversi dai loro avversari stanno
solo recitando. Cameron ha ricominciato dove Blair aveva lasciato: ha dato alla polizia il potere
di vietare ai cittadini di coprirsi il volto con il cappuccio della felpa.
Un atteggiamento particolarmente ipocrita, se ricordiamo quello che Cameron aveva detto nel
2006, in quello che ancora oggi è ricordato come il discorso hug-a-hoodie (abbraccia uno
hoodie. Hoodie è una felpa con il cappuccio, ma il termine indica anche i ragazzi che la
indossano): “Immaginate un complesso urbano con un piccolo parco”, aveva detto allora
Cameron. “Nel parco non c’è nessun cartello del tipo ‘vietato giocare a palla’ o ‘vietato fare
skateboard’: è semplicemente uno spazio vuoto. E poi immaginate di avere quattordici anni e di
vivere in un appartamento al quarto piano che dà sul giardino. Sono cominciate le vacanze e
non avete un soldo in tasca. È questa la vostra vita. Cosa fate di giorno? Cominciate a vagare
per le strade, annoiati a morte. Vi guardate intorno. Chi non è annoiato? Chi non sta vagando
per strada senza un soldo? Chi, invece, ha le macchine, i vestiti, il potere? La prima cosa da
fare è riconoscere che non troveremo mai le soluzioni giuste se prima non capiamo cosa è
andato storto: bisogna capire il contesto, le ragioni, le cause. Questo non significa
necessariamente giustificare il crimine, ma ci può aiutare ad affrontarlo meglio. Perché
indossare uno hoodie è una conseguenza del problema, non la causa. Noi che indossiamo abiti
eleganti spesso vediamo gli hoodie come simbolo di aggressività, l’uniforme di un esercito
ribelle di piccoli gangster. Ma nessun ragazzo è davvero cattivo. Nessun ragazzo è
irrecuperabile, dal punto di vista psicologico o sociale. E spesso la polizia, la prigione e il
governo non riescono a capirlo”.
Dieci giorni dopo le peggiori rivolte degli ultimi decenni, a fine agosto, la polizia era di nuovo
nell’occhio del ciclone per aver strappato dalla sedia a rotelle e trascinato per strada uno
studente disabile che protestava. Senza contare la morte di tre persone colpite con il taser.
Nicolas Robinson, il ragazzo del sud di Londra condannato per aver rubato una bottiglia di
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acqua minerale, stava cominciando a scontare la pena, mentre Cameron tornava dalla sua
ultima vacanza, la quinta del 2011. Forse tocca a noi provare a capire “cosa non è andato per il
verso giusto”.
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