Cristina Demaria I Visual studies sono un`area di

Transcript

Cristina Demaria I Visual studies sono un`area di
Cristina Demaria
I Visual studies sono un’area di ricerca interdisciplinare sviluppatasi
sulla scia degli studi culturali anglosassoni, al cui centro vi è l’indagine
della visual culture, termine utilizzato per la prima volta da Svetlana
Alpers nel 1972 per indicare un approccio all’analisi delle opere d’arte
attento non solo alla storia che le precede e le influenza, ma, per
l’appunto, anche alla cultura che le circonda (Alpers 1983, 1998).
Nell’esaminare la pittura fiamminga, la proposta di Alpers era quella di
considerare i suoi capolavori come parte di una più complessiva cultura
visuale ad essi contemporanea, entro cui le opere hanno avuto origine.
L’attenzione di chi legge e interpreta immagini andava cioè spostata
verso la struttura della visione propria di una specifica epoca storica, dai
meccanismi che ne regolano lo sguardo ai processi stessi di produzione
delle immagini, fino a giungere agli strumenti e alle tecniche su cui tale
processo si regge e da cui è favorito (come per esempio il microscopio).
Il testo visivo andava dunque interpretato rispetto al modo in cui una
cultura non solo si rappresenta visivamente, bensì concepisce la
rappresentazione stessa, regolandola, e rendendola così possibile e
praticabile.
La
pittura
non
è
comprensibile
esclusivamente
rintracciandone e ripercorrendone la singolare e specifica evoluzione,
bensì è parte di un contesto più generale, di una mappa entro cui
trovano un posto e assumono un ruolo le diverse risorse culturali e le
pratiche che sono collegate alla visione e alla sua rappresentazione. Nella
cultura visuale un quadro diventa allora un oggetto che circola entro
un’economia che nasce dall’articolazione di sistemi di rappresentazione,
immagini effettive e soggetti che tali immagini producono e fruiscono. Il
quadro diviene un sistema testuale, e, in quanto tale, un oggetto
culturale regolato da specifici meccanismi della visione, visione che si
1
pone allora come “un’attività che trasforma il materiale pittorico in
pratica significante, entro un processo che non ha mai fine (…) Colui che
guarda è innanzitutto un interprete” (Bryson 1983). Parlare di visuale
significa dunque abbandonare un’idea positivista della percezione visiva,
per riflettere sullo sguardo come pratica di interpretazione, di cui
l’immagine (il quadro, la fotografia) è solo una delle molte componenti.
Benché la proposta di Alpers risalga agli anni Settanta, è però solo
negli ultimi dieci anni che la cultura visuale ha assunto uno statuto
accademico e una legittimità scientifica, sostituendosi in Gran Bretagna,
Nord America e Australia non solo ai programmi e ai corsi di storia
dell’arte (entro cui si iniziano a contemplare anche il design e
l’architettura, un tempo arti minori), ma anche a quelli di storia del
cinema e, più in generale, delle discipline delle scienze umane che si
occupano di linguaggi visivi propri della cosiddetta cultura alta come di
quella bassa, e cioè della cultura di massa (di cui fanno parte anche la
televisione, la pubblicità, internet). La cultura visuale è così divenuta un
progetto interdisciplinare di analisi e critica dei linguaggi visivi che
preferisce a un approccio storicista classico una prospettiva
antropologica attenta ai processi culturali in cui qualsiasi tipo di
immagine viene prodotta e interpretata, diffusa e trasformata. Le
immagini non vanno cioè studiate isolatamente, come oggetti
circoscritti, bensì come insiemi di pratiche che ne variano non solo l’uso
ma anche il significato, come è oggi, per esempio, il caso della fotografia,
medium dalle funzioni molteplici che va considerato rispetto al sistema
più vasto delle immagini riprodotte e della loro circolazione (Krauss
1989). Il significato di un’immagine fotografica si lega così alle sue
diverse pratiche di fruizione, e queste a sua volta alle istituzioni in cui tali
pratiche si consolidano o mutano, come la famiglia, il mondo della
stampa e delle riviste, quello della pubblicità, ecc. Per comprendere più a
fondo la cultura visuale, la cui ottica, ci si sarà accorti, mantiene alcuni
punti in comune con la critica letteraria di stampo neostoricista, è
necessario allora, come accennavamo in apertura, collocarli nell’orizzonte
più ampio degli studi culturali e della mediologia, con cui si intrecciano e
a volte si confondono, in una esplicita e voluta mescolanza dei confini tra
2
le discipline e i metodi di indagine. Si potrebbe quasi affermare che la
cultura visuale rappresenta lo sviluppo più recente di un insieme di
ricerche che non può ignorare la forza e la centralità che oggi ha assunto
la visione, e in particolare i regimi scopici propri della modernità (Jay
1992), per non menzionare l’iperrealtà tipica invece della postmodernità
(Baudrillard 1981), in cui non vi è più un reale a cui far risalire
l’immagine, ma solo simulacri, quasi si assistesse a una svolta
epistemologica visuale, successiva a quella linguistica (Rorty 1967) e a
quella culturale (Jameson 1998). Vi sono dunque continuità e
sovrapposizioni tra studi culturali, media studies e cultura visuale ma vi è
anche una specificità propria di questi ultimi, vale a dire quella di
applicarsi a un oggetto di indagine non solo variegato, complesso e
differenziato, ma anche estremamente problematico, un oggetto che
mantiene, tra l’altro, il doppio statuto di mezzo di comunicazione e di
principale accesso al piano simbolico di contenuti culturali sia individuali
che collettivi (Jenks 1995). Sin dagli anni Sessanta la mediologia e gli
studi culturali si erano peraltro dedicati all’analisi delle rappresentazioni
visive della cultura di massa, partendo da alcune analisi semiotiche
(Barthes 1964), per poi concentrarsi quasi esclusivamente sulle pratiche
di fruizione, per esempio, della televisione, e quindi su una concezione
dello spettatore o della categoria di pubblico ferma ad analisi di stampo
empirico, ovvero a più sofisticate indagini etnografiche delle forme di
ricezione da cui era però esclusa ogni riflessione sull’immagine come
testo significante. Fino alla comparsa, ma soprattutto alla circolazione e
anche alla rilettura di saggi e ricerche che oggi vengono indentificati
come basi teoriche della cultura visuale (si veda oltre il già citato Barthes
1964, anche Barthes 1957, Foucault 1975, Mulvey 1975, Rose 1986,
Foster 1988) si era cioè fermi a un’idea ingenua di significato, che si
riduceva al contenuto manifesto di un messaggio visivo. In modo analogo
a quel che è accaduto, per esempio, nell’ambito della semiotica e della
sociosemiotica, in cui si è partiti da modelli e categorie nate dall’analisi
del linguaggio verbale, per poi sviluppare metodi e concetti propri invece
di una lettura dei linguaggi visivi, la cultura visuale rappresenta anche il
risultato di una riflessione sulla teoria e gli strumenti utili alla
3
comprensione e all’interpretazione delle immagini. Fino a che punto
un’immagine può allora essere concepita come un linguaggio, ma,
soprattutto, nel caso specifico della cultura visuale, in che modo una
critica della cultura transdisciplinare può riformulare le relazioni tra
potere e sapere individuate da Foucault, aggiungendovi quelle tra vedere
e conoscere, e dunque tra sapere, vedere e potere? A tali domande è
ovviamente sottesa la questione dell’esportabilità o della traducibilità di
strumenti e categorie d’indagine nate nell’analisi testuale della
letteratura, o comunque di testi scritti, verso testi pittorici,
cinematografici, fotografici, ovvero della necessità di elaborare altri
strumenti e altri modelli.
È in questo senso allora che il ruolo dello spettatore e delle
pratiche di fruizione e consumo di testi visivi (in cui rientrano i già citati
meccanismi dello sguardo, le pratiche di osservazione, ma anche quelle di
sorveglianza, oltre alle diverse forme dell’efficacia visiva di un testo, che
possono includere effetti patemici e non solo cognitivi, come il piacere,
ma anche il disgusto di fronte a un’immagine), diventano questioni
importanti tanto quanto quelle legate alle forme di lettura, sebbene non
siano esauribili o del tutto comprensibili se ci si attiene a un modello di
testualità appiattito sul linguaggio verbale (Evans, Hall 1999). Qual è
dunque la specificità di una cultura visuale, come si possono descrivere
particolari strutture della visione e dello sguardo ma anche, come si
diceva, del desiderio, del voyerismo o dell’eccitazione? Se il punto di
partenza è la cultura che circonda tali immagini, come già indicava
Alpers, si tratta di individuare le diverse componenti, i diversi elementi
che la caratterizzano. Secondo Mitchell una cultura visuale si regge
sull’immagine come prodotto in cui si intersecano elementi che
riguardano il registro visivo e il suo grado di figuralità o di
figurativizzazione del reale (visuality e figurality), altri che appartengono
agli apparati e alle istituzioni, altri ancora che investono invece i corpi.
Una cultura visuale è perciò il risultato di pratiche diverse che si
collocano a livelli differenti sia della produzione testuale, sia della sua
interpretazione, da quelli inerenti l’oggetto di indagine e il suo grado di
resa del reale, a quelli riguardanti il contesto che circonda le opere,
4
composto dal sistema dei media, ma anche da istituzioni che si pongono
sempre di più come relazioni sociali organizzate e globalizzate, a quelle
attinenti invece il soggetto che le consuma, insieme al suo corpo
(Mitchell 1994).
È in questo senso che, secondo Stuart Hall diviene centrale la
nozione di discorso (nuovamente da confrontare con quella elaborata
recentemente dalla sociosemiotica), entro cui trovano posto sia il
significato delle immagini che si analizzano, sia il loro uso, vale a dire sia i
significati che esse assumono a seconda dei contesti (apparati,
istituzioni, media) in cui sono prodotte e fruite, ma soprattutto i
soggetti che tali significati (tale discorso) costituiscono e da cui sono a
loro volta ridefiniti (Evans Hall 1999). Il significato di un segno visivo non
sta quindi solo nell’immagine, né esclusivamente nelle posizioni e nelle
identità sociali di cui è composto il pubblico, bensì nell’articolazione tra
osservatore e osservato, tra il potere che un’immagine ha di significare
qualcosa, e le capacità dell’osservatore di interpretare quel significato. Il
passaggio è quello che va dalla comprensione dei significati testuali alla
questione della formazione dei soggetti, ed è a questo livello che l’analisi
di una cultura visuale diviene anche percorso d’indagine attento alla
formazione delle identità e delle differenze culturali, in particolare alle
differenze di genere e di etnia, agli stereotipi visivi e alle metafore con
cui si rappresenta la marginalità culturale, oggettivandola e rendendola
altro da noi. In tale percorso, accanto a categorie di derivazione
semiotica, il post-strutturalismo sincretico proprio degli odierni studi
culturali pone problematiche tipiche invece di un’indagine psicoanalitica,
secondo cui i significati spesso lavorano al di sotto della soglia della
coscienza individuale, a livello del simbolico, di cui i linguaggi visivi sono,
a differenza di quello verbale, un veicolo privilegiato di espressione
(Pontalis 1987). Questa posizione è anche ciò che permette a uno
sguardo, questa volta teorico, di de-centrare il soggetto e rendere la sua
costituzione un processo sempre aperto ad altri significati e altre
riformulazioni. L’articolazione tra osservatore e osservato va così intesa
come una relazione che non viene costituita o determinata dall’esterno: il
soggetto è parzialmente formato attraverso che cosa e come vede, dal
5
modo in cui il suo campo di visione è costituito. Ciò che viene visto –
l’immagine e i suoi significati – è dunque relativo e dipendente dalle
posizioni e dagli schemi interpretativi che su di esso gravano. Questo
ovviamente significa anche che il soggetto è un’entità incompleta,
prodotta attraverso processi che non hanno mai conclusione, processi
che sono sia sociali, sia psichici, sia, come si diceva, simbolici.
Il testo visivo è così sempre all’incrocio di più formazioni
discorsive. Se si accetta questa proposta, il guardare e il vedere, come
l’interpretare, divengono pratiche culturali che presuppongono sia una
posizione e un ruolo sociale ove chi legge le immagini è collocato, sia
l’interazione e la trasformazione di ciò che si osserva attraverso le
proprie competenze, ma anche i propri desideri. È così che la lettura delle
immagini diviene essa stessa una pratica culturale. La comprensione di
un testo si allarga così al discorso, o meglio al discorsivo, che dovrebbe
inoltre condurre a rendere meno nette le distinzioni tra pensiero e
azione, tra idea e pratica. I linguaggi visivi contribuiscono a definire
discorsi entro cui si costituiscono i soggetti, ed entro cui i soggetti a
loro volta negoziano la loro identità; soggetti e non individui, visto che la
cultura, in questo caso la cultura visuale, entra in gioco quando gli
individui biologici divengono soggetti.
Se però è possibile definire, come abbiamo tentato brevemente di
fare, alcuni degli assunti di fondo della cultura visuale, molto più
complicato è circoscrivere esempi paradigmatici di tali analisi, per non
parlare di un metodo di indagine o un lessico (quando non un
metalinguaggio) comune a tutti gli autori che si riconoscono in questa
area di ricerca dai confini, è necessario ribadirlo, estremamente imprecisi,
la cui ulteriore specificità è dunque proprio quella di riunire paradigmi e
assunti teorici a volte anche estremamente differenti, soprattutto
operanti a livelli diversi di astrazione e di efficacia non tanto, dunque, del
visivo, quanto appunto del visuale, che perciò comprende il contesto
sociale, le formazioni ideologiche, i significati simbolici e psichici propri
dei simulacri (Baudrillard) di una società dello spettacolo (Debord)
ancora tutta da studiare.
6
(Cfr. anche Antropologia
interpretativa,
Cultura
cyborg,
Neostoricismo, Mediologia, Postumano, Psicoanalisi della cultura,
Semiotica, Sociosemiotica, Studi (post-)coloniali, Studi queer, Women’s
studies)
Campo di visione, Feticismo, Figurality, Gaze, Glance, Scopofilia, Sguardo
sessuato, Società dello spettacolo, Visuality, Voyerismo.
http://www.augustana.ab.ca/~janzb/aesthetics.htm
http://www.deadmedia.org
http://www.engramma.it/matrix.html
http://www.humnet.ucla.edu/Icono/imhome.htm
http://www.identitytheory.com/cinema/index.html
http://www.instituteofvisualculture.org
http://www.rochester.edu/in_visible_culture/ivchome.html
http://www.vsw.org
Alpers, S., 1983, The Art of Describing. Dutch Art in the Seventeenth
Century, Chicago.
Alpers, S.,1998, Visual Culture Questionnaire, <<October>>, n. 77, pp.
25-70.
Barthes, R., 1957, Mythologies, Paris, Seuil; trad. it. 1974, Miti d’oggi,
Torino, Einaudi.
Barthes, R., 1964, Eléments de sémiologie, <<Communication>>, n. 4,
pp.. 91-135 ; trad. it. 1966, Elementi di semiologia, Torino, Einaudi.
Baudrillard, J., 1981, Simulacres et Simulation, Paris, Galilée.
Bryson, N., 1983, Vision and Painting. The Logic of the Gaze, London,
Macmillan.
7
Buck Morss, S., 1989, The Dialectic of Seeing. Walter Benjamin and the
Arcades Project, Cambridge Mass., MIT Press.
Debord, G., 1967, La société du spectacle, Paris, Buchet-Chastel; trad.
it. 1968, La società dello spettacolo, Bari, De Donato.
Evans, J., Hall, S., a cura, 1999, Visual Culture. The Reader, London,
Sage.
Foster, H., 1988, Vision and Visuality, Seattle, Bay Press.
Foucault, M., 1975, Surveiller et punir. Naissance de la prison, Paris,
Gallimard; trad. it. 1976, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione,
Torino, Einaudi.
Jameson, F., 1998, The Cultural Turn, London-New York, Verso.
Jay, M., 1988, “Scopic Regimes of Modernity”, in H. Foster, a cura,
Vision and Visuality, Seattle, Bay Press, pp. 3-28.
Jenks, C., a cura, 1995, Visual Culture, London, Routledge.
Krauss, R., 1989, “Photography’s Discoursive Spaces”, in R. Boston, a
cura, The Contest of Meaning: Critical Histories of Photography,
Cambridge Mass., MIT Press, pp. 287-301.
Mitchell, W. J., 1994, Picture Theory, Chicago, University of Chicago
Press.
Mitchell, W. J., 1986, Iconology. Image, Text, Ideology, Chicago,
University of Chicago Press..
Mulvey, L., 1975, Visual Pleasure and Narrative Cinema, <<Screen>>,
vol. 16, n. 3, pp. 6-18.
Pontalis, J. B., 1987, Perdre de vue , <<Nouvelle Revue de
Psychanalyse>>, n. 35, pp. 231-248.
Rorty, R., The Linguistic Turn. Recent Essays in Philosophical Method,
Chicago, University of Chicago Press; trad. it 1994, La svolta
linguistica, Milano, Garzanti.
Rose, J., 1986, Sexuality in the Field of Vision, London, Verso.
8